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Diritto Processuale Civile

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Diritto Processuale Civile

    I conflitti si possono risolvere eliminando l'avversario, tradizione ancora viva, modalità non tollerata dall'ordinamento, pensiamo ad esempio all'ipotesi di una persona giuridica passibile di essere acquisita ed incorporata tramite oblazioni di spirito di mercato azionario e così eliminata dal mercato insieme alla persona fisica che si valeva. Ma attualmente si tratta di casi estremi, più facile è pensare all'idea che i conflitti possano essere risolti mediante accordi. La domanda è che se anche abbiamo raggiunto un accordo a parte la conclusione un po' ambigua, è razionale rispettarlo? Anche se abbiamo raggiunto un accordo un po' ambiguo, e violare l'accordo appena l'avversario ha volto le spalle? È chiaro che, il suo dilemma è delle decisioni razionali, come il dilemma del prigioniero.

    Si immaginano due persone arrestate dalle forze dell'ordine tenute in due celle separate, e a ciascuna delle due viene fatta la proposta di confessare a discapito del suo e e le alternatine a disposizione dei due soggetti è o cooperare col suo e, serbare l'omertà., o denunciarlo, e le possibili soluzioni, premettendo che i due soggetti sono isolati e non possono comunicare, hanno esiti diversi come si combinino tra le due parti. Infatti se tutti e due cooperano al fine di denunciarsi a vicenda, soffriranno un po' di custodia cautelare per poi essere liberati per mancanza di prove.

    Se tutti e due confessano verranno entrambi condannati a una pena non durissima. Ma se solo uno dei due tradisce il comno, verrà liberato immediatamente e l'altro dovrà soffrire una lunga pena detentiva. Questo è il classico esempio per cui si può immaginare che il caso in cui entrambi cooperino guadagnano; se entrambi si tradiscono a vicenda guadagnano un punto, se uno solo dei due tradisce, il tradito guadagna zero punti, il traditore ne guadagna cinque perché viene liberato immediatamente, quindi dal punto di vista collettivo conviene cooperare, permettendo a tutti e due di guadagnare tre punti, ma l'impossibilità di sapere come si comporterà il e, rende più razionale la strategia della limitazione del danno e comporta che la strategia individualmente razionale sia di tradire il comno, sicché il risultato complessivo dei comportamenti individuali razionali è collettivamente irrazionale perché comporta che entrambi guadagnino soltanto un punto ed entrambi si tradiranno a vicenda.

    I giuristi si sono interrogati a lungo su questo problema, e alla fine si è trovata una soluzione per capire come mai invece l'esperienza pratica sembra suggerire che sia razionale cooperare come mai di fatto perché gli umani sono animali razionali di solito copre la ragione.

     Si è capito che in realtà a certe condizioni può risultare individualmente vincente una strategia tendenzialmente cooperativa, è una strategia detta "occhio per occhio..", si coopera salvo che si sappia di avere a che fare con un traditore nel qual caso si tradisce. E come si può sapere con chi si ha a che fare ? Basandosi sui precedenti! Cioè la cooperazione diventa razionale se le condizioni di gioco variano, per cui si giocano diverse partite consecutive, si conserva a memoria come l'avversario ha giocato negli incontri precedenti. Esistono più giocatori e vi è una percentuale di giocatori cooperativi all'interno del gruppo sufficiente, può essere anche una percentuale minoritaria e anche molto ridotta se il numero dei giocatori complessivamente è abbastanza ampio. La percentuale necessaria per poter prevalere la strategia cooperativa diminuisce col crescere dell'ampiezza del gruppo.

    In pratica, quando ci si ritrova in condizioni più simili a quella della normale interazione sociale, quando esiste una interazione specifica è possibile serbare memoria delle interazioni precedenti.

    A quelle condizioni è anzi possibile addirittura verificare il risultato in prospettiva risolutiva e anche quello è stato fatto, cioè immaginando che vi siano generazioni successive di giocatori, e che nelle successive generazioni siano rappresentati in misura maggiore coloro che abbiano avuto maggior successo nelle tornate di gioco. Quest'esperimento ha provato che su un lungo periodo le strategie non cooperative sono destinate all'estinzione. Anche in presenza di giocatori che eccessivamente cooperativi, cioè vittime nate, perché queste consentono ai predatori, diciamo, di sopravvivere un po' più a lungo, ma probabilmente anche le vittime nate si estinguono, sono le prime che si estinguono, e con l'estinzione delle vittime nate anche i predatori.

    La cooperazione quindi può dirsi razionale se le interazioni interpersonali sono ripetute fra soggetti riconoscibili in un contesto sociale in cui i soggetti in cooperativa almeno inizialmente sono presenti in una sufficiente percentuale. In queste condizioni si possono raggiungere accordi non solo per la soluzione di conflitti individuali. Soggetti non cooperativi diventano evolutivamente perdenti e si possono formare istituzioni sociali, istituzioni non delegittimate dal dissenso individuale, istituzioni che progressivamente tendono  a monopolizzare quella forza e a sanzionare se stessi comportamenti non cooperativi in particolare le violazioni degli accordi, e ancora, queste istituzioni tenderanno a lungo periodo a favorire il raggiungimento degli accordi prevedendo  ove l'accordo non si raggiunga spontaneamente, il conflitto venga risolto in una serie sempre più vasta di casi dall'autorità costituita, ovviamente sanzionando anche con la forza ed in ultima analisi ancora con determinazione chi non rispetti la soluzione del conflitto così conseguita.

    I modi istituzionalizzati per risolvere il conflitto possono non essere procedure, ad esempio è sempre valida la regola per cui ha sempre ragione il re! Qui non c'è bisogno di procedure! Oppure possono essere  puramente procedurali e non avere niente a che fare con i fatti in cui il conflitto ha trovato origine, il caso più evidente è quello delle ordalie (giudizio divino richiesto in vertenze giuridiche che non si potevano regolare con mezzi umani), però, tende ad affermarsi l'idea che la procedura migliore, quella più efficace, per delegittimare l'assenso della soluzione autoritariamente imposta, sia quella che consente di capire come gli avversari si sarebbero accordati se fossero stati più cooperativi. La procedura, quindi, che comporta un'indagine intorno ai fatti che hanno dato origine al conflitto, e intorno alla soluzione che sarebbe poi stata trovata, crea preclusioni.

    Ci potremmo ancora domandare. Come individuare quale accordo sarebbe stato raggiunto se di fatto nessun accordo è stato raggiunto? La prima soluzione è indagare come si risolvano spontaneamente i conflitti di quel tipo di solito. Quando si adotta questa tecnica, le prassi sociali acquisiscono forza normativa, ma anche questa soluzione di solito non è ritenuta sufficiente, anzi, in realtà non è mai accaduto che una società affidasse completamente alla prassi sociale spontanea il compito di determinare  i criteri per la risoluzione del conflitto. Si è sempre ritenuto in vario modo, in misura più o meno marcata, che ciò comporterebbe dinamiche sociali disarmoniche o ingiuste nei confronti dei più deboli, sulla base di teorie religiose, etiche, economiche e politiche.

    Ovviamente l'adozione di criteri diversi da quelli operanti nella prassi spontanea può comportare delle difficoltà, perché  i soggetti coinvolti nel conflitto possono essere indotti proprio dal timore di dover sottostare alla soluzione divergente da quella attivata nella prassi, a sottrarsi in vario modo  al meccanismo risolutivo istituzionale. Il fenomeno più volte osservato su cui torneremo.

    Per ora cominciamo a concentrare l'attenzione su un aspetto diverso : quanto deve durare la procedura per risolvere il conflitto? Sicché se il termine per la risoluzione del conflitto è un duello all'ultimo sangue terminerà abbastanza rapidamente e non ci saranno riesami. Altrimenti, potremo anche immaginare che la procedura possa protrarsi indefinitamente e sembra bizzarro perché a questo punto il conflitto non si risolverà mai! Qualsiasi parte soccombente limiterà la prosecuzione, perché sarebbe sufficiente prevedere, come di fatti avviene di norma, appunto negli ordinamenti che seguono questo tipo di soluzione, perché ce ne sono, e la parte soccombente possa si ulteriormente coltivare il procedimento ma in una posizione aggravata, per esempio affrontando dei costi sempre superiori.

    Nella pratica prevalente la cosa giudicata comportava che il soccombente dovesse are il doppio delle spese e successivamente il doppio del doppio e così via. In generale nei sistemi in cui l'organizzazione del potere è relativamente meno strutturata e anche nei sistemi in cui si ritiene molto importante che la controversia sia risolta in modo accurato, cioè applicando in modo esatto il criterio di risoluzione previsto, si tenga premettere un riesame senza limiti per la soluzione del conflitto. Nei sistemi come il nostro, però, tende a prevalere l'idea diversa giustificata in vario modo, e si può riassumere così: la risoluzione della controversia imposta dall'autorità costituita si soggetta al controllo e al riesame di vario genere entro limiti di tempo ristretti ed in numero limitato. Una volta che indagini e controlli non siano stati richiesti entro tali ristretti limiti ovvero siano stati esperiti ed esauriti nel loro limitato numero, una volta quindi per esempio, in particolare che la soluzione sia stata ritenuta esatta dall'organo posto al vertice della piramide dell'organizzazione dell'autorità preposta a risolvere le controversie, ogni ulteriore riesame è tendenzialmente escluso e a tale fenomeno si da il nome di cosa giudicata.

    Quest'istituto è a tal punto un asse portante del sistema in cui si risolvono i conflitti nel nostro ordinamento ed intorno ad esso verterà gran parte del corso e in particolare ci soffermeremo su questo problema sulle lezioni introduttive. In particolare cercheremo d capire che cosa indichi quello strano avverbio, infatti per capire in cosa consista il fenomeno della cosa giudicata è importante avere innanzi tutto in mente in quali casi una diversa soluzione della controversia da parte dell'autorità preposta sia ancora possibile.

    Questi casi si possono raggruppare in varie categorie, anzitutto ci sono quei casi in cui la legge attribuisce particolare importanza all'accuratezza della decisione sicché si può sempre dimostrare che essa era sbagliata. A volte l'opportunità di fornire tale dimostrazione sono concessi in modo asimmetrico così particolarmente evidente in sede penale. Ora per ragioni che comprenderete studiando altre materie l'efficacia vincolante della cosa giudicata in sfavore dell'imputato è assai più tenue di quella in suo favore.

    Poi ci sono casi in cui la legge attribuisce importanza alla correttezza della procedura, anche indipendentemente dall'esattezza della soluzione raggiunta, sicché, tipicamente, la successiva scoperta di una frode nel processo consente di ottenere un nuovo giudizio. Ancora poi ci sono casi specialmente in ordinamenti meno fortunati del nostro in cui il potere di risolvere autoritariamente i conflitti è ancora più rallentato, e poi è facile che si faccia valere in ogni tempo la violazione dei criteri di riparto di tale potere, per cui ci si può rivolgere all'organo appartenente alla giurisdizione concorrente per chiedere a lui il riesame della decisione sul presupposto che in realtà lui avrebbe dovuto decidere.

    In tutti questi tipi di casi avremo modo di riparlarne più avanti, per ora ci limitiamo ad accennare all'esistenza di questi aspetti, di queste ipotesi in cui viene eliminata l'efficacia del giudicato.

    Più importante è pero da subito, è capire come quel "tendenzialmente", questo avverbio limitativo, possa alludere a quelli che si suole denominare limiti di efficacia della cosa giudicata.

    Qui non ci poniamo il problema di eliminare l'efficacia vincolante formatasi, ma di individuare fino a dove si spinga l'efficacia vincolante. Possiamo ripartire ancora in tre categorie i limiti di efficacia della cosa giudicata, si parla tradizionalmente di limiti soggettivi dell'efficacia della cosa giudicata per alludere alla circostanza che nuovo giudizio, nuovo esame della controversia e la nuova soluzione del conflitto sia impedita ad alcuni soggetti, ma non ad altri.

Ora immaginiamo un mondo dove esistano solo due avversari. Poi ci sono dei limiti oggettivi di efficacia della cosa giudicata, con questa espressione si allude alla circostanza  che un nuovo giudizio, un nuovo esame sia escluso intorno a certi aspetti del conflitto e su questo ritorneremo fra breve.

Da subito affrontiamo il caso, forse, più semplice da capire, cioè quelli che si possono denominare limiti cronologici dell'efficacia della cosa giudicata, si allude al caso più semplice dei casi, "Tizio viene condannato a are 100 lire a Caio" si forma un efficacia vincolante su questo accertamento dell'effetto giuridico per cui Tizio è debitore di Caio di 100 lire, ma poi, magari le a e dopo che le ha ate non è più debitore di 100 lire. Ossia a monte si usa un'espressione un po' equivoca, quella del giudicato rebus istantibus , equivoca perché in realtà il giudicato è sempre rebus istantibus, ovvero sia, l'effetto giuridico accertato la soluzione della controversia imposta dall'autorità costituita vale come soluzione del conflitto sorto da tutti quei fatti che si siano verificati in tempo utile per farsi valere nel processo. Si dice anche  che il giudicato copre il dedotto e il deducibile soprattutto per alludere alla circostanza che ciò che può essere dedotto è precluso anche se non è stato dedotto, ma è agevole sottolineare il contrario per ottenere ciò che non era deducibile perché non ancora verificatosi non può essere precluso.

I fatti successivi alla formazione del giudicato e gli effetti giuridici prodotti da fatti successivi alla formazione del giudicato non sono coperti da tale efficacia vincolante, questo sta nella regola che consente di risolvere il noto paradosso dell'insegnante di diritto, che è un paradosso fallace. Ci sono insiemi nella logica, ovviamente, ci sono insiemi che sono membri di se stessi  e insiemi che non sono membri di se stessi, l'insieme degli insiemi è vincolo di se stesso perché è pur sempre un insieme, mentre gli insiemi del codice di procedura civile non è membro di se stesso perché il codice di procedura civile non è un insieme.

Ora, l'insieme di tutti gli insiemi che non sono membri di se stessi è membro di se stesso? È sbagliato dire si come dire no, questo è un paradosso che porta ad una contraddizione logica perché la pregiudizialità sono insolubili ed insuperabili. Gli insiemi di tutti gli insiemi che non sono membri di se stesso fosse membro di se stesso, sarebbe un insieme che non è membro di se stesso e non potrebbe far parte degli  insiemi che non sono membri di se stessi, ovviamente se lo fosse, viceversa, è questo un paradosso realmente non risolvibile.

Invece è molto noto e molte volte descritto un paradosso fallace per l'insegnante di diritto, cioè nel momento in cui è noto: Caio insegna a Tizio a diventare avvocato con il patto che verrà ato non appena Tizio vincerà una causa. Concluse le lezioni Tizio non fa la professione di avvocato, quindi non soddisfa mai la condizione di aver vinto una causa. A questo punto è il maestro che lo trascina in giudizio per il amento della somma. E qui ci sembra di essere di fronte ad un paradosso insolubile, perché, se appunto la domanda viene rigettata ecco che viene soddisfatta la condizione per cui la domanda dovrebbe essere accolta, ma il paradosso fallace si risolve facilmente sul piano dei limiti cronologici del giudicato, la domanda è rigettata per mancato avveramento della condizione, ma può essere ovviamente riproposta facendo valere la circostanza che appunto la condizione si sia avverata a seguito della precedente soccombenza dell'attore.

In quanto tale soccombenza realizzata attraverso la definizione del primo giudizio non era deducibile in quel primo giudizio, sicché l'effetto giuridico prodottosi in un tempo tale da non potere essere fatto valere in quel primo giudizio potrà essere fatto valere in un secondo nel quale il maestro potrà ottenere quanto gli spetta.

Quale è il momento esatto nel quale dobbiamo determinare la formazione del limite cronologico del giudicato civile? Dato che vedremo che esistono sistemi di preclusione alla deduzione dei fatti del processo civile, in realtà il momento a cui faremo riferimento per distinguere ciò che era deducibile da ciò che non lo era non sarà, come nel caso che abbiamo descritto ora quello della pronuncia della sentenza, ma sarà un momento ancora precedente cioè sarà l'ultimo momento in cui sarebbe stato possibile dedurre quel fatto, esiste naturalmente uno iato (interruzione) cronologico dal momento in cui la sentenza è pronunciata e in quello in cui non è più possibile dedurre nuovi fatti e quindi il giudice esaminerà i fatti dedotti.

Quindi può accadere che si consideri cronologicamente successivo il fatto prodottosi precedentemente alla pronuncia della sentenza. E per quel che riguarda le norme? Fino ad ora abbiamo parlate delle sopravvenienze di fatto, ma immaginiamo che ci si una sopravvenienza di norma. Cambia il diritto sostanziale applicabile alla fattispecie e ovviamente cambia con effetto retroattivo, cioè in misura tale di risultare applicabile anche a rapporti perfezionatisi precedentemente all'entrata in vigore della nuova legge, cosa che può capitare, perché la legge può essere retroattiva. Qui in certo senso va all'incontrario alla legge si applica d'ufficio la iura novit curia è la regola, il giudice applica la legge vigente senza bisogno che le parti glielo richiedano.

L'efficacia vincolante del giudicato civile è generalmente ritenuta tale da far si che la sopravvenienza di leggi in corso di giudizio venga appunto applicata d'ufficio dal giudice e quindi non si possa più lamentare l'inesattezza della sua applicazione dopo la formazione del giudicato e per converso la sopravvenienza di nuove leggi anche retroattive investe si rapporti sostanziali, salvo però che si sia formato su di essi la cosa giudicata, perché in questo caso l'attribuzione del bene della vita assurge a diritto acquisito intangibile anche da parte del legislatore, fatta eccezione della nota ipotesi della legge sempre favorevole al reo che si applica sempre retroattivamente anche prevalendo sul giudicato penale di condanna, ma fatta eccezione per questa ipotesi lo ius superveniens non può prevalere sul giudicato, nemmeno quando si tratti di declaratorie di legittimità costituzionale che appunto non si possono prevalere sul giudicato penale di condanna.

Questa è la regola generale, però, salvo ovviamente la coincidenza delle sopravvenienze con fattispecie eliminative dell'efficacia del giudicato, cioè se si dimostra la prova e viene quindi meno l'efficacia del giudicato a quel punto la controversia verrà risolta applicando anche il superveniens.

Questa è la soluzione classica lineare, però abbiamo già l'occasione di confrontarci con una delle classiche dinamiche  di cui ci dobbiamo impadronire se vogliamo fare il giurista.

Classica dinamica è quella per cui c'è una regola chiara, semplice, facile da applicare, che però la diretta facile applicazione della regola comporta un risultato ingiusto. Allora il compito del giurista dev'essere quello di riuscire a riformulare la regola in modo più sofisticato in modo da conservarle il carattere di generalità ed astrattezza senza che però comporti un risultato ripugnante.

Ora facciamo un esempio: Tizio, lavoratore subordinato, Caio lo licenzia per motivo discriminatorio, ci si costituisce in giudizio per far dichiarare l'illegittimità di licenziamento e vince la causa con sentenza che passa in giudicato. Il giorno dopo il passato in giudicato della sentenza, Caio licenzia nuovamente Tizio per lo stesso motivo. Alché viene trascinato in giudizio, e si pensa che ci sia poco da discutere in quanto c'è già il giudicato! Il convenuto oppone un'eccezione che dà da pensare e cioè stiamo discutendo di un effetto giuridico prodotto da una fattispecie perfezionatasi successivamente,  perché stiamo improntando un licenziamento diverso, che si è perfezionato dopo la formazione di quel giudicato e quindi su di esso non può prodursi alcun effetto vincolante.

Sul piano tecnico dà da pensare e la soluzione preferibile è quella di ritenere che l'effetto del giudicato copra anche quelle fattispecie che si siano perfezionate successivamente alla sua formazione quando queste fattispecie a formazione progressiva si erano interamente perfezionate in maniera tale da poter essere dedotte nel precedente giudizio, fatte eccezione soltanto per un elemento costituito dalla mera manifestazione di volontà che avrebbe potuto essere resa precedentemente.

Le ipotesi in cui sia successiva alla formazione del giudicato esclusivamente una manifestazione di volontà che avrebbe potuto essere resa in tempo utile per essere fatta valere nel precedente giudizio, si dice allora, in realtà, questo elemento della fattispecie era deducibile nel precedente processo perché sarebbe stato sufficiente manifestare la volontà in tempo utile e quindi dedurre l'effetto nel processo, e se ciò non è stato fatto la parte interessata stessa ne porta la responsabilità, non può quindi avvantaggiarsi della sua inutile dilazione  dell'emanazione della manifestazione di volontà.

Cominciamo ad introdurre, allora, i limiti oggettivi della cosa giudicata. Quali sono i fattori che maggiormente rilevano il determinare dei limiti oggettivi della cosa giudicata? Almeno due diversi sono i fattori più importanti. Uno è il caso di accuratezza dell'accertamento del fatto in relazione all'eventualità che l'efficacia vincolante del giudicato si produca oltre che sui diritti anche sui fatti.

Possiamo concepire un'efficacia del giudicato sul fatto in ipotesi in cui si abbia un accertamento del fatto particolarmente accurato, quindi il giudicato civile non concerne i fatti, non ha per oggetto i fatti come regola generale, perché l'accertamento del fatto nel processo civile è largamente convenzionale, poco curato, poco preciso e quindi ad eccezione forse per alcune fattispecie particolari in cui, per altro, si fa luogo ad un accertamento accurato del fatto  come quella della querela di falso. In linea generale il giudicato civile non concerne i fatti, ma appunto i diritti, cioè le situazioni di vantaggio attributive dei beni della vita, questo non vuol dire che non si debba fare riferimento ai fatti per individuare la portata del giudicato perché in realtà, come vedremo, occorre fare largamente riferimento ai fatti per individuare quali situazioni di vantaggio siano state dedotte, conosciute, giudicate nel processo.

Un altro fattore costituito dal grado di frammentazione del potere in relazione all'eventualità che l'efficacia del giudicato copra oltre che i diritti, cioè quelle situazioni di vantaggio protette dall'ordinamento sostanziale attributive del bene della vita, incidentalmente potremo discutere se tale attribuzione debba o meno giudicare anche il cosiddetto ius escludendi, cioè il diritto di escludere altri dalla frizione dello stesso bene della vita, i diritti soggettivi della tradizione occidentale individualista sono caratterizzati tecnicamente dallo ius escludendi ossia l'apogeo della rivoluzione borghese, però, soprattutto gli ultimi decenni si sono via via riscoperte situazioni sostanziali di vantaggio qualificati come diritti soggettivi e meritevoli della correlata protezione costituzionale anche in situazioni di vantaggio non passibili di appropriazione esclusiva, il che comporta numerose complicazioni di diritto processuale su cui ritorneremo, ma adesso dobbiamo pensare ad un altro problema, cioè se oggetto dell'efficacia vincolante sia non solo queste situazioni di vantaggio siano anche le cosiddette questioni.

Cosa sono le questioni? Si allude specialmente, parlando di questioni di fatto, questioni di diritto, quelle fattispecie, pur essendo giuridicamente rilevanti, non attribuiscono il bene della vita.

Se in processo si discute davanti a più ragioni concorrenti per attribuire o negare il bene della vita, circostanza che si neghi la fondatezza di una ragione non implica necessariamente che il caso sia risolto. Ebbene esiste davvero un nesso fra la disciplina del giudicato sulle questioni e il grado di frammentazione del potere? È un idea venuta dalla dottrina tradizionale e rappresenta un'intuizione abbastanza corretta sul piano atistico, perché effettivamente ordinamenti caratterizzati da sistemi giurisdizionali più frammentati e come dicevamo prima può facilmente capitare che il giudicato sia contestato in ogni tempo attraverso la contestazione della violazione dei criteri di riparto nell'attribuzione del potere di risolvere i conflitti, sistemi dall'esigenza di equilibrare in qualche modo questa maggiore instabilità o debolezza del giudicato attribuendo al giudicato, validamente formatosi, l'effetto vincolante oltre che sui diritti anche sulle singole questioni, con vari aggiustamenti solo quando le questioni siano state discusse e decise, anche ai confronti di terzi.

Negli ordinamenti dell'Europa continentale il giudicato civile è frutto di accertamento di fatti poco accurato, per altro verso è abbastanza difficile eliminare il giudicato rivolgendosi ad un giudice concorrente per l'organizzazione dell'amministrazione della giustizia che  è competitiva al suo interno più cooperativa o corporativa se vogliamo.

Quindi si afferma, nella tradizione dell'Europa continentale, la regola contenuta e denunciata forse nel modo più chiaro nell'art. 332 del c.p.c. tedesco. Cosa dice questo articolo? Dice che la cosa giudicata si forma sull'accertamento contenuto nella sentenza che pronuncia sulla pretesa fatta valere con la domanda, ossia la sentenza che accoglie o rigetta la domanda, cioè sulla sentenza che attribuisce o nega l'attribuzione del bene della vita.

Nella dottrina tradizionale italiana in realtà non si basava sul confronto con gli ordinamenti di common law, e anche quell'episodio del più celebre processualista del secolo scorso, il Chiovenda, sosteneva tesi che potevano essere in larga misura corroborate da un'analisi della disciplina del processo dei paesi anglosassoni. In una sua opera e la nota "..do conferma delle mie idee anche dalla prassi delle corti inglesi che ho potuto frequentare..". In realtà questa connessione tra casi di burocratizzazione del potere giudiziario e disciplina del giudicato questa correlazione veniva rintracciata soprattutto attraverso lo studio delle esperienze del diritto romano.

Alcune curiose impressioni dettate dalla cura razionalistica del tempo, perché Chiovenda voleva sostenere la portata della soluzione tedesca, e voleva sostenere che era profondamente sbagliata, perché in effetti è profondamente sbagliato,  un brocardo che si sente nominare: "la cosa giudicata non e bianca o nera e quadra il cerchio ecc.". questo diceva Chiovenda non è assolutamente vero e in effetti no è vero, l'efficacia del giudicato è molto più leggera, e soprattutto non copre fatti come essere una cosa bianca o nera, o quadrata anziché rotonda.

Per sostenere però, in pieno nazionalismo, che bisognava adottare la regola tedesca, non questo brocardo romanistico dove si spingeva a dimostrare che la regola veramente romana era quella tedesca e quindi il brocardo in realtà era frutto di una corruzione medioevale dei costumi romani. La sua tesi non era proprio priva di fondamento nel senso che effettivamente il brocardo era di epoca tarda per un verso e per altro verso che in Germania si era adottato il diritto romano come diritto vigente ed il Corpus iuris è stato fondamento del diritto germanico e quindi più romanistico del diritto italiano.

In realtà la regola romana del giudicato era ancora diversa da quella detta prima di quella della possibilità del riesame senza limiti con sanzioni pecuniarie e progressivamente aggravanti a favore della parte soccombente.

Cosa dice il diritto positivo italiano a proposito di questo tema? Chiaro che il punto di partenza è l'art. 2909del c.c. spiega che cos'è la cosa giudicata che è l'accertamento contenuto nella sentenza fa stato tra le parti. Il primo problema a cui accenniamo è una delle eventualità che la cosa giudicata possa formarsi su accertamenti contenuti in provvedimenti aventi forma diversa da quella della sentenza.

Abbiamo poi un articolo 324 del c.p.c. che ci indica il momento in cui la sentenza passa in giudicato, ossia il momento in cui l'accertamento contenuto nella sentenza diventa idoneo a fare stato, e poi abbiamo l'art. 279 del c.p.c. che ci dice quando il giudice pronuncia sentenza e questo incide direttamente sul problema di oggi, perché l'art. 279 ci dice che il giudice pronuncia sentenza anche quando non definisce il giudizio e cioè anche quando non attribuisce il bene della vita. Questo può accadere, infatti, tutte le volte in cui sorga una questione idonea a definire il giudizio, come prevede l'art 187, la causa venga quindi rimessa in decisione e la pronuncia di una sentenza dove questa questione risulta infondata, per esempio viene sollevata eccezione di prescrizione, la causa è rimessa in decisione e la sentenza è di rigetto per eccezione di prescrizione ma non ancora di accoglimento della domanda. Qui abbiamo una sentenza, ma è una sentenza che pronuncia sulla mera questione e non contiene una pronuncia di accoglimento di rigetto della domanda, ma di accoglimento di rigetto solo dell'eccezione, cioè di un effetto giuridico che può concorrere con altri per giustificare l'accoglimento col rigetto della domanda ma che in questo caso non ha concordato il rigetto della domanda. Ma questa è una storia bislacca! Il giudice rimetterà la causa in decisione, se ritiene che l'eccezione sia fondata, altrimenti non la rimette in decisione prima di sentire o magari di assumere le prove per sapere se il credito esiste.

La rimette in decisione per la prescrizione quando intende accoglierla, è chiaro che questa è la formalità dell'ipotesi ed è senz'altro strano che il giudice cambi idea, ma in realtà succede.

Oggi sono, a dire il vero, i casi tipici indicati dalla legge, ma una volta addirittura si trattava della regola generale, succede che il giudice che decide quando decide non coincide completamente con il giudice che decide per varie ragioni storiche legate al problema di contemperare l'aspirazione alla collegialità della decisione per quanto possibile e le esigenze di razionalità nella gestione delle risorse umane, e le risorse umane nell'apparato giudiziario.

Nel codice del '42 era previsto, come regola generale, che le cause di competenza dei tribunale in composizione collegiale, la causa venisse istruita davanti ad uno solo dei componenti del collegio, il cosiddetto giudice istruttore, e mentre la decisione veniva resa dal collegio, la decisione su quando decidere veniva resa dal giudice istruttore, quindi, accadeva in realtà, assai di frequente, che il giudice istruttore ritenesse che una questione potesse essere decisa in modo da definire il giudizio e il collegio, invece, la risolvesse a maggioranza in senso tale da non definirlo giudizio, e si aveva così la pronuncia della cosiddetta sentenza non definitiva.

Fenomeno che è rimasto in realtà ancora molto frequente per varie ragioni, che vedremo man mano.

Il sistema delle sentenze non definitive ha soprattutto una grossa controindicazione pratica, cioè la circostanza che si affermi poi, ma non sarebbe necessario affermarla però di fatto si è affermata la regola dell'impugnabilità immediata della sentenza non definitiva che comporta la pubblicazione dei procedimenti, necessità di coordinare procedimenti pendenti in primo grado e procedimenti pendenti in sede d'impugnazione della sentenza non definitiva resa nel corso dal giudice di primo grado.

Ma soprattutto, per il discorso che stiamo facendo adesso, il problema è delicato, perché una lettura lineare delle norme che abbiamo enunciato prima, 2909, 324, 279, ci porta a concludere che tutte le sentenze su questioni, anche se non attribuiscono un bene della vita, ne risultano idonee.

La regola posta dall'art. 322 del codice tedesco, sembrerebbe completamente disattesa, perché l'art. 2909 non fa menzione alcuna alla distinzione fra sentenze definitive e non definitive, non dice solo le sentenze definitive, niente affatto, non dice l'accertamento contenuto nella sentenza che accoglie o che rigetta la domanda, un accertamento contenuto nella domanda che attecchisce un bene della vita o nega l'attribuzione di un bene della vita, dice solo che la sentenza è passata in giudicato, e la sentenza non definitiva, pacificamente, è impugnabile, la dove l'impugnazione così proposta passa in giudicato. Ma stanno proprio così le cose? Qual è la regola per le sentenze che pronunciano su questioni che rigettano eccezioni, o che comunque, non pronunciano sulla domanda?

Un primo aspetto importante è distinguere le questioni di merito dalle questioni di diritto. La faccenda è delicata perché il codice usa l'espressione "merito" in modo sovente ambiguo, perché cambia di volta in volta il termine soprattutto nelle questioni di merito, appunto, che le questioni vengono contrapposte, per esempio, a volte, si parla di questioni di merito in contrapposizione alle questioni di competenza e allora si intende per merito qualsiasi questione diversa da quella di competenza. In prima approssimazione definiamo come questioni di merito quelle che riguardano il conflitto dal quale ha avuto origine la controversia e questioni  di diritto quelle che riguardano lo svolgimento del processo, mediante il quale si intende risolvere la controversia stessa.

È una distinzione dalla quale possiamo trarre molte implicazioni, ad esempio in tema di modalità di prova dei relativi fatti, perché quello che avviene nel processo viene verbalizzato, quindi in un certo senso, la prova dei fatti processuali è nel fascicolo del processo stesso, sicché, come vedremo, ad esempio, la generale regola per cui la Cassazione non è giudice del fatto, in quanto, dinanzi la Cassazione non può aver luogo l'istruzione probatoria, cioè non può aver luogo assunzione di prove costituende, non si possono sentire testimoni in Cassazione, trova eccezione rispetto ai fatti processuali, perché rispetto a questi fatti, invece la Cassazione è giudice del fatto quale accertato attraverso il fascicolo d'Ufficio.

Ancora c'è una distinzione nell'applicabilità della legge straniera dal punto di vista del diritto internazionale privato, altro è la lex fori che vale sempre per il processo. Molte complicazioni sorgono dall'ambiguità che caratterizza, sia la distinzione tra la legge sostanziale e la legge processuale, sia la distinzione fra fatti processuali e fatti sostanziali, perché dal secondo punto di vista si può notare che attraverso atti del processo si possono anche compiere negozi. Dal primo punto di vista si può anche notare distinguere la legge processuale da quella sostanziale è spesso difficile, non solo perché senza il processo l'unica legge possibile e quella della jungla, la legge del più forte, vediamo ad esempio una questione del genere. Qual è l'autorità preposta a risolvere il conflitto? Sembra proprio una questione attinente solo al processo, però e facile indicare due diversi tipi di complicazioni; anzitutto, può darsi che la soluzione dipenda da caratteristiche del conflitto da cui dipende anche a debba attribuirsi il bene della vita. E in questo caso, la questione attiene sia la rito, sia al merito. Bisogna stabilire se magari si possa deciderla in modo diverso a seconda se la si decide ai fini del rito o ai fini del merito, a secondo se la si decida solo per indicare quando l'autorità debba risolvere il conflitto o anche  verificare a chi debba attribuirsi il bene della vita.

Inoltre, può darsi anche  che si debba dire che nessuna autorità è preposta a risolvere il conflitto, perché non tutti i conflitti sono meritevoli si una soluzione autoritativa. Spesso si dice che lo sviluppo sociale rende giustiziabili sempre più conflitti, ma questi tendono ad essere come i bisogni tendenzialmente illimitati, mentre le risorse sono limitate e quindi esigenze di efficienza nell'avocazione delle risorse impongono vari modi di escludere l'intervento dell'autorità nella risoluzione dei conflitti meno importanti, come , dare la precedenza nell'entrare in un portone, o salutarsi con la stretta di mano. La legge non conferisce un diritto soggettivo alla stretta di mano. È chiaro che la conclusione, secondo cui nessuna autorità è preposta a risolvere il conflitto? E una decisione sul processo che però non può non essere anche risolutiva del conflitto, perché il bene della vita, la precedenza, il rifiuto di stringere la mano, rimane attribuito a chi già lo possiede e negato a chi ne ha fatto richiesta all'autorità preposta. Quindi non si può neppure decidere in modo diverso a seconda se si decide ai fini del diritto o ai fini del merito.

Ciò premesso, chiariamo perché si è introdotta questa distinzione, fra questioni di diritto e questioni di merito, prendendo in esame la tipica o forse più importante , la questione chiave tra le questioni di diritti, cioè, quella relativa all'individuazione dell'organo a cui spetta il potere di risolvere la controversia e l'ipotesi che si discuta che almeno a qualche organo tale potere deve spettare sia quel tipo di questioni che si definisce come questioni di competenza in senso stretto.

Ebbene, rispetto a questi problemi, esiste un argomento molto corposo a favore di quanti vogliono negare che il giudicato si formi sulle questioni, almeno per questa ipotesi un argomento molto forte è fornito dall'art. 210 del c.p.c.

Questa norma fa riferimento all'ipotesi in cui il processo si estingua, e cioè, l'ipotesi in cui il processo si concluda senza una pronuncia attributiva del bene della vita per esempio può accadere che il processo civile soggetto all'impulso delle parti interessate e quindi se queste parti si astengono dal coltivare il processo, questo appunto si estingue e quindi viene definito senza una pronuncia definitiva di merito alla controversia.

L'art. 310 ci dice che in quest'ipotesi l'estinzione del processo non estingue l'azione intendendo dire con ciò che è possibile riproporre la domanda, cioè che la parte interessata si rivolga nuovamente al giudice per ottenere la risoluzione autoritativa del conflitto, quando ciò non le sia impedito dalla circostanza che il processo si sia estinto in precedenza, e aggiunge l'art. 310, che in questo caso gli atti compiuti perdono effetto tranne le sentenze di merito e quelle che regolano la competenza.

Il significato della norma è che nell'ipotesi in cui, appunto, venga nuovamente proposta domanda è egualmente esercitata l'azione si chieda al giudice di risolvere il conflitto, si potrà ridiscutere  tranne ciò risulti coperto specificamente da una sentenza sul merito da una sentenza che regoli la competenza; e per sentenza regolatrice la competenza si intende, tradizionalmente, esclusivamente la sentenza sulla competenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, cioè dall'organo di vertice della piramide dell'organizzazione giudiziaria, adita a seguito di regolamento di competenza o di ricorso ordinario, ma sempre purché sulla questione di competenza vi è pronunciato la Cassazione. A queste sentenze sono equiparate quelle della Cassazione sulla giurisdizione, mentre tutte le altre sentenze su questioni di rito diverse dalla questione di competenza, ovvero su questioni di competenza o di giurisdizione, ma rese da giudici diversi dalla Cassazione, diventerebbero inefficaci e quindi prive, anche se passate in giudicato perché non tempestivamente impugnate nel corso del procedimento in cui sono state rese, inefficaci ed inidonee a produrre alcun effetto vincolante nel contesto del giudizio successivamente proposto.

Sembra che la soluzione si giustifichi perché questo è un processo diverso, se una sentenza ha dichiarato la nullità di un atto del processo in un processo diverso, che importanza avrà l'efficacia vincolante di quella sentenza? Nessuna, perché concerne la nullità di un atto di un diverso processo, ma non è sempre così facile! Perché non ha senso richiedere che la sentenza possa produrre effetto dopo tanti anni dalla soluzione del diverso processo. In particolare se è stata risolta con sentenza passata in giudicato la questione della competenza del giudice, almeno una delle parti potrebbe trovare interessante poter utilizzare quella sentenza per impedire che si discuta ulteriormente se il giudice adito la volta successiva sia davvero competente e invece questa norma la esclude, perché permette di discutere la questione di competenza in tutte le ipotesi in cui non sia stata la questione risolta, o da una sentenza di Cassazione ovvero da una sentenza sul merito perché, secondo l'opinione dominante, esiste un ordine logico di priorità tra le questioni di diritto e le questioni di merito per cui un giudice non può pronunciare sul merito se esistono eccezioni di rito impeditivo di accoglimento della domanda e quindi nel momento in cui pronuncia anche parzialmente sul merito, anche solo allo scopo di rendere pronuncia non definitiva di rigetto di un eccezione, almeno implicitamente esclude che esistano fondate eccezioni di rito.

Quindi il passaggio in giudicato di sentenza anche non definitiva di merito impedisce che possa ridiscutersi la questione di competenza nel successivo giudizio, nel giudizio avviato a seguito dell'estinzione. Però, se invece non si è verificato nulla di tutto questo, cioè non c'è stata ne una sentenza sul merito, ne una pronuncia regolatrice della Corte di Cassazione, sembra che la questione di competenza possa essere chiaramente ridiscussa, e quindi si possa giustificare la conclusione dominante secondo cui solo le sentenze di merito sono passibili di produrre effetti di giudicato sostanziale e quindi anche di giudicato esterno cioè di un giudicato vincolante in un diverso processo. Mentre sulle questioni di rito il giudicato è meramente interno, cioè operante soltanto all'interno del medesimo processo in cui si è formato.

Vediamo gli artt. 44, 45 e 50 de codice di rito, perché , immaginiamo che il giudice adito non volendo pregiudicare l'attore che abbia ragione del merito e che per errore si sia rivolto al giudice incompetente. Sicché l'art. 50 prevede che a seguito dell'eliminatoria competenza, definisce appunto la sentenza con il quale il giudice si dichiara incompetente, la causa possa  essere riassunta dinanzi al giudice indicato come competente , ottenendo così l'effetto che il processo continui dinanzi a quel giudice, e ciò comporta che restino fermi gli effetti derivanti dalla proposizione della domanda giudiziale e sono numerosi effetti processuali e sostanziali tutti tendenti ad attuare il principio secondo cui la durata del processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione del merito.

Questi effetti sono: ad esempio l'effetto interruttivo, sospensivo della prescrizione, la domanda giudiziale non soltanto interrompe il corso della prescrizione coma accade a qualsiasi atto anche stragiudiziale di costituzione in mora, ma ne sospende anche il corso per tutta la durata del procedimento, salvo che il giudice si estingua.

La sentenza passa in giudicato, e se il processo viene tempestivamente riassunto continua attraverso il tribunale adito, e il giudicato è un giudicato interno ad uno stesso processo, eppure gli artt. 44, 45 ci dicono che la questione della competenza, almeno sotto certi profili, cioè con riferimento all'ipotesi che il giudice indicato come competente sia però, in realtà, incompetente per ragioni di materia o per ragioni di territorio inderogabile, come si dice, la questione di competenza possa ancora essere decisa diversamente.

Il giudice successivamente adito può, cioè d'ufficio, dubitare della propria competenza e in tal caso promuove d'ufficio un procedimento per il regolamento della competenza allo scopo di conseguire, appunto, una pronuncia della Corte di Cassazione intorno alla questione di competenza, ossia una pronuncia che essa sola in realtà sia in grado di produrre i propri effetti anche in processi diversi. Sicché nell'ipotesi di sentenza declinatoria della competenza, addirittura, la pronuncia non è passibile nemmeno di giudicato interno, neppure all'interno dello stesso processo si producono effetti vincolanti il giudicato per una pronuncia che pure non è stata impugnata dalle parti. Un istituto su cui ritorneremo, perché ha tanti aspetti interessanti costituisce lo sviluppo in una attenuazione di un'idea abbastanza sofisticata, espressa per chiamarla in una locuzione tedesca "competens-competens", che sarebbe il principio secondo cui ciascun giudice è competente a giudicare della propria competenza, è un principio che in realtà ha un suo senso logico con riferimento ad un problema del tutto diverso, cioè ci si pone il problema se rispetto ad una causa per la quale il giudice sia incompetente, egli possa dichiararsi incompetente, deve avere la competenza per riscontrare la propria competenza, non può non averla, questo, certo sul piano logico è indefettibile, magari non è banalissimo, però, non può che essere così, salvo che ci sia un giudicato di una competenza.

Si può benissimo tenere fermo quanto vi è di logico necessariamente di principio, senza con ciò consentire che addirittura una sentenza passata in giudicato sulla competenza possa impedire ad un giudice di essere competente a giudicare la propria competenza.

Qui si è trovata una soluzione di compromesso per quei fatti, giudice della riassunzione non è che il tutto competente a conoscere della propria competenza, perché può conoscere solo di alcuni profili di competenza, solo rispetto ad alcuni profili può ancora coltivare il dubbio, promuovere regolamento d'ufficio per ottenere una diversa decisione da parte della Corte di Cassazione, è una soluzione di scelta di compromesso. Perché, comunque, almeno sotto altri profili si è risaputo che il qualche modo si giustificasse questa soluzione anche per evitare di incentivare lo scarica barili!

In realtà alcune limitazioni ci sono; solo alcuni profili possono essere sollevati, inoltre, il dubbio del secondo giudice, si ritiene oggi che debba essere sollevato definitivamente

In passato ritenevano che la violazione dei criteri di competenza inderogabili per accordo delle parti, potesse essere fatta valere in ogni tempo, anche al di la della formazione della cosa giudicata sostanziale, sulla base del codice previgente, e questa, è appunto, una logica caratteristica di sistemi più frammentati di amministrazioni della giustizia per far valere, in ogni tempo, le violazioni dei criteri di riparto.

La tendenza odierna è, nel senso che la possibilità di discutere a lungo delle questioni di competenza debba essere fortemente limitata e anche la legislazione è orientata verso questo senso, e qualcuno ha sostenuto, quindi, che anche questo sistema, il sistema del regolamento di competenza d'ufficio sia stato abrogato implicitamente, sicché oggi, invece risulterebbe sempre possibile lo "scarica barile " del primo giudice, se non sono le parti a richiedere un controllo sulla declaratoria di competenza del giudice inizialmente adito.

Così, si giungerebbe alla conclusione che le pronunce sulla competenza diverrebbero, in questo caso, a giudicato interno, sempre idonee, però, in realtà, l'interpretazione di questo genere è difficile da accogliere, perché si prospetta un'abrogazione implicita da parte di una disciplina parte di una legge che è stata molto precisa ad indicare anche le abrogazioni delle norme incompatibili con le sue disposizioni, e non tanto per sia in gioco la garanzia del giudice naturale, perché è sempre conferita alle parti la possibilità di conseguire un controllo, anche in Cassazione, anche in sede di legittimità della decisione sulla questione della spettanza ad uno o all'atro giudice del potere di risolvere la controversia.

Se poi entrambe sono d'accordo di eludere la disciplina della competenza, almeno un giudice gli regge il gioco, anche se si eludono criteri di competenza importanti, non è un dramma!

Però, fondamentalmente si è ritenuto che i presupposti dell'abrogazione implicita non si potesse riscontrare, quindi, a livello del diritto positivo, le pronunce declinatorie della competenza non producono nemmeno un pieno giudicato interno e quindi sono inidonee a produrre gli effetti del giudicato sostanziale, al punto che, quando si vuole descrivere la particolare efficacia vincolante delle pronunce regolatrici, cioè delle pronunce rese dalla Corte di Cassazione, non ci si spinge a dire che queste si, hanno efficacia di giudicato sostanziale, bensì che il loro giudicato esterno è un effetto di giudicato quasi processuale.

 E per quanto riguarda le sentenze non definitive di merito che dobbiamo dire? Una volta che l'art. 610 ci ha seccamente indirizzato a ribadire, che sulle questioni di rito non si formi efficacia di giudicato sostanziale.

Qui, la cosa si fa più delicata, perché appunto, l'art. 310 contempla la sopravvivenza degli effetti delle sentenze di merito, e posto che si parla di sopravvivenze di vecchie sentenze di merito, rese prima dell'estinzione del giudizio, non può trattarsi che di sentenze non definitive, perché se fossero sentenze definitive il giudizio sarebbe definito dalla sentenza e non come conseguenza dell'estinzione derivante dall'inattività delle parti nel coltivare il processo fino all'emanazione della sentenza definitiva.

Ebbene, qui occorre, ovviamente muovere dalla premessa che esistono vari tipi di interconnessione tra rapporti sostanziali che si tratti poi di nessi di connessione fra controversie.

Alcune forme di connessione possiamo definirle come connessioni che consistono in una comunanza di fatti materiali. Esempio: Tizio e Caio viaggiano insieme in automobile, Tizio alla guida è palesemente ubriaco, il furbone di Caio lo convince a concludere un contratto, nel momento in cui concludono il contratto vanno a sbattere" e ne seguono due controversie. Una avente ad oggetto l'impugnazione del contratto concluso in condizioni di incapacità naturale  che ovviamente si chiede l'annullamento, e l'altra avente ad oggetto la responsabilità civile nei confronti del passeggero che guidava in stato di ebbrezza.

È chiaro che in entrambe le controversie è rilevante il fatto materiale che Tizio fosse ubriaco, ma la circostanza che in una controversia Tizio sia ritenuto ubriaco e nell'altro no, non crea particolari problemi per la giustizia civile, perché qui abbiamo un diverso accertamento di fatti materiali, ma il giudicato non copre i fatti materiali, se non forse in particolarissime ipotesi, quindi in nessun modo l'eventuale contrasto si conura come contrasto di giudicati reprimibile e non si pone quindi un vero problema di coordinamento dei giudicati. Certo! Si potrebbe fare un unico processo per tutte quelle controversie per risparmiare costi, per fare in modo di poter assumere in una sola volta le prove dello stato di ebbrezza.

Altre volte però nessi di connessione sono più intensi e si conurano addirittura come nessi di pregiudizialità allorché una certa fattispecie è produttiva di un effetto giuridico, e tale effetto giuridico, a sua volta, è un elemento costitutivo di un'altra fattispecie produttiva di effetti giuridici. Rispetto a questo tipo di ipotesi gran parte della dottrina richiama il disposto dell'art. 34.

Cosa dice l'art. 34? Dice, che quando per legge o per volontà delle parti occorre accertare con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale appartenente alla competenza per materia o per valore a un giudice superiore, il giudice adito rimette l'intera causa a quest'ultimo assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione davanti a lui.

Secondo l'opinione prevalente, il fine del nostro discorso è molto rilevante ciò che si dovrebbe dedurre al contrario del disposto dell'art. 34, cioè, la possibilità che le questioni pregiudiziali possano essere decise senza efficacia di giudicato. Si dice! Tutte le volte che vi è una norma di legge con iniziativa di parte, l'accertamento della questione pregiudiziale non è un accertamento incidentale, ma un accertamento in via incidentale, oppure, si dice, incidenter tantum, ed è quindi senza efficacia di giudicato anche quando si pronuncia una sentenza sulla questione, se con tale sentenza, che è pure di merito, non si giunge a definire il giudizio.

Che cosa intendiamo per volontà delle parti? Secondo una diffusa opinione non è sufficiente, per innescare il meccanismo dell'accertamento incidentale per volontà delle parti con effetto di giudicato in mero dedurre o prospettare la questione, occorre che l'effetto giuridico invocato sia un effetto attributivo del bene della vita invocato dalla parte legittimata, solo in questo caso avremo una volontà delle parti idonea a provocare un accertamento con efficacia di giudicato.

Così, per esempio, nel Mandrioli trovate scritto che l'art. 35 conura uno dei casi in cui si ha accertamento incidentale per volontà di legge. Cosa dice l'art. 35? Che se viene posto in compensazione un contro credito e questo contro credito viene contestato, allora il giudice applica l'articolo precedente e cioè rimette l'intera causa al giudice superiore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione davanti a lui, e ha quindi luogo un accertamento incidentale con efficacia di giudicato sul contro credito.

Perché, questo, secondo il Mandrioli è un accertamento incidentale ex lege? Son ben due parti a chiedere che si accerti l'esistenza del contro credito, ma del contro credito si discute in quel processo in primo luogo perché questo viene opposto in compensazione, cioè viene fatto valere in via di eccezione e al solo scopo di ottenere il rigetto della domanda attoria, sicché se per ipotesi l'ammontare del contro credito posto in compensazione fosse superiore all'ammontare del credito fatto valere in via d'azione, il giudice no potrebbe condannare l'attore al amento della differenza, ma dovrebbe esclusivamente limitarsi a rigettare la sua domanda, perché il contro credito è stato speso nel processo solo in via di eccezione.

La circostanza che il contro credito sia speso in via di azione o in via di eccezione è ovviamente rilevante ad altri fini, perché ci sono diversi requisiti di tempestività al fine di far valere una situazione di vantaggio tramite una domanda giudiziale, al fine di ottenere un provvedimento attributivo del bene della vita rispetto a quella situazione di vantaggio, ovvero ad ottenere il rigetto della domanda attoria. C'è più tempo per sollevare l'eccezione! Quindi se mi sono dimenticato di proporre in tempo la domanda riconvenzionale ho ancora qualche margine per spendere questo contro credito tramite l'eccezione di compensazione.

 Ragionando al contrario del testo della norma si giunge alla conclusione per cui; se questo contro credito posto in compensazione, fatto valere solo in via di eccezione, la pronuncia che rigetta quell'eccezione dicendo che il contro credito non esiste, con pronuncia non definitiva di merito, riservando la prosecuzione della causa a trattazione e istruzione intorno all'esistenza del credito principale, questa sentenza non è idonea al giudicato.

Ovvero, è possibile un'altra ricostruzione: cioè che, magari, che questa sentenza sia idonea al giudicato e non lo sia quella che accoglie l'eccezione. Sta di fatto, comunque, che dal punto di vista che interessa a Mandrioli, quel che rilevante e che il meccanismo dell'accertamento con efficacia di giudicato, scatti se e quando la controparte contesta il contro credito. Se non vi è contestazione del contro credito si potrebbe dire, appunto, non passa in giudicato la sentenza che rigetta l'eccezione, naturalmente muovendo dal presupposto che possa comunque non accogliersi l'eccezione allorché il contro credito non sia contestato, perché, torneremo sul problema, ma realtà la tesi preferibile è che rimanga saldo sempre il potere del giudice di dichiarare l'inesistenza dell'effetto giuridico anche in mancanza di contestazione.

Soprattutto quel che rileva per definire l'accertamento, come accertamento incidentale ex lege, e la circostanza che da manifestazione di volontà determinativa della necessaria produzione degli effetti del giudicato da parte della statuizione intorno al contro credito, sia un'iniziativa che proviene dal titolare del contro credito, ma dal suo titolare passivo, da una persona che non sarebbe legittimata a ottenere in via di azione una pronuncia su quel credito, è la compensazione a farsi captare a rendere necessario l'accertamento con efficacia di giudicato e posto che possiamo parlare di accertamento incidentale per volontà delle parti solo quando è il titolare della situazione soggettiva di vantaggio a chiedere che su di essa si formi il giudicato e l'ipotesi in cui questo titolare la fa valere solo in via d'eccezione, è invece la volontà del suo avversario a rendere necessario l'accertamento con efficacia con giudicato questo sarebbe un accertamento incidentale ex lege.

La teoria si fonda su una visione asimmetrica sostanzialmente del rapporto di pregiudizialità, perché, si ritiene per un verso che gli effetti di giudicato formatisi in cause pregiudiziali, producano un effetto conformativo vincolante anche nelle cause dipendenti, perché si dice, nella causa dipendente non si può disconoscere l'attribuzione del bene della vita compiuta dalla sentenza pregiudiziale, quindi si citano a sostegno di questa conclusione norme sostanziali, come l'art. 595 c.c. o norme processuali come gli artt. 295, 336 del codice di rito. Ma non viceversa!

La decisione della causa dipendente non produce, invece, effetti conformativi allorché si tratta di decidere la causa pregiudiziale.

Si potrebbe discutere se davvero nel caso di decisione di compensazione si possa parlare di rapporto di pregiudizialità, e in un certo senso potremo dire che qui c'è una pregiudizialità reciproca, il fenomeno della inidoneità al giudicato della sentenza che rigetti la domanda o accolga solo in parte l'eccezione di compensazione, si ricollega a questa asimmetria.

Dal punto di vista dei beni della vita, immaginiamo per esempio un caso che si è presentato nella pratica quando c'era ancora l'equo canone; capitava che il locatore pretendesse un canone  superiore alla misura legale, mettendolo per iscritto nel contratto di locazione, e a seguito del mancato amento di una o più rata del canone, agisse per il rilascio dell'immobile per morosità e a quel punto l'inquilino, eccepiva di aver anzi ato precedentemente in misura superiore al dovuto e in via riconvenzionale chiedeva la differenza. È una strategia processuale che in passato aveva un terribile effetto dilatorio, perché rispettavano la competenza per due controversie a giudici diversi quindi si innescava immediatamente un problema di pregiudizialità, qui e chiaramente pregiudiziale l'accertamento della misura del canone rispetto all'accertamento della morosità, il cui contenuto era direttamente influenzato dall'accoglimento o meno della domanda di accertamento dei fatti e quindi il procedimento per il rilascio veniva poi sospeso per pregiudizialità sino addirittura al passaggio in giudicato del procedimento avendo ad oggetto l'accertamento dei fatti.

In realtà dal punto di vista dei beni della vita si potrebbe pensare che qualunque delle due cause sia decisa per prima si conuri sempre un contrasto, nei termini della compensazione si potrebbe pensare che non vi sia comunque mai una negazione diretta, però, ammettere il caso della compensazione è davvero difficile anche stabilire quale tra le due sia logicamente prioritaria nell'ipotesi in cui si renda necessario un accertamento incidentale di contro credito, la differenza di far rispettare il giudizio sul canone e il giudizio sulla morosità o viceversa, si può forse spiegare perché nella difesa della parte è più facile accorgersi delle implicazione che delle premesse, sicché è più ragionevole che il vincolo si produca sulle prime, anche se non sono state esplicitate, e che invece abbia perso su premesse non discusse abbia ancora la possibilità di discuterle, magari ottenendo la caducazione della decisione ottenuta  senza discutere e che non possa invece discutere delle implicazioni, rimettere in discussione delle premesse già discusse.

La circostanza che distingue tra questioni pregiudiziali e questioni dipendenti, possa rispondere anche al buon senso, non vuol dire che si debba necessariamente seguire la teoria dottrinale che abbiamo detto, e che , anzi, si può criticare sotto molti profili, sia affermando che gli effetti delle cause dipendenti non sono dei veri e propri effetti di giudicato, ma effetti veramente imperativi che non impediscono una decisione difforme , purché si dimostri che la pronuncia sulla causa o questione pregiudiziale è ingiusta, ne è possibile impedire che si pensi piuttosto, che l'art. 34 in realtà la norma non sul giudicato ma sulla competenza, la sua sede infatti è quella sulle norme sulla competenza, o meglio sulle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, e che quindi, l'art. 34 possa anche essere inteso nel senso che non sia affatto escluso che comunque, quando la questione pregiudiziale è oggetto di una sentenza non definitiva possa formarsi il giudicato sostanziale.

L'accertamento senza efficacia di giudicato si potrebbe considerare limitato all'ipotesi cui la questione pregiudiziale in realtà è stata decisa soltanto implicitamente e non sia stata affatto discussa, e allora c'è  che non si forma il giudicato su ciò che non è stato ne discusso ne deciso.

Alcune recenti monografie tendenti a rafforzare questa tesi tradizionale evocano questa osservazione come un'osservazione a sostegno della tradizionale interpretazione dell'art. 34, lo dicono anche loro che ci possono essere questioni pregiudiziali senza efficacia di giudicato, nel senso di decise implicitamente ma in realtà non decise, semplicemente di effetti giuridici che non si è parlato nel processo ed allora si che non si forma l'efficacia di giudicato.

Magari si può pensare all'ipotesi in cui il giudice non abbia ottemperato al dovere relativo di sottoporre la questione al contraddittorio delle parti ex art 183, nel caso in cui il giudice, si, l'abbia decisa, ma senza che la questione sia stata discussa, perché l'ha decisa nella cosiddetta sentenza della terza opinione quando gli è venuta in mente soltanto in sede di decisione.

Ma qual è la posizione della giurisprudenza su questo tema?

L'opinione sembra abbastanza distante da quella della dottrina maggioritaria, in particolare di Mandrioli, ed è ben lungi dal negare l'efficacia di giudicato sostanziale delle sentenze su questioni preliminari di merito, anzi, la giurisprudenza tende a superare sia i limiti correlati alla distinzione di buon senso tra questioni pregiudiziali e questioni dipendenti sia quelle correlati alla distinzione non meno sensata tra questioni discusse e decise esplicitamente e questioni affrontate implicitamente, trascurando persino i dubbi che possono porsi a proposito dell'elusione della disciplina della competenza, magari della garanzia del giudice naturale quando la questione pregiudiziale sia questione passibile di trasformarsi in controversia pregiudiziale spettante alla competenza di un giudice diverso, quindi questione che farebbe scattare il meccanismo dell'art. 34 se ci fosse l'istanza della parte legittimata ad ottenere l'efficacia di giudicato.

In questa direzione, la giurisprudenza, viene anche un po' sospinta dall'ancora diversa  corrente dottrinale, e va prendendo piede ispirandosi ad una corrente della dottrina tedesca che prende le mosse da un ragionamento di questo tipo.

Il processo in Italia dura molto, è lungo, e siccome è lungo dobbiamo cercare di spremere da questo processo più effetti vincolanti possibili.

Sulla base di questa premessa non si nega in astratto al possibilità dell'accertamento incidenter tantum pero si estende al massimo il valore vincolante dell'accertamento implicito sulle questioni pregiudiziali, e ciò, anche quando esse non abbiano provato oggetto alcuna esplicita decisione in sede di sentenza definitiva o non definitiva, e intendendo il bene della vita protetto dalla decisione della questione nel modo più ampio possibile.

Per capire quale direzione abbia questa teoria, bisogna riprendere il tema della rilevanza dei fatti nella determinazione dei limiti oggettivi del giudicato.

Abbiamo detto che il giudicato civile non opera sui fatti, però, i fatti rilevano, per la determinazione dei diritti oggettivi del giudicato, perché , dicevamo, in base ad essi che si stabilisce quale situazione di vantaggio sia stata fatta valere, quindi su quale diritto si formi il giudicato sostanziale.

È ricorrente in dottrina la distinzione tra i cosiddetti diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati.

I secondi, i diritti eterodeterminati, sono quelli che possono sussistere contemporaneamente più volte tra le stesse persone. Come per esempio i diritti a una prestazione di consegna di beni determinati solo nel genere, la somma di denaro è il caso più facile. Io posso essere creditore di Tizio di 100 lire perché gliele ho prestate, creditore di Tizio di 100 lire a titolo di risarcimento danni, sono crediti diversi, diritti diversi, anche se l'oggetto è sempre 100 lire. Quello che rileva qui, è il fatto costitutivo che è individuativo del diritto fatto valere.

Abbiamo invece, però anche situazioni soggettive di vantaggio che in riferimento ad un certo oggetto non possono sussistere più volte contemporaneamente fra le stesse persone, in particolare, i diritti di proprietà su beni specificamente determinati; io sono proprietario l'immobile X chiedo l'accertamento del mio diritto di proprietà nei confronti di tizio che io sia proprietario perché l'ho acquistato per contratto, che io sia proprietario perché l'ho acquistato per usucapione, qui è sempre lo stesso diritto.

In questo il contenuto del diritto è determinato esaustivamente dal suo oggetto e per individuarlo non occorre fare riferimento ai suoi atti costitutivi.

La prima indicazione di queste teorie molto estensive di diritti oggettivi del giudicato, quella secondo quella dove si chieda il amento di una rata di un'obbligazione.

Il giudicato si formi intorno all'esistenza dell'ubicazione, questa conclusione è stata, da molti a lungo negata ai sostenitori delle teorie restrittive delle teorie del giudicato leggero, soprattutto dall'invocato del disposto dell'art. 12, dice che al fine della determinazione della causa allorché si debba decidere intorno alla competenza del valore a riparto verticale del potere di risolvere le controversie per valore tra il tribunale e il giudice di pace, non appena si controverta intorno all'obbligazione, il valore della causa sia determinato solo da quella parte dell'obbligazione che è in contestazione, quindi sulla base del collegamento fra regole sulla competenza e sulla formazione del giudicato, tradizionalmente si diceva che il giudicato si forma soltanto sulla parte di obbligazione che è in contestazione, cioè solo sulla singola rata pretesa.

Ora, questa impostazione fortemente liberistica, poteva luogo a qualche abuso, perché,  si tendeva a concludere, da parte dei sostenitori di questa impostazione leggera ai fini del giudicato, che la parte fosse abilitata, per esempio, la dove fosse creditrice di 100 lire a chiedere anche  la condanna della controparte al amento di una lira alla volta. Evidentemente questo tipo di strategia aveva uno scopo esclusivamente abusivo e vessatorio, quindi i sostenitori della teoria del giudicato pesante tendono a dire; questo non è possibile, c'è una minima unità azionabile nel processo! La situazione soggettiva forma oggetto nel processo si dice sempre comunque nella sua globalità e quindi, anzi se io, delle mie 100 lire ne faccio valere una sola alla volta, ne otterrò solo una! Perché la volta successiva il convenuto condannato al amento di 1 lira ridirà, in quel processo è stata dedotta l'intera obbligazione e io sono stato condannato a are 1 lira, perché tu hai chiesto 1 lira, sulle altre non puoi ottenere un nuovo giudizio, perché si è formata la preclusione del giudicato. In realtà, il tipo di strategia consistente nel chiedere 1 lira alla volta andrebbe disanzionato ma con tecniche di tipo diverso da questa. Perché questa presenta forti contro indicazioni, ma è legittimo dire che non si può risolvere il problema dei limiti del giudicato esclusivamente al disposto dell'art. 12, anche con riferimento all'art. 12, come con riferimento all'art. 34, si può dire che questa è norma che riguarda la competenza e non i limiti del giudicato.

Nella parte in cui essa indica che nelle cause relative a diritti autodeterminati, questi formino rigetto del giudizio qualsiasi siano i loro fatti costitutivi e che nella parte in cui si riferisce ai diritti eterodeterminati, una volta individuati i fatti costitutivi la situazione di vantaggio non sia frammentabile e non sia spezzettabile, implica delle difficoltà purché si ricolleghi ai problemi posti al sistema delle preclusioni.

Da tempo, si sostiene che ciò che allunga il processo è specialmente la possibilità di cambiare le sectiune in tavola partita in corso. Questo è un tema molto dibattuto, ma direi che, l'idea che una parte strategicamente si riservi di far valere le proprie eccezioni, le proprie prove il cui ritardo ha lo scopo di complicare il processo non è realistica. Le preclusioni non riguardano problemi dilatori, riguardano il problema di chi colpevolmente si dimentica di far valere eccezione alla prova. Perché se incorre nella preclusione incolpevolmente c'è sempre la rimessione in termine e se lo fa colpevolmente ne herà le conseguenze, anche se non è doloso il ricatto ed è pur sempre colposo, è sempre un titolo di responsabilità, perché il prezzo e il costo di questo ritardo lo ano gli altri! Lo a il sistema che nel suo complesso diventa inefficiente, lo a chi è in coda in attesa di poter parlare col giudice.

Qui si finisce di applicare la legge in modo poco accurato, meno accurato di come la si applicherebbe se fosse possibile far valere tutto in ogni tempo, a dire il vero, però la legge si applica comunque in modo poco accurato nel processo civile, che è largamente ispirato all'iniziativa di parte ad un accertamento dei fatti largamente convenzionali e quindi non dovremo preoccuparci più di tanto dell'eventuale inesattezza dei risultati! Ma dobbiamo preoccuparci molto, invece, dell'effetto che ha sulla giurisprudenza, la prospettazione che si stia per applicare la legge in modo in accurato, perché poi, gli argomenti giuridici tendono agli argomenti del cuore, e quando la parte dice al giudice che si è dimenticata di una prova, che facciamo perdere la parte perché mi sono dimenticato la prova? Nascondendosi dietro lo schermo che l'errore l'ho commesso io (avvocato) ma che a le conseguenze chi è assistito, è facile che poi le norme finiscano per essere interpretate in modo lasso, in modo da permettere di far rientrare dalla finestra ciò che doveva essere tenuto fuori dalla porta.

Ebbene, tante più sono le eventualità che la formazione della preclusione comporti l'inesattezza nell'applicazione della legge, quanto più sono ampi gli effetti del giudicato, cioè quanto più ampie sono le ipotesi che la decisione precluda la possibilità di discutere cose non discusse, cose non decise, quindi proprio più, quanto più sono ampi i limiti oggettivi del giudicato dal punto di vista dell'implicito, tanto più risulta difficile gestire il sistema delle preclusioni, difficile, costoso, emotivamente inaccettabile, tant'è che il famoso fantasma che viene sventolato sempre quando si parla delle preclusioni, fantasma cosiddetto del principio di eventualità, cioè la circostanza che le parti, per il timore di vedersi precluse le loro iniziative le facciano limite litis in modo sovrabbondante quindi deducano tutto il deducibile per timore di non poterlo più dedurre, è un rischio che si presenta soprattutto quando i limiti del giudicato tendono ampli al di la di ciò che è esplicitamente discusso e deciso, quindi, questa dottrina finisce per essere controproducente, perché muovendo in realtà dal presupposto che il processo sia lungo, anziché combattere la lunghezza del processo, ne prende atto, ne trae le conseguenze, e aggrava il problema della durata stessa.

·    Riflessioni sul giudicato pesante e giudicato leggero.

A considerare che quanto più si permette che sia possibile far valere un diverso giudizio, situazione oggettiva permessa, tanto minore è la pressione da un lato, sulle parti, a dedurre tutto il possibile, quindi a creare il problema chiamato principi di eventualità, in tanto la migliore persona è il giudice ad interpretare il sistema delle preclusioni in modo tale da consentire alla parte colpevolmente tardiva nelle sue iniziative processuali di ottenere, comunque, giustizia sostanziale per il suo cliente, ma se non gli si consente di spendere in questo processo l'iniziativa processuale, non avrà altra maniera per farlo.

Queste considerazioni possono giustificare, in relazione alla disciplina del giudicato di tipo leggero, soprattutto con riferimento alle preclusioni di carattere implicito.

Ma si può andare oltre, e in particolare si pone il seguente problema. Il processo civile serve per risolvere i conflitti fra le parti. Può essere interessante considerare di che cosa davvero, le parti intendono conseguire rivolgendosi al giudice. Certamente ha importanza la circostanza che la decisione possa produrre un effetto preclusivo, un effetto vincolante conformativo anche nelle cause dipendenti, però, può darsi, ed è legittimo sospetto, che alle parti possa in qualche occasione interessare altro.

In particolare è molto plausibile l'idea che alle parti interessi sovente più che la formazione del giudicato, il conseguimento di un titolo esecutivo. Cioè ottenere un provvedimento del giudice che a prescindere dal problema se gli effetti di accertamento convenuti in tale provvedimento siano più o meno stabili, un provvedimento che consenta di valersi dell'ausilio della forza pubblica per ottenere la realizzazione del credito  a prescindere dalla volontà del creditore.

È lecito domandarsi se, in qualche misura sia possibile per le parti che hanno bisogno del giudice limitarsi di richiedere al giudice soltanto un titolo esecutivo e non necessariamente un accertamento produttivo di un aspetto vincolante stabile. Perché è plausibile l'ipotesi che la parte soccombente su cui venga fatto gravare l'onere per evitare gli effetti del provvedimento a lei sfavorevole, facendo un calcolo costi - benefici, a un certo punto si fermi indipendentemente dalla circostanza che il provvedimento sia ormai provvisto di un effetto vincolante stabile.

Se la parte attrice, che ha bisogno della giustizia, per ottenere un titolo esecutivo, lo ha ottenuto e può accontentarsi di quel titolo, l'eventualità che l'avversario continui a contestare ed a opporsi, c'è senz'altro, ma ciò non è detto che accada in tutti i casi e in tutti casi dove ciò non accade, in qualche modo noi abbiamo già conseguito la risoluzione del conflitto, senza chiedere in tale atto il provvedimento provvisto della stabilità della cosa giudicata.

·    Rapporto di tutela di cognizione ordinaria e la tutela di cognizione sommario

Esistono varie ipotesi in cui la parte può procurarsi un titolo esecutivo, può procurarselo con procedimenti semplificati ed accelerati rispetto al procedimento ordinario, che sono provvedimenti non provvisti della stabilità della cosa giudicata.

Primo caso da esplorare, da questo punto di vista, è quello del provvedimento per decreto ingiuntivo, disciplina che troviamo, oggi, negli artt. 636 e ss. del c.p.c..

La parte attrice munita di una prova scritta, possa conseguire dal giudice un provvedimento provvisto dell'efficacia di titolo esecutivo e quindi, come si diceva, può o non valersi dell'esercizio della forza pubblica per la realizzazione a conseguire l'obbligazione. Si diceva che il possessore di una prova scritta poteva rivolgersi al giudice per ottenere questo provvedimento ed otteneva, addirittura, inaudita altera parte, senza nemmeno che venga sentita.

Provvedimento che è ovviamente notificato all'avversario e al seguito di questa notificazione l'avversario ha la possibilità di opporsi entro un  termine, che salva la rimessione in termini dell'ipotesi di non imputabilità della decadenza, e in mancanza di opposizione e in alcuni casi sin dal momento della sua emanazione e in atri casi sempre in pendenza di condizione al demerito ingiuntivo stesso, questo è provvisto di effetti.

Ma c'è una cosa strana in questa disciplina, cioè, quando si parla di prova scritta sulla base delle quali si ottiene il decreto ingiuntivo sono prove che in un giudizio di cognizione ordinario non farebbero prova. Perché il sistema concede ad alcuni soggetti la possibilità di formare unilateralmente la prova scritta, se l'opposizione viene al giudizio ordinario le prove documentali operano contro colui che le ha formate, magari, si operano in parte contro e in parte a favore, vale base alla regola del principio della deducibilità delle dichiarazioni documentali, per il quale producono effetto probatorio e lo producono sia contro che a favore. Ma chi sono questi soggetti?

Consideriamo che questa disciplina è stata conurata nella codificazione del '42, quindi cerchiamo di calarci nel contesto del 1942. Se diciamo lo Stato è il pubblico ufficiale, il notaio, ma non in quanto pubblico ufficiale, l'avvocato, ma non in quanto pubblico ufficiale, se non in forza della pubblica fede attribuita alle loro dichiarazioni, ma solo perché sono delle "personcine per bene"! e quindi gli imprenditori. Es. se faccio fare dei lavori di ristrutturazione e l'imprenditore invece di aggiustarmi la casa me la spacca tutta, lui per ottenere il amento della retribuzione prevista può valersi del decreto ingiuntivo, mentre io per ottenere il amento dei danni risarcibili per aver male eseguito il contratto mi devo rifare ad un giudizio ordinario di cognizione. C'è una certa asimmetria, perché questo è il codice! Un codice classista, perché lo è esplicitamente, e dà fiducia ai notai, avvocati, imprenditori, a coloro la cui parola vale di più di quella del normale cittadino. Le altre persone, se hanno prove scritte, andrebbero bene anche in un giudizio ordinario, è una forma di tutela privilegiata, e quali stabilità ha questo provvedimento non opposto, è idoneo ad acquisire gli effetti del giudicato? Per quanto è legittimo opporsi secondo, una tesi abbastanza diffusa, la stabilità di questo provvedimento non è analoga del tutto a quella contenuto nella sentenza, avremo qui non un effetto di giudicato, ma come si dice una preclusione promidica, la quale comporterebbe stabilità dell'accertamento solo con riferimento alla questione della somma, sicché, nel caso che facevamo in cui si chieda una singola rata di un obbligazione, la stabilità del decreto ingiuntivo implicherebbe stabilità dell'accertamento della credenza di quella somma, ma non della sussistenza dell'intera obbligazione, così ulteriori rate della stessa potrebbero formare oggetto di diverso giudizio in cui la domanda potrebbe essere respinta anche in base alla ragione dell'insussistenza dell'obbligazione, benché in sede di decreto ingiuntivo altra rata sia stata considerata inesistente.

È una tesi discussa, soprattutto, ovviamente, i sostenitori del giudicato leggero, quelli che portano a negare che anche una sentenza conclusiva di giudizio di cognizione piena intorno ad una singola rata dell'obbligazione, implichi necessariamente giudicato intorno all'esistenza dell'obbligazione intera. Costoro sono portati a pensare, che l'efficacia vincolante del decreto ingiuntivo non opposto a quel punto sia equivalente a quello della sentenza.

Più discutibile è l'atteggiamento della giurisprudenza quando tende a equiparare gli effetti di giudicato del decreto ingiuntivo loro opposto, a quelli della sentenza, ma sulla base della premessa che il giudicato che si forma sull'accertamento contenuto nella sentenza, abbia limiti oggettivi, la portata oggettiva, diciamo, molto più vasta come del resto è l'atteggiamento della giurisprudenza.

Ma non è solo questo, lo strumento privilegiato a disposizione degli avvocati, c'è ne anche un altro, che è interessante prendere in visione. È quello previsto dell'art. 29, qui si prevede che da dove si faccia valere il credito vero e onorari derivanti da prestazioni giudiziarie, l'avvocato può anche utilizzare lo strumento di tutela sommaria ed accelerata, costituito da procedimento in camera di consiglio, è un rito che si distingue dal rito ordinario, soprattutto per la maggiore informalità del procedimento e consente di giungere celermente alla definizione del giudizio, qui, c'è un contraddittorio perché la parte avversa viene perseguita, ma si tratta sempre di una corsia preferenziale rispetto alla cognizione piena preferenziale.

Qualcuno potrebbe dire ma è meglio avere a disposizione l'utilizzo a cognizione piena con tutte le possibili garanzie da spendere che avere un giudizio accelerato dove le notizie si assumono in modo sommario? È meglio per chi? Dipende! Per l'attore plausibilmente è meglio il procedimento informale perché ha bisogno del provvedimento se potesse scegliere e succede anche che laddove l'avvocato si sia avvalso del procedimento ingiuntivo, l'eventuale opposizione dell'avversario, con in riferimento a quest'ipotesi degli onorari per prestazioni giudiziarie, la condizione dell'avversario, come nella generalità delle ipotesi avrà un giudizio a cognizione piena, bensì un procedimento in camera di consiglio accelerato e semplificato.

Quest'ipotesi è in realtà molto importante per la storia del nostro diritto processuale, perché il confronto con riferimento a quest'ipotesi, è sorto in giurisprudenza un istituto che ha finito per assumere un'enorme rilevanza applicativa, cioè l'istituto del ricorso straordinario per cassazione per violazione di legge.

Infatti, l'art. 11 della Costituzione, dispone che sia sempre ammesso ricorso in Cassazione nei confronti di tutte le sentenze. Nei primi anni successivi all'entrata in vigore della Costituzione la Corte Costituzionale non era operante, la giurisprudenza della Corte di Cassazione veniva ad interpretare la forza normativa del disposto costituzionale, seguì questo generale indirizzo.

Dovevano distinguersi, secondo la Cassazione, norme passibili di immediata applicazione precettiva dalle altre, le norme passibili di immediata applicazione precettiva possedevano un'automatica forza abrogativa delle disposizioni incompatibili. Sicché, ai fini della disapplicazione di queste ultime, si riteneva necessaria una declaratoria di illegittimità costituzionale, bensì, poteva direttamente interpretarsi al legge attribuendo prevalenza al disposto costituzionale, e aggiungeva la giurisprudenza, il disposto dell'art. 111 va considerato norma d'immediata applicazione precettiva, e tale disposto non può essere eluso dal legislatore, ragiona la Cassazione, con l'escamotage di attribuire ad un provvedimento provvisto dell'efficacia della sentenza, la veste formale di un provvedimento di vitale efficacia non fosse provvisto.

Ordinanze e decreti, che sono provvedimenti del giudice di norma sprovvisti dell'efficacia di sentenza, laddove si trovino ad assumerla, vanno considerate come sentenze in senso sostanziale, secondo la giurisprudenza, quindi, nella misura in cui non sia prevista un'impugnazione nei confronti di un provvedimento così conurato, si rende inevitabilmente applicabile la disciplina dell'art. 111 ed il provvedimento risulta ricorribile per Cassazione al fine del suo controllo di legittimità.

Quando ad un provvedimento può essere attribuito l'efficacia di sentenza?

Anzitutto deve trattarsi di un provvedimento non passibile di revoca, cioè, rispetto al quale non sia possibile richiedere un riesame che implichi anche una nuova valutazione dell'effetto giuridico da fatti già conosciuti nel precedente provvedimento in cui si richiede per ipotesi la revoca.

Poi, occorre che non sia altrimenti impugnabile, perché, è chiaro che l'immediata applicazione precettiva dell'art. 111 si rende necessario di extrema ratio, cioè giungere in Cassazione attraverso il sistema ordinario dell'impugnazione, e poi, c'è l'aspetto probabilmente più delicato, cioè la circostanza che il provvedimento, per usare la formula ricorrente, incida sui diritti soggettivi, e qui bisogna fare attenzione ad entrambi gli aspetti.

Per un verso la questione è di diritto soggettivo, perché l'individuazione di quali situazioni di vantaggio si conurino come diritti soggettivi in senso proprio, e quali no, spesso e tutt'altro che agevole, soprattutto con riferimento ai cosiddetti nuovi diritti, alle situazioni di vantaggio meritevoli di tutela non passibili di appropriazione esclusiva, ma in realtà è pure lecito anche con riferimento a situazioni di vantaggio affatto tradizionali, come quella del possesso, insegnamento che per secoli si è tramandato in cui la situazione soggettiva del possessore non ha la consistenza del diritto soggettivo.

È la situazione di fatto corrispondente all'esercizio del diritto soggettivo che viene tutelata come tale , non è propriamente un diritto soggettivo, eppure, tra breve parleremo di cosa è accaduto nel complesso della riforma del diritto possessorio, ed ancora, l'altro capo problematico dell'espressione è quello della parola incidere.

Quando si incide sui diritti soggettivi? Incide sui diritti soggettivi, soltanto, un provvedimento provvisto della forza vincolante del giudicato. Se si desse questa risposta, si finirebbe probabilmente per pretermettere alcune realtà pratiche difficili da digerire, perché, il terreno privilegiato dell'applicazione di questa disciplina finisce per poi essere soprattutto quello delle procedure concorsuali, e accade che la circostanza che sia possibile ottenere un esame a condizione piena della situazione di vantaggio con l'opera di un procedimento sommario, spesso può essere il "pettine del calvo". Perché?

Le procedure concorsuali, sono caratterizzate da aspetti di sommarietà, perché, occorre affrontare una complessa crisi di spesa, e una volta esaurito il patrimonio, il fatto che la somma si possa ancora chiedere, la condizione d'incidenza sul diritto soggettivo viene spesso intesa in modo abbastanza ampio anche tenendo conto degli aspetti di irreversibilità pratica della statuizione a dispetto della sua reversibilità giuridica.

Fermo restando che le forme di tutela sommaria, passibili di dar luogo all'incidenza del diritto soggettivo, difficilmente possono sfuggire comunque ad un controllo di legalità dinanzi alla Cassazione. Ma è legittimo domandarsi se oggi non si possa ampliare di molto le possibilità di ricorrere a forme di tutela sommaria consentendo anche quando ci sia un potenziale pratica degli effetti per il ricorso in Cassazione.

Si è immaginato, per diverso periodo, che si potesse estendere l'ambito di applicazione se non in quei procedimenti che si definiscono come accertamenti a prevalente funzione esecutiva modellati su un sistema della pronuncia del provvedimento inaudita altera parte salva tempestiva opposizione dell'avversario, che certo, qualche riserva la susciterà, perché sembra poco bello che si provveda ancor prima di sentire l'avversario, almeno, di forme di tutela sommaria semplificate in contraddittorio, idonee ad acquisire quel grado di stabilità che sia sufficiente a soddisfare l'interesse delle partì.

Fin qui si è ipotizzato che si estendesse l'ambito d'applicazione del cosiddetto procedimento camerale.

La cosa ha destato molte riserve e perplessità, perché il procedimento in camera di consiglio che si diceva, è il procedimento pensato per i cosiddetti affari di volontaria di giurisdizione, ossia, non già propriamente per risolvere controversia, non per risolvere conflitti, difatti, anche la realizzazione della garanzia del contraddittorio discende da alcune pronunce di carattere interpretativo della Corte Costituzionale, perché, il tenore letterale delle norme di riferimento evoca fortemente l'idea di procedimento di carattere unilaterale.

L'espressione di giurisdizione volontaria evoca due aspetti diversi se vogliamo di contrapposizione alla giurisdizione contenziosa.

Da un lato la circostanza che non vi sia uno scontro ma magari un incontro di volontà, e dall'altra la circostanza che si tratti spesso di attività integrative a manifestazioni di volontà, insomma il caso più chiaro è quella dell'autorizzazione alla vendita dei beni del minore, si prevede che in questo caso occorra un provvedimento giurisdizionale autorizzativo, che nella normalità dei casi non vi è un conflitto da risolvere per ottenere questo provvedimento, il provvedimento deve essere per integrare la volontà del minore, quindi, si dice, questo procedimento è un procedimento poco garantistico, che mal si adatta alle necessità della attività di vera e propria risoluzione dei conflitti. E finisce per conculcare garanzie processuali, salvo che poi, siano sempre garanzie processuali del convenuto e naturalmente questo tipo di osservazioni, tendono, facilmente a provenire dalla classe forense che sembra essere molto sensibile al problema delle tutele delle garanzie, soprattutto nei confronti del convenuto.

Il problema della giurisdizione volontaria non si adatta alla giurisdizione contenziosa, perché il quelle occasioni, il giudice non è perso. Cosa voleva dire? Intendeva alludere al fatto che può trattarsi di procedimenti con una sola parte quindi il giudice non è perso perché è il solo il secondo? Se invece il processo è litisconsortile diventa quarto, etc.. abbiamo qui la nozione di terzietà che giuridicamente ci interessa, cioè di estraneità rispetto all'oggetto della lite certo che il giudice è terzo anche in questi casi, cioè non è uno dei soggetti direttamente interessati alla risoluzione della controversia.

Questi procedimenti, si attagliano alla tutela di situazioni soggettive che non abbiano la consistenza del diritto soggettivo.

Per un verso, ora, dobbiamo dire che la giurisprudenza della Consulta, ha detto chiaramente che nella misura in cui sia comunque concessa alla parte interessata la facoltà di interloquire sulla formazione della decisione per produrre i mezzi di prova idonea a dimostrare la fondatezza delle sue ragioni, l'eventuale semplificazione del procedimento non desta alcun problema, e men che meno desta problemi la circostanza che gli effetti di giudicato possano essere più tenui di quelli ordinari in relazione alle caratteristiche della situazione soggettiva da dedursi in giudizio.

Per esempio in presenza di situazioni soggettive intrinsecamente caduche, quanta utilità può avere la stabilità dell'impianto?

Il caso più eclatante è stato, probabilmente, quello dei provvedimenti intorno alle condizioni patrimoniali della separazione fra coniugi, perciò dal punto di vista sostanziale che la statuizione è inevitabilmente instabile, perché quando l'effetto è propriamente l'effetto del giudicato mai potranno essere coperti gli effetti giuridici prodotti da fattispecie verificatesi successivamente alla formazione del giudicato, e in questo campo è molto facile che questo si verifichi, perché la disciplina dell'obbligo alimentare, dell'assegno di mantenimento, di tutte le conseguenze patrimoniali della separazione, e la disciplina assegna un'enorme rilevanza alle sopravvenienze e le successive modifiche delle condizioni patrimoniali dei coniugi giustificano comunque una modifica del contenuto del provvedimento.

Visto che la statuizione molto facilmente dovrà essere ridiscussa sulla base delle sopravvenienze, perché affrontare i costi e complicazioni necessarie ad escludere che si ridiscuta anche del passato? A quel punto tanto vale ridiscutere di tutto! Cioè tanto vale che il provvedimento reso, in realtà, abbia certo efficacia di titolo esecutivo, magari anche la ricorribilità per vessazione, però considerato che non è necessario ai fini dell'incidenza del diritto soggettivo che si producano i veri e propri effetti di giudicato, ma perché il giudizio a cognizione ordinaria chiede le sue formalità?

Perché, non è un procedimento sommario accelerato e nell'applicazione giurisprudenziale questa soluzione è stata accettata, e siamo arrivati ad una vicenda che ha illustrato i limiti entro i quali si può contare sull'interpretazione giurisprudenziale.

Tanto è il regime della tutela delle situazioni possessorie, qui riprendiamo in mano le lezioni di dritto privato, come è perché si tutela il possesso, si dice, ne cives ad arma rua.

Le ragioni fondamentalmente di ordine pubblico, si vuole evitare l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni e si prevede nel c.c., una dizione che evoca sistemi medioevali si tutela, per cui il provvedimento di reintegrazione va concesso senza dilazione sulla semplice notorietà del fatto.

Si prevede in pendenza di procedimento possessorio, le ragioni petitorie, cioè la circostanza che il preteso spogliatore, sia magari, il vero proprietario del bene, non possono essere conosciute dal giudice perché la domanda petitoria, dice la legge, addirittura improponibile e improcedibile in guisa tale da consentire che almeno vengano fatti saldi gli effetti della proposizione della domanda e almeno la proposizione della domanda sia possibile, comunque non si può conseguire un accertamento della situazione di vantaggio petitoria finché non è stato eseguito il provvedimento possessorio e salva l'ipotesi in cui la parte possa dimostrare che la mancata esecuzione del provvedimento dipende dal fatto che il possessore procrastina ad arte la prosecuzione del provvedimento, la procrastina volutamente.

La Corte Costituzionale è intervenuta su questa disciplina precisando che deve comunque ritenersi possibile, in vero, anche in pendenza di procedimento possessorio, la tutela delle ragioni petitorie, quando sussiste il presupposto della tutela cautelare urgente, cioè quando vi sia il pericolo di subire un pregiudizio grave ed irreparabile per effetto della dilazione della condizione delle ragioni petitorie.

Resta il fatto che, quando non sussistano queste specifiche ragioni d'urgenza, la tutela petitoria rimane bloccata e tutto prescinde dall'apparenza di fondatezza delle ragioni possessorie e se colui che sta esercitando l'azione possessoria è palesemente in torto e in mala fede, si manifesta ugualmente l'effetto preclusivo, perché spogliatus ante omnia restituendus.

Il senso di tutto questo sistema è che il procedimento possessorio sia celere e originariamente, questo procedimento è conurato in maniera tale da prevedere l'emanazione immediata di un provvedimento provvisto di efficacia esecutiva, definito come provvedimento interdittale, e la contestuale fissazione di un'udienza a seguito della quale il giudizio doveva automaticamente proseguire nel giudizio a condizione piena.

Però, in una delle riforme degli anni '90, venne introdotta una riforma della disciplina dei procedimenti cautelari, e quindi dei provvedimenti di tutela sommaria.

Qualsiasi sorta di situazioni soggettive in contraddittorio per ridurne addirittura la stabilità, caratterizzati da due aspetti di strumentalità, rispetto al giudizio di cognizione piena. Cioè quella che possiamo definire come strumentalità funzionale e quella che potremo definire come strumentalità strutturale.

Per funzionalità funzionale, intendiamo che il provvedimento cautelare ha la funzione di anticipare gli effetti di un procedimento sul merito ovvero di conservare la situazione esistente in attesa della stessa sentenza di merito, quindi il tipico procedimento cautelare anticipatorio è il provvedimento d'urgenza. Tipico provvedimento cautelare conservativo è il sequestro attraverso il quale si conserva la situazione esistente in attesa dell'emanazione della sentenza di merito.

Entrambi questi provvedimenti, però, nella disciplina introdotta da queste riforme degli anni '90, sono caratterizzate anche da una strumentalità strutturale nel senso che essi possono produrre effetti soltanto e in quanto venga, in un tempo breve, avviato un giudizio a cognizione piena.

Se questo giudizio non viene attivato o coltivato il provvedimento perde la sua efficacia, in un certo senso non sta in piedi da solo, quindi diversamente da quando accade col sistema del decreto ingiuntivo, a seguito dell'ottenimento del titolo esecutivo grava ancora, sulla parte che l'ha ottenuto, coltivare il procedimento, mentre, ovviamente, nel decreto ingiuntivo, questo onere grava sulla parte nei cui confronti è stato ottenuto il provvedimento.

Perché se ne parla con riferimento alla tutela del possesso? La disciplina della fase interdittale del procedimento possessorio costituiva la normativa di riferimento per individuare la disciplina applicante al procedimento cautelare d'urgenza, chi aveva una sua disciplina e anche nei provvedimenti cautelari di carattere conservativo con una particolarità, che il provvedimento d'urgenza si è rivelato importantissimo nella pratica applicativa, soprattutto nell'esperienza applicativa del codice allorquando hanno cominciato a crescere a dismisura i tempi della cognizione ordinaria e quindi, si sono visti realizzare sempre più spesso i presupposti dell'indispensabilità del provvedimento d'urgenza.

Ma all'epoca della codificazione, lo si pensava come un rimedio di carattere marginale e la sua disciplina era formulata in modo spesso largamente sommario.

Il provvedimento di sequestro, invece, era già molto più importante nella prassi applicativa, e aveva quindi una sua disciplina positiva molto più complessa. E si prevedeva, ai fini del sequestro, che la sua efficacia fosse condizionata non soltanto alla coltivazione di un giudizio di merito avente ad oggetto la sussistenza del diritto soggettivo per il quale si era conseguito il provvedimento di sequestro, ma era anche richiesto che si coltivasse un giudizio a cognizione piena,  avente ad oggetto, come diceva la legge, la convalida del sequestro, ossia la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissibilità all'emanazione del provvedimento in quanto giudizio a cognizione piena.

·    Disciplina dei procedimenti cautelari

La riforma degli anni '90 ha inteso unificare la disciplina dei procedimenti cautelari prevedendo, sia per il provvedimento d'urgenza, sia per il sequestro, che fosse sempre necessario a pene d'inefficacia avviare e coltivare in giudizio a cognizione piena avente ad oggetto il diritto a tutela del quale era stato richiesto e concesso il provvedimento cautelare.

Ma eliminando invece il giudizio di convalida del sequestro perché si riteneva insensato, si riteneva fosse giustamente un inutile superfettazione che si dovessero sopportare i costi di un giudizio a condizione piena, solo per verificare la sussistenza delle condizioni per l'emanazione di un provvedimento che comunque non sarebbe stato provvisto di efficacia di giudicato, i cui effetti sarebbero comunque stati assorbiti dalla sentenza sul merito e cioè sulla sussistenza del diritto a tutela del quale il provvedimento cautelare era stato emanato.

Eliminato quindi il giudizio di convalida.

Questa riforma del '90, ha posto il problema del procedimento possessorio come disciplina, e qui troviamo soltanto la succinta indicazione secondo cui i procedimenti a tutela del possesso si applicano, per quanto compatibili, le norme previste per i procedimenti cautelari.

Il procedimento a tutela del possesso, non è un procedimento cautelare, non è diretto a tutelare in via urgente il diritto soggettivo di cui si dovrà conoscere la cognizione piena in un giudizio ordinario. Qui si tratta solo di tutelare una situazione di fatto, anzi, il provvedimento avente ad oggetto un diritto soggettivo era quello che aveva reso improcedibile e non viene eseguito il provvedimento possessorio. Sicché, la fase a cognizione piena, conurata dalla disciplina previgente, come naturale prosecuzione del provvedimento interdittale, fa totalmente divario con il giudizio di convalida di sequestro.

Anche in questo caso avremmo avuto la necessità di coltivare il giudizio a cognizione piena, ma non per conoscere di un diritto soggettivo, bensì, per conoscere solo della legittimità dell'emanazione del provvedimento urgente. É chiaro che in un sistema di controlli, deve essere previsto il riesame presso un giudice diverso del provvedimento urgente ai fini della verifica delle condizioni di ammissibilità della sua emanazione, ma per far questo, non è necessario un giudizio a cognizione piena con tutti i suoi tre gradi, è sufficiente quello che ha previsto, infatti, il legislatore del '90 nei confronti della generalità dei provvedimenti cautelari, cioè il rimedio del reclamo in un unico grado di riesame, presso un giudice diverso, applicabile pacificamente anche ai provvedimenti possessori e accomnato, naturalmente dall'idoneità della sentenza sul merito nel giudizio avente ad oggetto il diritto soggettivo vero e proprio, è l'idoneità della sentenza di merito ad eliminare automaticamente o ad assorbire, a seconda del suo contenuto, gli effetti del provvedimento sommario.

La conclusione più logica è l'analisi della disciplina emersa dalla legge del '90 avrebbe dovuto essere che il procedimento di tutela del possesso conosceva una forma sommaria , era passibile di reclamo nelle forme del reclamo previsto nei confronti dei provvedimenti cautelari, ma non doveva più, necessariamente, formare oggetto anche di un giudizio a cognizione piena.

Però, è successo che buona parte della dottrina è scesa in campo, per difendere il cosiddetto merito possessorio, sia per sostenere che anche a seguito della riforma, si rendeva necessario coltivare il giudizio a cognizione piena, aventi ad oggetto la verifica della ammissibilità dell'emanazione del provvedimento possessorio a prescindere dalla condizione di qualsiasi diritto soggettivo.

A sostegno di questa tesi, in particolare di fronte all'obiezione che così si finiva per dotare proprio la situazione soggettiva possessoria, cioè quella che non avrebbe la consistenza del diritto soggettivo e che procrastina la tutela del diritto soggettivo stesso, una conurazione ancor più complessa e ramificata di quella prevista per la tutela dei diritti soggettivi, perché qui, finiremmo per avere normalmente cinque gradi d'istruzione, perché abbiamo la parte sommaria, il reclamo contro il provvedimento sommario, la fase a cognizione piena con primo, secondo e terzo grado.

Almeno nei casi di diritti soggettivi normali, le due fasi a cognizione d'urgenza sono facoltativi in un certo senso, cioè l'attore le utilizza se è il caso, può scegliere anche di non avvalersene pur in presenza dei presupposti dell'urgenza, mentre qui non si potrebbe nemmeno scegliere di non avvalersi della fase sommaria che è anzi necessaria a fase introduttiva del provvedimento, di fronte a questo tipo di obiezione.

Qualcuno ha detto, che la parte ha sempre possibilità di ricorrere all'autotutela.

Era proprio quello che il provvedimento voleva impedire! Tanto che la possessoria si giustifica proprio per evitare che i cittadini ricorrano all'autotutela, ma più sottilmente, si è osservato, sì, questa distinzione tra i diritti soggettivi e situazioni di vantaggio che non ne hanno la consistenza, la distinzione è incerta, e dovremmo muovere dal seguente presupposto, se il legislatore conura una situazione di vantaggio, prima di dire che non è un diritto soggettivo ci vogliono prove convincenti!

Cominciamo a qualificarla come diritto soggettivo e poi vediamo!

Ed ecco che allora scatta, assieme a questo ragionamento, l'esigenza della tutela a cognizione piena, almeno se si pretermette la circostanza che la Consulta abbia detto che il legislatore può benissimo, con riferimento a situazioni soggettive caduche, quale evidentemente è la situazione soggettiva possessoria, che più caduca di quella non esistono, con riferimento a questa situazione soggettiva può il legislatore semplificare il procedimento e alleggerire gli effetti preclusivi del giudicato.

Sta di fatto, però, che questa tesi pur così debolmente argomentata, è quella che ha finito per prevalere e così oggi la giurisprudenza ha affermato e ritiene che ai fini della tutela del possesso il procedimento deve necessariamente articolarsi addirittura in queste cinque fasi, fenomeno che potremo definire metastatico. Allora, la prospettiva migliore sembra essere, oggi, è quella di intervenire in via generale sul problema della necessaria strumentalità strutturale dei provvedimenti cautelari, cioè, dei provvedimenti sommari di carattere cautelare.

Accanto a questa, vi è la via, invece della moltiplicazione delle forme della tutela sommaria non cautelare.

Questa seconda strada è stata in qualche misura percorsa durante gli anni '90, in cui, in vario modo, si è tentano di ampliare l'ambito di applicazione degli accertamenti a prevalente funzione esecutiva introducendo tre diverse importanti forme di provvedimento anticipatorio.

Anzitutto, si è introdotta la prospettiva di ottenere un provvedimento provvisto di effetti largamente equivalenti a quelli del decreto ingiuntivo anche in corso di causa, ma questo lo si è fatto soprattutto per ovviare ad un problema pratico che brevemente si illustra. È quello derivante secondo cui non si poteva concedere un provvisoria esecuzione parziale del decreto ingiuntivo. E allora cosa accadeva? Tizio, creditore di 100 milioni, ottiene decreto ingiuntivo contro Caio, ma aio conosce il suo numero di conto corrente e Tizio non da disposizioni sufficienti ad impedire amenti parziali. Sicché il convenuto a 100 lire. Si oppone al decreto ingiuntivo e il creditore Tizio risulta non più creditore di 100 milioni, ma creditore di 99.999.900 lire e dato che non può essere concessa la provvisoria dilazione parziale del decreto ingiuntivo nessuna provvisoria esecuzione viene concessa.

Per rendere inutile questa strategia, si è introdotta la possibilità di chiedere nel giudizio di opposizione un provvedimento equivalente, con riferimento alla somma che nel frattempo era rimasta residua con riferimento allo stesso credito.

La disciplina del provvedimento ingiuntivo prevede che la parte che sia in possesso di un titolo esecutivo di formazione stragiudiziale, per esempio un atto notarile, che può costituire titolo esecutivo con riferimento alle somme di danaro conservate nell'atto stesso, e anche una prova scritta sufficiente a conseguire un decreto ingiuntivo ed è ovvio che il decreto ingiuntivo possa essere conseguito da chi è pure già provvisto di titolo esecutivo, ovviamente, allo scopo di munirsi di un titolo esecutivo potenzialmente più stabile di quello di formazione giudiziale, soprattutto, perché, in sede esecutiva allorquando si innesca l'ausilio della forza pubblica, per ottenere la realizzazione coattiva dell'obbligazione, è sempre data la possibilità al debitore di promuovere un giudizio a cognizione piena idoneo, in particolare quando l'iniziativa appaia fondata anche a bloccare da subito l'esecuzione, contestando la sussistenza del diritto di procedere all'esecuzione forzata. È questo il rimedio che al nome di opposizione ad esecuzione, è contemplato dal legislatore come un rimedio che consentendo di far valere l'inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata, permette non solo di far valere l'eventuale inesistenza o invalidità del titolo, ma anche l'inesistenza del diritto a tutela del quale si è conseguito il titolo.

Ovviamente questa possibilità non è data allorquando il titolo è di formazione giudiziale, perché i casi sono due; o il titolo è un provvedimento passato in giudicato e quindi dell'accertamento della sussistenza del diritto non è più contestabile grazie agli effetti della cosa giudicata, ovvero un provvedimento passibile di impugnazione ordinaria e in questo caso la parte deve avvalersi dell'impugnazione ordinaria per muovere questo tipo di contestazioni e non le può muovere, invece, tramite opposizione all'esecuzione.

Dobbiamo tener presente quest'aspetto per poter capire in quale misura il titolo di formazione giudiziale possa interessare alla parte più di un titolo di formazione stragiudiziale.

Contestualmente si è introdotto un provvedimento anticipatorio avente ad oggetto il amento delle somme non contestate, e questo è un altro caso abbastanza illustrativo, perché, durante gli anni '50, '60, quando si parlava di riforma del processo, si faceva spesso un'osservazione. Capita che il convenuto si costituisca in giudizio e contesti solo in parte la somma dovuta. Perché non introdurre un provvedimento anticipatorio che consenta di ricostituirsi il titolo esecutivo rispetto a quelle somme che non siano contestate, di tutte queste ipotesi di contestazioni parziali?

Un provvedimento di questo tipo ha senso soltanto se può essere emanato nei confronti della parte che non si costituisca in giudizio, cioè che non si renda parte attiva del procedimento e quindi, scelga di non affrontare i costi e le spese della difesa in quel procedimento. Perché è plausibile quest'ipotesi: è chiaro che la contumacia si presuma volontaria, in caso d'involontarietà, c'è sempre la rimessione in termini.

È lecito presumere che, di rado la parte che non si costituisce, non si costituisca perché talmente sicura di aver ragione, che è certa di vedersela dare dal giudice senza bisogno di rendersi parte attiva del procedimento. La parte che non si costituisce è pur normale che ragioni in questo modo, cioè; non mi costituisco perché sono soldi sprecati per difendermi in un processo in cui sono sicuro di perdere. Quindi, in questo caso può restare ferma l'idea che il nostro ordinamento non ammetta la confessio in iure, quindi non può attribuire valore dispositivo, ne, ad un atteggiamento confessorio della parte che vincola il giudice rispetto all'accertamento dei fatti, ma non alla valutazione dell'effetto giuridici derivante da quei fatti stessi, ne, ad un atteggiamento di tipo passivo, come la mancata contestazione non potrà certamente avere un'efficacia dispositiva, e resterà sempre salda la possibilità, comunque, in altra maniera risulti agli atti l'infondatezza della pretesa, la possibilità di rigettare la domanda anche in contumacia della parte convenuta.

Però, non c'è nulla di male, se nei confronti della parte non costituita, può essere ugualmente reso un provvedimento anticipatorio, magari non provvisto dell'efficacia della cosa giudicata. Ma se noi, come ha fatto il legislatore, prevediamo tra i presupposti della concessione dell'ordinanza, la circostanza che la parte sia costituita, sul presupposto che la non contestazione rilevi solo quando non sia completamente un comportamento omissivo, bensì, un'omissione ricollegata ad un comportamento attivo di difesa, l'unico risultato che otteniamo è quello di far sparire il fenomeno delle contestazioni parziali, perché, una volta che la parte ha scelto di affrontare i costi della difesa, e che questa parte sa che in caso di contestazione parziale rischia di subire l'emanazione del provvedimento anticipatorio, e se, come purtroppo è da noi, di fatto la difesa di mala fede non è sanzionata in sede di cognizione. Perché?

Sì, l'art 96 prevede forme di responsabilità aggravata nei confronti della parte che si difenda sapendo di aver torto nei casi di mala fede o colpa grave, ma risponde esclusivamente dei danni, e di quali danni può trovarsi a rispondere la parte che si sia difesa in malafede?

Può trovarsi a rispondere dei costi derivanti dall'esigenza di affrontare il processo, ma in forza della regola della soccombenza, di questi, in larga parte, occorre rispondere anche se la difesa è in buona fede, quindi la differenza, ciò che di cui effettivamente si risponde a causa della mala fede è modestissima, e sostanzialmente priva di valore dissuasivo di efficacia deterrente nei confronti della litigiosità in mala fede.

In presenza di tutti questi presupposti, la parte che si costituisce, a quel punto, contesta tutto! Sicché, di fatto, questa disciplina, è rimasta sostanzialmente sprovvista di seria applicazione.

Va ricordato nel panorama dei provvedimenti anticipatori, l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione, qui la portata anticipatoria del provvedimento è molto più modesta perché sostanzialmente si risparmiano i tempi della redazione della motivazione della sentenza.

Un fattore di recente introduzione accomuna alcune caratteristiche è quella di essere classificati come provvedimenti pienamente revocabili  e ciò con l'obiettivo di evitare che si renda possibile, nei loro confronti, l'esperimento del riscorso straordinario per Cassazione, ma restano provvedimenti il cui ambito di applicazione  pare o molto ridotto come nel caso di ordinanza di amento delle somme non contestate, o sostanzialmente discriminatorio come accade nei provvedimenti di carattere ingiunzionale, sperequando in favore di certe categorie di cittadini aventi un accesso privilegiato alla prova, che poi si potrà dire, in seguito di opposizione nei confronti del provvedimento ingiuntivo, il debitore laddove sia falsa la prova unilateralmente formata dall'imprenditore o dall'avvocato, può conseguire il rigetto della domanda, non è ribaltato l'onere della prova, di questa prova che non farebbe prova nel giudizio ordinario non fa prova nemmeno nel giudizio di opposizione del decreto ingiuntivo, però, seppure non ha ribaltato l'onere della prova, questa formazione unilaterale del documento scritto, ha se non altro ribaltato l'onere dell'iniziativa processuale, facendo gravare sull'avversario il costo di un'iniziativa processuale diretta a provocare un esame sulla base di regole ordinarie e di prova della sussistenza del diritto vantato dall'avversario.

Ovvero, ancora, di modesta portata anticipatoria, come accade per l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione che presuppone che comunque si sia espletato il grosso dell'attività processuale prevista dal procedimento a condizione piena.

La prospettiva più interessante per il futuro, è quella di arrivare a un regime che sia, da questo punto di vista omogeneo, in paesi dove la giustizia civile funziona molto meglio che da noi!

L'esempio più significativo è quello dell'ordinamento processuale francese, che è molto simile al nostro per tantissimi punti di vista, e forse la più importante delle differenze è che il provvedimento sommario, nella generalità delle ipotesi, non è caratterizzato da strumentalità strutturali, quindi , anche il provvedimento concesso in via sommaria per l'urgenza di provvedere, sulla base del cosiddetto pericolum in mora, conserva i suoi effetti senza bisogno della instaurazione del giudizio a cognizione piena.

Sono effetti non giudicato, cioè sono effetti esecutivi; il provvedimento rimane pienamente passibile di revoca anche sulla base di un nuovo esame delle circostanze già dedotte prima della sua emanazione ed il riesame a cognizione piena ed esauriente tramite procedimento ordinario, della sussistenza del diritto, rimane sempre possibile, salvo che , ovviamente eccezione di decadenze di carattere sostanziale.

In direzione di questa soluzione si sta effettivamente muovendo il legislatore, nel senso che la più recente delle riforme processuali, che ha avuto per oggetto il contenzioso in materia societaria, ha previsto che sia possibile, sia ottenere un provvedimento cautelare caratterizzato da questo grado di stabilità, prima di prescindere dall'instaurazione di un procedimento a cognizione piena, sia ottenerlo nel corso di tale procedimento, senza che l'eventuale estinzione di quest'ultimo, dovuta alla mancata coltivazione da parte delle parti interessate, comporti la caducazione della misura cautelare concessa.

Il provvedimento conserva i caratteri di piena revocabilità, ovviamente, deve anche ritenersi che si tratti di un titolo esecutivo di formazione giudiziale, tale per cui, la contestazione della sussistenza del diritto di procedere all'esecuzione forzata, non possa ricomprendere quelle ragioni, che, potrebbero giustificare un riesame, una revoca del provvedimento, attraverso gli strumenti previsti per il suo riesame e la sua revoca in sede di cognizione piena, cioè, dovrebbero operare un meccanismo per il quale l'opposizione all'esecuzione risulterà proponibile per far valere che la somma sia stata già ata dopo l'emanazione del provvedimento, non per far valere le fattispecie verificatesi successivamente all'emanazione del provvedimento.

Ma annunciate quelle contestazioni che avrebbero potuto essere mosse nel procedimento che ha condotto all'emanazione di quel provvedimento, perché, quelle contestazioni potranno essere mosse, ma non tramite il rimedio dell'opposizione all'esecuzione, bensì, tramite la richiesta della revoca del provvedimento, ovvero, attraverso la richiesta di un giudizio a cognizione piena sul diritto oggetto della tutela cautelare.

Questo sistema, plausibilmente, finirà per essere prodotto in tempi brevi, anche come strumento generale per la tutela dei diritti soggettivi, con il vivo auspicio che l'abbandono della tralatizia idea, secondo cui la strumentalità funzionale del provvedimento rispetto al provvedimento del merito debba accomnarsi nella sua strumentalità strutturale, l'abbandono di questa idea consenta di alleggerire il carico di lavoro gravante sull'amministrazione della giustizia civile, e quindi di realizzare in modo più efficace il precetto costituzionale che impone di garantire al cittadino una tutela in tempi ragionevoli nei suoi limiti soggettivi.

Questo, può anche consentire di rendere interessante di quanto a lungo apparso un altro possibile percorso, che pur in un certo tempo si è coltivato, che è quello di promuovere le cosiddette modalità alternative di risoluzione delle controversie.

Di cui occorre esaminare, in particolare, un paio di forme una è quella del cosiddetto arbitrato.

Il sistema dell'arbitrato consente di conseguire la soluzione della controversia da parte di soggetti privati, scelti per accordi tra le parti sulla base di una clausola compromissoria, un compromesso vero e proprio, che può in vario modo incentivante, ci sono stati molti interventi di apertura in favore di questo strumento che si è reso utilizzabile in misura sempre maggiore anche la tutela di situazioni soggettive limitatamente disponibili, in particolare nelle materia del diritto del lavoro, e sia nelle forme del cosiddetto arbitrato rituale che è quello esplicitamente disciplinato dal codice di procedura civile e che contempla la possibilità di richiedere un riesame del provvedimento innanzi al giudice, però, in un unico grado di merito, sia deforme del cosiddetto arbitrato irrituale, istituto non direttamente contemplato dal codice, e che secondo una tradizionale interpretazione dottrinale giurisprudenziale, segue diverso regime, in quanto, equivarrebbe ad una travisazione come tale impugnabile sotto il profilo dell'impugnabilità del negozio, e quindi impugnabile davanti al giudice, che questa volta neanche in unico grado di merito, ma intero giudizio a condizione piena con tutti i suoi ordinari svolgimenti, per una serie di ipotesi abbastanza limitata.

I modi per incentivare questo strumento sono diversi, ma si è prospettato l'ipotesi di favorirne l'utilizzazione attraverso delle modalità di istituzionalizzazione del sistema della risoluzione delle controversie tramite arbitrato.

Cioè prevedendo che possa essere il giudice adito dalle parti, ad inviarle dinanzi ad un arbitro.

L'istituzionalizzazione del sistema si rivelerebbe, nella circostanza, che gli arbitri a cui il giudice invierebbe le parti, dovrebbero essere iscritti in un elenco, ovviamente abilitati in varia forma e scelti dal giudice anziché dall'accordo delle parti.

La soluzione della controversia fornita dall'arbitro così designato da giudice, sarebbe pienamente suscettibile di riesame a cognizione piena innanzi al giudice in cui la parte soccombente, intenda successivamente rivolgersi, però con una previsione in termine di disciplina delle spese, tale per cui, la parte vincitrice, non conseguirebbe la condanna alle spese dell'avversario soccombente,  tutte le volte in cui il risultato conseguito davanti al giudice non fosse migliore da quello conseguito accontentandosi della pronuncia arbitrale.

 Per fare un esempio concerto; la parte che abbia agito chiedendo 100 lire, si veda riconoscere dall'arbitro soltanto 50, proseguisse il giudizio per ottenere le 100 e si dovesse riconoscere dal giudice le 50, non avrebbe diritto a conseguire le spese pur risultando soltanto parzialmente soccombente e in realtà parte vincitrice del giudizio.

Si tratta di incentivo poco incisivo, e devo dire, anche un incentivo che opererebbe nella materia lavoristica in modo asimmetrico, perché in realtà c'è un'asimmetria non scritta nella disciplina delle spese del processo in materia lavoristica, perché, è prevalente la prassi secondo cui il lavoratore alle spese non viene condannato mai! Per varie ragioni equitative, non sempre condivisibili, ma sta di fatto che solo il lavoratore ad avere solo la prospettiva di avere una condanna.

Analogamente, fa fatto per quei incentivi che si prevedono, ai fini della risoluzione delle controversie tramite il metodo conciliativo, consistente nel raggiungimento di una soluzione di carattere transativa della controversia tra le parti, pur sempre dinanzi all'organo che assicuri che la soluzione non sia manifestamente iniqua nei confronti di una delle due parti.

Qui parliamo di conciliazione, quando la soluzione transativa si è raggiunta dinanzi al giudice o innanzi ad una commissione di conciliazione.

Anche qui, la previsione di incentivi di questa sorta, finisce per cooperare in maniera asimmetrica.

Il sistema degli incentivi economici all'accettazione dell'offerta transative, ovvero, delle soluzioni fornite da arbitrati istituzionalizzati, è ispirato ad esperienze straniere che non si sono colte in tutti gli aspetti. Per esempio, questi incentivi esistono nel diritto processuale statunitense dove la percentuale delle condizioni conciliative sia elevatissima.

Nel nostro ordinamento, questo limite è molto forte! E non solo perché ci sono soggetti che difficilmente vengono condannati alle spese anche perché, molte volte si tratta di soggetti insolventi, ma soprattutto, perché, la condanna alle spese copre, in realtà, una parte modesta dei costi affrontati dal vincitore.

In questa sorta di casi, la parte che aveva torto, ha abusato del processo, e il problema non è quello di non prevedere la condanna alle spese, perché, chi vuole rendere la vita difficile all'avversario consegue comunque il suo obiettivo, infliggere costi che nel peggiore dei casi, risarcirà solo in parte. La condanna alle spese muove da un presupposto chiovendiano, il principio per cui, il processo deve fornire alla parte che ha ragione, per quanto possibile, tutto quello che questa avrebbe conseguito se il suo avversario si sarebbe comportato come diritto!

I costi affrontati per vedersi dar ragione, sono costi da cui parte deve essere tenuta indenne e per tanto viene d'ufficio attribuita alla parte soccombente.

Tutto questo ragionamento muove da un presupposto e che cioè la parte che ha ragione, che ha vinto la causa, abbia vinto la causa proprio perché aveva ragione! Quindi, considerato che nel processo anlgo-americano, il divario tra spese per la difesa e spese che si possono conseguire per effetto della condanna della parte soccombente è moto elevato, diventa ancora più importante disincentivare la temerarietà della lite e per disincentivarla, una responsabilità civile per danni non è sufficiente.

Può funzionare come contro incentivo la responsabilità per danni nei confronti di iniziative processuali molto più aggressive di quelle consistenti nella difesa di mala fede nel giudizio di cognizione. Tant'è che il secondo comma dell'art. 96 nel prevedere, sulla base di un elemento psicologico più tenue cioè soltanto della normale colpa, anche laddove si sia agito senza la normale prudenza e si risponda dei danni cagionati da iniziative aggressive nei confronti del patrimonio dell'avversario come il pignoramento, l'esecuzione di un sequestro, l'iscrizione d'ipoteca giudiziale, si risponda dei danni, e qui la disciplina è efficacemente dissuasiva perché queste iniziative possono causare danni elevati e quindi la responsabilità civile è un sistema dissuasivo abbastanza efficace.

Rispetto, invece, alla malafede nella difesa in sede di cognizione è difficile immaginare quale ulteriori danni possano essere provocati rispetto a quelle consistenti alle spese di giudizio e c'è un primo fattore che spiega perché occorre prevedere nei confronti di litigiosità di mala fede, non sanzioni detentive, ma sanzioni pecuniarie che prescindano dalla prova del danno, e in questa direzione si muovono i più recenti progetti di riforma che prescrivono la possibilità di condannare la parte soccombente al amento di somme rapportate al valore della causa senza bisogno della prova di aver subito danni per effetto della litigiosità temeraria.

Il secondo aspetto, prende in considerazione che nel processo civile si pone, e ciò deve essere ritenuto presente in sede di conurazione degli incentivi, un classico problema che viene ricondotto alla rappresentanza. Ossia si pone spesso il problema seguente.

Un soggetto compia nell'interesse di un altro soggetto senza che il soggetto nel cui interesse gli atti sono compiuti, sia in grado di controllare efficacemente se gli atti compiuti rispondano davvero al suo migliore interesse. È un problema molto serio, su cui si potrebbe sprecare la metodica, perché risulta spesso impopolare che avvocati suggeriscano ai clienti iniziative giudiziarie temerarie. Autorevoli studiosi dicono che questa è un'invenzione, e quando mai!

Ma verrebbe da pensare che forse loro non lo fanno perché sicuramente se lo fanno loro avversari non lo vanno a raccontare a loro! Però in quello che viene riferito, questo succede, eccome! E succede proprio perché il cliente, in realtà, ha modeste possibilità di capire se davvero l'iniziativa giudiziaria è o meno valida. Allora, qui, occorre dire che un sistema sanzionatorio della litigiosità temerarietà può funzionare soltanto in quanto si faccia attribuire sanzioni soprattutto sul difensore, anche per rendere più comprensibile, più accettabile, la regola del dell'obbligo di patrocinio.

Considerando che, in realtà, in nessun modo può giungersi alla conclusione che, la regola dell'obbligo del patrocinio sia la regola per cui, nelle generalità delle cose, e salvo eccezioni, non si può stare in giudizio se non tramite il patrocinio di un procuratore legalmente esercente. Non c'è alcun modo di arrivare alla conclusione che questa regola sia giustificata dal migliore interesse delle parti assistite. Questa regola non è nell'interesse delle parti, caso mai, forse nell'interesse dell'efficienza dell'amministrazione della giustizia, e allora, se la regola è posta in questo interesse, bisogna che anche coloro che ne traggono vantaggio siano anche responsabili degli atti e dei poteri che esercitano in conseguenza di questa regola, e quindi possano essere essi stessi direttamente sanzionati per gli abusi commessi nell'esercizio di quel potere.

Un altro aspetto da considerare nella disciplina processuale statunitense riferito all'altro tipo di ipotesi in cui si presentano difficoltà a raggiungere ad un accordo transativo. Quello in caso in cui, entrambe le parti in buona fede pensano di avere ragione. Ovvero, diciamo che entrambe le parti contano di vincere e esiste una divergenza di valutazione delle probabilità di vincere.

Se questa divergenza si attenua, il raggiungimento dell'accordo conciliativo è più facile, nel senso che se entrambe le parti ritengono che l'attore abbia il 70% di probabilità di vincere è naturale che si raggiunga un accordo conciliativo del 70% della somma richiesta. Negli Stati Uniti accade che nel corso della fase preliminare preparatoria del procedimento, la parti siano assoggettate al dovere di esibirsi reciprocamente i mezzi di prova. Ciò comporta non soltanto la preclusione all'utilizzazione del mezzo di prova conteso nel processo, ma può comportare specifiche sanzioni di carattere pecuniario nei confronti della parte che non sia cooperativa in quest'obbligo di esibizione.

Il risultato di questo meccanismo è che nel corso di questa fase preliminare, le divergenze di valutazione intorno alle probabilità di vincere si riducono progressivamente nelle fasi di picco delle conciliazioni, che avviene alla conclusione del procedimento di preventiva esibizione del materiale probatorio.

Da questo punto di vista, sembra abbastanza comico che si sostenga che la recente riforma del processo societario che costituisce la anticipazione della generale riforma del processo civile in corso, abbia introdotto un meccanismo analogo a quello americano nel prevedere una fase preliminare preparatoria del procedimento costituito dallo scambio di atti direttamente fra le parti, prima di rivolgersi al giudice, perché, in realtà, della fase preparatoria del processo civile americano, si è preso proprio la parte che non serve, che serve meno, anche volendo immaginare che non sia utile far si che le parti si confrontino immediatamente con il giudice sin dall'avvio della fase preparatoria.  Idea discutibile anche sul piano atistico, perché è vero che la fase preparatoria comporta un'esibizione reciproca delle prove che però non è anche acquisizione delle stesse a giudizio, diversamente da quanto accade da noi, ove l'esibizione del materiale probatorio ne implica anche l'acquisizione al processo, mentre nella fase preliminare anglo-americana, le prove vengono esibite reciprocamente dalle parti negli studi legali dei difensori, ma questa esibizione non comporta acquisizione a giudizio e nel caso in cui si giunga al dibattimento le prove dovranno essere nuovamente assunte per poter essere utilizzate ai fini della decisione.

Finché rimane, come di fatto rimane, la possibilità di riservare ad un momento successivo la fase preliminare, la deduzione dei mezzi di prova a se favorevoli, sembra impossibile che lo svolgimento della fase preliminare, in quanto tale, possa favorire il raggiungimento della conciliazione. Quindi se si vuole incentivare questo tipo di strumenti bisogna pensare, a prescindere dal problema dell'utilizzazione della fase preliminare come strumento per l'indagine privata, quanto meno all'introduzione di una regola che preveda la necessità dello scambio preliminare a pena di preclusione dei mezzi di prova, altrimenti questa fase preliminare altro non è che mera dilazione, perdita di tempo, e atti processuali che vengono fatti are alle parti e al sistema, nel suo complesso, senza nessuno scopo; in un sistema che favorisce un ceto professionale, chissà quale, come al solito sempre quello! Senza che ne derivi alcun vantaggio all'efficienza dell'amministrazione della giustizia.

Si può andare oltre a questa considerazione, se sia sensato, in effetti, raggiungere una conciliazione, come in Germania, dove il giudice si pronuncia dopo sei mesi, quindi perché devo raggiungere una conciliazione?

·    La giurisdizione

La prima cosa da domandarsi, parlando di questo argomento, è quale sia esattamente il significato della parola "giurisdizione".

Nel linguaggio codicistico, l'espressione viene utilizzata per fare riferimento a cose diverse, anzitutto possiamo intendere la giurisdizione come attività di attuazione della volontà concreta della legge, possiamo però anche intendere l'espressione come riferita al potere di compiere validamente tale attività, e ancora per fare riferimento al complesso degli organi provvisti del potere di compiere tali attività.

Orbene, prendendo le mosse della concezione della giurisdizione come attività, tradizionalmente è abbastanza facile distinguere la giurisdizione dalla legislazione che impone norme generali astratte, nonché sul versante positivo opposto, dalle attività meramente materiali attuative dell'ordinamento.

Tradizionalmente meno facile, è distinguere la giurisdizione dall'amministrazione, perché entrambe concretizzano norme astratte.

Si sono proposte diverse soluzioni, per esempio si è immaginato che la giurisdizione si caratterizzi perché sussiste nella tutela di diritti soggettivi, cioè, di situazioni di vantaggio attributivi di beni della vita, però, prevalentemente si ritiene che questo criterio di distinzione finisca per essere troppo restrittivo, che si debba qualificare come giurisdizione anche altre attività non propriamente l'organo di tutela di diritti soggettivi, posizioni di vantaggio aventi consistenza diversa, per esempio, come abbiamo accennato, quella della tutela del possesso.

Ancora, secondo alcuni si potrebbe individuare il tratto dell'attività giurisdizionale nella sua idoneità alla formazione dell'effetto della cosa giudicata, ma anche qui, l'opinione prevalente è che il criterio sia fin troppo restrittivo, poiché, come abbiamo visto, la giurisprudenza della Consulta esclude che vi sia una garanzia costituzionale del giudicato civile e permette che l'attività di tutela, anche di situazioni di vantaggio dei un diritto soggettivo, possa tradursi in provvedimenti provvisti di gradi di stabilità diversi da quello caratteristico della cosa giudicata in senso sostanziale in senso pieno.

Ancora! Si potrebbe immaginare che l'attività giurisdizionale si qualifichi per la presenza del contraddittorio delle parti interessate, ma a sua volta questo criterio non può ritenersi accettabile perché è troppo ampio e può anche essere, inoltre, ritenuto un criterio troppo restrittivo, laddove lo si intenda che sia caratteristico della giurisdizione un contraddittorio a struttura bilaterale.

Forse c'è questo tipo d'idea, dietro alle concezioni di chi nega il carattere propriamente giurisdizionale dell'attività detta di giurisdizione volontaria, come accennato, che il giudice non sarebbe terzo.

In realtà, il criterio distintivo dell'attività giurisdizionale è fondamentalmente quello di essere l'attività svolta dagli organi qualificati come giurisdizione.

Questa soluzione è imposta dal sistema di rapporti fra i poteri dello Stato, in particolare in relazione alle esigenze del controllo incidentale di legittimità costituzionale della legge, perché questo controllo, sì, può essere promosso da organi di vertice del potere esecutivo in certi casi, ma il meccanismo privilegiato è quello del sindacato incidentale di legittimità costituzionale promosso da qualsiasi organo giurisdizionale nel corso dello svolgimento della sua attività, in ragione della indipendenza assicurata dalla stessa Costituzione a tali organi, sia nei confronti degli altri poteri dello Stato, sia reciprocamente.

Ne consegue che, come la Consulta ha sottolineato, l'attività svolta da tali organi va qualificata come giurisdizionale anche se non tutela diritti soggettivi ma situazioni di vantaggio di consistenza diversa, tali da suggerire che su di essi non si formi il giudicato sostanziale o che su di essi si provveda senza contraddittorio bilaterale, perché manca la bilateralità del conflitto, come accade nel procedimento di autorizzazione alla vendita dei beni del minore, ferma restando la salvezza del diritto al contraddittorio bilaterale, comunque è l'unica in qualsiasi parte direttamente interessata al contenuto del provvedimento richiesto è certamente costituzionalmente garantito.

Ciò perché, per evitare che altrimenti il legislatore possa, come n effetti in alcuni contesti dittatoriali è avvenuto, eliminare il controllo di legittimità costituzionale con il semplice escamotage di qualificare le situazioni soggettive giuridicamente protette come situazioni diverse dal diritto soggettivo. Quindi, il legislatore, per un servo, è tenuto a prevedere che esistano organi indipendenti provvisti del potere di tutelare le situazioni di vantaggio giuridicamente protette mediante la concretizzazione dello norme astratte, e non può impedire che tale attività sia qualificata come giurisdizionale e sia come tale idonea a dar luogo al sindacato di legittimità.

Ma non è chiaro quali siano gli organi giurisdizionali, questo potrebbe sembrare vero, magari adesso alla luce della proliferazione delle cosiddette autorità indipendenti  di cui si discute se abbiano o meno carattere giurisdizionale e coloro che lo affermano lo fanno per sostenere l'ammissibilità della promozione del sindacato in via incidentale del controllo di legittimità costituzionale già in quella sede.

In vero, appare preferibile l'interpretazione secondo cui l'ordinamento non è affatto ambiguo in questa materia, la qualificazione degli organi come giurisdizionali si ricollega ad indicazioni precise da cui discendono regole ineludibili in tema di selezione, di progressione di carriera, dirette a proteggere l'indipendenza degli organi stessi, queste indicazioni consentono di individuare gli organi giurisdizionali e quindi di parlare della giurisdizione come complesso di organi, oltre che come attività e potere, nonché di comprendere la portata dei molti aggettivi che sovente accomnano l'espressione "giurisdizione".

Da questo punto di vista, occorre riprendere la varietà di significati che l'espressione può assumere, sotto il profilo del tipo di attività che abbiamo già visto.

In qualche misura, gli aggettivi che connotano la giurisdizione contenziosa distinguendola da quella volontaria ed è appena il caso di accennare che riguarda sempre il tipo di attività svolta alla distinzione tra giurisdizione civile e giurisdizione penale.

Concerne, invece il potere giurisdizionale e anche il complesso degli organi a cui spetta, la distinzione fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione speciale, sicché si parla anche, dal punto di vista degli organi, di giudice ordinario e giudici speciali, per esempio nell'art. 1 del codice di rito, dove si dice che la giurisdizione civile intesa come attività è esercitata dai giudici ordinari, e dal punto di vista del potere, si può parlare di difetto di giurisdizione del giudice ordinario nel disposto dell'art. 37 del codice.

Questo rapido excursus lessicale, ci consente di affrontare la lettura dell'art. 37 esaminando i diversi tipi di difetto di giurisdizione contemplati dall'ordinamento, ossia specialmente la differenza tra di difetto di giurisdizione nei confronti dei giudici speciali e difetto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione.

Si tratta di una distinzione tutt'altro che priva di rilevanza applicativa esaminando l'art.41, ma preliminarmente bisogna chiedersi in cosa consista in difetto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione.

La prima importante osservazione e che questa fattispecie non concerne qui casi in cui il potere giurisdizionale è attribuito giudici amministrativi, che come vedremo tra breve, i giudici amministrativi sono giudici speciali.

La questione relativa al riparto della giurisdizione, del potere giurisdizionale, tra giudici ordinari e giudici amministrativi, è diversa da quella di difetto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione, poiché, quest'ultimo difetto, comporta non già che la causa debba decidersi da parte di altra giurisdizione, di altro complesso di organi previsti dal potere giurisdizionale, bensì comporta che nessun giudice, quindi nessuna giurisdizione possa risolvere il conflitto tramite l'esercizio del potere giurisdizionale.

Si tratta del caso in cui la questione di giurisdizione è una questione di merito, perché trattata come questione di rito ai fine di produzione di effetti di giudicato, si ritiene che non si producano gli effetti di giudicato sostanziali in particolare ai fini della produzione di effetti vincolanti nelle controversie dipendenti, si ritiene quindi, che la sentenza che dichiara il difetto assoluto di giurisdizione, possa produrre effetti a dispetto dell'estinzione del processo in cui è stata resa, soltanto se essa provenga dalla Corte di Cassazione, cioè si idonea a produrre gli effetti del giudicato panprocessuale.

Però è una decisione che comporta che la domanda non possa accogliersi neppure dinanzi ad altro giudice, dato che essa dipende dai profili sostanziali del conflitto e non da aspetti attinenti allo svolgimento del processo.

In che senso dipenda da profili extraprocessuali? Nel senso che secondo la concezione prevalente, nel momento in cui la norma è stata concepita, essa alluda al caso in cui si impugni un atto insindacabile, ma il problema che oggi questo istituto pone in sostanza è il seguente.

Ai sensi dell'art. 113 della Costituzione, la tutela giurisdizionale non può mai essere esclusa per particolari categorie di atti della P.A., quindi sembra lecito domandarsi se la norma nella misura in cui alludeva alla insindacabilità dei cosiddetti atti politici di governo, possa ritenersi implicitamente abrogata o, perlomeno, costituzionalmente illegittima.

Il dubbio è sensato! Infatti, questo non comporta automaticamente che in concreto si possa ottenere tutela di situazione di vantaggio rispetto ad atti come la nomina del presidente del consiglio.

Ma perché questo accade? Rispetto a questi atti non sussistono posizioni giuridiche differenziate di vantaggio, cioè, non sussistono situazioni di vantaggio ascrivibili ad un soggetto particolare rispetto alla generalità dei consociati, sicché manca la legittimazione a far valere gli eventuali vizi di questo atto.

Il problema è che parliamo di difetto di legittimazione e se parliamo di difetto di giurisdizione parliamo di due cose diverse! Tant'è vero che, questo tipo di difetto di legittimazione consistente in una carenza di posizione soggettiva di vantaggio tutelata dall'ordinamento, può verificarsi anche in controversie tra privati, infatti, la giurisprudenza della Cassazione per lungo tempo ha ritenuto che questo tipo di ipotesi fosse soggetta ad identico regime, cioè anche in questa ipotesi si potesse invocare la sussistenza di un difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario.

In particolare ai fini della possibilità di esperire il regolamento preventivo di giurisdizione, perché si riteneva, soprattutto nel periodo immediatamente successivo all'emanazione del codice di rito, che questa impostazione permettesse di conseguire risultati di economia processuale, in quanto, la decisione sul punto poteva fondarsi anche sulla prospettazione attoria, ovvero sia, poteva essere resa in iure sulla base dell'applicazione del diritto vigente al caso concreto prospettato dalla parte, senza bisogno di provvedere all'assunzione di mezzi di prova intorno ai fatti dedotti in giudizio.

Risultava sensato permettere, secondo la Cassazione, alle parti di avvalersi del regolamento di giurisdizione, perché questo permetteva di ottenere immediatamente una decisione da parte della Cassazione addirittura preventiva rispetto alla decisione del giudice di merito, e di giungere celermente alla definizione della causa.

Questa interpretazione, però, è stata abbandonata, soprattutto allorché ci si è resi conto di come lo strumento del regolamento preventivo di giurisdizione, in realtà, lungi dal permettere il conseguimento di risultati di economia processuale, poteva essere utilizzato con finalità abusive e dilatorie e l'ampliamento in via interpretativa del suo ambito di applicazione si rivelava controproducente.

Per la Cassazione è stato più facile ammettere che non si qualificasse come questione di giurisdizione, la questione della cosiddetta improponibilità assoluta della domanda fra privati, e ammettere che non si qualificasse come questione di giurisdizione deducibile tramite regolamento preventivo, ovvero sia, che non fosse più applicabile nell'ordinamento italiano la disciplina del difetto di giurisdizione rispetto a particolari categorie di atti della P.A. come gli atti politici o di governo. Perché? C'è dietro una vicenda legata ai rapporti fra giurisdizioni, ossia, la Cassazione ha continuato a qualificare l'ipotesi di questa sorte, come ipotesi di difetto di giurisdizione, soprattutto perché queste si presentavano nel contesto di procedimento promossi dinanzi la giurisdizione amministrativa.

Perché questa circostanza induce la Cassazione ad intendere in senso ampio il concetto in questione di giurisdizione comprendendovi anche ipotesi in cui sussista un difetto di legittimazione ad agire rispetto all'impugnazione dell'atto della P.A.?

La risposta si trova nell'art. 11 della Costituzione, che ci spiega che la Cassazione, intende in senso ampio la questione di giurisdizione, quando si tratti di procedimenti verso il giudice amministrativo.

Dato che la Cassazione può esercitare il suo sindacato sulle decisioni della giurisdizione amministrativa soltanto per motivi inerenti la giurisdizione ecco che in quel contesto, la mozione di motivo inerente la giurisdizione rescinde. Quest'orientamento si spiega considerando che le sentenze dalla Corte di Cassazione non sono ulteriormente impugnabili per motivi di legittimità, di fatto, se la Cassazione interpreta una norma di legge in modo illegittimo non ci sono strumenti di reazione a disposizione della parte che vi sia vittima, quindi occorre prendere atto, nella circostanza che la Cassazione, ha piacere di esercitare i propri poteri di sindacato anche al di la dei limiti previsti dalla legge per l'esercizio di questi stessi poteri.

Secondo il piano teorico, questa interpretazione è scorretta ed molto più attendibile l'interpretazione, secondo la quale, il difetto assoluto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla P.A. non può essere sopravvissuto all'entrata in vigore della Costituzione.

Ritornando al tema generale, possiamo riprendere il concetto di giurisdizione sottolineando come l'attuazione della volontà concreta della legge mediante organi che l'ordinamento qualifichi come giurisdizioni tali che costituzionalmente doveroso costituire garantendo l'indipendenza e conferendo il potere di risolvere i conflitti non solo tra individui, anche tra essi e lo Stato ovvero anche rispetto alle formazioni sociali in cui si manifesti la personalità individuale e così via.

Qui possiamo concepire una garanzia della giurisdizione, la qualifica che siano organi giurisdizionali così conurati, cioè che fosse garantita indipendenza ad essere provvisti del potere di risolvere i conflitti attuando la volontà concreta della legge, che è una garanzia complementare alla garanzia dell'azione la quale implica rispetto ad ogni situazione di vantaggio sostanziale protetta dall'ordinamento attributiva di un bene della vita, si possa conseguire una tutela attuativa della volontà concreta della legge attraverso queste garanzie.

Quindi la proliferazione di metodi alternativi di risoluzione di conflitti alternativi rispetto a quello giurisdizionale non sia in diretto contrasto con queste garanzie costituzionali quando tali metodi si affiancano a quello giurisdizionale senza mai impedire che il metodo giurisdizionale possa comunque utilizzarsi.

Però corra anche il rischio di svuotarle di contenuto, sicché anche tale tecnica sembra potersi criticare, perché invece di affrontare il problema dell'inefficienza del processo sembra prenderne atto per ovviarvi per vie traverse.

Ciò premesso, possiamo immaginare anche una garanzia della giurisdizione ordinaria?

La Costituzione vieta l'istituzione di giudici speciali. Ma in cosa consistono i giudici speciali?

In prima approssimazione potremo pensare che il giudice speciale sia un giudice particolarmente versato in una certa materia a cui sia conferito in via esclusiva di risolvere conflitti attuando la volontà concreta della legge nelle controversie attinenti a tale materia. Si tratta di una buona idea?

La soluzione affermativa è meno pacifica di quel che può sembrare a prima vista!

Nell'ordinamento italiano la selezione dei magistrati avviene in ragione delle loro competenze tecniche, sicché tutta l'amministrazione della giustizia è un compito specialistico è non è alla portata del cittadino comune, però in altri paesi, tutt'altro che arretrati, prevale un ideale di segno opposto per cui ogni cittadino può assurgere a qualsiasi tipo di carica pubblica.

Nel campo dell'amministrazione della giustizia, è fondamentale l'istituzione della giuria che da modalità di partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia molto diversa da quelli delle Corti d'Assise dell'Europa continentale, perché nelle Corti di Assise i giudici popolari partecipano ad un collegio in cui sono presenti anche i giudici togati o professionisti, i quali guidano la decisione e nella remota eventualità che finissero in minoranza possono vanificare la decisione della maggioranza con la tecnica della motivazione suicida.

Invece la giuria è un giudice unico del fatto, un fatto inteso come aspetto di qualificazione giuridica, perché la giuria anglosassone non si limita a dite che Tizio ha ucciso Caio, dice Tizio è colpevole di omicidio! Poi, la giuria non motiva, perché la motivazione richiede e premia competenze giuridiche di tipo tecnico anche perché la funzione è quella di fornire un resoconto per giungere ad una decisione. È piuttosto, la sua funzione è di dimostrare a posteriori che esisteva un iter logico suscettibile di condurre alla decisione.

Ora, il pro e il contro della tecnicizzazione dell'amministrazione della giustizia sono abbastanza ovvi! I professionisti del diritto sono capaci di applicare più accuratamente norme generali ed astratte e sono più abili a dare l'impressione di farlo quando non lo fanno, agli organi sopraordinati che provvedano al riesame della decisione attraverso tecniche di qualificazione della fattispecie.

I giudici dilettanti, decidono più visibilmente in base a considerazioni emotive, non standardizzate.

Il grande vantaggio della diffusione della partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia al prezzo di una visibile imprecisione nell'attuazione della volontà concreta della legge, considera la circostanza che i cittadini siano meno portati a vedere il diritto come un corpo estraneo ad essi imposto, rispetto al quale le più ammirate abilità si dimostrino nell'individuare falle che consentano di eludere l'applicazione, un ordinamento che si partecipa attivamente ad attuare tramite proprie decisioni, può facilmente essere sentito come un valore proprio e condiviso, sicché la partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia, può aiutare nel lungo periodo  a diffondere la cultura della legalità.

 Altrettanto ovvio e che nell'ordinamento italiano l'amministrazione della giustizia sia fortemente deficizzato e burocratizzato, che ci viene dall'eredità napoleonica rispetto alla quale in Italia si sono fatti dei progressi, perché il metodo del reclutamento dei magistrati tramite concorso per prove ed esame è stato inventato in Italia dal ministro Zanardelli, perché i francesi avevano elaborato il sistema del concorso, ma era un concorso per titoli.

È naturale che in Italia si sviluppi una specializzazione estrema sia forme specializzazione giuridica al quadrato, cioè specializzazioni in speciali branche del diritto, sia forme di specializzazioni interdisciplinari, per esempio abbiamo psicologi componenti del Tribunale per minorenni, funzionari del genio integrare la composizione dei Tribunali delle acque pubbliche.

Quindi, è naturalissimo che la ripartizione del potere giurisdizionale si fondi largamente sul criterio della materia, mentre gli ordinamenti che apprezzano maggiormente il dilettantismo giudiziario, tendono a preferire una ripartizione del potere giurisdizionale su base territoriale, perché si concepiscono le giurisdizioni come espressioni delle comunità.

È naturale domandarsi, se la tendenza dell'ordinamento italiano è verso la specializzazione, perché la Costituzione vieta l'istituzione di giudici speciali? Per favorire il dilettantismo e la partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia non davvero! Certamente no! E nemmeno basta del tutto, la ragione storica dettata dal timore che sia più facile attentare all'indipendenza dei giudici speciali, perché si potrebbe rispondere che anche l'indipendenza di quest'ultimi è garantita dalla Costituzione.

Il vero problema, perché la tendenziale unitarietà del potere giurisdizionale, deve considerarsi necessaria affinché il potere giurisdizionale possa, se necessario, contrapporsi efficacemente agli altri poteri nel gioco di pesi e contrappesi che caratterizza il sistema democratico.

Se il legislatore potesse liberamente frammentare la giurisdizione, potrebbe creare una competizione interna al potere giurisdizionale che finirebbe per indebolirla nel disegno dei quadri costituenti.

Tuttavia, il legislatore costituente non si è spinto fino ad eliminare tutte le giurisdizioni speciali, anzi, ne ha addirittura costituzionalizzate alcune, e soprattutto ha previsto una regola che non esclude affatto la specializzazione del giudice.

Il divieto d'istituzione di giudici speciali, è del tutto compatibile con l'istituzione di forme di giustizia specialistica, purché queste facciano salvo il principio della tendenziale unitarietà del potere giurisdizionale, sia forme di specializzazione al quadrato, sia forme di specializzazione interdisciplinare, quindi, si possono introdurre creando le cosiddette Sezioni specializzate nell'ambito della magistratura ordinaria.

Se ci troviamo al cospetto di un giudice, competente a risolvere conflitti attuando la volontà concreta della legge in particolari materie! E magari, caratterizzato da una composizione integrata da specialisti di discipline non giuridiche! Come facciamo a capire se è un giudice speciale appartenente ad una diversa giurisdizione, o è un giudice specializzato facente parte della magistratura ordinaria?

Anche qui ci viene in aiuto la Costituzione! La questione è importante ovviamente, perché occorre impedire che il legislatore istituisca tutti i giudici speciali che vuole chiamandoli specializzati, inoltre, è importante perché la questione del riparto del potere di risolvere il conflitto fra giudici ordinari e giudici speciali, è, come vedremo, profondamente diversa da quella del riparto del potere fra giudice ordinario e giudice specializzato.

Perché la prima è propriamente una questione di competenza giurisdizionale, rilevabile in ogni stato e grado del processo e deducibile tramite regolamento preventivo di giurisdizione, mentre la seconda si qualifica come questione di competenza non giurisdizionale, quindi rilevabile in giudizio in prima udienza di trattazione, e deducibile tramite regolamento di competenza soltanto in via d'impugnazione contro una sentenza che abbia pronunciato sulla questione stessa, in quanto, non si discute sulla spettanza del potere giurisdizionale, alla giurisdizione, intesa come complesso di organi ordinari.

In prima battuta, il criterio è esclusivamente formale, consiste nella regolamentazione dell'organo giudiziario specialistico in quella legge che è denominata ordinamento giudiziario, però, naturalmente attraverso il sistema delle riserve costituzionali, che prescrivono che sia una riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario.

Alla luce del sistema costituzionale, questo criterio ha una valenza importante perché l'inquadramento dell'organo nell'ambito della legge denominata "ordinamento giudiziario", a sua volta implica l'attribuzione a tale organo delle garanzie che spettano ai giudici ordinari.

Abbiamo un esempio concreto, illustrativo di come si applichi questo criterio pensando ai Tribunali delle acque pubbliche. Si hanno Tribunali Regionali delle acque pubbliche e un Tribunale Superiore delle acque pubbliche, per alcune categorie di controversie, il Tribunale Regionale delle acque pubbliche (organo giudiziario di 1° grado), e la sentenza si impugna presso il Tribunale Superiore delle acque pubbliche. In altre ipotesi il Tribunale Superiore delle acque pubbliche è l'unico giudice di 1° grado, ebbene, nella legge sull'ordinamento giudiziario troviamo disciplinato il Tribunale Regionale delle acque pubbliche e non il Tribunale Superiore delle acque pubbliche, pertanto, il Tribunale Superiore delle acque pubbliche si qualifica come giudice speciale, mentre il Tribunale Regionale delle acque pubbliche è giudice ordinario specializzato.

Pertanto, se dinanzi al Tribunale Superiore delle acque pubbliche si discuta se la controversia rientri o meno tra quelle attribuite in primo grado allo stesso Tribunale Superiore delle acque pubbliche, ovvero, al giudice ordinario la questione si qualifica come questione di giurisdizione.

Se invece, anche dinanzi al Tribunale Superiore delle acque pubbliche, ma adito quale giudice d'appello, si discute se la causa spettasse già in primo grado al Tribunale Regionale delle acque pubbliche, ovvero al giudice ordinario, anche se la questione, a questo punto, viene coltivata dinanzi al Tribunale Superiore delle acque pubbliche, che pure sarebbe un giudice speciale, tale questione rimane una questione di competenza e non di giurisdizione perché relativa al riparto del potere giurisdizionale fra Tribunale Ordinario e Tribunale Regionale delle acque pubbliche.

·    I giudici speciali

Un problema abbastanza delicato si è posto a proposito delle commissioni tributarie, istituite con D.lgt. 546/92, abbiamo violato il divieto d'istituzione dei giudici speciali?

Parrebbe di sì, ma si riesce a dire di no, osservando che questa nuova disciplina ha solamente trasformato una giurisdizione speciale preesistente attraverso nuove regole sulla selezione dei componenti, sul procedimento, ma senza introdurre un riparto su di una nuova materia, ossia, rispetto a quella materia già esistevano giudici speciali diversi, adesso ci sono giudici speciali aventi altre caratteristiche, ma, siccome i confini della materia attribuita alla giurisdizione speciale non sono mutati, si è giunti alla conclusione che questa nuova disciplina non crei un nuovo giudice speciale, anche se in questo caso non si è introdotta a nuova giurisdizione speciale, ma soltanto intesa come riferita all'oggetto dell'attività giurisdizionale, quindi non più ne all'attività ne al complesso degli organi  o al potere, ma soltanto alla materia che forma oggetto delle decisioni di quel potere.

I giudici speciali più importanti sono quelli costituzionalizzati, la Corte dei Conti, il Consiglio di Stato, e in particolare ci interessa la giurisdizione amministrativa sugli interessi legittimi costituzionalizzata dall'art. 103.

In cosa consiste la tutela degli interessi legittimi contemplata anche dall'art. 24, il presupposto, ovviamente, e che in ordinamenti come il nostro, storicamente non esiste pari ordinazione tra Stato e cittadino.

Il primo si trova in una posizione di supremazia che rende, in linea di massima, superfluo utilizzare il processo come mezzo per risolvere il conflitto, perché lo Stato può incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del cittadino attraverso i propri atti. Non ha bisogno del giudice! Perché gli atti della P.A. sono intrinsecamente esecutori, sicché i conflitti fra Stato e cittadino sottoponibili alla giurisdizione, sono essenzialmente asimmetrici, perché, fondamentalmente è il cittadino ad vere bisogno di tutela.

Questa tutela può provenire dall'autocontrollo della stessa P.A., quindi si possono prevedere vari meccanismi che permettono al cittadino di chiedere il riesame o la revoca dei provvedimenti che lo riguardano, soprattutto ai superiori gerarchici, coloro che li hanno emanati, ma questa è una tutela interna non è una tutela giurisdizionale, perché non proviene da un organo terzo in senso proprio, perché è un organo che persegue gli stessi fini dell'organo che aveva emanato l'atto impugnato in ipotesi contrastanti con quella del cittadino.

In questa materia, occorre seguire l'evoluzione storica della disciplina per riuscire a fare ordine! Ed il primo intervento, immediatamente successivo alla nascita di questa Nazione, legge 2148  del 1865 allegato E, in cui si prevede che la tutela dei diritti soggettivi del cittadino nei confronti della P.A. sia ammessa dinanzi al giudice ordinario con alcune limitazioni, in particolare escludendo che il giudice ordinario possa annullare atti amministrativi, sulla base di una particolare concezione della separazione dei poteri dello Stato.

Nell'esercizio dell'attività amministrativa rientrano necessariamente dei margini di discrezionalità che non debbono essere invece propri dell'attività giurisdizionali in senso stretto, però si ammetteva anche che questa tutela potesse aver luogo sia pure in presenza di un atto amministrativo, allorché, l'atto amministrativo fosse stato illegittimo, perché il giudice ordinario poteva in via incidentale conoscere dell'illegittimità dell'atto amministrativo e quindi disapplicarlo al fine di condannare la P.A. al risarcimento dei danni.

 Il passo successivo è costituito dalla legge 5992 del 1889, con cui viene costituita una quarta Sezione del Consiglio di Stato e viene introdotto un meccanismo generale di ricorso per l'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo a tutela degli interessi del cittadino, cioè di una posizione di vantaggio differenziata, tale da rendere il cittadino istante, più direttamente interessato, rispetto alla generalità dei consociati, allo svolgimento dell'azione amministrativa secondo il canone di legalità. L'esempio classico noto a tutti è quello del concorso pubblico! Il candidato al concorso è titolare di una posizione differenziata che lo rende maggiormente interessato rispetto alla generalità dei cittadini allo svolgimento del concorso secondo il canone di legalità.

Si fa vedere quindi la coincidenza dell'interesse differenziato del privato con l'interesse pubblico allo svolgimento dell'azione amministrativa immune da vizi di competenza, eccesso di potere o in generale violazione di legge.

Dopo un acceso dibattito dottrinale, si giunse a concludere che questo rimedio previsto dalla legge del 1889, si dovesse considerare non già come un rimedio puramente interno, bensì propriamente giurisdizionale. L'attività di questa giurisdizione amministrativa andò complessivamente ad espandersi fino ad entrare in competizione con la giurisdizione ordinaria, sulla base di un argomento riassumibile in questi termini.

Finché c'è soltanto la tutela interna è logico che il giudice ordinario disapplichi l'atto amministrativo illegittimo, ma ora c'è una giurisdizione amministrativa di annullamento per conoscere dell'illegittimità dell'atto, e questa valutazione spetta al giudice amministrativo e non al giudice ordinario in via incidentale.

Correlativamente, si andò formulando la teoria secondo cui il diritto soggettivo in presenza di un atto amministrativo si affievolisce, degrada, diventa un interesse legittimo e solo una volta dichiarata l'illegittimità dell'atto, ma da parte della giurisdizione amministrativa, ridiventa un diritto soggettivo spendibile dinanzi al giudice ordinario, e anche non volendo assumere una posizione così forzata, resta il fatto che risulta difficile negare in questo tipo di situazioni la sussistenza di una pregiudizialità della controversia presso il giudice amministrativo rispetto alla controversia presso il giudice ordinario, perché ricordiamo il ragionamento fatto intorno all'art. 34 ecco che questa fattispecie sembra rientrare in una di queste ipotesi, perché l'accoglimento della domanda presuppone la risoluzione di una questione pregiudiziale e almeno allorché, qualcuno chieda al giudice amministrativo che tale questione pregiudiziale, quella dell'illegittimità dell'atto amministrativo, venga risolta con efficacia di giudicato dinanzi a quell'organo, ecco che il giudice ordinario diventa costretto a sospendere il giudizio dinanzi a se sino al passaggio in giudicato della decisione sull'impugnazione dell'atto amministrativo davanti ad altra giurisdizione.

Avremo quindi, in molte ipotesi quella che sembra essere una ridondanza giurisdizionale, cioè l'attore titolare di un diritto soggettivo inciso da un atto amministrativo illegittimo, sembra avere a disposizione due strumenti di tutela e quindi di godere di una tutela forzata.

In realtà l'attore può giovarsi delle ridondanze giurisdizionali soltanto in sistemi in cui non si abbia un controllo regolare e sistematico del riparto della giurisdizione perché, in questo caso può darsi che si riesca ad ottenere una doppia tutela, ma in un sistema come il nostro, in cui, proprio sulla violazione dei sistemi di riparto è regolare, sistematico, ufficioso, la teoria che secondo cui l'istituzione della giurisdizione amministrativa ha favorito il cittadino, vale soltanto per quell'ipotesi in cui il cittadino era titolare di un vero interesse legittimo, non nel caso del titolare del diritto soggettivo degradato, perché costui, invece, per effetto della pubblicità del binario si trova costretto, per avere una tutela piena, ad affrontare due processi, anziché uno solo! E dando che fare i processi costa, la situazione è sfavorita dalla duplicità giurisdizionale.

Perché il giudice amministrativo non condanna al risarcimento e il giudice ordinario può tutelare solo previo l'annullamento dell'atto.

Infatti succede che l'ordinamento caratteristico del regime previgente precostituzionale in alcuni casi questo non era necessario. In quali casi, ossia quali erano i casi della cosiddetta giurisdizione esclusiva in cui si poteva ottenere dinanzi ad un unico giudice la tutela sia del diritto soggettivo sia del dell'interesse legittimo senza limitazione alcuna?

Il settore delle controversie del pubblico impiego, perché il grande bacino di consenso del regime, i cocchi di Mussolini i pubblici dipendenti! A loro sì, basta un processo solo!

Poi con la Costituzione, il regime del doppio binario è andato via via attenuandosi.

Si è riconosciuto che non poteva prodursi alcun affievolimento del diritto soggettivo e quindi doveva ritenersi possibile conseguire una tutela piena della situazione di vantaggio dinanzi al giudice ordinario in una buona serie d'ipotesi.

Innanzi tutto si è detto che i casi di carenza del potere amministrativo è da distinguersi rispetto ai casi di cattivo esercizio del potere amministrativo, si è detto ancora, con altra formulazione, che allorquando si fosse affermata la violazione da parte della P.A. di norme regolanti la relazione tra Stato e cittadino anziché di norme regolanti l'azione amministrativa.

Ancora! Affermando che la degradazione del diritto soggettivo presuppone l'esercizio di una discrezionalità amministrativa ispirata ai criteri dell'efficienza del buon andamento della P.A. e quindi, non si verifica non soltanto tutte le volte in cui l'attività della P.A. è veramente materiale e non giuridica, questo è banale! Addirittura si esclude l'esercizio di discrezionalità amministrativa tale da rendere necessario l'annullamento dell'atto tutte le volte che l'atto si compie in base a valutazioni squisitamente tecniche.

Ancora! Riconoscendo che sussistono diritti soggettivi fondamentali insuscettibili di degradazione alcuna per effetto dell'azione amministrativa e naturalmente il campo privilegiato d'applicazione di questa teoria è stato quello del cosiddetto "diritto alla salute".

Ultimo fronte, che si va affermando è quello della tutelabilità nei confronti della P.A. dinanzi al giudice ordinario persino in quelle situazioni soggettive qualificabili come situazioni veramente possessorie e quindi nemmeno qualificabili come diritti soggettivi tuttavia, parrebbe essere tutelabili presso il giudice ordinario.

Per quanto la giurisdizione esclusiva, è accaduto col tempo che molti dei privilegi attribuiti dalla legislazione precostituzionale, ai pubblici dipendenti, sono venuti meno sia in termini assoluti, per esempio la Consulta ha progressivamente ampliato la sfera della pignorabilità dei loro stipendi, la vecchia regola era che non poteva pignorare nulla perché era esercizio dell'attività amministrativa anche are lo stipendio, sia soprattutto in termini relativi man mano che si estendeva la tutela dei lavoratori nel sistema privato.

Dapprima, la Consulta ha svolto un certa funzione riequilibratrice modificando la disciplina del procedimento dinanzi al giudice amministrativo in materia di tutela di diritti soggettivi dei pubblici dipendenti, estendendo i margini della tutela cautelare in quel settore, mossa questa resa inevitabile dall'aumento del contenzioso e dall'introduzione del giudice amministrativo.

Prima esistevano limiti alla tutela cautelare dinanzi al giudice amministrativo che era prevista solo per le posizioni soggettive di contenuto positivo, cioè esisteva solo la sospensione dell'atto e non anche per quelle di contenuto pretensivo.

Sia prevedendo che in materia di tutela di diritti soggettivi non potessero applicarsi i limiti all'istruzione probatoria che caratterizzavano invece la tutela degli interessi legittimi che si svolge su base prettamente documentale.

Con la riforma del pubblico impiego la giurisdizione sul contenzioso relativo a questa materia e stata attribuita al giudice ordinario.

Salva la necessità di ricorso al giudice amministrativo in ipotesi di atti macro organizzativi, soprattutto affermando che mai può essere subordinata, la tutela, alla rimozione dell'atto amministrativo presupposto, questo, se illegittimo, si dispone che possa sempre essere disapplicato senza attendere la declaratoria del giudice amministrativo e inoltre che possa sempre pronunciarsi, nei confronti della P.A., sia provvedimento di condanna sia anche provvedimento di carattere costitutivo di accertamento ai fini della tutela della posizione soggettiva del singolo.

C'è qualcosa di strano nel giudice amministrativo! Il C.S.M. aveva vietato ai magistrati ordinari di ricevere incarichi stragiudiziali, perché è ovvio che si prendano soldi!

Per i giudici amministrativi questa decisione non era chiara. A quel tempo, anzi era indiscutibile, in base alle disposizione del loro autogoverno, che i giudici amministrativi potessero riceverli, e tuttora, in qualche misura, è ancora possibile. Ovviamente, quando è pericoloso l'incarico stragiudiziale? È pericoloso quando crea un rapporto privilegiato, con il soggetto che lo conferisce, il quale potrebbe essere un soggetto che si trova ad essere parte in un giudizio dinanzi allo stesso magistrato.

Al giudice amministrativo è stata sottratta la giurisdizione sulle controversie del pubblico impiego, pero per compensarli è stata loro attribuita giurisdizione su alcuni altri settori del contenzioso in materia di appalti pubblici servizi, in materia urbanistica.

È più probabile imbattersi in una parte che in un momento o nell'altro possa conferire un incarico stragiudiziale, quando si gestisce il contenzioso dei dipendenti pubblici o quando si gestisce il contenzioso sugli appalti di pubblici servizi?

E in questo contenzioso è stato conferito loro il potere di condannare al risarcimento dei danni, in sostanza si è cercato di eliminare i casi di raddoppiamento del processo rispettando sia la riserva di legge posta dall'art. 103, in materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sia quella posta dall'art. 113 ultimo comma ai fini del conferimento al giudice ordinario del potere di annullare atti amministrativi, dei quali pure sussiste una riserva di legge che gia in passato era stata utilizzata.

La regola generale è che spetti al giudice ordinario il potere di annullamento di quegli atti amministrativi che abbiano un contenuto sanzionatorio, in base alle disposizioni della legge di depenalizzazione 689/81, infatti nei confronti di questi atti la tutela anche di annullamento spetta al giudice ordinario, è la regola generale, e ci sono alcune eccezioni particolari, per esempio: i provvedimenti sanzionatori dell'autorità di vigilanza sulle telecomunicazioni.

Resta aperto il problema alla luce di questa disciplina il problema di portata sostanziale della risarcibilità della lesione all'interesse legittimo che non sia un diritto soggettivo degradante, sondo alcuni, infatti, si potrebbe evincere dal nuovo sistema di riparto, ma sembra preferibile l'interpretazione secondo cui questo tipo di questione deve risolversi sulla base delle norme sostanziali in particolare dell'art. 2043 del c.c. e non di quelle che riguardano il riparto della giurisdizione e quindi i cosiddetti limiti esterni del potere giurisdizionale ovvero riguardano i cosiddetti limiti interni del potere giurisdizionale con riferimento al divieto di annullamento di atti amministrativi da parte del giudice ordinario, ovvero intorno ai limiti del potere di condannare al risarcimento del danno del giudice amministrativo.

Ma non riguardano direttamente la disciplina della responsabilità civile da fatto illecito, che deve essere rinvenuta nelle disposizioni sostanziali che regolano la materia.

·    Della residenza

La maggior parte dei criteri determinativa la sussistenza della giurisdizione, ad esempio in riferimento alle controversie che presentino un carattere d'internazionalità alla residenza del convenuto, si dice, avere carattere statico sulla base della distinzione dottrinale applicata alla questione di competenza in senso stretto, ma pienamente applicabile anche a fattispecie riconducibili alla disciplina della giurisdizione e lo si dice per contrapporre questi criteri a quelli che sono di particolare interesse per il processualista, meritevoli di approfondimento, si possono dire di avere carattere dinamico alludendo alla circostanza che assuma rilevanza, ai fini della sussistenza della competenza della giurisdizione, la stessa pendenza del processo, e si può ravvisare un primo esempio di come questo possa verificarsi, prendendo in esame il caso della residenza errata, cioè un ipotesi in cui la parte convenuta voglia tentare di sottrarsi al processo modificando la propria residenza nel corso del giudizio. Può essere una buona tecnica?

La cosa è stata dubbia abbastanza a lungo, finché la giurisprudenza degli anni '20 ha preso nettamente posizione e si è finito per recepire nel codice una regola di cui, si è pensato potesse trovare  tracce dal diritto romano da un paio di brocardi uno dei quali è: percitationem perpetuato in iurisditio e l'altro è: ubi iudicium aceptum ibi et finem accipredetet.

Entrambe si giustificano, modernamente ad un principio generale, che deve considerarsi principio riformatore del nostro codice di tanti aspetti della sua disciplina positiva, non quello che abbiamo tra breve a parlare, ma anche la disciplina della successione del diritto controverso nel corso del giudizio e più in generale, la disciplina degli effetti della domanda, cioè la regola per cui la durata del processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione, sicché, si è introdotta nel codice la regola per cui la sussistenza della competenza giurisdizionale si valuta al momento della proposizione della domanda, anziché tra gli effetti della proposizione della domanda giudiziale rientra anche la cosiddetta perpetuatio iurisditio, consistenti in una situazione di vantaggio che ha un contenuto processuale e consente alla parte di conservare il proprio diritto ad una pronuncia sul merito della causa nonostante siano sopravvenute, nel corso del procedimento, situazioni di fatto o modifiche normative che in teoria potrebbero escludere la sussistenza della competenza giurisdizionale del giudice adito.

Nella teorizzazione compiuta nella dottrina precodicistica, già si dovevano individuare alcune ovvie eccezioni a questo principio, in particolare vanno prese in esame un paio di ipotesi.

Una, quella che diventa problematica nell'ipotesi in cui immaginiamo che la parte attrice voglia scegliersi il giudice, potrebbe farlo immaginando che la domanda venga inizialmente prospettata in modo artificioso, in guisa tale da giustificare la sussistenza della competenza del giudice e poi modificata nel corso del procedimento in modo da avere ad oggetto ciò che realmente, fin dall'inizio, interessava all'attore.

Si tratterebbe di una modalità per realizzare una forma di forum schooping, per cui bisogna stare in guardia, perché il principio del giudice naturale non impedisce che l'attore non abbia qualche margine di scelta tra più diversi fori, per la risoluzione del suo conflitto, ma non consente che questa scelta possa essere completamente libera ed arbitraria.

L'altra ipotesi, quella in cui vi sia un fermo intendimento del legislatore di evitare che dinanzi ad un certo ufficio giudiziario possono rendersi pronunce di merito, intendimento talmente fermo da manifestarsi attraverso una vera e propria soppressione dell'ufficio giudiziario.

Il legislatore del '42, ha recepito questa teoria un po' a modo suo, distinguendo ai fini della rilevanza delle sopravvenienze, in tema di sussistenza della competenza della giurisdizione, fra sopravvenienze di fatto e sopravvenienze di diritto, modificazioni della legge vigente.

La distinzione era non del tutto identica a quella formulata dalla dottrina, perché l'ipotesi in cui la modificazione dell'oggetto del giudizio sia determinata da iniziative di parte rivelatrici dell'iniziale artificiosità della prospettazione della domanda, faticosamente si qualificano come modificazioni della legge vigente per un verso, per altro verso, questo tipo di formulazione rendeva immediatamente applicabile in corso di giudizio le modificazioni normative incidenti sulla competenza e sulla giurisdizione, anche quando queste non si traducevano nella vera e propria soppressione dell'ufficio giudiziario, e tutto sommato, se ci caliamo nella mentalità del tempo, non è strano che un legislatore autoritario abbia inteso in questa maniera il principio della perpetuatio iurdisdictio, perché mano libera al legislatore di cambiare giudice a partita in corso era uno sport preferito del Duce, come leggi penale retroattive, e così la formulazione del codice del '42.

Nel corso dell'esperienza applicativa, questo limite di applicabilità della perpetiatio iurisdictionis rispetto allo ius superveniens, cominciò a destare qualche difficoltà, anche operativa, perché, in tutte le occasioni in cui il legislatore si trovava ad introdurre modificazioni, anche indirette,  del regime della competenza giurisdizionale, doveva sempre ricordarsi di aggiungere disposizioni transitorie che facessero salve le risultanze dei procedimenti pendenti, ma quando la produzione legislativa ha iniziato a proliferare in materia, sempre più spesso capitava che il legislatore si dimenticasse di inserire disposizioni transitorie di salvaguardia, determinando consistenti sprechi di attività processuale, poiché, la giurisprudenza era ferma nell'idea che persino laddove si fosse prodotto un giudicato formale affermativo della sussistenza della competenza e della giurisdizione, avendo, questo giudicato una portata non propriamente sostanziale, ma esclusivamente processuale, lo stesso doveva ritenersi inidoneo a prevalere sullo ius superveniens, perché la prevalenza del giudicato sullo ius superveniens è, si diceva, caratteristica propria del giudicato sostanziale e non di quello meramente interno di assistere la pronuncia sulle questioni attinenti al diritto comune.

Dato che il clima politico, sembrava non giustificare più certi tipi di azione, si giunse che fosse opportuno riformulare la disciplina, come in effetti è avvenuto attraverso la riforma del '90 che ha portato alla formulazione vigente dell'art. 5 del codice di rito in base al quale non incidono sulla giurisdizione ne le modificazioni dello stato di fatto, ne quelle della legge vigente successive alla proposizione della domanda.

Questa nuova formulazione, ha destato qualche riserva in una parte della dottrina, in quanto, appariva impeditiva di un'interpretazione, comunque affermatasi nel rigore del testo previgente, secondo la quale, nell'ipotesi in cui venisse adito un giudice incompetente o privo di giurisdizione e nel corso del giudizio sopravvenisse una modificazione normativa che rendesse questo giudice effettivamente provvisto della competenza della giurisdizione, di tale efficacia sanante delle sopravvenienze si poteva tener conto.

Una riflessione accurata sulla ratio, che informa la disciplina della perpetuatio iurisdictionis, importa a concludere che l'efficacia sanante delle sopravvenienze, possa convivere con il principio generale dell'applicabilità della regola della perpetuatio iurisdictionis anche allo ius superveniens, perché nel momento in cui la ratio della disciplina consiste nell'assicurare il diritto di una pronuncia sul merito in tempi ragionevoli, il suo effettivo significato è dato per cui questa non possa essere impedita da una pronuncia sul rito fondata su norme sopravvenute, o su situazioni di fatto sopravvenute alla proposizione della domanda. Ma non impedisce, invece, che una pronuncia sul merito possa rendersi, allorquando questa sia giustificata dalle sopravvenienze normative.

Per cui, il senso dell'art. 5 deve essere inteso in maniera tale che la giurisdizione e la competenza non possano venir meno per effetto di modificazioni dello stato di fatto della legge vigente, senza che ciò impedisca che queste possano validamente sopravvenire per effetto di queste normative e di queste modificazioni.

Diversa è l'ipotesi in cui la disciplina sopravvenuta entri in vigore nel corso di un procedimento di Cassazione, o a seguito di un giudizio di Cassazione, in questo caso, l'applicabilità della vecchia o della nuova disciplina, non comporta accelerazione dei tempi del processo, perché in Cassazione non potrà che essere comunque la Cassazione e ai fini dell'individuazione del giudice competente per il rinvio, non accelera di ritenere competente quello fosse tale in base alla vecchia disciplina o quello che lo fosse in base alla nuova.

In questo contesto entrambe le soluzioni sono accettabili e più in generale, devono ritenersi preferibili anche le interpretazioni che comunque implichino una ridondanza della competenza giurisdizionale, perché implichino che ci siano fasi in cui la parte può ragionevolmente attendersi, per conseguire una pronuncia di merito da due giudici diversi, sia quello che è competente al momento della proposizione della domanda e già si sa che tra pochi mesi diverrà incompetente, perché sta per entrare in vigore una disciplina modificativa del relativo regime, sia quello che a breve diverrà competente pur non essendolo al momento della proposizione della domanda, purché abbastanza breve da diventare competente prima che la competenza stessa venga declinata.

Perché, è perfettamente compatibile con la garanzia del giudice naturale che vi posa no essere margini limitati di scelta a nel foro da parte dell'attore.

In che misura siano accettabili disposizioni transitorie, specificamente derogratrici della regola della perpetutio! Disposizioni transitorie, mediante le quali, il legislatore escluda che il giudice validamente adito, possa pronunciare sul merito della cause pendenti avanti a se.

Si può, fare alla Mussolini di sottrarre il giudice a processo in corso? La Corte Costituzionale si è pronunciata sull'argomento non limitando troppo il legislatore.

Ha escluso che la regola della perpetuatio iurisdictionis, in quanto tale debba ritenersi costituzionalmente garantita.

La sentenza che più aiuta, quanti amerebbero vedere limitate le facoltà legislative in questo settore, riguarda i magistrati, che riteneva incostituzionale una disciplina impeditiva di un esame del merito di cause ritualmente avviate, almeno che, questa disciplina non avesse contenuto satisfattivo delle pretese opposte dalle parti, perciò, si dice poterebbe togliere il giudice, purché si dia ragione alle parti.

In realtà, quello che è una questione di legittimità costituzionale debba porsi, ma dobbiamo capire quale! Anzitutto, possiamo osservare, che, molto diverse sono le implicazioni di uno ius superveniens, immediatamente operativo sulle cause perdenti in materia di competenza e in materia di giurisdizione, perché? Perché, se, si incide solo sul riparto della competenza all'interno della giurisdizione ordinaria, può rendersi applicabile la regola dell'art. 50, chè attraverso il meccanismo della tempestiva riassunzione del processo innanzi al giudice ritenuto competente, ci si può valere degli effetti conservativi della traslatio iudicii, rendere applicabile il disposto dell'art. 50, nella parte in cui dice che il processo continua dinanzi a quel giudice, e quanto meno conservare gli effetti dell'iniziale proposizione della domanda, soprattutto ai fini sostanziali di interruzione a sospensione della prescrizione, impedimento della decadenza, l'obbligo della corresponsione dei frutti del possessore in buona fede, etc..

Il problema si fa più delicato, quando, la normativa incida sul riparto della giurisdizione, perché, qui, l'orientamento costante della giurisprudenza si ritiene che il principio della traslatio iudicii non sia applicabile, quindi, si perdano gli effetti conservativi derivanti dalla composizione della domanda.

In prima battuta, si può pensare che il legislatore non può cambiare la giurisdizione in corso di causa, forse ha la competenza, ma non la giurisdizione! Però, se ci pensiamo bene, dobbiamo tener conto, del fatto che lo ius superveniens, non è sempre l'intervento di un legislatore arbitrario e prepotente, a volte lo ius superveniens, consiste in una declaratoria di illegittimità costituzionale, perché e successo e può succedere che, ad esempio, una certa giurisdizione sia dichiarata incostituzionale, che per una ragione o per l'altra, la previsione di una certa regola di riparto giurisdizionale è proprio quella sia costituzionalmente illegittima, e allora sembrerebbe che dall'illegittimità costituzionale non si possa scappare, o ci si adatta a sopportare di vedere decidere un giudice che ripugna la costituzione, oppure, dobbiamo togliere il giudice alle parti del processo in corso? In realtà esiste una soluzione, per salvare capre e cavoli, che è quella di ritenere che, di fatto, anche nell'ipotesi in cui si ha spostamento della giurisdizione, possano prodursi gli effetti dalla transaltio iudicii e assicurarsi la conservazione degli effetti della domanda.

Rispetto all'art. 50, che nel corso del dubbio di illegittimità costituzionale, nella parte in cui non prevede che la riassunzione possa validamente effettuarsi con effetti continuativi del processo, anche dinanzi ad un giudice appartenete a una diversa giurisdizione rispetto a quella originariamente aditata.

Rimane da discutere, a proposito di questa regola, un'altra eccezione, cioè, quella che riprende l'ipotesi considerata dalla dottrina precodicistica, cioè, l'ipotesi del mutamento dell'oggetto del giudizio derivante da iniziative processuali di parte.

Il tema ha avuto anche una certa attualità applicativa , in fenomeni come quello della privatizzazione del pubblico impiego, perché in correlazione alla trasformazione dell'oggetto del rapporto determinativa del mutamento della competenza giurisdizionale, si giustificava una modificazione dell'oggetto del giudizio che tenesse conto, nel corso del procedimento, gli effetti derivanti dallo ius superveniens.

Qui, il caso che alcuni hanno equiparato a quello immaginato da Chiovenda, deve essere valutato diversamente, perché altra è l'ipotesi in cui la modificazione dell'oggetto del giudizio venga introdotta arbitrariamente dalla parte e faccia sospettare l'iniziale artificiosità della prospettazione iniziale, altro, è il caso dell'ipotesi in cui questa modificazione sia giustificata proprio dall'esigenza di tener conto dello ius superveniens.

In queste ipotesi, è congruo che si possa applicare la regola perpetuatio, quindi di consentire alle parti di modificare l'oggetto del giudizio senza perdere il giudice adito.

D'altronde, nello stesso art. 394 del codice di rito, sia pure con riferimento ad un'ipotesi lievemente diversa, si esprime il principio per cui, quando una corte esterna alle parti qualifica diversamente il rapporto dedotto in giudizio, sia congruo consentire alle parti di modificare le loro conclusioni coerentemente rispetto a questo diverso inquadramento della fattispecie.

L'art. 394, esclude, che a seguito di cassazione con rinvio proprio, le parti possono modificare le loro conclusioni, a meno che, tale modificazione sia resa necessaria proprio dal contenuto della sentenza di Cassazione.

Si è detto, che in realtà, i modelli cognitivi delle diverse giurisdizioni sono a tal punto, incompatibili, da non giustificare che l'oggetto di un giudizio civile possa validamente conoscersi presso il giudice amministrativo e viceversa, ma pare che questa posizione sia frutto di una questione di principio tralatizia rispetto ad epoche in cui era molto marcata la diversificazione della disciplina anche procedimentale tra giudizi civili e amministrative, è un epoca in cui, era ancora fondamentale ai fini del riparto della giurisdizione la distinzione tra situazioni soggettive qualificabili come diritti soggettivi e situazioni qualificabili come interessi legittimi, ma ormai la centralità di questo criterio di ripartizione è largamente venuta meno, il riparto giurisdizionale si fonda molto di più sulla materia controversa, sempre più vaste sono le ipotesi di giurisdizione esclusiva, e del giudice civile, e del giudice amministrativo sicché, pare che in questa incompatibilità si vadano ormai perdendo le tracce, ed è vero che faranno fatica, queste giurisdizioni, ad adattarsi al contenzioso caratteristico dell'altra.

La disciplina positiva prevista dall'art. 37, sembra in qualche modo, più difficile da accettare che una causa sia risolta nel merito da un giudice appartenete ad una giurisdizione diversa da quella individuata staticamente dal legislatore, rispetto che accettare che a decidere sia un giudice provvisto di una competenza diversa, perché la questione di competenza è rilevabile soltanto in limite litis, mentre, la questione di giurisdizione, è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

Il difetto di giurisdizione rispetto al giudice straniero incontra limiti alla rilevabilità d'ufficio per effetto di forme tacite di proroga della giurisdizione italiana, comunque, anche nell'ipotesi di cui all'art. 37 di rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio è impedita dalla formazione di un giudicato interno anche implicito sulla questione di giurisdizione, secondo l'orientamento costante della giurisprudenza.

Si potrebbe dire, che più di una giurisdizione in senso dinamico c'è un accertamento vincolante sulla giurisdizione, però, se consideriamo che questo accertamento può essere anche implicito, la differenza concettuale sembra marcata meno di quel che sembra.

Inoltre, vale la pena di riflettere su quanto sia davvero vincolante la pronuncia in tema di giurisdizione, ai fini della pronuncia sul merito, qui, la norma di riferimento che possiamo individuare è quella posta dall'art. 386, dove si dice che, la pronuncia intorno alla questione di giurisdizione non pregiudica la questione sull'appartenenza del diritto e sulla proponibilità della domanda, perciò, non sembra impedire, affatto che si pronunci sul merito della situazione soggettiva pur avendola riconosciuta come tale da aspettare una diversa giurisdizione, riconoscendola, comunque, compatibilmente con i limiti dei poteri decisori della giurisdizione adita, con riferimento alla questione dei limiti interni del potere giurisdizionale.

Si deve rimarcare, che questo discorso intorno alla prescribilità sulla decisione sul merito, vale in tanto e in quanto, la pronuncia sulla giurisdizione non abbia quel tipo di contenuto, che la farebbe, di fatto, una pronuncia sul merito.

Si allude all'ipotesi del difetto assoluto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla P.A., tuttavia, in misura tenue, anche per le ipotesi di difetto di giurisdizione rispetto al giudice straniero, perché, la pronuncia sulla giurisdizione è vincolante intorno alla giurisdizione, e nel contempo non esclude l'accoglimento della domanda, e anzi, impone che il suo esame nel merito non possa più essere impedito da tutti, intorno alla giurisdizione, in quanto, si affermi la giurisdizione di un giudice dell'ordinamento italiano, magari diverso da quello adito, ma pur sempre dell'ordinamento italiano.

Perché, se si afferma la giurisdizione del giudice straniero attraverso lo spazio giuridico comunitario, il giudice straniero non può subire alcun vincolo dalla pronuncia che gli attribuisca la giurisdizione proveniente da un giudice dell'ordinamento italiano.

L'affermazione del difetto di giurisdizione, conura un difetto assoluto della giurisdizione italiana che nella sostanza equivale al caso del difetto assoluto a causa dei poteri attribuiti alla P.A., comporta sostanzialmente un diniego di tutela: " non avrai il giudice e nemmeno hai guadagnato un giudice di un ordinamento straniero!", perché è ancora tutto da guadagnare, potrebbe a sua volta ritenere che la giurisdizione spetti al giudice italiano, non vi sarebbe uno strumento per dirimere questo conflitto negativo, assicurando la parte che almeno qualcuno dei due la sua domanda nel merito, la conosca.

Per questo motivo, la disciplina del fenomeno, può andare incontro a qualche dubbio di legittimità costituzionale, ma soprattutto, in relazione ad una dinamica che comporta la disciplina positiva del trattamento processuale delle questioni di giurisdizione, possa risultare, ai fini del difetto di giurisdizione rispetto al giudice straniero, ancor più gravemente lesiva delle garanzie costituzionali, nel trattamento processuale del difetto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla P.A..

A questo punto, occorre prendere in esame l'art. 41, l'istituto previsto dal regolamento preventivo di giurisdizione, va spiegato, in larga misura prendendo le mosse dalla sua origine storica.

Il legislatore, l'aveva introdotto, già alla fine dell'800, come privilegio della P.A., con riferimenti ai casi del difetto assoluto di giurisdizione a causa dei poteri alla stessa attribuiti, lo strumento era diretto a impedire che il giudice potesse intervenire, con l'attività amministrativa, financo esaminando l'effetto della causa, già quella, per indebita interferenza.

Di tale istituto, si trova ancora traccia nell'art. 41 comma 2°, nella parte in cui si prevede, che in ogni stato e grado di giudizio la P.A., che non sia parte in causa può adire la Corte di Cassazione, per ottenere dalla stessa una pronuncia dichiarativa del difetto di giurisdizione del giudice adito per il merito. Questa norma è stata applicata pochissimo, perché il regime democratico si è premurato di impedire che venisse esercitato la giustizia civile.

Il legislatore del '42, pensò di estendere la facoltà di avvalersi del rimedio del regolamento anche alle parti, con l'idea di avvalersene come strumento di economia processuale, quindi, conservando l'idea che il mezzo non costituisse un'impugnazione contro una sentenza, ma un mezzo preventivo della pronuncia della sentenza stessa, anzi, ai fini della proposizione di istanza di parte necessariamente preventivo, poiché, contestualmente si poneva una preclusione alla sua proposizione, allorché il giudice fosse pervenuto a una pronuncia sul merito della causa. Quindi, non un mezzo diretto a correggere l'errore del giudice, ma per prevenire l'esame del merito, e ciò vale per tutti i casi di difetto di giurisdizione, non solo nell'ipotesi di difetto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla P.A., ma per la generalità di queste fattispecie impeditive dell'esame del merito della causa.

Dov'è l'idea di economia processuale? Nell'obiettivo di accelerare una pronuncia sulla questione suscettibile di definire il giudizio da parte dell'organo, che su quella questione, possa pronunciare con efficacia di giudicato panprocessuale.

In quel momento, l'entusiasmo per quello strumento, fu tale che lo applicò estensivamente, includendovi i casi di infondatezza in iure della domanda proposta

Ragionando così, perché dobbiamo svolgere un'attività di istruzione probatoria, di raccolta delle prove, di esame nel merito, quando la domanda è infondata in diritto e per dichiararla infondata in diritto può provvedere la Cassazione senza aver bisogno di raccogliere alcun mezzo di prova! Col tempo, la prassi ha rivelato diverse falle tecniche della disciplina.

La mera proposizione del regolamento, comportava un effetto sospensivo immediato della trattazione del merito della causa, perché, l'esame del merito si doveva prevenire, ma tale sospensione si rendeva necessaria a seguito della proposizione del regolamento infondato, del tutto a prescindere dall'esame di apparenza di fondatezza del ricorso.

È chiaro che, se sono convenuto in mala fede, sono immediatamente incentivato a farne uso allo scopo dilatorio, ma c'è di più! Ai sensi dell'art. 387, il ricorso per Cassazione, dichiarato inammissibile o improcedibile, non può essere più riproposto, è il principio della consumazione dell'impugnazione di cui troviamo traccia anche nell'art. 358 con riferimento all'appello, ma il regolamento di giurisdizione non è un mezzo d'impugnazione.

Pertanto il principio è inapplicabile, così, anche se la parte propone appositamente il regolamento, guisa tale da farlo dichiarare inammissibile, questa parte ha piena facoltà di riproporre a piacimento il regolamento stesso, sfruttando l'effetto sospensivo dilatando, quindi, anche potenzialmente in eterno l'esame del merito della causa.

Si prospettò, ovviamente, l'applicazione della disciplina della responsabilità aggravata ex art. 96, ma lo abbiamo già rilevato, quando il comportamento processuale di mala fede si svolge nel corso del procedimento di cognizione, la sanzione di una mera responsabilità risarcitoria per i danni, non ha alcun effetto dissuasivo, perché quali danno ci sono? I danni ci sono se si può creare un comportamento di mala fede che realizzi un pignoramento immobiliare, che promuova un processo esecutivo, ma rispetto al comportamento di male fede nel giudizio di cognizione, i danni consistono, sostanzialmente, nei costi del processo i quali, a maggior parte, sono posti a carico della parte soccombente, anche se soccombente in buona fede e quindi, il differenziale determinato dal comportamento di mala fede è scarso, la sua capacità dissuasiva è modesta.

La Cassazione, cominciò ad affermare che se il regolamento era manifestamente inammissibile, allora il giudice del merito poteva rendersi conto di trovarsi al cospetto non già di un vero e proprio regolamento, ma di solo un suo simulacro, e si prospetta la sospensione e procedere nell'esame del merito della causa. Questa sembrerebbe una buona risoluzione, ma è soltanto un palliativo di un provvedimento che quest'istituto può presentare, così come, quello realizzato dalla riforma del '90, che ha esplicitamente subordinato la sospensione della trattazione del merito della causa a una delibazione da parte del giudice adito per il merito della non manifesta inammissibilità e anche della non manifesta infondatezza dell'istanza di regolamento.

Questo sistema, può funzionare, magari, soprattutto se lo si correla ad altra conclusione, cui la Cassazione era giunta a un certo punto, ma ora non è chiaro se intenda conservarla, cioè l'idea che il regolamento possa essere reso improcedibile dalle sopravvenienze processuali.

Abbiamo appena fatto il discorso per cui, il giudice adito non può esserci sottratto dalle sopravvenienze, ma se parliamo do sopravvenienze ablative della competenza della giurisdizione, d'accordo, ma se no in linea generale, delle sopravvenienze, si tiene conto ne processo, addirittura, anche delle sopravvenienze di fatti processuali.

Questa, è la regola generale, eccezionale è il regime dell'irrilevanza dei mutamenti che incidono sulla competenza e sulla giurisdizione.

Appare dunque, non insensata l'idea prospettata dalla Cassazione, secondo cui nell'ipotesi che il giudice di merito, avesse validamente omesso la sospensione, perché l'istante aveva omesso di depositare presso la cancelleria del giudice di merito, copia del ricorso per Cassazione proposto, sicché il giudice di merito, non avendo innanzi a se traccia alcuna della proposizione del regolamento aveva proceduto all'esame del merito, giungendo sino alla pronuncia prima che la Corte di Cassazione si pronunciasse a sua volta sul ricorso proposto; prodotta dalla parte resistente, la sopravvenuta pronuncia davanti al giudice di cassazione, la stessa ritenne ormai preclusa la pronuncia sul regolamento, perché, inidonea a svolgere una funzione preventiva rispetto all'esame del merito della causa.

Tanto premesso, se si ammette che, il regolamento possa rendersi improcedibile per effetto degli sviluppi processuali avvenuti nel giudizio di merito, a seguito di una regolare omissione della sospensione stessa, per effetto di una valutazione erronea, ritualmente compiuta di manifesta infondatezza dell'istanza, o che manifesti l'ammissibilità dell'istanza, ecco che la procedibilità del regolamento finirebbe per dipendere da una valutazione discrezionale del giudice di merito, il che avrebbe certamente senso.

Nel nostro ordinamento sembra strano, formato come è nei principi gerarchici, che un giudice gerarchicamente sottordinato abbia il potere di selezionare l'accesso al giudice preposto al riesame delle sue stesse decisioni.

È frequente un sistema di questo genere in ordinamenti a matrice meno burocratizzata, negli ordinamenti di common law è ritenuto normale che l'accesso alla corte di grado superiore sia subordinato ad una autorizzazione discrezionale del giudice inferiore, le cui decisioni sono soggette al riesame presso il giudice superiore.

Ultimamente la Cassazione, sembra non voler richiamare questa capacità delle sopravvenienze procedimentali del giudizio di merito incidere sulla ammissibilità o procedibilità del regolamento.

Tuttavia, ulteriori orientamenti restrittivi della giurisprudenza in tema dell'ammissibilità del regolamento preventivo, sono emersi e meritano di essere segnalati, per cui, soprattutto in anni recenti, si è affermato che il regolamento è ammissibile solo se proposto nel contesto di un procedimento di cognizione idoneo a sfociare in un provvedimento che possa incidere in via definitiva sui diritti soggettivi, quindi, esso non sia proponibile ne nel contesto di procedimenti esecutivi, bensì eventualmente nei procedimenti di cognizione avviati in relazione al procedimento esecutivo stesso nel contesto del procedimento di opposizione all'esecuzione, ma non del mero procedimento esecutivo, e men che meno possa essere proposto nel contesto dei procedimenti cautelari, ove la giurisprudenza aveva ritenuto proponibile con curiose argomentazioni giuspolitiche dove era diffuso, prima della riforma del '90, opinione della tutela d'urgenza i giudici di merito usassero per frenare questi abusi, si giustificasse la proponibilità del regolamento preventivo alla giurisdizione nel corso del procedimento cautelare, questa è stata abbandonata e oggi la giurisprudenza è costante nell'ammettere che non possa aversi regolamento di giurisdizione nel contesto del procedimento cautelare.

Si è giunti alla conclusione di interpretazione fortemente correttiva del dettato legislativo e la proposizione del regolamento sia preclusa non soltanto dalla pronuncia di una sentenza sul merito della causa, bensì dalla pronuncia di qualsiasi sentenza anche se vertente su questioni di rito da parte del giudice del merito, con ciò ribaltando l'interpretazione che, era stata consolidata secondo cui la pronuncia di merito preclusiva per la proposizione del regolamento era pronuncia che concernesse questioni attinenti al merito perché, provviste di effetti idonei a sopravvivere all'estinzione del processo, così si ragionava!.

La cassazione per giungere a questa conclusione ha seguito un ragionamento un po' contorto, se viene resa una pronuncia, anche se pronuncia sul rito, questa pronuncia è impugnabile.

Se rispetto a una questione possono concorrere più rimedi, la legge si premura di regolarne il concorso, ma questa è una petizione di principio, perché non è proprio così, però posta questa petizione di principio, la Cassazione osserva che il legislatore regola il concorso fra l'appello e il regolamento di competenza, ma non dice niente sul concorso tra appello e regolamento di giurisdizione, e se non dice niente, significa che non possono concorrere.

   Sicché, resa una pronuncia appellabile, la proponibilità dell'appello impedisce la proponibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione.

Il ragionamento è forzato, resta abbastanza opinabile che le norme codicistiche possano essere interpretate in modo così lontano da quel che può pensare il lettore in prima battuta, c'è poco rispetto per consumatore e la marca" class="text">il consumatore del diritto, che deve essere in grado di capire cosa dice la norma senza bisogno di approfondire troppo l'esame delle interpretazioni giurisprudenziali, interpretazioni fortemente controintuitive del dettato letterale della norma sono sempre discutibili, per usare una espressione che piace agli economisti del diritto, aumentano i costi transativi.

Inoltre, la giurisprudenza, sempre in via interpretativa, ha in larga misura ridotto l'ambito delle questioni deducibili tramite regolamento preventivo, evitandole, progressivamente sempre più a quelle soltanto che fossero espressamente previste dall'art. 37,escludendo che si potessero qualificarsi come questioni deducibili al concetto di giurisdizione, magari, come quella di sussistenza di un'eccezione di giudicato, o di un'eccezione di compromesso per arbitrato libero.

Tutte queste questioni, che in astratto si potrebbero ricondurre, così come l'improponibilità assoluta della domanda fra privati, non sono ritenute questioni deducibili tramite regolamento preventivo.

Su quest'ultimo fronte, però, si è avuta una battuta d'arresto, benché si è persa un'occasione allorquando è entrata in vigore la nuova disciplina del diritto internazionale privato con l. 218/95, perché prima di questa legge la questione del difetto di giurisdizione rispetto al giudice straniero, trovava la sua regolamentazione nell'art. 37, ma questa legge ha conferito una disciplina nuova ed autonoma a questa materia, anche collocandola in una sede extra codicistica, alché il dettato, attualmente vigente, dell'art. 37 non contiene riferimento alcuno a questioni di giurisdizioni rispetto al giudice straniero.

Pertanto, l'ingenuo consumatore del diritto, che legge il codice, all'art. 41 nella parte in cui prevede che sia deducibile, tramite regolamento la questione di cui all'art. 37, e legge l'art. 37, mai e poi mai, è indotto a pensare che possa farsi valere, tramite regolamento preventivo, una questione che nell' art 37 non è prevista, perché prevista nella legge 218/95.

Però, una parte della dottrina, ha detto che il rinvio all'art.37 da parte dell'art.41, doveva qualificarsi come rinvio ricettizio? Qualificarlo come rinvio ricettizio, vorrebbe dire, che nella perte in cui rinvia all'art. 37, l'art. 41 dovrebbe essere letto come norma rinviante all'art. 37 nella sua formulazione originale, e non nella sua formulazione attuale.

Il fenomeno del rinvio ricettizio, si presenta in qualche occasione nel contesto internazionalprivatista, ma in realtà è un fenomeno abbastanza anomalo, chiede della ragioni giustificative, certo, quando il richiamo è tra fonti promananti da poteri molto diversi, si può immaginare che alcuni indici possano suggerire il carattere ricettizio del rinvio, possiamo immaginare che, le parti nel concludere un contratto e rinviare per la determinazione della sua disciplina a certe fonti normative, abbiano manifestato una volontà di riferirsi a quelle disposizioni  nel loro contenuto nel momento in cui il rinvio è stato compiuto, e non di volerne eccepire tale disciplina anche nelle sue successive modificazioni.

Pensiamo alla faccenda della disciplina del riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche! Il Concordato fa riferimento alla disciplina del riconoscimento delle sentenze precedente alla legge 218/95.

Effettivamente, è questa la disciplina applicabile al riconoscimento di quelle particolari sentenze, perché qui, la fonte di produzione è espressione di una volontà politica diversa, e sarebbe, comprensibile che non possa, lo Stato italiano, unilateralmente incidere sul contenuto dell'accordo attraverso la modificazione di quelle norme del suo proprio ordinamento a cui l'accorda aveva fatto rinvio. Ma, quando ci troviamo al cospetto di modificazioni normative provenienti dalla stessa fonte, addirittura nello stesso codice dovremmo avere un rinvio ricettizio?

Sul piano tecnico, questa è un'asinata! Un asinata, di cui è molto triste riscontrare che la Cassazione abbia recepito a tracce. Ma perché lo ha fatto? Molti, hanno sostenuto che conservare questo rimedio, è importante per un verso, perché, dicevano, che le sue potenzialità dilatorie sono state disinnescate dalle riforme del '90, ma in realtà questo è ottimistico come ragionamento, altri hanno detto che questa disciplina è importante e complessa e abbiamo bisogno di ottenere il più rapidamente possibile la formazione di una giurisprudenza autoritativa su queste nuove norme.

È fondata sul piano tecnico questa invocazione? Ovviamente è sballata! Perché, esistono, in altri ordinamenti, istituti diretti ad assolvere a questa funzione, a quella di favorire la rapida formazione di una giurisprudenza autoritativa sulle nuove norme, il diritto processuale francese conosceva il giudice amico, cui si può adire in cassazione per ottenere interpretazioni di norme di nuova emanazione, ma primo per qualsiasi norma, perché solo per quelle li, perché solo quelle in tema di giurisdizione? Allora tutte! E secondo, il rimedio del regolamento di giurisdizione no risulta applicabile solo nell'imminenza dell'entrata in vigore della nuova disciplina.

Così, come conurato, si applica anche se la disciplina non è più nuova, continuerà ad applicassi anche tra cento anni, risulta utilizzabile anche per dedurre questioni, la cui interpretazione sia ormai pacifica, e quindi, questa giustificazione sul piano tecnico è completamente sballata, ma è la giustificazione di un grande giurista, perché funziona!

E funziona, perché, noi abbiamo già cominciato a capire come funzionano le teste dei magistrati della Cassazione, se gli si dice loro, che abbiamo bisogno della loro giustizia, possono loro sottrarsi? Vellicare la loro vanità, questo funziona benissimo! La Cassazione ha preso sul serio questa serie, completamente bislacca, di argomenti, e per giunta la folle conclusione, appunto, che il rinvio dovesse qualificarsi come rinvio ricettizio e l'intendimento chiaramente manifestato dal legislatore del '95, dal punto di vista del significato oggettivo delle parole, secondo la connessione propria di esse, la volontà di escludere che tali questioni fossero deducibili dal regolamento.

Perché, si dice che il problema è più grave di quello che si presenta nei casi di difetto assoluto? Perché qui, la decisione non è in iure.

Ai fini della sussistenza della giurisdizione, rilevano fatti ad esempio sulla residenza di una persona, rilevano fatti che possono essere non rilevanti per il merito, e quindi non si può risolvere la questione di merito sulla base della prospettazione, l'attore dice che è così.poi vedremo ai fini del merito se è proprio così, e se non è così respingeremo la domanda, no!

Su questi fatti rilevanti ai fini della sussistenza della giurisdizione, o le prove si assumono ai fini della pronuncia sulla giurisdizione, o non si assumono più, perché, poi, non sono più rilevanti, e quando le assumiamo le prove? Se, il regolamento è preventivo dell'esame del merito preventivo anche dell'istruzione probatoria, si adisce immediatamente la Cassazione e ne è escluso, che dinanzi alla Cassazione possano raccogliersi mezzi di prova.

A questo punto, i casi sono due; o accogliamo l'eccezione e togliamo una parte al giudice senza darle la possibilità di provare che il suo convenuto, effettivamente, risiede nel territorio italiano, o diamo ragione all'attore, e togliamo al convenuto il diritto di provare la sussistenza di un'eccezione impeditiva dell'esame del merito della domanda e cioè dell'eccezione del difetto di giurisdizione.

A chiunque diamo ragione, facciamo un torto all'altro, perché gli facciamo il torto, di dargli torto senza sentire le prove che può addurre in argomento.

Dal punto di legittimità costituzionale, questa questione è serissima, la Corte Costituzionale, investita del problema molti anni fa, asseriva che c'era un certo problema di diritto alla prova, ma il problema non era nella disciplina del regolamento preventivo, bensì, nella disciplina del procedimento di cassazione nella parte in cui impediva che si svolgesse istruzione probatoria innanzi alla Cassazione, perciò, la questione doveva essere sollevata dalla Cassazione e non da un giudice di merito, la cassazione è l'ultima a dover sollevare questioni di legittimità costituzionale, leggimato è il giudice di merito, che si veda precluso l'esame delle prove dalla proposizione del regolamento preventivo.

Secondo l'orientamento più recente, il regolamento è ancora ammissibile in questa materia, ma laddove la decisione di prendere i fatti non rilevanti per il merito, e vengano dedotti mezzi di prova rispetto a tali fatti, il regolamento è ammissibile, soltanto dopo che tali mezzi di prova siano stati raccolti, se, proposto prima della raccolta dell'assunzione di questi mezzi in prova, è temporaneamente inammissibile.

Così, la Corte di Cassazione, ha ridotto i tempi per la proponibilità del regolamento, lo spazio far il dies a quo ed il dies a quem, è diventato contenuto, perché bisogna aspettare che si concluda l'istruzione probatoria, e questa materia ha naturalmente posto che la questione idonea a definire il giudizio e che l'effetto preclusivo dei vanti della pronuncia sul merito, scatta sin dal momento in cui la causa è rimessa in decisione per la pronuncia stessa.

Praticamente, i tempi di proponibilità, potrebbero esaurirsi nel corso dello svolgimento di un'unica udienza, rendendo di fatto, tecnicamente impossibile alla parte la proposizione del regolamento, che rimarrebbe in astratto e soltanto sulla carta proponibile. E se poi, a questa interpretazione si accomnasse l'idea della capacità delle sopravvenienze processuali ad incidere sul regolamento ritualmente proposto, ecco che ci saremmo disfatti del regolamento preventivo di giurisdizione, con riferimento al difetto di giurisdizione nei confronti del giudice straniero, sia pure, attraverso un percorso interpretativo, a dir poco tortuoso della lettura giurisprudenziale. È l'unico che consenta di salvaguardare alcune garanzie costituzionali, e in prospettiva futura finirà per affermarsi che il regolamento preventivo se non integralmente soppresso, debba essere trasformato in un mezzo d'impugnazione proponibile direttamente alla Cassazione, ma pur sempre dopo la pronuncia di una sentenza sul punto, quindi, senza capacità di impedire che il giudice di merito possa in prima battuta, pronunciare sulla questione, ovviamente a seguito della raccolta dei mezzi di prova rilevanti dedotti dalle parti sui fatti determinativi della sussistenza della giurisdizione.

·    Riparto della competenza nella giurisdizione civile ordinaria

La competenza è una misura della giurisdizione, ma è molto diverso il trattamento processuale dell'eccezione d'incompetenza rispetto a quello di eccezione di difetto di giurisdizione, intendendo l'eccezione come mezzo per conseguire la pronuncia del giudice sulla questione passibile di definire in giudizio, è diverso il regolamento di competenza rispetto a quello del regolamento di giurisdizione, intendendo entrambi come mezzi per conseguire una decisione sul punto passibile di produrre effetti anche in procedimenti diversi da quelli in cui è stata resa, cioè di procurare effetto nel cosiddetto giudicato panprocessuale.

Dobbiamo distinguere il riparto verticale della competenza dal riparto orizzontale.

Il riparto verticale è quello che opera ripartiamo il carico di lavoro fra giudici di gradi diversi, operanti in ambiti territoriali omogenei, in particolare fra tribunale e giudice di pace, dopo la soppressione delle Preture, il problema si è semplificato, ma sussiste il fatto verticale della competenza va operato sui criteri della materia, nel senso che in casi in cui la legge, espressamente, attribuisce la competenza ad un certo giudice, con riferimento ad una certa materia, è quello il criterio che deve prevalere, in via residuale, in tutte le ipotesi in cui la controversia non rientri in alcuna delle materie espressamente attribuite dalla legge alla competenza di un certo giudice, opera il criterio di riparto per valore della causa.

Per riparto orizzontale della competenza, ci si riferisce a quelli degli ambiti territoriali, sicché si tratta di stabilire se la competenza sia del tribunale di Pesaro piuttosto di quello di Ancona, cioè, nel caso che il riparto orizzontale della competenza, dobbiamo notare che possono conurarsi fori concorrenti, che rispetto ad una certa causa, sia legittimo rivolgersi a più Uffici giudiziari a insindacabile, arbitraria scelta dell'attore, cioè della parte che promuove il giudizio.

Mentre il riparto verticale della competenza è conurato in maniera esclusiva, per cui se la competenza è attribuita al giudice di un certo grado non può essa spettare ad un giudice di un grado diverso.

Il riparto orizzontale della competenza, in via generale è derogabile per accordo delle parti, a differenza del riparto verticale, rispetto al quale ogni accordo delle parti è da ritenersi irrilevanti agli effetti del rinvio attributivo della competenza al giudice intorno alla quale le parti siano d'accordo.

Per regola generale, il riparto orizzontale può essere oggetto di clausole derogatorie, perciò possono adire che la competenza spetti attribuire al tribunale di Pesaro, attribuirle al tribunale di Ancona, tenendo presente che clausole di questo tipo, sono vessatorie e sono soggette alla disciplina restrittiva che si applica in questo tipo d'ipotesi, sia dal punto di vista dell'art. 1469/bis del c.c., sia degli artt. 1341 e 1342 del c.c., pertanto, possono darsi casi in cui tale clausola sia valida, tuttavia, nell'ipotesi prevista dalla legge ai sensi dell'art. 28, anche il riparto territoriale della competenza può risultare inderogabile, in cui la competenza territoriale inderogabile, si dice avere carattere funzionale.

Cosa si intende dire? Ci si ricollega alla dottrina precodicistica, secondo la quale, alcune norme distributive della competenza non rivestivano solo la funzione di ripartire il carico di lavoro tra il diverso giudice giudiziario e il diverso magistrato, ma li ripartivano attraverso la diversità della controversia, per cui un certo giudice era competente, e non altri, perché, avrebbe avuto un miglior accesso alle prove, in quanto il suo contatto con il territorio gli rendeva possibile una più accurata decisione della causa.

Addirittura, la cognizione pregiudicistica  diceva, che nell'ipotesi del riparto funzionale della competenza, si determinasse una nullità della sentenza, che poteva essere fatta valere in ogni tempo, quindi, persino, al di là della formazione del giudicato formale.

Il codice del '42 non ha recepito quest'idea! È senz'altro, escluso, che possa farsi valere in ogni tempo la regolazione del riparto, anche funzionale della competenza. I termini per farla valere, sono quelli previsti dalla legge che ora vedremo! Questa è una idea che ricorda quelle soluzioni meno strutturali in cui è ammesso che si faccia valere in ogni tempo la regolarizzazione delle regole dell'impatto.

Ma questo non accade nel nostro ordinamento! Resta fermo, che, in quest'ipotesi nessuna clausola prerogativa della competenza fra le parti può produrre effetti attributivi della competenza al giudice diverso, da quello indicato dalla legge.

Nel sistema originario della disciplina della rilevabilità della questione di competenza, a queste tre diverse ipotesi di incompetenza, veniva attribuito un diverso rango, prevedendosi, che l'incompetenza per territorio, fuori dei casi dove fosse prevista l'inderogabilità sull'accordo delle parti l'attribuzione di poter risolvere la controversia, dovesse essere eccepita, a pena di decadenza, e non potesse la competenza per territorio rilevata d'ufficio.

Nelle altre ipotesi, restasse ferma l'irrilevabilità d'ufficio della questione, coerentemente con l'inefficacia degli accordi derogatori compiuti dalle parti, e questa irrilevabilità d'ufficio, si ammettesse in ogni stato e grado del giudizio con riferimento all'ipotesi d'incompetenza per materia e soltanto nel corso del primo grado di giudizio di merito per incompetenza per valore, in quanto, si riteneva il criterio distributivo del valore avesse un carattere di arbitrarietà, e quello del valore sembra meno significativo tra controversia e giudice.

  L'incompetenza per territorio è inderogabile ed equiparabile ai casi per materia, in quanto, espressive di un carattere funzionale della competenza stessa e quindi, di nuovo, l'eccezione poteva essere rilevata anche d'Ufficio in ogni stato e grado di giudizio. Questo nella formulazione originaria del codice del '42.

Nel corso del tempo, nei confronti della fase applicativa operante in materia di disciplina della competenza, si sono sollevate delle riserve!

Alcune facili da comprendere, e si è cominciato a dire, come spostarsi di 50 km, nel '42 poteva capirsi! Ma, oggi, nella circostanza in cui si disciplina la competenza, in qualche modo, costituisce espressione di un principio costituzionale, quella della naturalità della costituzione del giudice. Quali implicazioni ha esattamente questo principio?

Nella giustizia civile, in principio della naturalità della costituzione per legge del giudice debba svolgere un qualche ruolo.

Per un verso, che le contestazioni intorno alle questioni di competenza, devono essere coltivate sino al giudizio di Cassazione e in guisa tale da assicurare che, alle parti, per ciascun grado di giudizio, sia resa una pronuncia da parte del giudice competente a dare quella pronuncia.

Se, invece, qualifichiamo la violazione della regola di riparto, come non una violazione delle norme sulla competenza, ma come una mobilità, cambia molto, perché il sistema processuale attribuisce alle parti il diritto di ottenere almeno un grado, che giunga la pronuncia di merito esente da attività processuale, ma non tutti i gradi, perché, la regola generale in materia di nullità, è che, laddove il procedimento di primo grado sia viziato da nullità, questa può essere sanata attraverso gli atti in grado d'appello, senza che il giudice d'appello debba rimettere la causa al giudice di primo grado, affinché, egli stesso pronunci sul merito a seguito di rinnovazione degli atti di conclusione di giudizio, senza che si producano nullità impeditive sulla pronuncia del merito stesso.

Ritornando in primo grado, possiamo direttamente sanare attraverso la rinnovazione in appello, garantendo almeno un grado di giudizio privo di nullità, non necessariamente tutti e due gradi di merito.

Quindi, se teniamo conto di questo aspetto, capiamo come sia articolata la strategia seguita in questi anni dal legislatore nel ridurre l'importanza delle questioni d'incompetenza nel processo civile, perché è una strategia che si è sviluppata su più fronti! Per un verso, riducendo le possibilità di far valere le questioni di competenza qualificate come tali nel corso del giudizio, e per altro verso qualificando diverse ipotesi, che pure astrattamente sarebbero riconducibili alla disciplina della derivazione delle norme sulla competenza, alla disciplina delle nullità processuali.

Cominciamo a quest'ultimo punto di vista. È questione di competenza, quale magistrato debba decidere la causa nell'ambito di uno stesso ufficio giudiziario? Su questo punto si è sempre detto di no! Questo è un aspetto sul quale operano criteri di riparto non necessariamente contenuti in disposizioni legislative, criteri di riparto che si ha la possibilità di far valere in vario modo nel corso del giudizio di primo grado, perché la causa andava adita a quel giudice, e non all'altro, ma qui, non centra la disciplina della competenza, ci sono espedienti che per assicurarsi la decisione da parte di un certo magistrato, anziché un altro nell'ambito dello stesso ufficio giudiziario.

Negli anni '70 si usava una prassi, che poi fu abbandonata, che funziona quando l'introduzione della causa avviene tramite il sistema del ricorso. In questo sistema si prevede che la parte depositi l'atto introduttivo contenente la composizione della domanda in cancelleria, ed il giudice fissi la prima udienza con decreto, e la parte notifichi al convenuto, che solo in quel momento viene a sapere della promozione di un giudizio nei suoi confronti, il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, e l'attore compie questo atto al momento in cui sa già quale magistrato è stato incaricato di trattare la controversia stessa.

Il trucco è facile, specialmente quando l'ufficio è ampio e non ci sia un controllo sull'applicazione dei criteri tabellari, ecco che basta presentare una pluralità di ricorsi! E si notifica solo quello assegnato al giudice a cui si voleva accedere.

È un trucco di corto respiro, perché, sul lungo periodo se ne accorgono tutti, ed è sconsigliabile usarlo!

Per ovviare a questo tipo di stratagemma, basti pensare che già il primo ricorso depositato, produca gli effetti della litisdipendenza e quindi, rispetto a tutti gli altri può essere eccepita la litisdipendenza stessa. Ci sono alcune difficoltà! Anzitutto bisogna reinterpretare il disposto dell'art.39 ultimo comma, che, dispone esplicitamente, che la litispendenza è determinata dalla notificazione dell'atto introduttivo. A questo, ci potremo arrivare perché si tratta di notificazione della citazione, ma se l'atto è in ricorso la litisdipendenza deve essere determinata già dal suo deposito, che è il primo atto con cui si crea un contatto tra almeno due dei soggetti del processo, non più l'attore e il convenuto, ma in questo caso, l'attore e il giudice.

Avremo un problema pratico, e cioè, nella circostanza che vi sia stato un ricorso preveniente, chi la sotterra l'eccezione di litisdipendenza? La litisdipendenza è rilevabile anche d'ufficio, specialmente se tutte sono state assegnate allo stesso giudice, se operano criteri tabellari per materia c'è un solo giudice, un solo magistrato incaricato di trattare gli affari di una certa materia.

In sezioni dello stesso ufficio giudiziario, l'attribuzione a una sezione rispetto ad un'altra dello stesso ufficio giudiziario può conurare una questione di competenza? La risposta dominante è no! Il riparto fra più sezioni dello stesso ufficio giudiziario, Sezione Lavoro, piuttosto che Sezione Ordinaria, non conura una questione di competenza, è vero che l'art.439 consente previa ordinanza di trasformazione del rito, di sanare in grado di appello e senza dimostrare in primo grado il vizio derivante dalla trattazione della causa tramite rito del lavoro anziché rito ordinario o viceversa. Fatta eccezione, però, nelle ipotesi in cui, la giurisprudenza ha ritenuto l'applicabilità della disciplina della competenza, per due categorie d'ipotesi, rispetto ai casi di rinvio alle sezioni specializzate

Anzitutto, quelle in cui, si trattava di sezioni specializzate integrate nella loro composizione da esperti non magistrati, e quindi, il Tribunale per i minorenni, per esempio, rispetto ai tribunali ripartiti tra sezioni ordinarie e sezioni per i minorenni, la giurisprudenza ha ritenuto applicabile il principio della competenza, e lo ha ritenuto in quelle ipotesi in cui la regola di riparto implicava anche una diversa qualità della cognizione con riferimento al riparto di competenza tra la sezione ordinaria e la sezione fallimentare, ma qui, il ricorso al concetto di competenza spesso è improprio, perché, si tratta di questioni da risolversi in tema di procedibilità della domanda in sede ordinaria in pendenza di procedimento fallimentare.

Da queste premesse si capisce il senso delle prime operazioni compiute in questo campo!

Il c.p.p., prevedeva nll'85, presso le allora Preture, l'istituzione di un ufficio di pubblico ministero in ogni ufficio di Pretura. Venne fuori una leggina, che organizza le attribuzioni territoriali delle preture, prevedendo che siano Preture quelle dei capoluoghi di provincia e tutte le altre sono sedi distaccate della stessa pretura, così il riparto del carico di lavoro, tra sede principale e sede distaccata, si qualifichi non più come questione di competenza, ma come questione di riparto.

Però, si pone un problema interpretativo perché, altro è dire un magistrato al posto di un altro, una sezione al posto di un'altra, altro è dire una sezione al posto di un'altra e anche in luogo diverso, sa d'incompetenza, a questo punto, perché mi cambia anche il luogo del processo.

Abbiamo potuto assistere ad una manifestazione diretta della diversa importanza che viene attribuita al principio di giudice naturale in sede penale e in sede civile, perché la giurisprudenza penale ritenne che la disciplina del riparto tra sede principale e distaccata dovesse comunque qualificarsi come disciplina della competenza del giudice, in un contesto del diritto penale in cui, in realtà, la disciplina delle questioni di competenza è difficilmente utilizzata a scopo puramente minatorio, in questo caso, dall'imputato anziché dal convenuto.

Mentre, il rito civile si presta molto di più alla giurisprudenza civile, infatti, è giunta alla conclusione opposta, cioè che la violazione di queste regole di riparto, non si qualificasse affatto come questione di competenza, quindi, il correlazione al regime speciale applicabile alla violazione di questo tipo di criterio di riparto, potesse essere fatta valere nel corso del giudizio di primo grado e con sanatoria del vizio in grado d'appello attraverso eventuale rinnovazione degli atti ritenuti viziati, in quanto, svoltisi dinanzi ad un giudice diverso, ad un magistrato a una sezione diversa, da quella presso la quale avrebbe dovuto svolgersi il procedimento.

Questa disciplina era prevista per le antiche sedi distaccate, la quali non avevano una propria autonomia funzionale, talché succedeva che, il pretore stabilmente incardinato ad Ancona, per esempio, un giorno alla settimana era ad Urbania, dove non c'è un cancelliere stabile, ma solo un ufficio e il giudice si portava il suo cancelliere per tenere l'udienza lì. Ma queste sedi distaccate, queste nuove, sono ben altra cosa, perché erano vecchie sedi autonome, qui ci sono magistrati e cancellieri incardinati stabilmente in quel luogo, perciò, la trattazione della causa in un luogo diverso assume, anche istituzionalmente, un'altra valenza. La giurisprudenza ha ritenuto da escludere decisamente che in questa disciplina potesse essere qualificata come disciplina attinente alla competenza.

Un'altra obiezione! Ma, se noi seguiamo questo percorso, permettiamo al legislatore di svuotare di significato la garanzia del giudice naturale, perché il legislatore potrebbe dire! In quel territorio abbiamo un unico ufficio giudiziario; il Tribunale di Roma, tutte le altre sono sedi distaccate alle quali non si applica la disciplina della competenza. Se si arrivasse a questo punto, avremo eliminato la garanzia del giudice naturale surrettiziamente, e non sarebbe costituzionalmente accettabile una disciplina di questo genere, ma stiamo parlando di ben altro, non si parla di eliminazione sostanziale del riparto della competenza, bensì, di riduzione del suo ambito d'applicazione, scongiurando un tribunale unico presso la capitale.

Questa stessa politica, si è seguita, allorquando, si è introdotta la disciplina della decisione monocratica di tribunale. Il tribunale, nel sistema del codice del '42 è un organo giudiziale a composizione collegiale, ed ad un certo punto si è ritenuto che questo sistema fosse costoso per il dispendio di risorse giurisdizionali e dal punto di vista organizzativo, e si è ritenuto di conservare, alla decisione collegiale soltanto in primo grado le ipotesi espressamente previste dal codice all'art.50 ter.

Oggi ritroviamo alcune ulteriori ipotesi di collegialità, rispetto a quelle previste dall'art.50 bis, nell'ipotesi in cui vi sia contestazione, se la causa aspetti al tribunale in composizione monocratica o a quello in composizione collegiale, si conura una questione di competenza?

Si tende ad escluderlo, a prevedere che il vizio può essere fatto valere, ma che la violazione della regola non possa comportare la remissione al giudice di primo grado da parte del giudice d'appello che ritenga fondata la contestazione ritenuta infondata in primo grado, intorno alla violazione della regola di riparto.

Altra strategia è stata quella della semplificazione del riparto della competenza verticale, la soppressione delle preture ha eliminato dal novero delle questioni di competenza, in particolare in passato, era rilevantissimo, sotto il profilo della competenza, determinare se la casa fosse ordinaria o causa di lavoro, perché ne discendeva la competenza pretorile anziché ordinaria rispetto alle cause che avessero un valore economico. Oggi, questo problema è superato attraverso la soppressione dell'atto intermedio nel riparto verticale della competenza, ancora, fa parte di questa strategia la novellazione dell'art.38 del codice di rito che ha disciplinato in maniera diversa il sistema delle preclusioni ala sollevazioni delle questioni competenza, valorizzando quel concetto di competenza in senso dinamico ampliando la sfera delle ipotesi in cui la pendenza stessa del processo, costituisce un elemento costitutivo della competenza del giudice adito, competenza del processo, combinata alla formazione della preclusione alla sollevazione della questione di competenza.

Si è previsto che, nell'ipotesi in cui l'incompetenza sia rilevabile d'ufficio, quindi tanto i casi di incompetenza per materia, quanto quelli d'incompetenza per valore o del territorio funzionale, la questione può essere sollevata anche d'ufficio ma a pena di decadenza entro la prima udienza.

Può sembrare strano che abbiamo in alcuni casi, trattazione dinanzi all'istruttore e decisione da parte del collegio e l'istruttore è privo del potere decisorio, ma la prima udienza si svolge dinanzi al giudice istruttore, è lui che omette di eccepire l'incompetenza dell'ufficio giudiziario adito, pregiudicando l'esercizio dei poteri decisori del collegio.

L'obiezione è stata sollevata, ma si presta a una replica facile! Cioè, con riferimento a questioni di rito, di carattere impedente, questo è l'unico caso che può verificarsi, perché, già nel codice del '42, l'art.40 prevedeva, e prevede, la connessione della causa pendente con altra pendente dinanzi ad un giudice diverso, nella fattispecie determinativa di una pronuncia d'incompetenza per connessione, sia possibile soltanto, se la questione di connessione sia rilevata entro la prima udienza.

Perciò, anche in questo caso la traslatio iudicii, spostamento della causa presso altro giudice, è condizionata dal tempestivo esercizio dei poteri di rilievo dell'eccezione da parte del giudice istruttore, pur essendo privo di poteri decisori.

Una serie di complicazioni, e ne vediamo una, discende dalla sovrapposizione di questa riforma, compiuta nel '90, con la controriforma del '94, '95, che ha introdotto la scissione in due della prima udienza, distinguendo tra udienza di prima izione ex art.180 e prima udienza di trattazione ex art.183, prescrivendo che sia l'udienza di prima izione ad avere per oggetto l'individuazione di questioni attinenti al rito, e la prima udienza in trattazione colei che ha la funzione della determinazione dell'oggetto del contendere attraverso la precisazione delle domande, delle conclusioni, delle eccezioni, via via formulate. È vero che la questione di competenza è senz'altro una questione di rito, ma soluzione dominante è secondo cui la preclusione matura a seguito della conclusione della prima udienza di trattazione, perché la decisione della questione di competenza dipende anche da come si conura l'oggetto del giudizio, quindi è sensato che sia dato facoltà alla parte di risollevare l'eccezione stessa alla luce delle risultanze proprio dell'attività compiuta nel corso della prima udienza di trattazione (ex art.183), quindi, per prima udienza dobbiamo intendere senz'altro quella.

Nell'ipotesi in cui l'incompetenza sia rilevabile soltanto a istanza di parte, cioè si tratti di un riparto orizzontale della competenza, il nuovo art.38 prescrive, che l'istanza vada eccepita su istanza di parte a pena di decadenza della sa di risposta.

Cambia qualcosa se si dice: nel primo atto difensivo, nella sa di risposta?

Sembrerebbe di no, perché il primo atto difensivo è la sa di risposta, eppure. L'intendimento del legislatore era, attraverso questa formula, di cambiare le cose, perché in applicazione della formula previgente, si riteneva che l'eccezione potesse essere validamente sollevata dal convenuto che si costituisse in giudizio tardivamente, purché lo facesse nel suo primo atto.

Nella riforma del '90, questo disposto aveva un significato ben diverso, perché si correlava a quanto allora disponeva l'art.167, che prescriveva, che a pena di decadenza dovessero, nella sa di risposta, sollevarsi anche tutte le eccezioni non rilevabili d'ufficio, quindi, la prescrizione che l'eccezione venisse sollevata nella sa di risposta, ricollegata a quanto disponeva l'art.167, rendeva tardiva ed inefficace l'eccezione proposta nella sa di risposta, ma a seguito di costituzione tardiva del convenuto, perché doveva non solo sollevare la sa di risposta, ma costituirsi tempestivamente per poterla sollevare in quella sede.

A seguito della controriforma del '94 - '95, è stata fatta slittare in avanti la preclusione alla sollevazione delle eccezioni non rilevabili d'ufficio e oggi, non scatta più con il termine della preventiva costituzione in giudizio del convenuto, bensì a seguito dell'udienza di prima izione, poiché il secondo comma dell'art.180, prescrive che il giudice assegna alle parti un termine per sollevazione delle nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, date che queste nuove eccezioni possono essere sollevate anche successivamente al deposito della sa di risposta, si è giunti alla conclusione che è anche di competenza per territorio derogabile, potesse validamente essere eccepita entro quel termine.

Il convenuto può sollevarla in questo termine, anche quando ha già depositato la sa di risposta? Sarà pure ammesso sollevare l'eccezione nell'appendice all'udienza, ma da parte di colui che solo in quel momento si costituisca, dal soggetto che solo allora depositi la sua sa di risposta, ma chi l'ha già depositata non dovrebbe avere la possibilità di sollevare l'eccezione di incompetenza per territorio derogabile al di fuori della sa di risposta, ancorché sia ancora pendente il termine generale per la sollevazione di eccezioni non rilevabili d'ufficio.

Altro è la generale disciplina delle eccezioni non rilevabili d'ufficio, altro è la disciplina specifica delle eccezioni d'incompetenza derogabile, per espresso disposto di legge deve essere sollevata nella sa do risposta e non in altri atti, altrimenti avremo una situazione tale da consentire al convenuto di far valere l'incompetenza del territorio derogabile, più facilmente di quanto avvenisse in passato, poiché, in passato, con la prescrizione che l'eccezione andasse sollevata nel primo atto difensivo non si poneva dubbi che questa non poteva essere sollevata in un momento successivo a quello in cui la parte avesse depositato la sua sa di risposta.

Rimane fermo, invece, sia la completezza dell'eccezione di incompetenza per territorio derogabile, in relazione al problema della concorrenza dei fori, ma per effetto della concorrenza dei fori, che in realtà e la concorrenza dei criteri attributivi della competenza, questi indicano lo stesso giudice, il luogo dove sia stato concluso il contratto sia lo stesso in deve compirsi l'obbligazione, allora, in questo caso, il tribunale che sia competente in forza della concorrenza di più criteri, al tribunale la cui competenza dev'essere contestata e si vuole eccepire l'incompetenza stessa, contestando che nessun criterio di competenza è attributivo della competenza al giudice stesso, quindi se voglio sostenere che il tribunale di Ancona non è competente, ho l'onere nel sollevare l'eccezione non soltanto di sostenere e provare che, l'obbligazione non è sorta lì, ma devo anche negare che sia da adempiere, ossia devo contestare l'attribuzione della competenza sotto tutti i possibili criteri.

Un altro, onere di completezza dell'eccezione d'incompetenza per territorio derogabile, previsto dall'art.38, che l'eccezione deve essere accomnata dall'indicazione del giudice che si ritiene competente a pena di inefficacia dell'eccezione stessa, ciò al fine di rendere possibile quello che in dottrina viene chiamato regolamento convenzionale della competenza, che si verifica quando le altre parti aderiscono a questa indicazione, si tratta sempre di riparto della competenza derogabile, risulta accettata, attraverso un accordo derogatorio che si perfeziona nel corso del processo, la competenza del giudice indicato dal convenuto attraverso la sua eccezione a cui abbiano aderito le altre parti.

In questo settore è cambiata una sfumatura, la precedente dizione dell'art.38 prevedeva che l'accordo si perfezionasse con l'adesione di tutte le parti, la nuova lettura prescrive che, questo si perfezioni con l'adesione di tutte le parti costituite. Che cosa cambia? È più facile raggiungere l'accordo! In passato, non poteva concludersi alcun regolamento convenzionale di competenza in tutte le ipotesi in cui una delle parti fosse contumace, perché non era possibile ottenerne l'adesione e quindi automaticamente risultava impossibile perfezionare l'accordo., mentre oggi, questo è possibile anche quando una delle parti sia contumace perché la sua adesione, o meno, all'accordo è divenuta irrilevante.

La novità risulta apprezzabile nella misura in cui muove da un presupposto che la parte contumace è tale, perché sa di avere torto! Secondo questa logica, il contumace rinuncia anche ad incidere sulla determinazione della competenza, consentendo alle altre parti di raggiungere l'accordo derogatorio, questo, però, non implica che si modifichi la disciplina, nell'ipotesi in cui l'eccezione di incompetenza sia sollevata da alcuni soltanto fra più litisconsorti necessari, e l'ipotesi di litisconsorzio necessario, la pluralità di parti in uno stesso processo non può venirne meno nel corso del procedimento stesso, a differenza dei casi di litisconsorzio facoltativo, in cui in alcune ipotesi è possibile la separazione dei giudizi, quindi dove sono alcuni dei litisconsorti sollevino eccezione d'incompetenza territoriale, sia possibile accoglierla con riferimento a quella causa di cui sia parte il soggetto che ha sollevato l'eccezione, mantenendo ferma la competenza per la causa connessa cumulativamente proposta rispetto alla quale tale eccezione non venga sollevata, previa separazione della cause stesse.

Quando il litisconsorzio è necessario, la separazione non è possibile e quindi che fare se alcuni dei litsconsorti sollevino eccezione di competenza? Se l'eccezione di competenza è rilevabile d'ufficio, l'eccezione è validamente proposta e decisa.

A proposito dell'espressione "resta ferma", peraltro la competenza del giudice indicato nell'eccezione di competenza viene denutrito da altre parti, vale la pena di osservare incidentalmente che anche in questa ipotesi, il giudice davanti al quale la causa venga riassunta ha la facoltà di sollevare il regolamento d'ufficio. Ricordiamo quanto detto per i limiti di efficacia del giudicato interno sulle questioni di competenza, posto che il regolamento di competenza d'ufficio può essere sollevato anche quando il giudice adito in riassunzione, si sia visto attribuire la competenza da una vera e propria sentenza, a forziori esso deve essere promosso, in base al sistema accolto dal legislatore, quando tale attribuzione gli provenga soltanto da questo regolamento convenzionale.

Nell'ipotesi in cui, quindi, il giudice della riassunzione ritenga di essere comunque incompetente per materia, tale eccezione potrà essere sollevata in linea di principio.

Bisogno tener conto, e da questo punto di vista, abbiamo avuto alcune pronunce giurisprudenziali di non semplice lettura, soprattutto dal punto di vista delle loro ubicazioni, resta dubbia la misura in cui la modifica dell'art.38 incida sul regime del regolamento di competenza d'ufficio, per esempio potremmo porci questo dubbio; il giudice della riassunzione può porsi il dubbio della sua incompetenza per materia, e per quanto tempo? Entro la prima udienza del procedimento da svolgersi dinanzi a lui a seguito della riassunzione, certamente non oltre!

Ma può farlo anche se il profilo d'incompetenza per materia non è stato affatto sollevato nel corso del procedimento innanzi al primo giudice? Se per esempio, fosse, nel frattempo, maturata la preclusione del procedimento innanzi al primo giudice alla sollevazione alla questione d'incompetenza rilevabile d'ufficio, sia stata, invece, soltanto coltivata quella che l'incompetenza rilevabile su istanza di parte? Questa preclusione opera davanti al giudice della riassunzione?

Secondo la giurisprudenza sembrerebbe di sì! Ed è una conclusione che si potrebbe condividere, considerando che in dottrina si è prospettato, anche per effetto della riforma dell'art.38 sull'art.45 fosse ancora più vasta.

Il disposto del comma terzo dell'art.38, recita che la decisione della competenza, ovviamente, non pregiudica la decisione sul merito e il giudice pronunci sulla questione allo stato degli atti, ovvero, quando ciò sia reso necessario dall'eccezione del convenuto da rilievo ufficioso, assunte sommarie informazioni, il problema è complicato, perché, abbiamo casi in cui il criterio attributivo della competenza del giudice non ha nulla a che vedere con il merito della causa, come il domicilio del convenuto che individua solo quale giudice sia competente, ma abbiamo anche molte ipotesi, di cui, invece, i fatti attributivi della competenza del giudice sono rilevanti anche per il merito.

Se il rapporto su cui si fonda la domanda, sia o meno un rapporto di lavoro subordinato, indiceva sulla competenza del giudice, perché a seconda se, si tratti di controversia attinente ad un rapporto di lavoro subordinato o meno, si applicano regole attributive della competenza diverse, ma rivela anche per il merito, perché, rientra nella normalità delle ipotesi, che la stessa fondatezza della domanda dipenda dalla circostanza che il rapporto sia effettivamente un rapporto di lavoro subordinato, ad esempio un rapporto di lavoro autonomo.

Certamente ha senso stabilire che la decisione in punto di competenza non pregiudichi la decisione sul merito.

Abbiamo ritenuto che il giudice fosse competente quando la controversia era di lavoro, allorquando decidiamo sul merito della controversia ci accorgiamo che non è un rapporto di lavoro, quello tenuto in giudizio, il giudice che ha visto efficacemente radicata, la propria competenza, eventualmente attraverso una decisione resa a seguito dell'accertamento sommario, deve essere ancora ritenuto competente a pronunciare sulla causa pur qualificandola come causa per la quale egli non doveva essere ritenuto competente.

Alcuni, si spingono a dire, che in quest'ipotesi, non c'è motivo per un accertamento sommario di questi fatti. In genere questa tesi viene promulgata soprattutto enunciando che deve esserci un giudice competente anche per il rigetto della domanda, e qui, si giunge a dire, che tutti i fatti che siano rilevanti tanto ai fini della competenza, quanto ai fini del merito, devono essere considerati veri, come affermati dall'attore, allorquando si decide intorno alla competenza, perché si potrà verificare ed eventualmente attestare la falsità di questi fatti solo al momento della pronuncia sul merito allo scopo di poterla elidere.

Non dobbiamo farci confondere e fare chiarezza sull'argomento, capire quando si abbia effettivamente un'eccezione d'incompetenza, perché di questa si può parlare intanto, in quanto, la contestazione proveniente dal convenuto, se fondata, porterebbe all'individuazione di un diverso giudice competente per accogliere la domanda.

È chiaro che tutte le contestazioni del convenuto che non sono compatibili con l'accoglimento della domanda, non sono eccezioni d'incompetenza. Per far riferimento al caso, che di solito si fa; il convenuto per il amento di 100 lire, che dice non sono debitore di nulla, scoperta, che non si vanti in via sommaria se è debitore o meno di 100 lire al fine di pronunciare sulla domanda stessa, perché questa eccezione, non è d'incompetenza, perché non porta all'individuazione di un diverso giudice competente per l'accoglimento della domanda.

Se intendiamo per eccezione d'incompetenza, quelle che portano all'individuazione di un diverso giudice competente per l'accoglimento della domanda, il discorso cade, perché, la legge non fornisce alcun elemento per giungere alla conclusione che in via di regola generale, debbano darsi per vere le azioni attorie.

Al contrario è applicabile anche la regola dell'onere della prova in materia d'incompetenza, regola che viene applicata, che gravi sull'attore la prova della sussistenza dei fatti attributivi della competenza, fatta eccezione per l'ipotesi in cui si tratti di una questione d'incompetenza per territorio derogabile, in questo caso si rovescia il ragionamento, ritenendosi che il giudice sia competente, salvo che tempestivamente e validamente il convenuto renda l'iniziativa di far valere la diversa competenza di un giudice diverso, e se ne fa discendere la conseguenza, quindi, che gravi sul convenuto l'onere della prova dell'incompetenza per territorio derogabile.

Però non esiste una regola generale di presunzione di competenza di giudice adito nella legge, o addirittura una regola secondo la quale, al fine di proteggere le competenze degli uffici giudiziari a composizione specializzata per alcune materie, ma dev'essere, qui, l'eccezione di incompetenza a dover essere presa per buona, a dover essere accolta senza verifica della fondatezza del fatto su cui si fonda, con riferimento all'incompetenza del giudice ordinario nei confronti delle sezioni specializzate agrarie, molte volte la giurisprudenza è giunta a questa conclusione, nessuna di queste regole è compatibile con il dettato legislativo.

Invece prevede, per regola generale, che il giudice decida allo stato degli atti, che non vuol dire affatto sulla base della prospettazione attoria; allo stato degli atti significa semplicemente, che il giudice può tener conto soltanto delle risultanze precostituite, cioè si vuole che il giudice decida con celerità e che prenda in considerazione soltanto risultanze di carattere documentale, perché per assumere prove costituende si perde più tempo, perciò, quando il legislatore vuole una decisione, certo, passibile di revoche, di riesame, soprattutto ai fini sulla pronuncia sul merito, ma quando dice questo non vuol dire che debba prendere per buono quello che l'attore dice, vuol dire che il suo esame si basa solo su queste risultanze, applicandosi, tra l'altro, la disciplina dell'onere della prova che si è poc'anzi detto.

Ovvero, quando sia reso necessario dall'eccezione del convenuto, o dalle vie ufficiose, assunte sommarie informazioni, acquisendo anche risultanze non precostituite, per esempio dichiarazioni orali di persone informate sui fatti, senza procedere alla formale assunzione di prova testimoniale, perché implicherebbe complicazioni e lungaggini, e si vuole, invece, raggiungere celermente una decisione, quindi attraverso un'assunzione deformalizzata di risultanze di carattere non precostituito, e ciò sarà necessario, tutte le volte che tali risultanze siano rilevanti, perciò tutte le volte che, l'attore o il convenuto deducano a sostegno della propria posizione questo tipo di risultanze.

L'attore dice di sentire Tizio, Caio, Sempronio, che vedono Giuseppe uscire ogni mattina da quell'edificio, per dimostrare se lui è o meno domiciliato lì! Non necessariamente assumiamo prove testimoniali con tutte le formalità, ma sentiamo cosa hanno da dire prima di decidere che Giuseppe in quel posto non ci abita!

Poi, ci sono casi particolari soggetti a regole diverse. Per esempio, noi abbiamo già fatto l'esempio delle 10 lire! Ora, in realtà, per le cause relative a somme di denaro o beni mobili, opera un disposto speciale, previsto dall'art.14, in base al quale conto solo quello che dice l'attore, indipendentemente dalla sua fondatezza, cioè il valore dalla causa nelle cause relative a beni mobili, si determina in base alla somma domandata. Qui sì! Sostanzialmente l'attore ha una completa discrezionalità e libertà di scegliere, quando la causa poterebbe rientrare nella competenza del giudice di pace, scegliere di adire validamente il tribunale dicendo di essere creditore di una somma maggiore di quella che è effettivamente creditore, e nessuno può sindacare questa scelta.

Io sono debitore solo di 100 lire, dico di essere creditore di 1 miliardo e creo, in questo modo, unilateralmente la competenza del tribunale in luogo di quella del giudice di pace.

È chiaro che questo tipo di scelta è compatibile con la garanzia del giudice naturale, accettabile anche in vista, tra l'altro, di numerosi aspetti di residualità, che vedremo, della competenza del giudice di pace è una competenza particolarmente fragile, che viene meno molto facilmente, perché il legislatore, nei confronti del giudice non togato ha un grado di fiducia molto diverso da quello che ha nei confronti del giudice togato, e non vede male che ci si sposti davanti al togato.

Ma le cose cambiano non appena la causa riguardi beni mobili e non più seccamente somme di denaro. Per esempio: io voglio farmi restituire una bottiglia d'acqua, per il valore c'è il giudice di pace! Ma se io dico che questa bottiglia d'acqua vale un miliardo? Potrebbe, come ha voluto dire, che questa bottiglia vale al massimo 1000 lire e quindi la competenza è del giudice di pace? Sì! In questo caso lo può fare, l'art.14 lo prevede! Certo, prevede anche che il convenuto abbia l'onere di contestare il valore della prima difesa, deve contestarlo immediatamente, ma se è tempestiva la contestazione del valore, il giudice può procedere all'accertamento di quale sia, in via sommaria allo stato degli atti, verificare quale sia il valore effettivo del bene mobile oggetto del giudizio.

Così, pure la decisione allo stato degli atti, ma senza possibilità di acquisire risultanze non precostituite, sono contemplate all'art.15 in materie di cause relative a beni mobili, dove si fa riferimento a criteri che possono essere dimostrati esclusivamente per via documentale, intorno ai quali, la decisione, ha detto, necessariamente avviene allo stato degli atti.

Si ribadisce che queste sono regole particolari, di alcuni aspetti della disciplina della competenza, e non si vede come possano essere generalizzate in guisa tale da essere interpretate come regole generali applicabili a tutta questa materia.

Sia, ancora, l'art. 14, nella parte in cui prescrive che, quando non vi sia da parte dell'attore l'indicazione del valore della causa, questo si presuma essere, entro i limiti della competenza del giudice adito, e sembra sbrigativo ribadire, come alcuni fanno, la regola della presunzione di incompetenza del giudice adito, perché questa regola ha un significato completamente diverso, cioè quello di dire se non determino la somma, non è già, il giudice di pace a presumersi competente, bensì, è il valore a presumersi entro i limiti della competenza del giudice di pace con effetti discendenti dall'applicazione della regola del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, tali per cui il giudice non può accogliere la domanda in misura superiore nei limiti della sua competenza, che è cosa diversa da quella di presumere che sia competente il giudice adito in quanto tale fino a prova contraria.

L'idea sulla decisione sulla competenza può farci venire un dubbio, può darsi che questa regola implichi che si debba sempre decidere sulla competenza prima di decidere sul merito? Ci sono due possibili significati, un primo problema è quello della priorità logica fra le questioni, cioè se esista un ordine logico in esame delle questioni.

Si può, decidere sulla competenza quando si è in dubbio la sussistenza della giurisdizione? Rigettare la domanda per incompetenza prima di avere risolto il problema della giurisdizione? O la questione di giurisdizione è logicamente prioritaria rispetto a quella di competenza? Potremmo decidere sul merito senza aver deciso sulla questione di competenza, cioè rigettare la domanda per la fondatezza dell'eccezione di prescrizione senza valutare se effettivamente il giudice adito sia quello competente?

Il problema è complesso, perché, occorre considerare quelle stesse ragioni di economia che abbiamo visto emergere quando abbiamo cominciato ad esaminare il problema della sentenza non definitiva, sembrerebbe che quando vi sia una ragione di guida per rigettare la domanda, sia inutile continuare il processo per prendere in esame le altre! Si afferma il cosiddetto principio del primato della ragione più liquida sull'azione dell'economia decisoria.

Alcuni si spingono fino a sostenere che il primato della ragione liquida si applichi nei rapporti fra questioni di rito e questioni di merito, ma la giurisprudenza costante dice che non ci si possa spingere a questo punto, quindi nessuna pronuncia sul merito possa essere resa se non sull'implicito presupposto che non sussistano ragioni impedienti l'accoglimento della domanda sotto il profilo del rito e questo ragionamento, che ha le basi in tema di giudicato implicito, di formazione progressiva del giudicato.

Se una sentenza pronuncia sul merito e viene impugnata soltanto in parte, sicché si forma un giudicato parziale di merito, non è più possibile il rilievo ne ufficioso, ne di istanza di parte del difetto di giurisdizione, perché un giudicato parziale sul merito, si dice implicitamente comporta un accertamento positivo sulla sussistenza della giurisdizione del giudice.

Con riferimento, invece, ai rapporti tra diverse questioni di merito non c'è dubbio che sia ragionevole applicare il primato della ragione più liquida, con riferimento ai rapporti fra pari questioni di rito, pure, se il trattamento processuale, l'eccezione di litispendenza, nel diritto positivo italiano nella parte in cui rende irrilevante ai fini della fondatezza dell'eccezione, la circostanza che il giudice, preventivamente adito sia o meno competente sembra qualificare la questione di litispendenza come logicamente prioritaria, rispetto alla questione di competenza.

Però, potemmo raggiungere la conclusione che non vi sia un necessario ordine logico di esame delle questioni, ma il problema della priorità delle decisioni sulla competenza, rispetto a quella sul merito, non è soltanto un problema di priorità logica, perché di priorità logica possiamo parlare anche all'interno di un'unica sentenza, possiamo porci il problema se debba anche esserci una priorità cronologica della pronuncia, ovvero, se una volta validamente sollevata e coltivata un eccezione di incompetenza, il giudice possa o meno, in applicazione dell'art. 187, riservarsi di pronunciare sulla questione stessa unitamente sulla pronuncia sul merito, o debba immediatamente rimettere la causa in decisione per pronunciare una sentenza sulla questione di competenza.

Una corrente dottrinale minore, si batte per questa conclusione, affermando che, dalla regola del giudice naturale, discenda necessariamente un diritto della parte ad ottenere, quando l'eccezione sia sollevata immediatamente una pronuncia sulla competenza, impugnabile, con regolamento di competenza, immediatamente presso la Corte di Cassazione, per ottenere il più presto possibile il giudicato panprocessuale sulla questione di competenza.

Così sembrerebbe che l'art. 187 non possa applicarsi nella parte in cui attribuisce al giudice il potere discrezionale di decidere, se rimettere la causa in decisione per risolvere la controversia sulla base della questione di competenza immediatamente, ovvero riservarsi di decidere sul punto unitamente sulla decisione sul merito.

Ma sul piano pratico c'è qualcosa che non va! Mettiamoci nei panni di quel convenuto che sa di avere torto e conta di trarre profitto dalla dilazione della decisione della causa, e solleva l'eccezione di competenza del giudice adito indipendentemente dalla fondatezza della stessa, e se si ritiene che il giudice debba immediatamente rimettere la causa in decisione, ecco che il convenuto in mala fede ottiene automaticamente la facoltà di proporre regolamento di competenza contro quella sentenza, di impugnare la sentenza, producendo ai sensi dell'art. 48, un effetto sospensivo della trattazione del giudizio in merito finché non si sia pronunciata la Cassazione sul regolamento di competenza, del tutto indipendentemente dall'apparenza di fondatezza del regolamento stesso.

Ossia un sistema che consenta al convenuto di lucrare anni di dilazione nella decisione della cusa nel merito, indipendentemente dalla fondatezza delle sue eccezioni di rito.

Si potrebbe intervenire a livello legislativo riformulando l'art. 48 analogamente all'art. 367 con riferimento al regolamento di giurisdizione, cioè si potrebbe precedere che l'effetto sospensivo discenda soltanto dalla proposizione di un regolamento che non appaia manifestamente infondato, oppure, solo dalla proposizione di un regolamento che appaia fondato.

Allo stato attuale, questo è l'art,. 48, non si può accettare un'interpretazione che comporti le siffatte conseguenze. Si conclude, così ritiene la giurisprudenza e la dottrina dominante, che il giudice conservi il potere di procrastinare la decisione sulla questione di competenza ancorché questa sia stata tempestivamente sollevata ed eccepita.

Questo potere non può essere esercitato in modo arbitrario, il potere discrezionale non è un potere arbitrario, è un potere che va esercitato attraverso i criteri generali d'efficienza dell'amministrazione della giustizia, il che vuol dire, che il giudice eserciterà il potere di riservarsi o meno la decisione della questione a seconda di come gli appaia fondata, se la questione appare fondata, è doveroso che rimetta la cusa in decisione subito, se la questione appare infondata, è doveroso che egli non emetta sentenza per non fare il gioco della parte che sta sollevando un eccezione processuale infondata.

Il modo migliore per prevenire il danno che può essere arrecato all'avversario dall'infondatezza di questa eccezione, è di non pronunciarsi immediatamente sulla stessa, e di dichiararla infondata al momento si pronuncerà sul merito della domanda.

Così, va respinta la tesi di chi ritiene che la decisione immediata si renda necessaria tutte le volte che la questione di competenza sia rilevata d'ufficio e possa essere, invece, riservata all'istanza di parte, perché rimessione immediata sia doverosa solo se la questione di incompetenza è stata effettivamente rilevata d'ufficio e non, in astratto, rilevabile d'ufficio se era stata solo sollevata da convenuto, e per converso è doveroso la rimessione immediata in decisione allorquando la questione d'incompetenza sia rilevabile su istanza di parte, ma appaia al giudice fondata!

La conclusione, quindi, che il potere discrezionale di rimettere o meno sussiste, consente di tenere sotto controllo le implicazione della teoria del cosiddetto provvedimento decisorio implicito, o provvedimento decisorio sulla competenza.

Facciamo mente locale sul ricorso straordinario per Cassazione e le considerazioni intorno alla differenza tra veste formale e contenuto sostanziale della pronuncia.

Considerando che le situazioni di vantaggio a contenuto processuale che siano riferibili alla competenza del giudice, sembrano essere protette sul piano costituzionale in una certa misura, in guisa tale da consentire il controllo in Cassazione della decisione stessa, è stato logico giungere alla conclusione che la pronuncia sulla competenza sia impugnabile come tale e anche quando sia contenuta in un provvedimento che abbia una veste formale diversa da quella della sentenza.

Cioè, se il giudice dichiara espressamente la propria competenza in un provvedimento che non ha la forma della sentenza, tale statuizione si qualifica come una statuizione sulla competenza impugnabile tramite regolamento, sia nell'ipotesi quando la legge prescrive che tale pronuncia avvenga in un provvedimento avente, ad esempio, la forma di ordinanza), questo avviene nell'art. 427 nella parte in cui prevede che il giudice del lavoro riscontri che la controversia è soggetta al rito ordinario appartenete alla competenza di altro giudice, la rimette a quest'ultimo con la stessa ordinanza in cui dispone la trasformazione del rito, fissando anche il termine per la regolarizzazione degli atti dal punto di vista della disciplina tributaria; sia quando, la pronuncia di una statuizione sulla competenza, che non abbia la forma di una sentenza, dipenda da un errore del giudice.

La distinzione non è rilevante come nel contesto del ricorso straordinario per Cassazione, dove la distinzione tra volontà di legge ed errore del giudice è rilevantissima, perché, il ricorso straordinario per Cassazione è proponibile solo in quell'ipotesi in cui la statuizione sostanziale avvenga in un provvedimento non avente la forma della sentenza per volontà di legge, perché in questo caso, esula la diretta l'applicazione precettiva dell'art. 111 Costituzione, consente di disattendere l'atto legislativo contrastante con tale disposto.

Nell'ipotesi in cui sia un vero errore del giudice a determinare la pronuncia di una statuizione che incida sui diritti soggettivi in un provvedimento che ha forma diversa di una sentenza, il rimedio, non è più quello del ricorso straordinario per Cassazione, perché non c'è da far prevalere la Costituzione sulla legge, ma da far prevalere la legge e i sistemi previsti dalla legge, contempla non soltanto il ricorso per Cassazione che è l'unica impugnazione costituzionalmente garantita, sicché un provvedimento di questo tipo finirà in un appello, secondo le regole previste per le impugnazioni i ordinarie, attraverso diretta applicazione della norma di legge, non della norma costituzionale, che a questo punto, non c'è nemmeno più bisogno di evocare.

Rispetto alle pronunce sulla competenza la distinzione è irrilevante, perché, il rimedio a disposizione delle parti è esclusivamente quello del regolamento di competenza, si svolgono le ulteriori attività di trattazione, si giunge al punto il cui il giudice provvede intorno all'ammissione dei mezzi di prova relativamente al merito.

Ebbene, se il giudice nell'ordinanza che ammette i mezzi di prova dedotti dalle parti, le ammette espressamente, dato che, nonostante la sollevazione dell'eccezione si ritiene competente, il giudice è un po' ingenuo, perché questa non  può essere una statuizione sulla competenza.

L'impugnazione per regolamento d'incompetenza, in questo caso, è impugnazione per regolamento necessario d'incompetenza, perché la statuizione non può essere impugnata altrimenti, in quanto, investe esclusivamente la competenza sotto il profilo decisorio, inoltre, il regolamento di competenza, a differenza dell'appello non può formulare riserva d'impugnazione della sentenza non definitiva affermativa della competenza, unitamente all'impugnazione della sentenza che pronunci sul merito come avviene nell'ipotesi in cui ci sia sentenza non definitiva di rigetto dell'eccezione di prescrizione, qui non ho l'onere d'impugnazione immediata, il soccombente può riservarsi di impugnare insieme alla sentenza definitiva, nella statuizione di competenza non c'è maniera di riservarsi. L'impugnazione va fatta subito.

Se il giudice, nell'ammettere i mezzi di prova dalle parti, espressamente si riserva di decidere sull'eccezione di competenza ritualmente sollevata unitamente alla decisione sul merito, tale provvedimento non contiene una statuizione sulla competenza e non è autonomamente impugnabile, in quanto accettiamo l'idea che il giudice abbia questo potere.

Coloro che sostengono che la decisione sulla competenza non è riservabile, ritengono che anche in questo caso ci si trovi dinnanzi ad un provvedimento decisorio, perché l'ammissione dei mezzi di prova è da loro qualificata già come decisione incompatibile con l'accoglimento dell'eccezione di competenza, se invece seguiamo l'opinione dominante e preferibile, questo tipo di provvedimento è perfettamente lecito e ammissibile, quindi non risulta autonomamente impugnabile, e non può prodursi l'effetto sospensivo di cui all'art. 48, perché, per quanto l'art. 48 non consenta al giudice di merito di delibare l'apparenza di fondatezza del regolamento di competenza, tuttavia la giurisprudenza ha riconosciuto nell'ipotesi in cui il regolamento di competenza sia manifestamente inammissibile, il giudice di merito possa conseguire del giudizio e non sia tenuto a sospendere, ai sensi dell'art. 48, se seguiamo questa teoria, consentiamo al giudice di cavarsela, purché esplicitamente si riservi di decidere successivamente alla questione di competenza.

Se il giudice non dice niente? Il giudice ammette i mezzi di prova e basta! Per quanto sopra detto, dobbiamo apprezzare la circostanza che la giurisprudenza più recente, abbia riconosciuto che questo tipo di provvedimento non contiene una statuizione implicita sulla competenza, diversamente da quanto in passato si era ritenuto, che sussistessero i provvedimenti decisori impliciti sulla competenza, nella misura in cui in giudice non dice niente intorno alla competenza deve essere apprezzata l'opinione secondo cui, legittimamente il giudice ha fatto uso del potere di riservare la decisione e non già del potere di decidere sulla stessa, anche nell'ipotesi in cui il giudice è provvisto di poteri decisori.

Ovviamente, tutta questa teoria sul provvedimento decisorio sulla competenza non è applicabile in tutte le ipotesi in cui la causa sia riservata alla decisione collegiale, perché in questi casi, qualunque sia il dettato letterale del provvedimento reso dal giudice istruttore, esso non può contenere alcuna statuizione sulla competenza in quanto, tale organo è istituzionalmente privo, in quelle cause, per poter pronunciare tale statuizione.

La circostanza che, la decisione di competenza possa essere riservata, pone qualche problema da risolvere! In particolare, in tutte quelle ipotesi in cui, i fatti attributivi della competenza, siano rilevanti anche per il merito, perché, possiamo avere raccolto sommarie informazioni, ossia, avere acquisito risultanze, non solo precostituite in via informale, e avere acquisito vere prove secondo i mezzi ordinari intorno agli stessi fatti.

Possiamo utilizzare per la questione di competenza le risultanze formalmente acquisite sui fatti rilevanti, anche per il merito, attraverso l'istruzione probatoria funzionale per la pronuncia sul merito, o la regola dell'art. 38, ci dice che vanno decise allo stato degli atti, in base a sommarie informazioni, ci impedisce di tener conto di tali risultanze?

Se per esempio, quei soggetti, dicevano di avere visto Tizio entrare ed uscire da quella casa, confermano di averlo visto quando vengono evocati formalmente e lo negano sotto giuramento!

 Dobbiamo ritenere, che, la competenza sussista anche se, quelli stessi soggetti, sotto giuramento l'hanno negato? Il dettato letterale, potrebbe suggerire di si, ma la conclusione è decisamente forzata, in realtà, prevale per cui la decisione sulla competenza viene allo stato degli atti, addirittura solo sulla base della prospettazione attoria, e assunte sommarie informazioni, deve essere resa tenendo conto, anche, delle risultanze dell'istruttoria probatoria, in senso pieno e pare assurdo, dovere disconoscere risultanze prevalenti e del tutto contrastanti.

Questa è la soluzione dominante! Ovviamente, in tanto e in quanto, si postumi che la decisone sulla competenza possa essere procrastinata ex art. 187.

E il contrario! Possiamo tenere conto delle sommarie informazioni quando decidiamo sul merito? Questa domanda rinvia ad un problema detto delle prove atipiche nel processo civile, delle risultanze probatorie acquisite in modi diversi da quelli esplicitamente regolati dalla legge.

Tenere conto di queste prove, è doveroso! Lungi da tessere un abuso inquisitorio, come alcuni lamentano, è del tutto sensato che il giudice tenga conto nella decisione sul fatto anche di risultanze acquisite in modo atipico, fatti salvi i limiti all'ammissibilità dei mezzi di prova, che siano legislativamente previsti, che non vengano elusi attraverso l'introduzione di questi strumenti, per cui si può immaginare, se una testimonianza è inammissibile non si possa neppure tener conto delle dichiarazioni rese dallo stesso soggetto, magari in forma scritta attraverso la produzione dello scritto stesso, perché sarebbe un modo indiretto per violare la regola che esclude l'ammissibilità della prova testimoniale.

È inammissibile la prova testimoniale nel soggetto che avrebbe interesse ad essere parte nel giudizio, come queste dichiarazioni della parte virtuale non possono essere acquisite attraverso un esame testimoniale, così pure, non possono essere acquisite a fini probatori attraverso la produzione di uno scritto di questa stessa parte.

Ma giunge alla molto più forte conclusione, che scritti provenienti da terzi non siano mai ammissibili nel processo civile, in quanto, le dichiarazioni di terzi debbono raccogliersi esclusivamente nella forma dell'esame testimoniale, e invece l'argomentazione troppo forte che non trova rispondenza nel diritto positivo, che la giurisprudenza disconosce, ammettendo largamente che nel processo si possa far uso delle cosiddette prove atipiche.

Alla luce di questo ragionamento, posto che risultanze acquisite sulla base di sommarie informazioni tendono tipicamente a presentarsi come prove atipiche di vario genere, pare legittimo tenere in considerazione anche queste sommarie informazioni proprio perché non si può chiedere al giudice di chiudere gli occhi di fronte a risultanze legittimamente acquisite alla causa, anche ai fini sulla pronuncia sul merito.

Abbiamo ancora un ulteriore complicazione! C'è un ipotesi in cui sia stata tempestivamente sollevata ed eccepita la questione di incompetenza. Il giudice si è riservato di decidere la questione inerente al merito, abbiamo provveduto all'istruzione probatoria, non abbiamo avuto una pronuncia ne sulla competenza ne sul merito e in mancanza di questa istruzione probatoria ci portano a concludere, per esempio, che il rapporto dedotto in giudizio non è un rapporto di lavoro subordinato e quindi, per un verso il giudice non sarebbe competente ad accogliere la domanda e per altro verso questa potrebbe essere accolta solo in parte, perché alcuni hanno sostenuto che questo tipo di ipotesi, e il giudice potrebbe avere la facoltà discrezionale di scegliere se dichiararsi incompetente, ovvero rigettare la domanda nella misura in cui non è competente per accoglierla, ovvero accogliere la domanda nella misura in cui può essere competente per accoglierla facendo salva la sua riproponibilità sotto i diversi profili, dinnanzi al giudice competente.

Questo tipo di soluzioni, in qualche misura, potrebbero consentire di conseguire qualche risparmio, però sembra una forzatura arrivare a queste conclusioni, perché, dal sistema quale conurato, sembra che debba conservarsi la regola della necessaria priorità logica della risoluzioni delle questioni di rito rispetto a quelle di merito, e quindi, in tanto e in quanto sia tempestivamente sollevata e eccepita la questione di competenza, se questa questione è fondata, il giudice deve dichiararsi incompetente, perciò non è sensato stare ad approfondire in che misura possano realizzarsi dei vantaggi e delle efficienze attraverso una soluzione così complessa.

Più lineare, sembra che questa questione deve rimanere prioritaria, e effettivamente decisa, magari nello stesso provvedimento con cui si intende pronunciare sul merito, ma pur sempre, prioritariamente sul paino logico rispetto alla pronuncia sul merito stesso.

·    L'istituto del regolamento di competenza

Venne introdotto da legislatore del '42, ispirato all'esperienza del regolamento preventivo di giurisdizione, conurando non già come un rimedio preventivo di una pronuncia sul merito della causa, bensì, come una impugnazione dei provvedimenti che contengano statuizioni su una competenza.

Come il regolamento di giurisdizione, il regolamento di competenza consente alle parti di accedere immediatamente alla Corte di Cassazione saltando il grado d'appello del giudizio, e possibile alternativa a questo strumento, in astratto, a disposizione del legislatore, potrebbero essere quella di prevedere il sistema di impugnazione ordinaria, conseguenza che discenderebbe automaticamente dall'eventuale abrogazione del regolamento di competenza, ovvero, si può immaginare un sistema alternativo, cioè quello di consentire la mera reclamabilità della decisione dinnanzi al giudice superiore senza facoltà di ulteriore riesame della stessa.

Ipotesi che alcuni hanno suggerito, ma presenta il problema di risultare incompatibile con quella implicazione della garanzia del giudice naturale da cui discenderebbe che la parte debba sempre poter giungere dinnanzi alla Cassazione sulla questione della competenza del giudice ai fini della pronuncia sul merito della causa, perché, ad esempio, nel corso del procedimento cautelare, può porsi il problema della competenza del giudice ad emanare il provvedimento cautelare.

Questa questione può essere fatta valere dinnanzi al giudice adito, per l'ottenimento di un provvedimento cautelare e può anche essere coltivata attraverso il reclamo previsto dalla legge nei confronti del provvedimento cautelare, ma non può essere dedotta tramite regolamento di competenza in Cassazione, nei confronti del provvedimento sul proposto reclamo, perché, si dice, che siamo in contesto che non sfocia in un provvedimento a contenuto decisorio.

Il provvedimento cautelare è instabile, caratterizzato non solo da strumentalità funzionale, ma anche da strumentalità strutturale, non sta in piedi da solo, sta in piedi soltanto se tempestivamente si introduce e si coltiva il giudizio di merito, e nel corso del giudizio di merito, si potrà proporre regolamento di competenza, con riferimento alla competenza del giudice adito per il merito a pronunciare sul merito. Altra è la competenza del giudice adito per il merito a pronunciare sul merito, altro è la questione della competenza del giudice adito per il provvedimento cautelare a redimere il provvedimento cautelare stesso.

Le due competenze, generalmente coincidono, ma non sempre! C'è una lacuna di tutela.

La Cassazione riteneva che ci fosse una lacuna di tutela meritevole di essere colmata, prima della riforma del '90, l'orientamento costante, allora, della Cassazione era nel senso che il regolamento di competenza fosse ammissibile nel corso dei procedimenti cautelari e avverso provvedimenti cautelari contenenti statuizioni sulla competenza ancorché riferite esclusivamente alla competenza cautelare e non alla competenza per il merito.

Dopo la riforma del '90, l'introduzione, come rimedio generale, del reclamo, nei confronti e dei provvedimenti di accoglimento dell'istanza cautelare, e a seguito di sentenza della Consulta anche nei confronti dei provvedimenti di rigetto dell'istanza cautelare, secondo la Cassazione, ha colmato la lacuna di tutela, ciò che si doveva assicurare, secondo la Cassazione, era il diritto ad un riesame della statuizione da parte di un giudice diverso, attraverso il rimedio del reclamo, ma non anche il diritto ad un riesame della statuizione da parte della Cassazione, sicché, la regola generale rispetto alla competenza cautelare, è che non sussiste il diritto ad ottenere un controllo in sede di legittimità delle statuizioni riferibili alla competenza per l'emanazione dei provvedimenti non propriamente decisori, o meglio, decisori quando incidono su diritti soggettivi, ma non definitivi perché revocabili e privi di idoneità al giudicato e comunque di stabilità sufficiente a giustificare l'applicazione del sistema che fa capo all'art. 111 della Costituzione alla nozione di sentenza in senso sostanziale.

È un ragionamento pragmatico, tutt'altro che sistematico, perché dal punto di vista della rigorosa interpretazione della norma, in realtà, nulla, nella riforma del '90 nell'eccepire il procedimento cautelare, incideva direttamente sul tema della riesaminabilità in Cassazione della competenza cautelare.

Nel momento in cui la Cassazione ha raggiunto questa conclusione, possiamo compiacercene, perché, considerato al particolare natura dei provvedimenti cautelari e l'importanza di particolari esigenze di celerità che si hanno nel contesto del procedimento cautelare, la possibilità di avvalersi anche del rimedio del regolamento di competenza sarebbe stata, plausibilmente, un ipergarantismo, perché non c'era già prima una copertura costituzionale del diritto al riesame in Cassazione delle pronunce sulla competenza cautelare, quindi, dobbiamo valutare, con qualche riserva, una giurisprudenza, rimasta isolata, di Cassazione, che ha invece ammesso la proposizione del regolamento nell'ipotesi in cui vi sia stata una reiterata declinatoria della competenza.

Il problema di lacuna di tutela può porsi quando l'attore vada in cerca di un giudice che si ritenga competente e si trovi dinnanzi ad un ripetuto scarica barile! Se la causa pende per il merito soccorrebbe comunque il regolamento di competenza d'ufficio, che accelera la risoluzione di questo problema, quello del conflitto negativo di competenza, ma laddove non scattasse può operare in via subordinata il regolamento di incompetenza su istanza di parte.

Nel contesto del procedimento cautelare, l'ipotesi di conflitto negativo d'incompetenza, potrebbe essere risolto tramite un'applicazione estensiva del regolamento di competenza d'ufficio, che è un rimedio efficace e il cui ambito di applicazione si è molto ampliato nella prassi giurisprudenziale rispetto a quanto previsto nel '42.

Molto più discutibile è che si renda applicabile il regolamento di competenza a istanza di parte, se non in quella ipotesi in cui vi sia un'omissione dell'esercizio del potere del giudice di promuovere l'incompetenza d'ufficio, ferma restando che qui, siamo nell'ambito delle applicazioni forzate dell'istituto, perché, tra i presupposti del regolamento vi è la translatio iudici, cioè l'applicazione dell'art. 50, di quella norma che consente di conservare gli effetti della domanda, purché vi sia tempestiva riassunzione dinnanzi al giudice indicato come competente, e tale istituto non è invece applicabile al procedimento cautelare, perché, il rigetto per incompetenza dell'istanza cautelare è disciplinato da apposita norma che non contempla facoltà di riassunzione presso un diverso giudice indicato come competente.

Tutto sommato questo reclamo almeno nel contesto del procedimento cautelare può funzionare, nel contesto del procedimento ordinario a cognizione piena diretto a sfociare in un  provvedimento idoneo al giudicato sembrerebbe proprio di no! E naturalmente, questo tipo di conclusioni producono tutte le implicazioni viste prima a proposito del provvedimento decisorio implicito.

Sebbene, da tanti punti di vista, possa sembrare auspicabile la riduzione dell'importanza delle questioni di incompetenza tra la possibilità di farle valere nel corso del processo e di procrastinare per tramite esame del merito della causa indipendentemente dalla loro fondatezza, le poche riforme che hanno investito il regolamento di incompetenza hanno avuto il risultato di estenderne l'ambito di applicazione.

Vediamo alcune caratteristiche essenziali.

Primo punto da osservare è che si tratta di impugnazione ordinaria! È un punto dubbio? Per alcuni aspetti, sì, l'art. 323 del codice di rito, lo qualifica esplicitamente il regolamento di competenza fra le impugnazioni ordinarie, tuttavia, rispetto allo strumento come il regolamento di competenza d'ufficio, qualche riserva sulla sua natura di mezzo d'impugnazione vero e proprio, si potrebbe anche formulare, con relativi dubbi intorno alla sua consumazione, nell'ipotesi di declaratoria di inammissibilità dello stesso.

Qualche dubbio ulteriore, viene sollevato in ordinane alla natura di mezzo d'impugnazione del regolamento di competenza, perché, non è chiara la fasi applicativa in proposito, in che misura si applichi a tale istituto il criterio della soccombenza, in linea generale, è legittimata a proporre impugnazione soltanto la parte soccombente, ma rispetto alla questione di competenza qual è la parte soccombente, soprattutto nelle ipotesi in cui l'incompetenza sia rilevata d'ufficio, si potrebbe immaginare che sono soccombenti tutte e due le parti, quindi, alcuni disposti letterali del codice sembrano suggerire, che la proposizione dell'impugnazione non presupponga la soccombenza, ma possono essere interpretati in modo coerente alla regola che subordina l'opportunità di impugnazione alla soccombenza stessa, tenendo conto, che rispetto alla decisione risultino soccombenti tutte le parti, così vale per quel disposto dell'art. 47, in cui si prevede che le altre parti possano aderire al regolamento di competenza proposto da una delle parti, e il disposto dell'art. 43, nella parte in cui prevede che la proposizione dell'impugnazione ordinaria, intendendosi dell'appello, non toglie alle altre parti la facoltà di proporre regolamento, è chiaro che la proposizione di impugnazione ordinaria proviene dalla parte soccombente, nell'ipotesi in  cui si è avuta pronuncia sulla competenza e sul merito.

Le altre parti possono proporre regolamento sia nel caso in cui abbiamo pluralità di parti convenute e sentenze di accoglimento della domanda del merito, in questo caso, alcuni dei convenuti propongono appello, altri propongono regolamento di competenza, la circostanza che entrambe le impugnazioni vengano proposte non richiede di far venire in meno la regola della soccombenza come presupposto dell'impugnazione.

Il caso complicato è quello che si pone quando vi sia stato rigetto della domanda del merito, in questo caso, soccombente in senso tecnico è proprio l'attore, la statuizione affermativa della competenza di cui potrebbe lamentarsi soltanto il convenuto che però tecnicamente non è soccombente.

Se interpretiamo l'art. 43, in guisa tale da consentire, quindi, al convenuto, vittorioso nel merito di proporre regolamento di competenza, raggiungiamo una soluzione che ci fa prescindere dalla soccombenza ai fini dell'individuazione della parte legittimata a proporre regolamento, ma la norma può conservare un contenuto precettivo compatibile con l'applicazione anche del regolamento del requisito di una soccombenza, in tanto in quanto, si immaginino ipotesi come quella di pluralità di convenuti.

Che conclusioni dobbiamo raggiungere a proposito della consumabilità del regolamento di competenza? Si deve ritenere che laddove sia stato proposto il regolamento di competenza inammissibile, perché rivolto contro un provvedimento che ancora non contenesse una pronuncia sulla competenza, erroneamente qualificato dalla parte come provvedimento decisorio sulla competenza, ma in realtà privo di tale contenuto, deve però ritenersi ammissibile il regolamento proposto contro il successivo provvedimento che effettivamente tale statuizione contenga.

Questa conclusione si può raggiungere affermando che, il disposto dell'art. 387, in materia di consumazione dell'impugnazione, quando sia dichiarato inammissibile un ricorso per Cassazione, sia riferibile soltanto al ricorso per Cassazione in senso proprio, che al ricorso per regolamento di competenza, ovvero, ritenere che la consumazione si applichi quando si faccia riferimento all'impugnazione di uno stesso provvedimento e non allorché si faccia riferimento a provvedimenti di tipo diverso, in vario modo si può giustificare la conclusione che mantenendo ferma l'idea in linea generale, il regolamento di competenza si qualifiche come impugnazione.

Quante volte si può proporre regolamento di competenza? In passato, si riteneva, dominante il disposto dell'art. 42 nella parte in cui prevede che la sentenza che pronuncia soltanto sulla competenza è impugnabile esclusivamente con regolamento di competenza, pertanto se, a seguito della formazione di un giudicato sulla competenza, ad esempio successivo alla pronuncia di un regolamento, il giudice di merito presso il quale la causa venga riassunta in ossequio alla sentenza di Cassazione, pronunciasse una ulteriore sentenza sulla competenza, il rimedio a disposizione della parte doveva essere sempre il regolamento di competenza, in quell'occasione, ovviamente, la Cassazione non avrebbe dovuto compiere un nuovo esame della fondatezza della questione di competenza, bensì dovrebbe reiterare la precedente statuizione.

Secondo una giurisprudenza recente, la novellazione dell'art. 38, avrebbe un implicazione un po' sottile, cioè, che tutte le statuizioni sulla competenza che siano compiute in violazione del sistema delle preclusioni e a rilievo delle questioni di competenza, dovrebbero essere impugnate non per violazione su norme sulla competenza, bensì per le violazioni delle norme sul processo, conseguentemente anche, con impugnazione ordinaria anziché con regolamento di competenza, sicché, ci rivolgiamo al tribunale di Ancona e si dichiara competente, viene promosso regolamento di competenza e la Corte di Cassazione conferma la competenza del tribunale di Ancona, successivamente il tribunale di Ancona si dichiara incompetente, questa sentenza andrebbe impugnata con appello.

Questa decisione è discutibile sul piano pratico, perché, stabilire se un provvedimento contiene o meno una statuizione sulla competenza, è molto più facile che stabilire se la questione su cui si è statuito fosse o meno preclusa, stabilire se c'è una pronuncia sulla competenza è facile, basta guardare il disposto, tanto è vero che, l'art. 47, prescrive che il termine per la proposizione del regolamento lungi dal decorrere, come avviene in generale per le impugnazioni, dalla notificazione del provvedimento che consente di conoscerlo per intero, decorre eccezionalmente dalla comunicazione dello stesso, poiché è sufficiente osservare la statuizione per capire se c'è una pronuncia sulla competenza.

Per stabilire invece se la questione di competenza su cui si è pronunciato, fosse o meno preclusa al momento della pronuncia bisogna guardare gli atti di causa e quindi questa soluzione aggrava gli oneri di ricerca della parte ai fini dell'individuazione del mezzo d'impugnazione esperibili nel confronto del provvedimento, il risultato di questo aggravarsi degli oneri di ricerca della parte è la proliferazione delle impugnazioni proposte allo solo scopo di evitare di correre il rischio di perdere il rimedio, quindi questa affermazione finirà per aumentare le ipotesi in cui entrambe le impugnazioni verranno proposte nell'incertezza su quali delle due sia ammissibile, nell'eventualità, che appunto sia resa inammissibile quella che la parte riteneva che fosse l'impugnazione più appropriata.

Il dettato letterale dell'art. 42, prosegue individuando tra i provvedimenti impugnabili esclusivamente con il regolamento di competenza, oltre alla sentenze che pronunciano sulla sola competenza anche quelle che dichiarano la litisdipendenza o continenza di causa, ex artt. 39 e 40, nonché, i provvedimenti che richiamano la sospensione del processo ex art. 295.

Questa ipotesi è stata introdotta dalla riforma del '90, perché, rispetto ai provvedimenti di sospensione del processo, si era consolidata l'idea che essi non contenessero necessariamente alcuna statuizione sulla competenza, e quindi non fossero neanche qualificati come provvedimenti decisori sulla competenza e si era raggiunta la conclusione che nell'ipotesi in cui fosse stata illegittimamente negata la doverosa sospensione, nell'ipotesi di rigetto della istanza di sospensione, la parte vittima dell'errore del giudice nel rigettare l'istanza, poteva avvalersi della possibilità di far valere in sede d'impugnazione la nullità degli atti compiuti in presenza di una causa di sospensione del processo ai sensi dell'art. 298.

Nell'ipotesi, invece di illegittima concessione di provvedimento di sospensione, la parte che ne fosse stata vittima e quindi avesse visto, illegittimamente rallentare i tempi della sua tutela, non aveva a disposizione alcun rimedio, il tempo perso non poteva tornare indietro, e quindi si è giunti alla conclusione che si dovesse prevedere la possibilità di riottenere un riesame da parte di un  giudice diverso dei provvedimenti che concedono la sospensione, non di quelli che la negano, ma rispetto agli errori di quel tipo, già esiste il rimedio, ma nei confronti dei provvedimenti che illegittimamente la concedano.

Tuttavia, la scelta del legislatore è discutibile, in tanto perché, è uno strumento di riesame lento, perché un regolamento di competenza, non era meglio un reclamo ad un giudice superiore? Dato che il provvedimento non ha contenuto decisorio incide solo su situazioni soggettive a contenuto processuale non provviste di quel grado di rilevanza costituzionale che è proprio della garanzia del giudice naturale.

Il reclamo poteva andare benissimo! Scegliere il metodo del regolamento di competenza rischiava di provocare di rivelarsi un rimedio peggiore dell'altro, se si fossero affermate certe interpretazioni che pure, questa soluzione, in qualche modo suggeriva, cioè, per esempio, l'interpretazione che allora, la statuizione sulla sospensione avesse acquisito un contenuto decisorio, e quindi, doveva rendersi con sentenza e doveva rendersi con sentenza anche nell'ipotesi di rigetto dell'istanza di sospensione, ma questo è un capolavoro di mala fede; faccio istanza di sospensione, me la rigetta, propongo regolamento di competenza che produce la sospensione! Per fortuna queste interpretazioni non si sono affermate, è gia consolidata in Cassazione che l'idea di rigetto dell'istanza di sospensione non sia impugnabile tramite regolamento.

L'impugnabilità dei provvedimenti di sospensione, non implica e non deve implicare che questi assumano potere decisorio, come la conseguenza che dai provvedimenti, rimanga pienamente revocabili dal giudice che le abbia emanati, perciò, anche nell'ipotesi in cui gli stessi siano stati confermati a seguito dell'esperimento di un regolamento di competenza, quindi ciò, non soltanto nell'ipotesi in cui la revocabilità del documento si giustifichi in ragione di sopravvenienze, cioè, ad esempio, perché è cessata la causa della sospensione del processo, ma anche per effetto di una nuova valutazione del giudice, intorno alla sussistenza dei presupposti per l'emanazione del provvedimento.

Ci sono per converso, sentenze sulla competenza che non sono impugnabili tramite regolamento, l'art.46 dice che le sentenze del giudice di pace non sono impugnabili tramite regolamento, ovviamente, tali pronunce rimangono impugnabili. Ma come? Se la causa davanti al giudice di pace è da decidere secondo equità? La legge dice che queste sentenze non sono impugnabili, e se anche lo dicesse, sarebbero davvero non impugnabili? Plausibilmente, no! Scatterebbe immediatamente il dettato della costituzione che recita che tutte le sentenze sono impugnabili e non sfuggiremmo comunque l'impugnabilità per Cassazione.

Tant'è che, il Mandrioli dice che le sentenze del giudice di pace sono soggette a ricorso straordinario per Cassazione, la conclusione è inesatta, perché la legge non dice che queste sentenze non sono impugnabili, dice, non sono impugnabili col regolamento di competenza e aggiunge, non sono appellabili.

Le sentenze inappellabili, cioè quelle pronunciate in unico grado, sono soggette a ricorso ordinario per Cassazione, quindi nn c'è bisogno di evocare la norma costituzionale alla sua diretta applicazione precettiva, poiché, sulla base di una piana applicazione delle regole codicistiche, tali sentenze risultano soggette a ricorso per Cassazione, ma come è possibile che una sentenza pronunciata secondo equità, sia poi soggetta al controllo di legalità in Cassazione? La Cassazione verifica che non vi sia stato disapplicazione delle norme di diritto. È plausibile che il contenuto equitativo della decisione resa secondo equità, debba essere considerata inattaccabile, la Cassazione non deve controllare se la regola equitativa adoperata dal giudice di pace sia davvero equa, tuttavia, questo non esclude che un controllo di legittimità possa aver senso.

Esso infatti può avere raggiunto, in primo luogo la violazione di norme costituzionali, perché, le norme che autorizzano il giudice di pace a decidere secondo equità, sono norme di legge ordinarie e per loro tramite non può mai giustificarsi una violazione di norme costituzionali, poi, più sottilmente, si potrà contestare davanti alla Cassazione la sussistenza dei presupposti per decidere secondo equità, che sono presupposti di diritto, è la legge che autorizza a decidere secondo equità e si viola la legge se si decide secondo equità in casi diversi da quelli previsti dalla legge, infine, la legge consente al giudice di pace, in alcune occasioni, di decidere secondo equità, ma non di procedere secondo equità, pertanto, è logica la conclusione che qualsiasi situazione di norma del processo, di regole processuali, sia deducibile tramite ricorso per Cassazione nei confronti di queste sentenze.

Pertanto, allorché, si tratti di pronunce sulla competenza e riesame in Cassazione, deve essere possibile riconoscere anche sulla competenza resa dal giudice di pace, in cause nelle quali la pronuncia doveva avvenire secondo equità, il controllo di Cassazione deve essere pieno, sotto il profilo della decisione in punto di competenza trattandosi di questione processuale intorno alla quale non è ammissibile il ricorso a criteri equitativi di risoluzione della controversia.

Ovviamente, a seconda se, la causa sia una causa da decidere secondo equità, o meno, la sentenza che pronuncia sulla competenza, sarà rispettivamente impugnabile con ricorso per Cassazione o con appello, perché le sentenze che il giudice di pace decide secondo diritto, sono invece appellabili e soggette ad appello, perciò, l'impugnazione contro il provvedimento è impugnazione secondo le norme ordinarie con riferimento al tipo di decisione che il giudice di pace avrebbe emesso.

Questo ci consente, almeno con riferimento a quelle ipotesi in cui il giudice di pace decide secondo diritto, di verificare che cosa cambia se il regolamento di competenza venga abolito!

Qui, c'è stata una vicenda evolutiva del dato normativo abbastanza interessante, perché, in un primo momento, il legislatore aveva previsto l'impugnabilità delle sentenze del giudice di pace esclusivamente tramite ricorso per Cassazione. In quell'occasione, il legislatore aveva anche abrogato una norma che contemplava che nell'ipotesi in cui fosse riformata in grado d'appello la sentenza declinatoria della competenza resa dal giudice di pace, il giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere la causa a quest'ultimo, ovvero sia, ci saremo trovati di nuovo in quelle occasioni in cui, per la rinnovazione degli atti in giudizio d'appello, non è idonea a sanare il vizio processuale determinato dallo svolgimento del giudizio di primo grado dinanzi ad un giudice dichiaratosi incompetente.

Questa norma venne abrogata, ma in un momento successivo venne ripristinata l'appellabilità di alcune sentenze del giudice di pace, ma allora, quel secondo comma dell'art. 353 che prescriveva la rimessione in primo grado, dinanzi al primo giudice nell'ipotesi di riforma della declinatoria della competenza, è tornato in vigore? È insidioso, immaginare la riviviscenza delle norme abrogate!

In realtà, tutto sommato è accettabile vivere bene anche senza quest'ipotesi, perché, nel giudizio svoltosi dinanzi al giudice di pace in primo grado, è stata resa una sentenza erronea, una sentenza in cui il giudice si è dichiarato incompetente mentre era competente, tuttavia, questo giudizio, sia pure conclusosi in modo erroneo, si è svolto davanti al giudice competente, e nella misura in cui ha senso dire che dobbiamo salvaguardare quanto possa essere implicito nella regola del giudice naturale, quindi il diritto della parte ad essere giudicata in ogni grado di merito dinanzi al giudice competente per quel grado, è salvaguardato anche se la causa non viene nuovamente rimessa davanti a quel primo giudice.

Nell'ipotesi inversa, cioè nell'ipotesi in cui il giudice d'appello ritenga incompetente il giudice di pace che ha pronunciato in primo grado, si dovrà tornare in primo grado perché le parti dovranno essere rimesse dinanzi al giudice competente, in questo caso non si pone il problema della tassatività dell'ipotesi di rimessione della causa al primo giudice da parte del giudice d'appello, ciò può aver luogo solo in casi previsti dalla legge, sì!, rimessione al primo giudice, naturalmente nell'ipotesi in cui la sentenza sia riformata, perché dichiarata la competenza di altro giudice, la causa non è rimessa al primo giudice, è rimessa in primo grado ma davanti ad altro giudice.

Ovviamente, questo comporta una certa discrepanza di regime rispetto alle cause che, invece, non siano di competenza del giudice di pace, perché, in questa ipotesi, la sentenza declinatoria della competenza impugnata tramite regolamento per Cassazione, viene, se è erronea, cassata con accoglimento del ricorso per regolamento da parte della Cassazione, con rimessione, ai fini della pronuncia sul merito, di nuovo al giudice che aveva reso questa erronea sentenza declinatoria, in questo caso la sentenza ritorna in primo grado e anche dinanzi al primo giudice.

Però, questo avviene per effetto di un meccanismo che ha consentito di saltare il grado d'appello nella risoluzione della questione processuale, quindi il sistema trova due diverse forme di equilibrio e tutto sommato, non sembra bislacca, l'idea di preferire il sistema del giudice di pace rispetto a quello del giudice ordinario, perché, il regolamento di competenza si presta a molte forme di utilizzazione abusiva e dilatoria, soprattutto, finché non venga formulato l disposto dell'art. 48, allora a quel punto, l'utilità che esso riveste dal punto di vista economico, si presenta soprattutto in casi in cui vi sia stata una erronea affermazione della competenza, ma se ne facessimo a meno, tutto sommato, non sarebbe una tragedia per quel che riguarda il regolamento a stanza di parte necessario o facoltativo.

La distinzione fra necessario e facoltativo, parliamo di regolamento facoltativo nell'ipotesi in cui la sentenza pronunci oltre che sulla competenza, anche sul merito, abbiamo quindi fondamentalmente in mente, l'ipotesi della sentenza affermativa della competenza contenente anche pronuncia sul merito della causa, e come è stato accennato, esiste una disciplina del concorso per l'impugnazione ordinaria intesa in questo senso dell'appello, ovvero del ricorso ordinario per Cassazione laddove si tratti di sentenza d'appello che contenga anche pronuncia sulla competenza da un lato, e dall'altro regolamento di competenza prevedendosi come regola generale una priorità nel regolamento di competenza anche in vista della pregiudizialità logica rispetto alle questioni di merito, con la conseguenza che proposto regolamento e sospeso il termine per proporre appello, proposto appello resta invece la facoltà di proporre regolamento con effetto sospensivo della trattazione dell'appello stesso.

Come accennato, intorno al quesito della soccombenza nel disposto dell'art. 43, dove si prevede, che la proposizione per l'impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la facoltà di proporre regolamento.

Diverso è il discorso che faremo rispetto al regolamento proposto d'ufficio, che è uno strumento di grande utilità ed efficienza e va accomnato, in qualche misura, dal regolamento di istanza di parte nel senso che, è ragionevole ritenere che laddove si ritenga ammissibile il regolamento di competenza d'ufficio, e questo non venga proposto, sia congruo offrire alle parti la possibilità di attivarlo da se stessi, ma in via subordinata, ad ipotesi in cui sussista un errore del giudice nel non applicare tale disciplina, disciplina, che, non possa ritenersi esplicitamente abrogata per effetto della riforma dell'art. 38. L'unificazione di regime della disciplina della competenza per materia, valore, territorio funzionale, avrebbe equiparato tutte le incompetenze al regime dell'incompetenza per valore, la quale, a sua volta, non consente di sollevare, come tale, regolamento di competenza d'ufficio dovendo, quest'ultimo, proporsi soltanto allorché sussistano dubbi intorno alla competenza per materia in territorio funzionale nel dettato legislativo, però la differenza di regime fra competenze per materia e competenze per valore, rimane viva sotto diversi profili come la modificazione della competenza per ragioni di connessione, sicché il ragionamento finisce per essere troppo forzato per avere conseguenze di questo genere, e tutto sommato queste conseguenze sembrano non essere meritevoli, perché, anzi, il regolamento d'ufficio merita di trovare applicazione anche in ipotesi ulteriori, rispetto a quelle previste dalla legge.

Caso contemplato dalla disciplina positiva, è quello del conflitto negativo virtuale di competenza, che si produce quando il giudice presso il quale si sia avuto riassunzione della causa a seguito della declinatoria, ritenga a sua volta di essere incompetente, possa farlo in vista dei limiti di efficacia del giudicato interno prodotto dalla declaratoria di competenza ai sensi dell'art. 44, che consente al giudice della riassunzione di dubitare della propria competenza per materia e territorio funzionale.

Dubitare, non vuol dire autorizzarlo a dichiararsi a sua volta incompetente! Egli non può pronunciare la nuova declaratoria di competenza, ma deve promuovere d'ufficio regolamento a ciocchè sia la Cassazione a sciogliere la questione, ebbene, si ritiene che il rimedio sia anche applicabile al caso dei conflitti negativi reali e si ha allorché, ad esempio, il giudice della riassunzione, anziché promuovere regolamento di competenza d'ufficio, si dichiari a sua volta incompetente.

Sia nell'ipotesi in cui lo faccia dichiarando la competenza del giudice adito per primo, sia quando lo faccia dichiarando la competenza di un terzo giudice, sia quel terzo giudice sia il giudice adito per primo, dinanzi ai quali la causa venga riassunta a seguito della declaratoria, sono del pari legittimati a promuovere loro regolamento di competenza d'ufficio, così come, invece, sono le parti a poter proporre regolamento di competenza nei confronti di questa seconda declinatoria, salvo se ciò sia ancora vero alla luce di quella giurisprudenza, delle sezioni unite, che ritiene di suggerire se in questo caso si sia al cospetto, non di una violazione delle norme sulla competenza, ma di una violazione delle regole del processo, qui al sentenza stessa, vada impugnata nei modi ordinari, e cioè tramite appello.

Del pari, si è ritenuto applicabile, il regolamento di competenza d'ufficio, all'ipotesi di conflitti positivi di competenza, cioè, nei casi in cui più giudici contemporaneamente si dichiarassero competenti per la stessa causa.

Questa ipotesi non è contemplata dal codice nella disciplina di regolamento di competenza d'ufficio, ed è contemplata dal codice in altra sede, la disciplina applicabile a questa fattispecie, è infatti quella della litispendenza, ex art. 39, disciplina che comporterebbe, il giudice successivamente adito, si spoglia della causa tramite una sentenza dichiarativa della litispendenza, impugnabile tramite regolamento di competenza, ma in realtà la fattispecie si riproduce nella prassi nell'ambito dei procedimenti fallimentari, in cui capita spesso che vengano aperti più procedimenti fallimentari a carico dello stesso soggetto presso più uffici giudiziari e l'esigenza di coordinare celermente questo raddoppiamento di giudizi giustifica la facoltà del giudice di promuovere egli stesso il regolamento di competenza affinché venga chiarito quale fra gli uffici giudiziari è provvisto del potere di gestire la procedura fallimentare.

Può ritenersi apprezzabile l'applicazione della disciplina del regolamento d'ufficio ai casi di conflitti negativi di competenza che si verifichino in contesti non decisori e nei quali, pure non si renda applicabile il presupposto previsto dall'art. 45, della tempestiva riassunzione della causa dinanzi al giudice indicato come competente, come abbiamo detto, quando accennato al problema del regolamento di competenza nel contesto della tutela cautelare, non si può applicare nell'ambito dei procedimenti cautelari la disciplina della riassunzione della causa presso il giudice indicato competente, ma è comprensibile, in caso di conflitto negativo, riferito alla competenza cautelare, il giudice possa ritenersi legittimato a promuoverlo.

Sono apprezzabili, quelle interpretazioni che consentono di promuovere regolamento, anche quando la prima declinatoria, sia fondata su ragioni di valore o territorio derogabile.

In prima battuta sembrerebbe non contemplato dal sistema degli artt. 44 e 45, però, se giungessimo che quest'ipotesi non fosse contemplata, posto che senza dubbio il giudice della riassunzione non è vincolato, in tanto e in quanto, la questione possa conurarsi come questione di competenza per materia o territorio funzionale, se lo ritenessimo privo del potere di attivare immediatamente il regolamento, dovremmo ritenere che egli dovrebbe dichiararsi incompetente con sentenza indicando quale giudice sia competente per materia, e che il regolamento debba poi essere eventualmente promosso dal giudice dichiarato competente in quell'occasione, presso il quale la causa venga tempestivamente riassunta.

Posto che, il regime della competenza per valore, che si applica in via subordinata rispetto a quella per competenza per materia, perché di regime residuale, è logico concludere che una declaratoria di incompetenza per valore, implicitamente presuppone che il giudice riscontri l'assenza di competenza per materia sulla questione, e quindi, anche quando il giudice rimette la causa solo per ragioni di valore, ha, in realtà ha pronunciato anche intorno all'ipotesi dell'incompetenza per materia del giudice stesso, da questo punto di vista, si può rinvenire un conflitto negativo attorno alla sussistenza di una competenza per materia, giustificativo della proponibilità del regolamento d'ufficio.

·    Rapporti giuridici sostanziali e cause

A seconda di come s'intenda il limite oggettivo del giudicato, queste interferenze di rapporti, possono comportare problemi di contrasti di giudicati, laddove le controversie vengano decise separatamente, e può darsi, che questo contrasto di giudicati, dovrà essere represso, e la repressione del contrasto di giudicato ha un costo, si può ammettere solo in casi estremi.

Un'altra soluzione, è quella di prevenire il contrasto di giudicati, prevedendo che vi sia una necessaria successione cronologica fra le decisioni, a ciò che, l'una, debba conformarsi all'altra o risultare impugnabile.

Anche questa soluzione non è soddisfacente, perché rallenta la tutela, una possibilità di favorire il coordinamento dei giudicati consistente nella trattazione cumulativa di più cause in un unico processo, questo non assicura che le decisioni siano coerenti, perché, può darsi che il giudice abbia la giornata storta.

Plausibilmente, l'unicità del giudice favorisce il coordinamento delle decisioni, inoltre, la trattazione di più cause in un unico processo, può risultare utile anche per ragioni di economia, e solo perché, vi siano dei fatti comuni e possa risultato sensato procedere una volta soltanto all'istruzione probatoria intorno a questi fatti.

Ovviamente, anche il processo cumulativo, può avere le sue controindicazioni, perché, a seconda di quanto siano differenti, ad esempio, le istruzioni probatorie da compiere, con riferimento alle varie cause, la loro trattazione cumulativa, può comportare per una di queste un rallentamento della tutela; una delle due, magari, ha un'istruzione molto semplice, invece l'altra molto complessa ed ecco, che trattarle insieme rallenta moltissimo i tempi di definizione della prima!

La trattazione cumulativa può trovare l'ostacolo nell'applicazione della disciplina della competenza. Se per una causa è competente un giudice e per l'altro un giudice diverso, può essere un problema trattarle in un unico processo, ed ancora, l'impossibilità di una trattazione cumulativa può derivare, anche, da particolarità del rito applicabile.

Per esempio, fino al '90, si riteneva che non si potesse trattare in unico processo causa soggetta a rito ordinario e causa soggetta al rito del lavoro, poiché il secondo era caratterizzato da un sistema di preclusioni, e dalla presenza di un principio di concentrazione, era incompatibile con la disciplina applicabile alle cause di rito ordinario, necessariamente, la causa lavoristica sarebbe stata rallentata dalla trattazione cumulativa da una causa soggetta a rito ordinario.

Cominciamo a prendere in considerazione l'ipotesi in cui non si sussistano ne ostacoli, derivanti dalla competenza, ne ostacoli derivanti dalla diversità del rito applicabile alla trattazione pura.

Se si presenta il rischio di un contrasto di giudicati, il processo cumulativo sarà possibile? Certo, sarà possibile anche se si presentano convenienze economiche, derivanti dalla comunanza di fatti. E se non si presentano affatto? Se le due cause non hanno a che vedere l'una con l'altra, si potranno trattare in un unico processo? Potrebbero, per esempio, avere in comune gli elementi soggettivi, anziché l'oggetto, per esempio, avere le stesse parti, cause tra le stesse parti possono trattarsi in un unico processo, anche se non hanno a che vedere l'una con l'altra? Se è l'attore a volere cumulare due sue domande in uno stesso processo, due domande che no c'entrano niente l'una con l'altra, l'attore non è furbo, perché perderà del tempo! Ma è un problema suo, è lui che lo sceglie! Ma, nell'ipotesi in cui, invece, vi sia una domanda principale dell'attore, e una domanda riconvenzionale del convenuto contro l'attore, perché dobbiamo prendere in considerazione che il convenuto propone la domanda ricononale proprio per perdere tempo? Per perdere tempo in pregiudizio dell'attore, e allora, più domande contro la stessa parte possono cumularsi nello stesso processo, anche se, sono minimamente connesse l'una con l'altra, ma la domanda riconvenzionale, invece, è ammissibile solo se un certo grado di connessione sussiste.

Il convenuto non può cumulare nello stesso processo una domanda contro l'attore, le parti sono le stesse, ma che a domanda riconvenzionale i ruoli sono invertiti, se questa non c'entra niente con la principale.

Ciò non vuol dire che sia necessaria, invece, una cosiddetta connessione propria, come sembrerebbe doversi evincere dal disposto dell'art. 36, fatta la domanda riconvenzionale, nella parte in cui consente la proposizione di riconvenzionale fondata sul titolo, sull'oggetto del pregiudizio  in via di azione e in via d'eccezione, perché questi, sono i presupposti di ammissibilità della riconvenzionale, per la quale, sia competente un giudice diverso, cioè un presupposto per la modificazione della competenza per ragioni di connessione, ma per giurisprudenza consolidata, se il giudice  è originariamente competente per entrambe le domande, il nesso di connessione sufficiente a legittimare la proposizione della domanda riconvenzionale, può essere anche molto più labile, può consistere nella cosiddetta connessione impropria, può essere soddisfatto dalla consistenza di un collegamento oggettivo fra le due domande, realizzantesi attraverso la mera comunanza di questioni di fatto e di diritto. Restato salvo il potere discrezionale del giudice, di separare i due procedimenti, nell'ipotesi in cui effettivamente ed in concreto, riscontri che la loro trattazione cumulativa, ritarda eccessivamente la definizione di una delle due cause cumulate, cioè, laddove ravvisi nella riconvenzionale la domanda a contenuto dilatorio.

Questa distinzione tra connessioni proprie e connessioni improprie fa capo a quanto si ritiene nella disciplina del litisconsorzio facoltativo, di cui all'art. 103.

Infatti, la legge dispone, che più soggetti possono agire o essere convenuti nello stesso processo, anche quando sussista una connessione per mera entità di questioni di fatto o di diritto, ai sensi del comma secondo dell'art. 103, ancorché, debba osservarsi, che ai sensi dell'art. 33, la possibilità di realizzare il litisconsorzio facoltativo, in deroga alla disciplina della competenza per ragioni di connessione, è data soltanto nelle ipotesi in cui esista una connessione propria, cioè solo nell'ipotesi di comunanza del titolo e dell'oggetto è possibile convenire più persone nello stesso processo, anche quando per alcuna di quelle domande sia competente per territorio il giudice diverso, in questo caso le cause si concentrano dinanzi ad uno dei convenuti foro generale, foro della residenza di uno dei convenuti.

Ma, se tra i giudizi esiste soltanto un nesso di connessione impropria, allora le regole di competenza non possono essere modificate per ragioni di connessione, e il ricorso facoltativo, può realizzarsi se il giudice originariamente è competente per entrambe le domande.

È chiaro che se, io posso convenire più soggetti, in uno stesso processo, sulla base di una connessione impropria, purché non si modifichi la competenza, allora è ragionevole, che sulla base della connessione impropria, anche se la legge non lo dice esplicitamente, sia pure ammissibile la domanda riconvenzionale, che dal punto di vista delle sue potenzialità dilatorie non differisce dall'ipotesi in cui, per esempio, il discorso opzione venga realizzato, attraverso la chiamata di più soggetti in uno stesso giudizio.

La deroga alla competenza per ragioni di connessione, ha uno spazio applicativo molto più vasto da quello della derogabilità della competenza attraverso accordi delle parti.

Per ragioni di connessioni, può essere modificato anche il riparto verticale della competenza, e invece non può essere modificato per accordo delle parti.

Rilevano, qui, gli artt. 31 e segg., i quali, costituiscono un altro gruppo di norme di cui si può discutere, se il contenuto precettivo possa ritenersi, o meno, in parte modificato per effetto  della modifica delle norme collegate, e in particolare, sia della modifica dell'art. 38, sia della modifica della disciplina posta dall'art. 40.

Nel sistema originario del codice, sinteticamente potremmo dire che, il riparto verticale della competenza risulta modificabile verso l'alto, nel senso che, nell'ipotesi di connessione tra cause spettanti a giudici diversi per grado, il cumulo sui realizzerà davanti al giudice superiore o sopra ordinato, salve alcune ipotesi particolari arrivando, oggi, alla generalizzazione di questa regola per la preferenza per la competenza del giudice superiore, sia ammessa la competenza per valore ma non la competenza per materia.

Secondo alcuni, la modifica dell'art. 38 ad equiparazione del regime di competenza per materia al regime di competenza per valore, avrebbe giustificato, la possibilità di concentrare le cause connesse al giudice subordinato, anche in deroga alle competenze per materia; quindi il giudice di pace competente per materia per la causa "B", tribunale competente per la causa "A", si poteva concentrare tutto avanti al tribunale, però raggiungere questa conclusione sulla mera base della modifica del contenuto dell'art. 38, costituiva una forzatura per le stesse ragioni che abbiamo già esaminato riscontrando come da tale novellazione non potesse evincersi l'abrogazione del meccanismo del regolamento di competenza d'ufficio.

Qui, sono derogabili le conseguenze per materia per ragioni di connessione, o no? Oggi, sì! ma non per effetto della novellazione dell'art. 38, bensì', per effetto, della combinazione di quanto previsto nell'art. 40 e di quanto derivante dalla soppressione delle preture, perché, abbiamo accennato che il legislatore, ha caratterizzato le competenze dei giudici di pace come competenze particolarmente fragili, nel senso che ha previsto nell'art. 40, che la competenza per materia del giudice di pace sia derogabile per connessione  in favore del tribunale, e che quindi, pendenze di cause connesse, pendenti o proponibili innanzi al tribunale del giudice di pace, nell'ipotesi in cui vengano proposte dinanzi ai giudici originariamente competenti, doverosa concentrazione presso il tribunale di tali cause, con riferimento alle competenze per materia del giudice di pace.

Resta salva la inderogabilità della competenza per materia delle preture, ma a seguito della soppressione delle preture e quindi della limitazione a due dei giudici civili ordinari di primo grado, si può arrivare alla conclusione che la competenza per materia sia sempre derogabile per connessione.

Nella prassi applicativa, si riscontra ancora, secondo la giurisprudenza della Cassazione, almeno un'ipotesi in cui non è possibile la concentrazione presso il tribunale delle cause connesse, non soltanto con riferimento all'ipotesi di cui sulle cause sussistano regole di competenza territoriali incompatibili, cioè, quando si formi un problema di modifica del riparto orizzontale della competenza , in deroga a norme di competenza funzionale.

Ma anche, con riferimento di ipotesi di riparto verticale, e ciò, con riguardo al caso in cui il giudice di pace sia stato inizialmente adito tramite un procedimento ingiuntivo, perché il meccanismo del procedimento ingiuntivo prevede che l'attore possa conseguire il titolo esecutivo ancor prima dell'evocazione in contraddittorio del convenuto, questa avviene attraverso la notificazione già del provvedimento che il convenuto ha un termine per impugnare attraverso opposizione davanti allo stesso giudice, opposizione che a sua volta da luogo alla trattazione della cusa secondo le norme generali del diritto ordinario a cognizione piena.

Se il provvedimento non viene impugnato, esso acquisisce una stabilità di cui si conuri come stabilità del vero e proprio giudicato ovvero mera preclusione del giudicato dal contenuto oggettivo più ridotto.

Consideriamo il caso in cui il debitore proponga opposizione e nel proporre opposizione, proponga anche domanda riconvenzionale, in ipotesi il convenuto per il amento di 100 lire, propone una domanda riconvenzionale per un miliardo, ovviamente, eccependo la compensazione delle 100 lire, però, per la domanda riconvenzionale di un miliardo è competente il tribunale.

Il giudice di pace, investito dell'opposizione e contestualmente di proposizione di domanda riconvenzionale rimette l'intera causa dinanzi al tribunale in applicazione del combinato disposto degli artt. 36, 34 e 40? Secondo la giurisprudenza, no! Perché, il giudizio di opposizione ha un carattere, sia pure in senso lato, impugnatorio, e quindi, la competenza per tale giudizio ha un carattere funzionale legato al sistema dei gradi di impugnazione del provvedimento, pertanto, il riesame della legittimità originaria dell'emanazione del decreto, dei presupposti di emanazione del decreto ingiuntivo dev'essere riservato al giudice cui spetta conoscere di questa forma d'impugnazione, e di tale riesame, il giudice adito con l'opposizione non potrebbe spogliarsi, con la conseguenza che, in questa ipotesi, il giudice di pace dovrebbe rimettere al giudice superiore soltanto la causa introdotta con la domanda riconvenzionale e trattenere dinanzi a se, la causa riferita all'opposizione, al decreto ingiuntivo a suo tempo emanato.

Finora, abbiamo preso in considerazione ipotesi in cui le parti volevano una trattazione cumulativa delle cause connesse, vogliono concentrare più cause in uno stesso processo, ma se scelgono di proporre queste cause di coltivarle separatamente, si può giungere alla concentrazione di queste stesse cause in un unico processo anche se loro non vogliono? La riunione di cause connesse, sia pure separatamente proposte dalle parti, può essere disposta anche d'ufficio dal giudice ai sensi dell'art. 40, purché si tratti di connessione propria, laddove le cause sono proposte dinanzi ad uffici giudiziari diversi, il giudice, anche d'ufficio, può ordinare la riunione, ma c'è una preclusione, la questione di connessione dev'essere rilavata entro la prima udienza, e inoltre, la riunione è disposta, in tanto in quanto, la trattazione risulti economica, cioè rappresenti uno strumento per differire la pronuncia su alcuna delle domande connesse.

Se queste cause connesse, pendono l'una davanti al tribunale e l'altra davanti al giudice di pace, la concentrazione presso il tribunale risulta doverosa, ai sensi dell'art. 40, e per qualcuno, potrebbe risultare doverosa anche laddove sia già trascorsa la prima udienza di trattazione, persino quando, ma è da respingere, la trattazione cumulativa possa ritardare la definizione di una delle cause, tutt'al più può risultare sensato consentire la riunione anche oltre la prima udienza.

Tuttavia, l'esame della giurisprudenza ci consente di scoprire che nelle ipotesi di connessione, tra cause pendenti presso giudici diversi, molto spesso la giurisprudenza non applica la disciplina della connessione, ma ne applica un'altra, applica la disciplina della continenza.

Il riferimento è all'art. 39, che contiene, rispettivamente la disciplina dell'ipotesi di litispendenze e di continenze di cause.

Parliamo di vera e propria litispendenza, quando, la stessa causa, fra le stesse parti, pende più volte dinanzi a giudici diversi, e si possono adottare varie soluzioni, il legislatore ha adottato una soluzione seccamente sanzionatoria, in un'iniziativa che "puzza di bruciato", come quella di riproporre la stessa domanda dinanzi ad altro giudice, soprattutto quando, ciò accade nella forma della proposizione della domanda di accertamento negativo da parte del convenuto, sicché la stessa causa pende tra le stesse parti, ma a posizioni invertite e qui, è chiaro che si sente "puzza di bruciato". Cosa sta tentando di fare quella parte che ripropone quella stessa domanda dinanzi ad altro giudice? Quale obiettivo si propone?

È seccamente sanzionatoria, perché, l'ufficio, in ogni stato e grado del processo, il giudice con sentenza dichiara la litispendenza, del tutto a prescindere da qualsiasi valutazione su quale giudice sia competente per quella causa, disponendone la cancellazione dal ruolo.

Fuorviante, quindi, da questo punto di vista, è quanto si legge in alcuni manuali, secondo cui la disciplina della litispendenza indica la competenza del giudice preventivamente adito, attenzione!, il giudice preventivamente adito non è competente solo perché la domanda è proposta dinanzi ad altro giudice.

La questione della competenza del giudice preventivamente adito rimane completamente aperta, può ben darsi che il giudice preventivamente adito, successivamente si dichiari incompetente, laddove in effetti lo sia.

Il giudice successivamente adito è incompetente in senso dinamico per l'effetto dell'essere stato prevenuto, cioè in forza della pendenza della stessa causa presso altro giudice, il giudice successivamente adito, che sarebbe stato competente se non vi fosse già pendenza della cusa presso altro ufficio giudiziario, è incompetente in senso dinamico, cioè incompetente per effetto della pendenza della lite presso altra sede.

Il comma secondo dell'art. 39 prende in considerazione un'ipotesi similare, in cui, vi sia quella che alcuni hanno definito come litispendenza parziale.

Si dice che due cause sono in rapporto di continenza quando l'una è contenuta nell'altra, intendendosi tradizionalmente, nel disegno del legislatore del '42, l'ipotesi in cui vi sia coincidenza delle parti, coincidenza del titolo della domanda della cosiddetta causa petendi in variazione quantitativa del petitum, ovvero sia, quello in cui venga chiesto in giudizio una rata dell'obbligazione, e in altro giudizio l'intera obbligazione.

Per quest'ipotesi, la legge prevede che il giudice successivamente adito rimetta la causa, previa declaratoria con sentenza della continenza impugnabile tramite regolamento, al giudice preventivamente adito, purché questi sia competente per entrambe le domande, qui c'è una verifica, una delibazione della competenza del diverso giudice preventivamente adito, in mancanza, cause legate dal rapporto di continenza possono eventualmente essere concentrate dinanzi al giudice successivamente adito, dove questi sia competente, e naturalmente non  potrà aversi alcuna riunione, laddove entrambi siano funzionalmente incompetenti per la causa proposta dinanzi all'altro, in questo caso non possiamo avere concentrazione da nessuna parte, in particolare ci riferiamo alle competenze territoriali derogabili.

Ma la giurisprudenza, applica questa disciplina ad una varietà di ipotesi molto più ampie, rispetto a quelle immaginate dal legislatore del '42, e quindi, la applica anche ai casi in cui vi sia continenza di causa petendi, variazione di causa petendi, di comunanza parziale del titolo, è l'applica persino alle ipotesi che si definiscono di pregiudizialità reciproca fra domande contrapposte, tipicamente domande contrapposte di risarcimento danni da inadempimento riferito ad una stessa vicenda contrattuale, queste, certamente non sono le ipotesi a cui aveva pensato il legislatore del '42 trattando della continenza.

Perché la giurisprudenza fa così? Perché applica in modo correttivo questa disciplina? Applica la disciplina della continenza in ipotesi che rientrerebbero nella disciplina della connessione! Quale obiettivo si prege la giurisprudenza? Fondamentalmente, l'obiettivo è quello di favorire la trattazione cumulativa e la concentrazione di più cause in un unico processo, il cosiddetto simultaneus processus, perché la continenza è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, e quindi la riunione può essere disposta anche se è già trascorsa la prima udienza, perciò in tutte queste ipotesi, che sono ipotesi di connessione intensa, che in caso di separazione dei giudizi vedrebbero aumentare il rischio di sfociare in decisioni contrastanti, il cui contrasto si dovrebbe reprimere attraverso ulteriori procedimenti. Di tute queste ipotesi si ritiene molto importante rendere possibile, in ogni modo, la trattazione cumulativa, quindi si forza il dettato legislativo intendendo in modo estensivo l'adozione di continenza in modo da poter disporre la riunione anche quando sarebbe scattata la preclusione al potere di disporre la riunione per mera connessione.

Una riunione di connessione che avverrebbe in modo analogo, perché i criteri sono simili, anche nell'ipotesi di riunione per connessione, in linea di massima si verifica quale sia il giudice preventivamente adito, la riunione avviene davanti al giudice della causa principale e soltanto in quella particolare ipotesi di connessione che è data dall'accessorietà.

Abbiamo accessorietà, quando sussiste una domanda principale e rispetto alla domanda principale altra domanda può essere accolta soltanto nell'ipotesi di accoglimento della domanda principale e si qualifica come accessoria quella che possiede, si dice, un contenuto economico meno rilevante, tipici esempi di domanda accessoria sono domande per gli interessi, per i frutti e così via, rispetto alla domanda riferita al capitale, in queste ipotesi la riunione deve avvenire presso il giudice della causa principale, altrimenti vale ancora la regola della prevenzione, e quindi i criteri di individuazione del giudice presso il quale concentrare i due giudizi è largamente analogo, ciò che cambia, appunto, è la possibilità di eludere la preclusione della prima udienza.

Però, dobbiamo anche tener conto dell'eventualità che tutta questa disciplina sia utilizzata con finalità abusive! Così come possiamo immaginare un'utilizzazione abusiva della facoltà di proporre domanda riconvenzionale.

Il rischio che la riconvenzionale sia proposta con finalità abusive, è un po' ridotto dalla circostanza che questa debba presentare un certo grado di connessione, ma naturalmente non del tutto eliminata, può essere benissimo che la domanda riconvenzionale sia totalmente pretestuosa, ancorché connessa per l'oggetto.

Possiamo immaginare anche il rischio che sia rimasta ad attività abusive anche la proposizione di una domanda connessa, perché, abbiamo il problema delle preclusioni a delle deduzioni istruttorie, anche di quelle fattuali, ma è interessante e quello delle deduzioni istruttorie.

Sono incorso nella decadenza nella deduzione di un mezzo di prova, che però è riferito ad un fatto qualificabile come fatto rilevante ai fini della proposizione di una domanda connessa? Se io posso proporre questa domanda separatamente e conseguirne la riunione al procedimento avviato con la domanda principale, posso fare in modo di fare rientrare dalla finestra quello che era rimasto chiuso fuori dalla porta? E per far questo, sembrerebbe non essere necessario neppure ricorrere all'artifizio di proporre domanda connessa dinanzi ad altro giudice, perché, finora abbiamo ragionato intorno al problema della riunione di cause proposte presso giudici diversi, ma se queste cause connesse vengono proposte dinanzi allo stesso giudice, si applica una disciplina diversa?

Qui vanno richiamati gli artt. 273 e 274, che ci forniscono un problema soprattutto perché, non è tanto la disciplina della riunione per connessione, che è ovvio che sia possibile far cause proposte davanti allo stesso giudice, a destare preoccupazione, quanto la disciplina della litispendenza fra cause proposte dinanzi allo stesso giudice.

Perché, diversamente da quanto avviene nell'ipotesi di proposizione davanti a giudici diversi, l'art. 273 prescrive che anche cause identiche, proposte davanti a giudici diversi vengano riunite, in ordine alla seconda causa, non si ha una sentenza declaratoria della litispendenza come la cancellazione la cancellazione dal ruolo, parrebbe quindi che le risultanze dell'attività compiuta per effetto della nuova proposizione della stessa causa innanzi allo stesso giudice, possano, pertanto, essere tranquillamente introdotte nel procedimento avviato con la prima proposizione della domanda e a quel punto, sembrerebbe allora, che il sistema della preclusioni sia solo li per ridere, perché io ripropongo la domanda deducendo tempestivamente le mie prove e poi chiedo la riunione del procedimento con quello instaurato attraverso la prima proposizione della domanda.

In effetti, qui, il dato normativo è carente, perché sul piano tecnico della stretta interpretazione del dettato letterale delle norme, questo rimedio risulta possibile, e allora non avremo nemmeno più il bisogno di inventarci una domanda connessa, basterebbe riproporre la stessa, tutt'al più, se siamo i convenuti nella forma della domanda di accertamento negativo.

Si capisce, pertanto, come si giustifichino prassi giurisprudenziali che sono non del tutto rispettose di questo dettato e in particolare prevedono che si abbia luogo la riunione, ma con stralcio delle deduzioni che risulterebbero già precluse per effetto dello svolgimento del procedimento relativo alla domanda inizialmente proposta, e anche in questo senso si debba ragionare allorché si applichi estensivamente la disciplina della continenza, cioè occorrerebbe tenere d'occhio che non finisca per realizzarsi, attraverso questo strumento, un'elusione della disciplina delle preclusioni.

Questo, renderebbe così inutile l'interpretazione che qualcuno ha prospettato, secondo cui dovrebbe applicarsi al disciplina della continenza e non quella della litispendenza, quando le cause proposte presso giudici diversi, abbiano si in comune le parti, l'oggetto e il titolo, ma differiscano sotto il profilo delle deduzioni istruttorie.

Qualcuno ha proposto di applicare la disciplina della continenza in queste ipotesi, è chiaro che lo scopo è quello di consentire l'elusione delle preclusioni, lo scopo di queste interpretazioni, cioè fare in modo, appunto, che si renda applicabile la regola per cui il giudice successivamente adito pronuncia sentenza dichiarativa della continenza e rimette la causa dinanzi al giudice preventivamente adito, anziché limitarsi a disporre la cancellazione dal suo ruolo, applicando, quindi, l'art. 39 comma 1°, anziché comma 2°.

Se noi giungiamo alla conclusione, in via generale la riunione di cause connesse debba avvenire senza pregiudicare la formazione delle preclusioni nella causa preventivamente proposta, allora non ci darà più fastidio immaginare che una variazione delle preclusioni istruttorie possa determinare l'applicabilità della disciplina della continenza invece che quella della litispendenza, perché, comunque, questo materiale probatorio in più non si riuscirebbe a farlo rientrare dalla finestra attraverso la riunione con la prima causa.

·    Diversità dei riti

In particolare la previsione di un rito speciale per le controversie di lavoro caratterizzato da numerosi aspetti acceleratori, è stata fin dall'introduzione di questo rito speciale negli anni '70, oggetto di molti dubbi di legittimità costituzionale, sicché si è formata una vasta giurisprudenza sull'argomento, è questa giurisprudenza ha finito per riconoscere che la previsione di una "corsia preferenziale" sulle controversie di lavoro, si doveva considerarla come costituzionalmente doveroso, in vista, in particolare, di quanto poteva emergere dall'art. 36, diritto a uno stipendio per una vita dignitosa

In epoche successive il modello del rito speciale del lavoro, è stato esteso anche, con alcune varianti, ad altri settori del contenzioso, ciò per cui, in particolare, sulla valutazione di una sua maggiore efficienza, però, con riferimento a queste ulteriori ipotesi di applicabilità del modello del diritto del lavoro, pensiamo al contenzioso in materia di locazione, si è anche formato l'opinione che previsioni di misure acceleratorie, fosse costituzionalmente ammissibile, ma non più costituzionalmente doverosa, inoltre, la circostanza che non fosse possibile la trattazione cumulativa di cause soggette a riti diversi, e che nel contempo, nell'ipotesi in cui ricorressero, fra le cause, rapporti di pregiudizialità, si dovesse applicare, laddove non fosse possibile la trattazione cumulativa, la regola della necessaria sospensione per pregiudizialità della causa pregiudicata, che doveva essere sospesa sino alla formazione del giudicato sulla pronuncia relativa alla causa pregiudiziale, comportava che rispetto alle cause pregiudicate si avessero paurosi rallentamenti di tutela.

Si pensò, quindi, che si dovesse trovare una qualche soluzione e che la risoluzione dovesse consistere nella previsione della codificabilità del rito per ragioni di connessione, ciò che, potesse trattare in un unico processo più cause soggette a riti diversi , si doveva anche prevedere un criterio dell'individuazione di quale rito applicarsi ad entrambe, sicché si è modificato l'art. 40, prevedendo che nelle ipotesi di connessione propria, le cause potessero essere cumulate in unico processo e trattate tutte, con quale rito però?

È un sistema abbastanza articolato, perché muovendo dalla premessa che il rito ordinario debba essere il rito generale e che il rito speciale sia costituzionalmente doveroso in alcune occasioni, il legislatore ha previsto che si applichi il rito ordinario allorché almeno una delle cause sia soggetta a rito ordinario, salva l'applicazione del rito speciale del lavoro laddove almeno una delle cause sia propriamente di lavoro, cioè causa per la quale sia costituzionalmente doveroso prevedere un rito speciale accelerato.

Quindi, cause connesse: se almeno una di queste è di lavoro, si applica il diritto del lavoro, se nessuna di queste è di lavoro, ma almeno una di queste è soggetta a rito ordinario, si applica il rito ordinario, se entrambe sono soggette a rito speciale si applica il rito previsto per la causa in ragione della quale si è determinata la competenza o in subordine quello previsto per la causa di maggior valore.

Il disposto letterale sembrerebbe suggerire che nell'ipotesi in cui le cause siano soggette a rito speciale si applichi il criterio della prevalenza del rito della causa traente, anche, laddove, una di queste cause soggette a rito speciale sia causa di lavoro, ma tale conclusione deve essere smentita, la prevalenza del rito del lavoro rispetto alle cause propriamente di lavoro deve essere assicurata, sia rispetto al rito speciale applicabile alla causa connessa, sia a forziori, rispetto al diverso rito speciale applicabile alla causa connessa, quindi la regola della prevalenza del rito del lavoro, quando almeno una della cause connesse sia causa di lavoro, vale sia quando la causa connessa è soggetta a rito ordinario, sia quando al causa connessa sia soggetta a diverso rito speciale.

La regola della conversione del rito, si applica tanto nelle ipotesi di proposizione cumulativa della cause connesse, quanto nell'ipotesi di riunione di cause proposte separatamente.

Il criterio facente capo all'individuazione della causa attraente, quando non si applica? Secondo alcuni, non vi era bisogno di prevedere in subordine il criterio della causa di maggior valore, perché, si potrebbe sempre determinare, tra più cause connesse, quale sia quella attraente, quella in ragione della quale si modifica la competenza.

Si dice infatti! Se le cause sono state proposte separatamente è agevole individuare quale abbia attratto l'altra, in una delle due, evidentemente, c'è stata una rimessione e causa attraente è l'altra, quella che non è stata rimessa.

Il problema si pone quando le cause vengano proposte cumulativamente, perché si potrebbe determinare in astratto quale sarebbe la causa attraente, cioè, quale avrebbe attratto l'altra se le cause fossero state proposte separatamente, ma questo non è del tutto vero, perché, se fra le cause vi è un rapporto di accessorietà possiamo giungere alla conclusione che la causa principale si qualifichi come causa attraente, perché in caso di proposizione cumulativa il processo avrebbe dovuto necessariamente concentrarsi innanzi al giudice adito per la causa principale.

In tutti gli altri casi, il criterio di individuazione del giudice presso il quale rimettere le cause connesse è costituito dalla prevenzione, ovvero sia, se abbiamo cause cumulativamente proposte legate da un nesso di pregiudizialità, è attraente la pregiudiziale o è attraente la pregiudicata? In astratto potremmo avere sia concentrazione del giudizio presso il giudice della pregiudiziale, sia concentrazione del giudizio presso il giudice della pregiudicata a seconda dei quali immaginiamo possa essere stato preventivamente adito, dato che abbiamo avuto dei fatti di proposizione cumulativa entrambe le cause possono immaginarsi come in un mondo alternativo, in un universo parallelo, proposte separatamente l'una con provenienza dell'altra, quindi in tutte le ipotesi di proposizione cumulativa delle domande, che non rientrino nella fattispecie del rapporto di accessorietà, non è possibile individuare in astratto quale sia la causa attraente, ed è in questo campo di ipotesi che deve necessariamente applicarsi il criterio del maggior valore, criterio, che tra l'altro, a volte può presentare qualche problema, perché la determinazione del valore della causa avviene attraverso una disciplina, che a volte, impone la conclusione che il valore della causa sia indeterminabile, e resta scoperta qualche ipotesi in cui potremmo avere dei problemi dell'individuazione del rito applicabile in astratto. In concreto, no, perché, dobbiamo intenderci su quale significato dobbiamo attribuire alla nozione di rito speciale.

In particolare dovremmo discutere se si parli davvero di riti speciali diversi, rispetto ai quali sia necessario provvedere alla unificazione attraverso il provvedimento di conversione del rito, con riferimento a quelle cause alle quali si applichino delle varianti del rito del lavoro.

Per esempio nelle controversie locatizie si applicano regole in gran parte mutuate dalla disciplina del rito del lavoro, ma non completamente, saremmo in presenza, nell'ipotesi di cumulo di cause di lavoro e di causa locatizia, di diversi riti speciali? La soluzione preferibile, in realtà, è negativa, nel senso che in quest'ipotesi abbiamo quelle che sono state definite come versioni "gemmate" del rito speciale in cui, non vi sono effettivamente ostacoli ad una trattazione cumulativa nel rispetto delle regole particolari previste per ciascuna delle due cause, a differenza di quanto accade nell'ipotesi di cumulo di rito del lavoro e rito ordinario. Qui le differenze sono talmente sottili che non è necessario arrivare davvero a una conversione, si può rispettare la regola originaria.

Perciò, quando si vuole immaginare un rito speciale diverso dal rito del lavoro comprensivo delle sue versioni "gemmate", riesce difficile individuarlo, un'ipotesi che si può immaginare è quella di pensare al rito camerale.

Il rito in camera di consiglio può ritenersi incompatibile sia col rito ordinario, sia con il rito del lavoro, salvo esserci un problema, normalmente il rito camerale si applica in situazioni e contesti tali da far si che il provvedimento sia un provvedimento di volontaria giurisdizione, privo di contenuto decisorio su diritti soggettivi, inidoneo al giudicato sostanziale, ma se consideriamo che l'obiettivo di tutta questa disciplina è fondamentalmente ridurre l'ambito di applicazione della disciplina della sospensione necessaria, e ci rendiamo conto di come questa disciplina sia diretta, fondamentalmente, a prevenire contrasti di giudicato, dovremmo anche giungere alla conclusione che un esigenza del genere non si possa porre nel terreno della volontaria giurisdizione soggetta al rito camerale, poiché questa non può dare luogo a provvedimenti che comportino contrasti di giudicato, posto che non si ha formazione alcuna del giudicato in questo contesto.

Le cose, in realtà non sono così semplici, perché, come abbiamo visto, vi sono state previste ipotesi di trattazione con rito camerale di controversia inerente a diritti soggettivi ed è alquanto discusso quale sia il grado di stabilità dei provvedimenti resi attraverso questa tecnica, perché è vero sì, che riscontriamo nel diritto positivo la regola della revocabilità di tali provvedimenti, però, oltre a porre il problema della salvezza dei diritti acquisiti dai  terzi in buona fede, si ha anche il problema di individuare se poi questa revocabilità sia una revocabilità che allude alla fragilità sostanziale delle statuizioni, ossia alla circostanza che si tratti di situazioni soggettive caduche facilmente soggette a venir meno per effetto di sopravvenienze, e quindi con la regola della revocabilità si alluda alla circostanza che molto facilmente possano prodursi sopravvenienze determinative della necessità di modificazione delle statuizioni a suo tempo rese, o si intenda alludere a una revocabilità piena, che consenta anche di riesaminare gli effetti di quanto già dedotto nel giudizio in cui si formò il provvedimento di cui si voglia chiedere la revoca, ipotesi che diminuirebbe di molto il grado di stabilità del provvedimento e che plausibilmente è l'ipotesi più accreditata, anche quando si tratti di controversie inerenti a diritti soggettivi.

Per chi ritiene che questa revocabilità in materia di diritti soggettivi non sia piena, può risultare sensato immaginare che questa disciplina si applichi all'ipotesi di connessione fra cause soggette a riti, l'uno del lavoro, o a una sua versione gemmata, l'altra al rito camerale.

Se si segue l'idea, invece che, i provvedimenti camerali abbiano questo più alto grado di instabilità, tale anche da consentire il riesame delle questioni dedotte precedentemente, o deducibili precedentemente, allora comincia a diventare davvero dubbio che sia sensato prevedere la conversione del rito, perché qui, ci si deve porre il dubbio intorno a quanto debba giustificarsi la modificazione del rito, perché?

Perché nella doverosità costituzionale della previsione di un rito speciale per alcune categorie di controversie, debba rientrare anche l'idea che sia doveroso, non soltanto prevedere un rito celere, ma anche prevedere un rito più celere di quello ordinario.

Se dobbiamo ritenere, per alcuni settori del contenzioso una corsia preferenziale, non basta che questa corsia sia meglio asfaltata della corsia ordinaria, occorre che sia anche una corsia riservata, cioè che sulla corsia preferenziale non possano passarci tutti, ma solo i soggetti abilitati, altrimenti il vantaggio viene meno.

Ebbene, abilitare a passare sulla corsia preferenziale anche altri settori del contenzioso, sulla base di scelte legislative è un conto, altro conto, è abilitare a passare per la corsia preferenziale, sulla base sussistenza di un mero rapporto di connessione, perché la sussistenza di un rapporto di connessione non ci dice ancora nulla sull'apparenza di fondatezza dell'iniziativa giudiziaria.

La circostanza che una domanda sia connessa, non ci garantisce che tale domanda sia in realtà pretestuosa e proposta solo a fini dilatori, e allora, la possibilità di avvalersi della corsia preferenziale soltanto sulla base di un  rapporto di connessione, non si giustifica come tale, si giustifica  nell'ipotesi in cui l'alternativa sarebbe disporne la sospensione necessaria, e se questa è l'alternativa facciamo gravare sull'attore della causa sospesa un pregiudizio consistente, lo costringiamo ad aspettare la formazione del giudicato sulla causa pregiudiziale.

Si può capire che questa ipotesi, in mancanza di meglio, ci consenta l'accesso alla corsia preferenziale.

Ma se il rapporto di connessione non è tale da giustificare la sospensione per pregiudizialità, perché derogare alle regole statiche di scelta del rito, allora è opportuno, invece, che si conservi l'applicazione a ciascuna causa del rito per essa previsto dal legislatore, provvedendosi, nel caso in cui le domande siano state proposte cumulativamente, alla loro separazione.

Sicché, tutta la disciplina disposta dall'art. 40, deve essere letta in prospettiva costituzionale nel senso che la disciplina della conversione del rito si applichi solo se l'alternativa alla conversione del rito sia la sospensione per pregiudizialità di alcuna delle cause connesse, pertanto, l'ipotesi in cui più cause siano soggette a diversi riti speciali e si debba perciò, applicare il rito previsto per la causa attraente o la causa di maggior valore, sembra priva di contenuto applicativo, perché l'unico rito speciale non compatibile, ne col rito ordinario, ne col rito del lavoro, sembra essere il rito camerale , che però è un rito applicabile in materie nelle quali i provvedimenti non sono comunque provvisti della stabilità del giudicato, e cui , quindi, sembra non doversi mai conurare l'esigenza di una sospensione necessaria per pregiudizialità di alcuna delle cause sino al passaggio in giudicato della decisione sull'altra.

Non sembra, invece, appunto, non potersi giustificare la conversione del rito esclusivamente allo scopo di conseguire risparmi nell'istruzione probatoria allorché fra le cause sussista mere entità di questioni di diritto o anche di rapporti di connessione propria, ma lontano dal rendere necessario l'utilizzazione dello strumento della sospensione necessaria per pregiudizialità.

·    Teoria delle azioni e sue condizioni

Punto di partenza in materia è costituito da un brocardo abbastanza famoso, preso dalle citazioni di Gaio, secondo cui l'azione altro non è che il diritto di conseguire attraverso il processo, ciò che è dovuto in base al diritto sostanziale.

Da questa concezione si fanno discendere le cosiddette teorie moniste dell'azione, cioè teorie che tendono, fondamentalmente, a far coincidere il contenuto del diritto di azione con il contenuto di un diritto sostanziale.

Teoriche che, per un verso, si sono a lungo ritenute caratteristiche di quei sistemi che prevedono la tipicità delle azioni, per altro verso, trovano una posizione filosofica alla luce di teorie realiste del diritto che non concepiscono il diritto sostanziale se non in quanto realizzato attraverso il processo, ci sono state diverse formulazioni di queste teorie moniste, in cui il principale alfiere fu il famoso Salvatore Satta.

Alcuni, in polemica con queste teorie, sono giunti a sostenere che le concezioni monistiche dell'azione appartengono ad una cultura totalitaria, ma il discorso sembra forzato, perché, il nesso, teorie moniste dell'azione e totalitarismo, è tutt'altro che chiaro, il totalitarismo tende ad imitare la disponibilità delle azioni, però si tratta comunque di concezioni che possono considerarsi sostanzialmente minoritarie nel panorama dottrinale, perché a seguito dello sviluppo dell'ordinamento giudiziario e soprattutto in quei ordinamenti che sono burocratizzati, hanno finito per affermarsi teorie dell'azione dualistiche, cioè individuassero nell'azione una situazione di vantaggio avente un contenuto non esattamente coincidente con quello della situazione sostanziale cui il diritto di azione stesso assiste.

Di queste concezioni esistono varie versioni, per introdurle nel modo più semplificato possibile, le dividiamo con riferimento al contenuto della situazione di vantaggio di volta in volta individuato.

Una prima teoria che potremmo definire dell'azione intesa come diritto civico, o diritto soggettivo pubblico, che si caratterizza per avere come contenuto il diritto a conseguire un provvedimento giurisdizionale.

Questo è un diritto che ovviamente prescinde dalla titolarità di un diritto sostanziale, è un diritto che spetta alla generalità dei consociati, però è anche un diritto che ha un contenuto misero, è scritto per ottenere un provvedimento, un provvedimento di qualsiasi contenuto, non è molto. Questa, sì, è una caratteristica della concezione totalitaria del diritto, avete diritto a rivolgervi al giudice per sentirvi rispondere quello gli pare!

Maggiore, è il contenuto attribuito al diritto d'azione dalle teorie più diffuse in materia, cioè, rispettivamente dalla teoria dell'azione in senso concreto e dalla teoria dell'azione in senso astratto.

La teoria dell'azione in senso concreto, formulata dalla nostra dottrina in modo particolarmente efficace, soprattutto, dal contenuto di Chiovenda, e nella sua concezione, il diritto di azione consiste nel diritto a un provvedimento di merito favorevole.

Questa teoria, si ricollega per un verso, al rapporto tra diritto di azione e diritto sostanziale, il diritto di azione spetta solo a chi sia titolare di un diritto sostanziale.

In che modo si distingue, però, dalla teoria monista dell'azione? Se ne distingue, perché, il diritto di azione si conura come diritto spettante alla generalità dei consociati, ai fini, anche, della sussistenza in connessione ampia, la sussistenza della titolarità di una generale azione di accertamento di rapporti giuridici, cioè, si dice, la sussistenza di un diritto d'azione in capo alla generalità dei consociati, giustifica la conclusione che si possa conseguire un provvedimento di merito soltanto in quelle ipotesi in cui sia espressamente prevista dalla legge l'azione in giudizio, ma anche, ai fini della possibilità di conseguire un accertamento giurisdizionale del rapporto giuridico, in tutte le occasioni in cui vi siano contestazioni che giustifichino quest'intervento della giurisdizione. Ossia, questa teoria dell'azione, è a monte, nel pensiero di Chiovenda, soprattutto della teorizzazione della generalità dell'azione di accertamento, quindi della facoltà di potere sempre, o quasi, chiedere l'accertamento negativo del diritto vantato da parte avversa.

Inoltre, la teoria di Chiovenda contempla, anche, in relazione in connessione alla concezione restrittiva del diritto soggettivo proprie delle teorie giuridiche, la sussistenza di un numero di mere azioni, nell'ipotesi in cui la parte può essere titolare dell'azione pur senza essere titolare del diritto soggettivo, così, le azioni possessorie, nella teorizzazione di Chiovenda, si qualificano come mere azioni, perché, dal suo punto di vista, sono azioni ma non preordinate alla tutela di un diritto soggettivo, e persino nella teoria di Chiovenda, sono mere azioni le azioni cautelari, perché, il procedimento cautelare non comporta un vero e proprio accertamento della sussistenza del diritto soggettivo, ma solo un accertamento dell'apparenza dell'esistenza del diritto soggettivo.

Più diffusa, modernamente, è la cosiddetta teoria astratta dell'azione, la quale individua come contenuto del diritto d'azione il diritto ad un provvedimento sul merito, quindi si distingue, tanto dalla teoria dell'azione come diritto civico, per oggetto il diritto ha un provvedimento, ma senza specificarne il contenuto quanto alla teoria del diritto d'azione in senso concreto, che è riferito come un provvedimento di merito favorevole.

La differenza sussiste, che qui si può dire, con diverso contenuto e con più decisione rispetto a quanto accade con la teoria dell'azione in senso concreto che il diritto spetta a tutti, perché, in questo caso il diritto spetta indipendentemente dalla titolarità di un diritto sostanziale, e questa formulazione della teoria, è diretta a raggiungere la conclusione che si abbia esercizio dell'azione anche nell'ipotesi di rigetto della domanda, perché anche in questa ipotesi, si realizza il diritto a un provvedimento sul merito, benché non si realizzi il diritto sul provvedimento del merito favorevole.

Questo in relazione all'idea che lo svolgimento del processo debba implicare l'esercizio dell'azione ai fini del raggiungimento di un provvedimento sul merito.

La differenza tra queste varie interpretazioni, ci interessa da molti punti di vista, anzitutto potremmo dire dal punto di vista della prospettiva costituzionale, perché, nell'art. 24 della Costituzione, ha recepito il diritto di azione costituzionalizzato, nella parte in cui l'art. 24 recita che tutti hanno diritto di agire in giudizio a tutela dei propri interessi legittimi.

Ma quale concezione dell'azione è stata recepita da questo dettato costituzionale? Quella dell'azione come diritto civico, quella dell'azione come diritto astratto, dell'azione in senso concreto? A seconda della conclusione che raggiungiamo, possiamo trarne implicazioni diverse sotto il profilo della eventuale illegittimità costituzionale di varie norme del diritto positivo, per esempio, le discipline che dovessero prevedere versamento di cauzione ai fini dell'ottenimento di un provvedimento giurisdizionale, o anche come si è visto nella giurisprudenza più recente, che prevedano come filtro all'accesso alla giurisdizione condizioni di carattere vessatorio, non solo quindi disposizioni che prevedano arbitrati obbligatori, quelle disposizioni che condizionino l'esercizio della giurisdizione all'esperimento di rimedi interni.

Tutte queste disposizioni, potrebbero considerarsi in contrasto, se non altro per il diritto dell'azione in senso astratto, ma poi ci sono ulteriori aspetti del diritto positivo, che potrebbero considerarsi contrastanti, invece con il diritto d'azione in senso concreto, nella misura che questo implica, sempre nella teorizzazione chiovendiana, che la parte debba poter conseguire attraverso il processo tutto quello, e proprio quello cui avrebbe diritto in base alla norma sostanziale.

Da questo punto di vista, quindi, alcune lacune di tutela che sussistono nel nostro ordinamento, e quella più visibile è quella che si riferisce alle obbligazioni di fare e di non fare di carattere infungibile rispetto alle quali ancora mancano strumenti generali diretti ad assicurare il conseguimento da parte dell'attore di tutto ciò che è di rito in base alla norma sostanziale, si ponga un problema di legittimità costituzionale, perché per questa ipotesi non è possibile avvalersi degli strumenti dell'esecuzione diretta, l'unico modo per assicurare la realizzazione delle utilità previste dalla norma sostanziale, può essere quello del ricorso a strumenti di coercizione indiretta, che prevedono la comminatoria di sanzioni pecuniarie per ogni giorno di ritardo nell'adempimento dell'obbligazione, o per ogni giorno di violazione di inottemperanza al provvedimento di condanna a fare o non fare, sono previste dal diritto positivo, per alcune particolari fattispecie, ma non sono ancora previste come strumento generale.

Ebbene, la ricostruzione più plausibile dell'inquadramento costituzionale del diritto d'azione, sembra essere quella per cui esso è recepito in tutte le sue possibili accezioni, e quindi, si è inteso come diritto d'azione in senso astratto, perciò in  guisa tale da rendere ingiustificabili arbitrarie vessatorie in condizionamenti dell'esercizio della giurisdizione, sia come diritto d'azione in senso concreto con l'implicazione che si conurino come costituzionalmente illegittime, anche le lacune della tutela dell'ordinamento positivo presenta ai fini della realizzazione delle situazioni di vantaggio che abbiano come contenuto prestazioni di fare o non fare di carattere infungibile.

La differenza tra la concezione dell'azione in senso astratto e la concezione dell'azione in senso concreto, lo si possa capire bene attraverso un esame dove cambino le condizioni dell'azione stessa a seconda di come l'azione si concepisce, un esempio è fornito da quelle condizione dell'azione che va sotto il nome di legittimazione ad agire.

Secondo la regola ordinaria rinvenibile, secondo alcuni dalla lettura al contrario dell'art. 81 del codice di rito, è quella della coincidenza fra titolarità del diritto e titolarità dell'azione, e così recita: salvi i casi previsti dalla legge nessuno può far valere in giudizio in nome proprio un diritto altrui, con ciò intendendosi che si può senz'altro, nelle generalità delle ipotesi far valere un diritto altrui per effetto di un rapporto di rappresentanza.

In generale si è legittimati a far valere in nome proprio un diritto proprio, la possibilità di far valere diritti altrui, senza che sussista un rapporto di rappresentanza, è condizionata dalla presenza di una specifica disposizione di legge che lo consenta, per cui, immaginando il caso che si fa più di consueto, quello dell'azione surrogatoria, il creditore può far valere dei diritti di credito del proprio debitore nei confronti di terzi al fine di conservare la propria garanzia patrimoniale, perché la legge esplicitamente lo consente, ma in linea generale, altrimenti non è possibile far valere diritti altrui.

Se intendiamo che il requisito della legittimazione ordinaria ad agire come condizione dell'azione in senso concreto, giungiamo a dire che l'azione spetta a colui che sia titolare del diritto, pertanto la sentenza che nega la sussistenza della legittimazione ad agire è la sentenza di merito, perché è una sentenza che afferma che colui che ha fatto valere il diritto non ne è il titolare.

Dal punto di vista dell'azione in senso astratto, invece la questione della legittimazione ad agire si pone come una questione di rito, perché ai fini della sussistenza del diritti ad un provvedimento di merito, ma non più necessariamente di un provvedimento di merito favorevole, dobbiamo avere provvedimento di merito di rigetto della domanda, quando l'attore non è titolare del diritto fatto valere, ma un provvedimento di merito di rigetto della domanda si giustifica soltanto a condizione che l'attore abbia affermato di essere titolare del diritto fatto valere.

Da questo punto di vista rileva esclusivamente la prospettazione attoria della fattispecie, laddove l'attore stesso prospetti di essere titolare del diritto fatto valere in giudizio, e naturalmente non si versi in una di quelle situazioni in cui è ammessa dalla legge la sostituzione processuale, nell'ipotesi in cui l'attore nemmeno si  affermi titolare del diritto fatto valere non vi è ragione di provvedere sul merito della domanda, procedendo ad istruzione probatoria, a raccolta di deposizioni testimoniali intorno all'apparenza del diritto, perché se è l'attore stesso a dire che non è il titolare a questo punto la domanda può essere rigettata in rito, senza procedere ad alcun esame del merito della causa, sicché, il rigetto della domanda per carenza della legittimazione ad agire intesa come condizione dell'azione in senso astratto, costituisce una pronuncia di rito a carico della parte che nemmeno affermi di essere titolare del diritto, e tuttavia, secondo i sostenitori dell'azione in senso astratto, anche nell'ipotesi in  cui la domanda venga rigettata nel merito, si ha avuto esercizio dell'azione, in quanto la sussistenza dell'azione è assicurata dalla mera prospettazione attoria, e quindi, ancorché egli non fosse effettivamente titolare del diritto fatto valere in giudizio, tuttavia egli era titolare dell'azione astratta, e l'azione è stata esercitata, e questa conclusione si raggiunge, perché si dice che in realtà l'azione deve essere vista, non soltanto come situazione di carattere processuale e a contenuto processuale, ma anche come situazione che sussiste sin da quando il processo è avviato.

Mentre se concepiamo l'azione come azione in senso concreto, dell'esistenza dell'azione noi veniamo a sapere solo alla fine del processo, infatti, nel corso del processo e come situazione processuale dobbiamo guardare all'azione in senso astratto perché e quella la cui sussistenza si può verificare nel corso dello sviluppo del processo.

Ci si può porre in dubbio se, la recezione costituzionale del diritto di azione implichi anche, e in che misura, la recezione dei principi operanti in tema di azione, in questo senso.

Quando si dice che tutti hanno diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, si vuole con ciò escludere che i propri diritti e interessi legittimi possono essere fatti valere da altri? Cioè una locuzione costituzionale che rende inammissibile la sostituzione processuale? Rende inammissibile che il legislatore preveda, in alcuni casi, che i propri diritti possono essere fatti valere da qualche altro? Qualcuno lo ha ammesso, ma si dovrebbe immaginare l'eliminazione dall'ordinamento di tutte le ipotesi che sono vaghe, in cui la sostituzione processuale è prevista, perché si considerano giustificati.

Sicché, qualcuno ha provato ad elaborare un situazione di compromesso, cioè ha provato a sostenere, che in realtà, la norma costituzionalizza la regola della tipicità dei casi di sostituzione processuale, cioè, si evincerebbe dall'art. 24 della Costituzione, la regola per cui si può far valere diritti altrui solo nei casi previsti espressamente dalla legge, in nome proprio.

Però, anche questa lettura, appare forzata, così, a tutt'oggi, deve ritenersi fondata la conclusione secondo cui la regola della tipicità dei casi di sostituzione processuale, trova fondamento nel diritto positivo, ma solo esclusivamente nelle norme codicistiche.

Sarebbe incostituzionale la disciplina che impedisse alla parte di far valere i propri diritti, ma non sarebbe incostituzionale, necessariamente, un disciplina che consenta in ipotesi atipiche di far valere diritti altrui in nome proprio, purché siano assicurate alcune condizioni di contorno.

Secondo una prima teoria, un'implicazione costituzionale della regola dell'art. 24 è che, in tutti i casi in cui sia ammessa la sostituzione processuale sia anche necessario il litisconsorzio della parte sostituita, come avviene in  materia di azione surrogatoria, il creditore può far valere i diritti del suo debitore, dovrebbe conservare la propria garanzia patrimoniale, ma deve evocare in giudizio anche tale debitore e non soltanto il debitore del debitore, viene diffusa l'opinione secondo la quale in tutti i casi di sostituzione processuale abbiamo anche litisconsorzio necessario della parte sostituita.

Tuttavia, nel diritto positivo sembra esservi ipotesi in cui questo non accada, con gli art. 110 e 111 del codice di rito, con riferimento alla fattispecie dell'alienazione della res litigiosa, sia nell'ipotesi in cui il diritto controverso venga trasferito per atto tra vivi nel corso del giudizio, opera una serie di previsioni, che sono dirette ad applicare quell'altro principio a suo tempo evocato, cioè quello per cui la durata del processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione.

Pertanto, l'art. 111 prevede che se un terzo acquista la res litigiosa nel corso del processo, la sentenza produca i sui effetti anche nei confronti di questo terzo, salva l'ipotesi in cui il diritto del terzo possa prevalere per effetto della disciplina della trascrizione, per esempio con riferimento ai beni immobili, cioè laddove il terzo abbia l'accortezza di trascrivere il proprio acquisto prima della trascrizione della domanda giudiziale, ovvero dalle disposizioni in tema d'acquisto a non domino dei beni mobili per effetto del possesso di buona fede, queste fattispecie possono prevalere sull'efficacia della sentenza nei confronti del terzo acquirente della res litigiosa, in questa ipotesi, invece, la sentenza produce i suoi effetti nei confronti di questo terzo.

Ovviamente, la legge tiene conto anche del diritto al contraddittorio di questo terzo e gli consente di intervenire nel processo, per difendere in proprio le ragioni che ormai sono diventate sue con riferimento al bene della vita conteso, e si prevede che col buonsenso della altre parti possa essere estromesso l'alienante che ormai non ha più un proprio interesse rispetto alla res litigiosa stessa, ma sembra proprio che sia nell'ipotesi in cui vi sia stata alienazione della res litigiosa e il terzo non intervenga, sia nell'ipotesi in cui venga estromesso l'alienante, si abbia un fenomeno di sostituzione processuale senza litisconsorzio necessario della parte sostituita, o no! È possibile negarlo e alcuni lo fanno! Si può negarlo dicendo per esempio, che finché il terzo acquirente non è intervenuto, nel processo non consta l'alienazione della res litigiosa, quindi, non viene fatto valere nel processo un diritto altrui, perché quel diritto nel processo viene fatto valere ancora come diritto dell'alienante sebbene non sia più suo.

Per converso quando si sia avuta estromissione dell'alienante ed è stata ritualmente introdotta nel processo la fattispecie traslativa del diritto, e quindi la parte che viene estromessa è parte di cui non viene fatto valere diritto alcuno, perché il diritto che viene fatto valere è del terzo intervenuto, quindi, volendo, si può anche sostenere che non vi è alcuna forma di sostituzione processuale ne nell'una ne nell'altra fattispecie, proprio nella misura in cui sussistano i presupposti per non avere il litisconsorzio necessario delle parti coinvolte in questa vicenda traslativa.

Però, c'è almeno un caso in cui, anche arrampicandosi sugli specchi, sembra impossibile negare che si abbia sostituzione processuale senza litisconsorzio necessario da parte costituita, ed è quello contemplato dall'art. 108, nella parte in cui si contempla l'ipotesi, che la parte garantita possa essere estromessa dal giudizio, quando sia stato evocato in giudizio il garante, sempre col consenso delle altre parti, qui, è indiscutibile che si facciano valere i diritti che sono in effetti diritti della parte garantita, senza che si abbia ne un rapporto di rappresentanza, che in realtà non è conurabile come conseguenza automatica del rapporto di garanzia, ne litisconsorzio necessario della parte sostituita, cioè della parte il cui diritto viene da altri in nome proprio fatto valere, e dato che sembra insensato prospettare l'illegittimità costituzionale di si fatta disciplina, sembra anche logico giungere alla conclusione che non sia stata costituzionalizzata nemmeno la regola della necessarietà del litisconsorzio in tutte le ipotesi in cui la legge consenta la sostituzione processuale.

Possiamo porci un'altra domanda! Sia pure concesso che in base all'art. 81 è necessario un'espressa previsione di legge affinché si conuri una sostituzione processuale, dobbiamo giungere alla conclusione che occorra una espressa previsione di legge per avere legittimazione straordinaria? Il passaggio non è automatico, perché non è detto che tutti i casi di legittimazione straordinaria debbano anche essere casi di sostituzione processuale.

Abbiamo sostituzione processuale quando si fa valere il nome proprio in un diritto altrui, abbiamo legittimazione straordinaria quando non si fa valere un diritto proprio in nome proprio.

Si può avere legittimazione straordinaria senza sostituzione processuale? Possiamo immaginare l'ipotesi di un soggetto che agisca in giudizio senza far valere alcun diritto altrui, e senza far valer il diritto proprio, può succedere? In effetti succede, abbiamo senz'altro previsioni del diritto positivo in cui agiamo senza far valere diritti propri e ne diritti altrui. Ad esempio, si è parlato del settore delle mere azioni, potremmo dire che nell'azione possessoria non facciamo valere un diritto proprio ne un diritto altrui. Perché non facciamo valer un diritto, o potremo dire chiovendianamente, nell'azione cautelare non chiediamo l'accertamento di un diritto, e soprattutto potremo pensare al caso del pubblico ministero; in numerose ipotesi il P.M. è titolare dell'azione, ha la possibilità, egli stesso, di promuovere l'azione civile, per esempio quella della dichiarazioni di nullità di un marchio, forse che in questo caso sta facendo valere un diritto proprio? Certamente no!si dice che agisce per la tutela di un pubblico interesse, ma non fa valere situazioni soggettive ne sue, ne dello Stato, perché non agisce come rappresentante dello Stato, ne diritti altrui, perché agisce per l'interesse pubblico.

Dobbiamo trarre dall'art. 24 una regola che impedisca al legislatore di prevedere le mere azioni, certamente no, ma una regola che prescriva che le mere azioni siano atipiche? Sarebbe incostituzionale una disciplina che permettesse, in via generale, di agire senza far valere ne diritti propri ne diritti altrui? Possiamo concludere che certo sia incompatibile con l'art. 24 una disciplina che permetta, in casi atipici, al di fuori di specifiche previsioni di legge, di far valere diritti altrui senza litisconsorzio necessario della parte costituita, questo si, perché si finirebbe per eliminare la disponibilità dell'azione come riflesso della disponibilità del diritto, e forse ci staremmo avviando verso il totalitarismo se fosse possibile far valere i diritti altrui a piacimento.

Altro discorso è quello dell'agire senza far valere diritti, il terreno è più delicato e soprattutto riguarda il problema delle situazioni soggettive cosiddette di portata superindividuale, denominate di volata in volta come interessi diffusi, come interessi collettivi, come interessi di categoria, situazioni che non si qualifichino come diritti soggettivi in cui sussista una norma sostanziale che li qualifichi come meritevoli di protezione giuridica, su cui ci si deve porre il problema di individuare chi sia la parte legittimata ad agire.

Riprendiamo ciò già detto in merito all'azione in senso civico e azione in senso astratto, azione in senso concreto e delle condizioni dell'azione di cui si può sottolineare la distinzione dai presupposti processuali.

È una situazione risalente, sul piano teorico, per cui si conurano come presupposti processuali riferibili al giudice, ovvero alle parti (al giudice quando si fa riferimento alla competenza, alla giurisdizione; alle parti quando si fa riferimento alla capacità processuale), la distinzione oggi perde un po' del suo significato, soprattutto perché, i presupposti processuali si distinguono bene dalle condizioni dell'azione, quando si muovono alla concezione concreta dell'azione, quando si parla di azione in senso astratto, che significa che c'è esercizio dell'azione anche quando la domanda non è fondata cioè, la più diffusa, sia che la si intenda come situazione di vantaggio verso lo Stato ovvero verso il convenuto, oppure che la si intenda come situazione legittimante, o piuttosto come situazione legittimata dalla pendenza del processo.

Se si segue una concezione astratta di un'azione a distinguere le condizioni dell'azione e dei presupposti processuali sul piano teorico, perché, si finisce per accogliere che il regime dei presupposti processuali forse è più diversificato al suo interno, di quanto i presupposti processuali stessi siano distinguibili dalla condizione dell'azione, perché in entrambi i casi, si giunge, in carenza dell'uno o dell'altro, alla pronuncia di rigetto della domanda in rito e per altro verso, anche è diverso il regime dell'incompetenza da quello che è il difetto di giurisdizione, dovendosi qualificare la competenza del giudice come requisito di validità della sola pronuncia sul merito, alla luce di quanto disposto dall'art. 50 e dagli effetti conservativi dalla traslatio iudici, mentre la giurisdizione sembra conurarsi come presupposto di validità di qualsiasi atto del processo, a meno si giunga ad una riforma della disciplina della translatio, che consenta di produrre effetti conservativi anche sulla base di una riassunzione dinanzi ad un giudice appartenente ad una diversa giurisdizione.

I presupposti processuali, qui, da risolversi a prescindere dall'esame dei fatti sostanziali che hanno dato origine alla controversia, mentre le condizioni dell'azione fanno riferimento ai fatti sostanziali che hanno dato origine alla controversia, se non dal punto di vista della loro sussistenza, come avverrebbe si affrontasse un'azione in senso concreto, al meno dal punto di vista della loro prospettazione.

Il Mandrioli, individua come prospettazione dell'azione, la legittimazione ad agire, l'interesse ad agire e anche la possibilità giuridica, una concezione astratta dell'azione, cioè una concezione in base alla quale i fatti determinativi della sussistenza della legittimazione ad agire, vanno affermati.

La condizione consistente nell'attività giuridica, però, è soddisfatta dalla sussistenza di una norma giuridica protettiva della situazione di vantaggio azionata. Ma questa norma deve esistere! O è sufficiente affermarla? Affermare o meno l'esistenza di una norma giuridica attributiva dell'azione di vantaggio invocata sia irrilevante, nel nostro ordinamento è consolidato il principio iura novit curia per cui, la circostanza che la norma protettiva dell'azione di vantaggio invocata sussista, circostanza che il giudice appura d'ufficio e dal tutto a prescindere dall'indicazione della parte, anzi, nella pratica, è buona prudenza lasciare individuare al giudice le norme di legge applicabili alla fattispecie, l'importante è dire ciò che deve essere detto e non più di quanto debba essere detto.

L'esistenza della norma giuridica, per un verso non sembra costituire una condizione soddisfabile attraverso la prospettazione della parte..la norma deve esistere.., per altro verso non è neppure sufficiente affermare che esista se poi non esiste! La mera affermazione dell'esistenza di una norma giuridica applicabile alla fattispecie, di un'affermazione non corrispondente a verità, può costituire la condizione di una pronuncia sul merito? O, in mancanza di detta norma si deve raggiungere una pronuncia sul rito? Verrebbe da dire, e il Mandrioli non è tanto originale, prende le teorie altrui, le rimescola, la possibilità giuridica è la condizione dell'azione in senso concreto, in un lato, se manca, il giudice deve pronunciare una sentenza sul merito, ovviamente non una sentenza sul merito favorevole, sarà una sentenza sul merito sfavorevole per l'attore, perché l'attore è privo d'azione in senso concreto, ma non sembra che non abbia diritto a una pronuncia sul merito di rigetto della domanda.

Perché dovremo qualificarla come una pronuncia di rito per difetto di una condizione dell'azione in senso astratto? Come conseguenza della mancanza di un elemento che la parte non aveva l'onere di indicare e di cui rileva, non l'affermazione, ma la sussistenza?

La ragione per cui si è arrivati a questo tipo d'inquadramento teorico e questo ha retto così a lungo, sta in un problema di carattere pratico che è diventato obsoleto. Il problema di carattere pratico è che ci si rende conto facilmente quando manca la norma protettiva della situazione di vantaggio azionato, che la domanda non può che essere rigettata e non può che essere rigettata in iure per motivi di diritto, quindi la domanda merita di essere rigettata senza esame del fatto, e ciò è apprezzabile, soprattutto perché, questo tipo di situazione potrebbe in astratto inquadrata come un ipotesi di difetto di giurisdizione, come la giurisprudenza ha fatto nelle prime applicazioni del codice, deducibile tramite regolamento preventivo e ricevere direttamente dalla Cassazione la pronuncia di rigetto della domanda, senza bisogno di passare attraverso un normale percorso dei vari gradi di giudizio.

Ad un certo punto ci si è resi conto di come, del regolamento di giurisdizione si abusasse, nella pratica, e la giurisprudenza è tornata sui suoi passi ed ha smesso di considerare deducibile tramite regolamento preventivo questo tipo di questioni, tuttavia, continuare a qualificarla come questione di rito continuava ad essere indispensabile a ciò che, la pronuncia di rigetto della domanda potesse, se resa dalla Cassazione senza bisogno di rinviare la causa ad un giudice di merito, affinché costui pronunciasse una sentenza di rigetto della domanda nel merito.

Questo sistema pratico si è rilevato obsoleto nel momento in cui a seguito della riforma dell'art. 384, da parte della l. 353/90, si è allora resa possibile la pronuncia sul merito da parte della stessa Corte di Cassazione in tutte quelle ipotesi in cui non occorrano ulteriori accertamenti di fatto, e trattandosi, nell'ipotesi in cui l'ipotesi possa essere resa senza accertamenti di fatto, ci troviamo nell'ipotesi in cui la Cassazione si può pronunciare senza rinvio sulla causa stessa, e non è necessario are il prezzo per ottenere questa pronuncia senza rinvio della parte della Cassazione, per codificarla come una questione di rito, cioè, una decisione sul rito inidonea, come tale, a produrre in pieno gli effetti del giudicato sostanziale, ed oggi, possiamo dire tranquillamente, che questa è una pronuncia sul merito che la Cassazione può rendere, e che può produrre tutti gli effetti preclusivi propri e vincolanti propri delle pronunce di questo tipo.

Altre condizioni dell'azione che abbiamo già cominciato a parlare, è la legittimazione ad agire, distinguendo in particolare come essa si presenta a seconda se la si concepisca come condizione dell'azione in senso concreto o come condizione dell'azione in senso astratto, abbiamo anche cercato di rinvenire il fondamento normativo della regola di legittimazione ad agire ed abbiamo discusso il significato dell'art. 81, nella parte in cui prescrive, che nei soli casi prescritti dalla legge possa ammettersi la sostituzione processuale, ed abbiamo, anche discusso in che misura, questa norma può ritenersi costituzionalizzata, raggiungendo la conclusione, che, in realtà non lo sia,.

È chiaro che quando si ha titolarità del diritto, deve aversi per regolarità costituzionale, anche titolarità dell'azione, ma non è detto, chi debba avere titolarità dell'azione soltanto che sia titolare del diritto, quando si tratta di far valere diritti altrui, c'è una regola di diritto positivo che stabilisce la tassatività dei casi di sostituzione processuale e si può immaginare, che nell'ambito dell'applicazione di questo istituto si estenda a condizione che, si sia in presenza di condizioni sostanziali che garantiscano la coincidenza d'interessi tra titolari del diritto e il titolare dell'azione in coincidenza all'accoglimento della domanda, che giustifichi l'esercizio dell'azione da parte di soggetti diversi da coloro che siano titolari dell'esperimento fatto valere.

In effetto costituzionale, non è esclusa la possibilità di esercitare l'azione anche senza far valere dei diritti propri nei diritti altrui. Ma come viene fuori il fatto di agire in giudizio senza parlare di diritti propri, ne di diritti altrui! È il caso del P.M. nel processo civile, in alcuni casi previsti espressamente dalla legge al P.M. è attribuita l'azione civile, ma non c'è dubbio che il P.M. non faccia valere diritti propri, ne agisca come rappresentante dello Stato per la tutela dei diritti dello Stato e men che meno per far valere diritti altrui, agisce, si dice, per una tutela di un interesse pubblico che non si qualifica come situazione soggettiva di vantaggio attribuita ad uno specifico soggetto, e quindi, non si qualifica come attività di tutela di diritti soggettivi, ne propri, ne altrui.

Però, la ura del P.M., non è l'espressione di un a ideologia pluralista dell'ordinamento, è la longa manus dell'autorità dello Stato.

Il processo è costoso, e la parte soccombente è attiva nelle spese processuali, ma in realtà, le spese ripetibili della parte soccombente sono una porzione modesta, non solo perché le spese sostenute non sono ripetibili, ma anche perché esistono una grande quantità di costi che non sono quantificabili, come i costi psicologici, quindi, il processo, ha comunque un costo vivo, ed è un costo vivo che conviene affrontare, in quanto, ci si aspetti di ricavarne più di quanto ci si aspetti.

Ma il costo della stessa causa, il valore  per le due parti contrapposte non è lo stesso! Perché, la cosa è evidente se si basi sul precedente giudiziario, ma anche in ordinamenti come il nostro, in cui formalmente il precedente giudiziario non è una fonte del diritto, in tutte le ipotesi in cui si abbia una controversia del tipo seriale, in cui ci sono forti isomorfismi nei fatti di diritto da risolvere, ancorché, si dica che il precedente giudiziario ha una funzione prettamente persuasiva, lo stato di fatto coincidenti, l'efficacia del precedente giudiziario è molto forte.

Di conseguenza, se il soggetto è parte di un centinaio di cause, se per ciascuna delle sue cause ha un valore di 1000 lire, per ciascuno dei suoi avversari, parti occasionali, la causa ha un valore di 1000 lire, ma per la parte abituale la prima causa che va a sentenza, ha un valore corrispondente a tutte le cause, perché, la prima decisione, inevitabilmente influenzerà la decisione di tutte le altre, quindi per la parte abituale il valore della causa è molto superiore, perché la causa ha un valore strategico, perciò per la parte abituale, è razionale investire in quella causa una cifra molto superiore da quella che sarebbe razionale investire per il suo avversario, e questo è un problema, perché, il processo civile è soggetto ad impulso di parte, è alimentato dalle parti, e consente in misura molto ampia, se si è disposti ad affrontare dei costi, ad infliggerli all'avversario, cioè, la parte che è disposta ad investire strategicamente di più, può rendere al suo avversario il processo più costoso di quanto la causa stessa valga per lui, cioè può rendere economicamente irrazionale la coltivazione del contenzioso sulla base dell'effetto intimidatorio nella sua maggior propensione alla spesa.

·    Teoria delle decisioni razionali

Applicata la logica della logica collettiva, la teoria delle decisioni razionali, ci spiega perché, nella gran parte delle situazioni, il comportamento più razionale è il comportamento opportunistico, perché, quando occorre proseguire un bene la cui fruizione non impedisce l'eguale fruizione altrui, un bene comune come l'aria pulita, ed è necessario affrontare il costo per conseguire questo bene, nella specie, il provvedimento giurisdizionale di tutela è il bene dell'interesse collettivo della categoria è il bene comune a cui si spira, ma per conseguirlo bisogna affrontare il costo del processo.

Il comportamento razionale, è aspettare che qualche altro affronti i costi del processo, per fruire dei benefici, e la razionalità del comportamento opportunistico è un gravissimo ostacolo all'azione collettiva e si può superare in certe situazioni, quando sussistono situazioni sociali di forte coesione, gli ostacoli all'azione collettiva vengono superati, ma gli incentivi devono essere congrui, devono essere incentivi all'esperimento di azioni fondate, quindi, la strategia del conferimento alla legittimazione alle associazioni di far valere interessi collettivi funziona male per cui è necessario prendere in considerazione un percorso alternativo, che è quello dell'azione di classe che si ispira all'esperienza anglosassone la quale prevede che la legittimazione ad agire, nell'ipotesi di controversie seriali, è attribuita direttamente ad un avvocato.

L'avvocato è legittimato ad essere vero e proprio sostituto processuale facendo valere i diritti di tutti i componenti della categoria interessata in base alla teoria delle spese, che prevede che il difensore della classe viene retribuito soltanto se vince, quindi si ha processo solo se la causa è fondata, perché il costo del processo lo deve anticipare l'avvocato e se non viene ato, ci rimette di tasca sua, e quindi bada bene lui ad esercitare solo iniziative che appaiano fondate.

Questo implica una serie di correttivi, perché facciamo valere i diritti dei singoli è necessario che i singoli conservino il potere di disporre, quindi che siano informati della pendenza della lite, che abbiano la possibilità di rinunciare in proprio alla tutela del proprio diritto, di agire individualmente, è necessario correlare un ceto sistema di garanzie, però è un sistema che assicura un grado di effettività della disciplina positiva del diritto sostanziale.

·    Interesse ad agire

Si qualifica come terza condizione dell'azione, o seconda se abbandoniamo l'idea possibilità giuridica come condizione dell'azione in senso astratto.

L'art. 100 ci dice che per proporre domanda o resistere alla stessa è necessario avere interesse. Il significato di questa disposizione è molto dibattuto e controverso, cosa consiste l'interesse ad agire? In prima battuta esso è dato dal rapporto di utilità corrente fra la lesione affermata e il provvedimento richiesto. Tuttavia, si capisce meglio se lo enunciamo prendendo le mosse dal Chiovenda, il quale propugnava la tesi della generalità dell'azione d'accertamento, cioè il titolare di un'azione soggettiva di vantaggio avesse sempre diritto ad ottenere dal giudice un provvedimento idoneo al giudicato che ne dichiarasse l'esistenza e rendesse nel futuro incontrovertibile la sussistenza di quella situazione soggettiva.

Un tempo si pensava che ciò fosse possibile soltanto nei casi previsti dalla legge, ma è una teoria minoritaria.

La conclusione, però, che sia sempre possibile avere l'accertamento della situazione giuridica soggettiva, necessitava di un correttivo tale da far dire che il giudice non poteva essere tirato in ballo soltanto per dare un parere, doveva esserci un interesse caratterizzato dall'attualità della controversia, cioè si voleva che la questione posta non fosse meramente accademica, ma che la risoluzione dell'incertezza fosse necessaria perché sussisteva un vanto altrui sulla situazione soggettiva vantata dall'attore, una contestazione da parte della controparte già in sede stragiudiziale della sua titolarità del diritto; posso chiedere l'accertamento di essere titolare di un certo diritto, in quanto, ci sia qualcuno che nega che io lo sia.

Posta in questi termini, la questione, si giungeva tendenzialmente a dire che il criterio dell'interesse ad agire avesse rilevanza esclusivamente nel campo delle azioni d'accertamento, perché, quando, invece, il legislatore conferisce il diritto ad una pronuncia di carattere costitutivo, una pronuncia che costituisca, modifichi, estingua un rapporto giuridico sostanziale, cioè possibile soltanto nei casi previsti dalla legge, e quindi in questa espressa previsione legislativa si richiede una valutazione del legislatore della sussistenza dell'interesse ad ottenere quella pronuncia.

Ancora, si diceva, nel settore delle azioni di condanna in cui la parte mira a conseguire un provvedimento che produca effetti di titolo esecutivo, è chiaro che l'utilità sussista re ipsa per la particolare efficacia, ulteriore rispetto a quella d'accertamento dell'efficacia di titolo esecutivo assicurata dal provvedimento giurisdizionale.

Questa è la dottrina tradizionale, però circolano posizioni minoritarie che dicono che il criterio dell'interesse ad agire è privo di autonoma rilevanza e in realtà i casi che si risolvono facendo ricorso al criterio dell'interesse ad agire, sono casi ovvi d'infondatezza della domanda  o di difetto di legittimazione ad agire, magari sul fronte della legittimazione passiva.

Naturalmente, legittimazione ad agire, in via ordinaria è in coincidenza alla titolarità del diritto e alla titolarità dell'azione, ovviamente esiste anche una legittimazione passiva ad agire in senso astratto o in senso concreto, quest'ultima coincide con la titolarità passiva dell'obbligazione, mentre la legittimazione passiva in senso astratto è assicurata in via ordinaria dalla prospettazione della legittimazione passiva del convenuto, e quindi, coincidenza tra il soggetto che si conviene in giudizio e il titolare passivo dell'obbligazione, ovvero l'affermato titolare passivo dell'obbligazione.

Teniamo anche conto, della distinzione tra legittimazione ad agire e legittimazione processuale e la base è la capacità di essere parte, e a chi spetta la capacità di essere parte? A chiunque possieda la capacità giuridica, cioè la capacità di essere titolare attivo o passivo di rapporti giuridici, questi è anche capace di essere parte.

Abbiamo poi, un istituto un po' più complesso che è quello a cui allude l'art. 75 parlando di capacità processuale, cioè il problema che si pone quando una parte è capace di essere titolare attiva e passiva di rapporti giuridici, ma non capace di disporre del diritto in contesa, l'esempio più ovvio è il minore che sta in giudizio tramite rappresentante legale, ma le ipotesi di indisponibilità per il diritto in contesa sono capacità variegate, perché abbiamo il caso del fallito che rispetto ad alcuni diritti non è capace di disporre, ma rispetto ad altri, sì!

Poi, l'art. 182 disciplina in maniera uniforme sia le ipotesi di cui non sia stata integrata la capacità processuale della parte per il soggetto a regime di rappresentanza legale, sia l'ipotesi in cui non siano state concesse le autorizzazioni necessarie per le azioni in giudizio come si prevede per gli enti pubblici, che devono essere autorizzati da organismi collegiali, quindi le ipotesi di difetti di assistenza o di autorizzazione e regolata in maniera uniforme dall'art. 182 del c.p.c., prevedendo che tutti questi vizi siano sanabili nel corso del processo attraverso la concezione dell'autorizzazione in corso di causa, con effetti che si producano dal momento in cui il vizio viene sanato, con efficacia ex tunc, facendo salva la produzione degli effetti della domanda originata dalla sua proposizione precedentemente al rilascio dell'autorizzazione.

Questa ragione pratica è quella che sta dietro alla disciplina della capacità processuale, a seconda delle impostazioni e delle teorie ci sono vari modi in cui si potrebbe distinguere il difetto da capacità processuale dal difetto di legittimazione processuale attribuendo le varie fattispecie all'una o all'altra rubrica di molti modi, noi ci semplifichiamo la vita, visto che il codice non distingue, non distinguiamo neanche noi, se non per tenere conto di quell'aspetto, squisitamente pratico, che è quello l'art. 182, quindi sotto l'intercambiabile rubrica, capacità processuale - legittimazione processuale, trattiamo tutti quei casi in cui si ha un problema d'integrazione della volontà, di manifestazione di volontà in capacità di disporre del diritto in contesa, e quindi, questi concetti di legittimazione li teniamo separati, (concetti di legittimazione processuali dai concetti di legittimazione ad agire).

Ritornando all'interesse ad agire, per un verso, questa tradizionale concezione è entrata in crisi nella parte in cui sia rinvenendo l'ipotesi in cui l'iterasse ad agire non svolge un ruolo selettiva nella tutela dell'accertamento, sia rinvenendo casi in cui l'interesse ad agire può svolgere un ruolo selettivo nel campo delle azioni di condanna delle azioni costitutive.

Per quel che riguarda le azioni di accertamento, il caso più significativo, è quello dell'esperienza della tutela di accertamento in via d'urgenza, il provvedimento cautelare è inidoneo per natura a produrre effetti del giudicato, ora, posto che, l'utilità dell'azione d'accertamento, quando si sia in presenza di un vanto di una contestazione, consiste appunto nella formazione di un giudicato, verrebbe naturale dire, che non si può chiedere una tutela anticipatoria dell'accertamento in via cautelare, perché il provvedimento cautelare, anticipatorio di tale accertamento, non potrebbe produrre effetti di giudicato, quindi non potrebbe avere, per la parte, quell'utilità giuridica che è necessaria a ciò che si giustifichi l'attivazione del giudice per risolvere il problema giuridico, se il criterio dell'interesse ad agire svolgesse la sua funzione selettiva impedendo al giudice di rendere pareri, gli dovrebbe impedire anche di rendere provvedimenti cautelari di accertamento mero, perché i provvedimenti cautelari di accertamento mero sono fondamentalmente pareri resi da un giudice in tanto e in quanto il loro contenuto sia di mero accertamento.

Vediamo cosa fa la giurisprudenza! Ci sono due tipi di spiegazioni, la prima è che la regola dell'interesse ad agire è una regola di autodifesa dei giudici, e quando non hanno voglia di usarla è un problema loro, hanno voglia di dare pareri e li danno, che male c'è! Sembra che li diano in quel settore del contenzioso in cui, se le parti dovessero chiedere parere agli avvocati, dovrebbero arli molto cari, ma in realtà c'è una spiegazione migliore.

Le fattispecie che vengono qualificate come provvedimenti cautelari di mero accertamento, in realtà, non sono provvedimenti cautelari di mero accertamento, ma sono provvedimenti cautelari di condanna, e passano per essere provvedimenti di mero accertamento perché si muove da una concezione sistematica della tutela di condanna che li collega alla tutela di condanna stessa ad essere esclusivamente quella realizzata tramite la formazione di un titolo esecutivo spendibile attraverso le forme di esecuzione forzata previste dalla legge.

Di fatto, la concezione dell'azione di condanna è da ritenersi superata e non compatibile con l'art. 24 della Costituzione, nella misura in cui si ritiene che, nell'art. 24 ricomprenda anche le implicazioni della concezione chiovendiana dell'azione, cioè, dell'azione in senso concreto e del diritto ad ottenere tutto quello e proprio quello che alla parte è dovuto in base al diritto sostanziale, si deve anche giungere alla conclusione che la tutela debba qualificarsi come tutela di condanna, in guisa tale da consentire il conseguimento di ciò che è dovuto in base al diritto sostanziale, anche quando l'obbligazione non sia passibile di esecuzione per le forme previste esplicitamente dal codice di procedura. Si allude con ciò, in particolare, all'ipotesi di obbligazione di fare di carattere infungibile, che sono ipotesi su cui si è svolto un dibattito enorme in questi ultimi anni, perché la tradizione ci diceva nemo precisi ad factum cogi potest, l'adempimento di obblighi di fare prevede un qualche sistema di coercizione, si parla infatti di esecuzioni indiretta, quindi sono misure coercitive sono quelle che dovrebbero indurre all'adempimento colui che sia condannato in giudizio all'adempimento di un obbligo di fare di carattere infungibile.

Ciò non vuol dire che si vada in prigione, infatti esistono modelli dominanti in Europa, che consistono in sanzioni pecuniarie, in cui la sanzione pecuniaria ha una funzione spiccatamente coercitiva, perché si prevede che il debitore debba are una somma per ogni giorno di ritardo nell'adempimento dell'obbligazione, somma da arsi al creditore senza bisogno di una prova di quantificazione del danno, qui non si tratta di danni da inadempimento che quindi richiedono una prova, ma strettamente di misura coercitive che possono riguardare qualsiasi tipo di comportamento, salva la possibilità di prevedere sul piano sostanziale l'incoercibilità, per esempio, di determinate manifestazioni della personalità, per cui, se noi riteniamo ingiusto costringere chi ha promesso cantare all'opera o dipingere un quadro, ovviamente al creditore non interessa che altri al posto suo canti o dipinga, se ripugna la nostra coscienza che lui sia costretto a dipingere lo diciamo sul piano sostanziale, ma se sul piano sostanziale queste sono obbligazioni l'art. 24 ci impone di prevedere degli strumenti affinché queste obbligazioni possano trovare soddisfacimento se non a prescindere dalla volontà dell'obbligato, eventualmente coartando la volontà dell'obbligato attraverso il sistema sanzionatorio.

Sul piano teorico è necessario affermare che si abbia tutela di condanna anche quando il contenuto del provvedimento è tale da non potere innescare un procedimento di esecuzione forzata a prescindere dalla volontà dell'obbligato, quindi anche quando il provvedimento di condanna è rivolto al futuro e consiste in un ordine di fare o di non fare per il futuro, cioè anche quando ha un contenuto inibitorio.

I provvedimenti inibitori, dei quali il principale è la repressione della condotta antisindacale che è un ordine dell'astenersi dalla condotta e rimuoverne gli effetti, se provvedimenti di questo genere sono provvedimenti di condanna è perfettamente logico che possano resi in via d'urgenza, perché l'utilità  non è nell'accertamento, ma in un comando che non si vede, ma c'è, un comando di astenersi dalla condotta ritenuta illegittima, correlativamente qui non possiamo più dire che nell'azione di condanna d'interesse ad agire in re ispa proprio perché il provvedimento deve rivolgersi al futuro, proprio perché, tra l'altro, questo tipo di tutela in quanto rivolta al futuro deve poter essere preventiva e potrà essere concessa anche quando la lesione del diritto sia stata soltanto minacciata, occorrerà che sia stata almeno minacciata, quindi, qui abbiamo azioni di condanna rispetto alle quali è ragionevole che operi il filtro dell'interesse ad agire e che valga la regola per cui il giudice non da pareri e che questi provvedimenti possano essere resi perché non sono davvero meri pareri.

Invece, altre ipotesi di azione di condanna dell'interesse ad agire scaturiscono in perplessità, una è quella dell'ipotesi del frazionamento della domanda: Tizio creditore di 100, fa valere il suo credito 10 lire alla volta, alcuni di fronte a questo comportamento abusivo, propongono di risolvere il problema sul piano dei diritti del giudicato, dicendo: bene! Hai fatto valere 10 lire alla volta, il tuo credito è diventato di 10 lire e le altre 90 non puoi farle valere più!

Un'altra possibilità, che alcuni hanno sostenuto, e quella di affermare l'insussistenza dell'interesse ad agire, se avendo un credito di 100 si fanno valere solo 10, qui la soluzione è quella di introdurre un sistema di sanzioni nei confronti dei comportamenti abusivi, di sanzioni specifiche dell'abuso del processo qualificando tali fattispecie come abuso del diritto, assoggettarla a sanzioni senza il bisogno di tirare in ballo ne la disciplina degli effetti del giudicato, ne la disciplina dell'interesse ad agire.

L'art. 186 ter, che recita la possibilità di ottenere in corso di causa ordinanza d'ingiunzione, in quelle ipotesi in cui si potrebbe ottenere decreto ingiuntivo, questa norma è stata introdotta perché non poteva concedersi provvisoria esecuzione parziale del decreto ingiuntivo, mentre il decreto ingiunti per un miliardo il creditore non aveva l'accortezza di rifiutare i amenti parziali e in qualche modo il debitore riusciva a are 100 lire, a questo punto proponeva un opposizione al decreto ingiuntivo osservando che il credito non era di un miliardo ma di 999.999.900 e il giudice non poteva concedere la provvisoria esecuzione parziale del decreto ingiuntivo opposto, si è risolto il problema prevedendo che la parte possa chiedere nel corso della causa di merito a cognizione piena avviata dall'opposizione dell'intimato.

Qualcuno, però ha detto, che così si arriverebbe ad una duplicazione di titoli esecutivi e che si dovrebbe affermare l'insussistenza dell'interesse a conseguire un altro titolo esecutivo, perché in caso di rigetto dell'opposizione si sarebbero avuti l'ordinanza e decreto ingiuntivo ormai consolidato conviventi. La duplicazione dei titoli esecutivi è già consentita dalla legge nella stessa disciplina del decreto ingiuntivo nella parte in cui consente di ottenere il decreto ingiuntivo in base a cambiale, quindi, già duplica i suoi titoli esecutivi.

Con riferimento alle azioni costitutive, è sensato ed utile fare ricorso al criterio dell'interesse ad agire per risolvere il problema del coordinamento nell'ipotesi di concorso di azioni dirette ad un unico risultato giuridico, qui, esiste una tendenza giurisprudenziale di parte della dottrina di risolvere il problema sotto il profilo degli effetti del giudicato, cioè nell'ipotesi in cui uno stesso contratto sia impugnato facendo valere il vizio della volontà e contestualmente per inadempimento puntando ad un effetto di rimozione con efficacia ex nunc degli effetti del rapporto, si può più che sostenere che il giudicato su di un'azione produca effetti preclusivi dell'altra, attraverso la disciplina degli effetti del giudicato, per quanto visto, che ci inducono a seguire soluzioni che restringano il più possibile la portata oggettiva del giudicato, a dire che il coordinamento delle azioni in questo caso si può efficacemente realizzare attraverso il criterio dell'interesse ad agire, cioè osservando che con l'accoglimento di una domanda l'esperimento dell'altra rimane impedito dalla insussistenza dell'interesse ad agire, una volta che il contratto è stato annullato non sussiste l'interesse ad agire per la sua risoluzione, una volta che il contratto è stato annullato per errore, non c'è bisogno di dire che è preclusa dal giudicato l'impugnativa dello stesso contratto, tanto vale dire che è pregiudicata dalla ssa dell'interesse ad agire a seguito dell'accoglimento dell'impugnazione per errore. Escludendosi, quindi, l'ipotesi di rigetto della domanda di annullamento per errore possa prodursi effetto preclusivo della proposizione della domanda di annullamento per dolo, come deriverebbe dall'applicazione della regola del giudicato.

Questo determina un'asimmetria tra attore e convenuto, nel senso che sembra lasciare aperta la possibilità di una iniziativa giudiziaria dell'attore di vessare la controparte con iniziative giudiziarie a catena, ma in realtà questo problema non deve essere sopravvalutato e si debba evitare che la parte sia indotta, in forza del principio dell'eventualità come conseguenza dell'ampiezza del diritto soggettivo del giudicato, a deporre preventivamente sia l'errore che il dolo allo scopo di vedersi preclusa la possibilità di esperire una nuova iniziativa dato che la prima risulti infondata qualora ci sia effettivamente spazio per esperire tale iniziativa.

Tra legittimazione attiva e legittimazione passiva, si introduce l'art.110 nella quale si deduce un'azione speculare ad agire da parete del convenuto, in quella parte in cui esiste l'interesse ad esistere in giudizio della parte, in quanto parte convenuta, non c'è un rapporto di specularità, perché l'interesse a resistere alla parte convenuta è in re ipsa, non può mancare, quindi, parrebbe non esserci qualche cosa di analogo all'interesse ad agire dal lato del convenuto, in realtà, però, lo si può pescare fuori, ma non dal disposto dell'art. 100, bensì in quella parte dell'art. 306dve si prevede che la parte attrice possa rinunciare agli atti della causa disponendo del processo, quindi, producendo l'estinzione del giudizio, cioè, definizione della causa di mero rito senza pronuncia sul merito salva eventuale sopravvivenza agli effetti dell'estinzione delle sentenze di merito rese nel corso del giudizio, ebbene, la fattispecie estintiva si perfeziona non soltanto in base ad un atto unilaterale dell'attore, ma occorre l'accettazione del convenuto che abbia interesse alla prosecuzione della causa.

Quando si fa riferimento alla prosecuzione della causa, indispensabile affinché occorra l'accettazione del convenuto per la fattispecie estintiva del processo, qui, c'è un riferimento all'interesse che può mancare nel convenuto, si esempio, dicendo che, non occorre la citazione del convenuto che sia rimasto contumace, cioè non si sia costituito in giudizio rendendosi potenzialmente parte attiva nel processo, ma anche si può aggiungere non occorre l'accettazione di quel convenuto, che abbia sollevato eccezioni di rito impeditive della pronuncia sul merito della domanda, perché, costui ha manifestato disinteresse al conseguimento di una pronuncia sul merito, quindi, in riferimento alla prosecuzione della causa è inteso l'interesse alla pronuncia sul merito che, alla luce della prospettazione del convenuto può mancare quando il convenuto conuri la sua situazione soggettiva nel contesto del processo, come meritevole di una pronuncia assolutoria nel rito e senza esame del merito della domanda.

 

·    Domanda e principio della domanda

La domanda va intesa come l'atto processuale con cui si esercita l'azione, con cui si fa valere il diritto, con cui si chiede una pronuncia da parte del giudice dichiarativa di un effetto giuridico attribuito ad un bene della vita. E l'eccezione cos'è? L'eccezione, dovrebbe essere definita come l'atto processuale con cui il convenuto chiede al giudice di pronunciare intorno ad un effetto, giuridico impeditivo dell'accoglimento della domanda, con questa riformulazione possiamo ricomprendere tanto eccezioni di merito quanto eccezioni di rito.

 Così come si può parlare di eccezione come atto processuale, omologo alla domanda, va anche detto però, nel linguaggio codicistico, l'indicazione eccezione per far riferimento non all'atto processuale, ma alla situazione di vantaggio, alla fattispecie produttiva dell'effetto giuridico eventualmente invocabile dal convenuto ai fini del conseguimento di una pronuncia di rigetto della domanda, quindi è in questo senso che adopera la parola eccezione il legislatore, allorquando distingue tra eccezioni rilevabili d'ufficio e eccezioni rilevabili ad istanza di parte è chiaro che qui il riferimento è alla fattispecie sostanziale produttiva dell'effetto giuridico.

Dobbiamo, invece, parlare di eccezioni in senso improprio, quando il convenuto si proponga d'impedire l'accoglimento della domanda attoria, meramente contestando i fatti costitutivi allegati dall'attore, cioè, contestando che si sia perfezionata la fattispecie produttiva dell'effetto giuridico posta dall'attore alla base della sua domanda giudiziale, qui, più appropriata è l'espressione "mera difesa", piuttosto che l'espressione eccezione in senso improprio.

Nell'ambito delle eccezioni in senso proprio si suole distinguere le eccezioni rilevabili d'ufficio dalle eccezioni rilevabili ad istanza di parte evocando la terminologia, rispettivamente di eccezione in senso proprio e lato, e eccezione in senso proprio e stretto.

Questa distinzione serve soprattutto sul tempo, abbiamo regimi di preclusioni, la cosiddetta mera difesa, la contestazione dei fatti costitutivi allegati dall'attore può venire meno in qualsiasi stadio del processo validamente, non esiste alcuna preclusione all'esercizio di questa attività processuale.

Diverso è il discorso quando si tratti di eccezioni in senso proprio, qui, il problema è quello d'individuare i casi in cui vi sia rilevabilità d'ufficio e quelli in cui vi sia rilevabilità ad istanza di parte, poiché, la sollevazione di eccezioni rilevabili soltanto ad istanza di parte è soggetto ad un termine di preclusione molto rigoroso come quando, parlando dell'eccezione di incompetenza per territorio semplice, la barriera preclusiva scatta in quell'appendice della prima udienza di izione che può essere concessa dal giudice al fine di sollevazione di nuove eccezioni, ma non oltre a nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, mentre l'eccezione rilevabile d'ufficio risulta sollevabile anche se in ogni stato e grado del procedimento, e il loro regime è sostanzialmente analogo a quello delle mere difese? Occorre fare attenzione, perché, qui, si tratta di far valere l'effetto giuridico prodotto da fatti diversi da quelli allegati dall'attore, quindi si pone il problema di introdurre tempestivamente nel processo i relativi fatti, cioè quella tradizionale regola che viene espressa: quod non est in actis non est de aucun cuntu, il giudice pronuncia soltanto sulla base dei fatti ritualmente introdotti nel giudizio, ossia, giustificati nell'accuratezza dell'accertamento dei fatti, nonostante si possa pensare il contrario, è quella del divieto di scienza privata, cioè il giudice non può rendere la sua decisione tenendo conto di fatti che abbia appreso al di fuori dei canali istituzionali, cioè al di fuori degli atti del processo.

I fatti che non vengano conosciuti dal giudice attraverso gli atti del processo possono essere presi in considerazione solo nel caso estremo di cui si tratti di fatti notori, ma i fatti particolari non conosciuti a tutti non possono essere considerati dal giudice se non vengono narrati o indicati, esposti e poi provati tramite gli atti del processo. Esiste un riscontro normativa di questa regola? Il codice lo dice, ma in posto nascosto che pochi notano, si trova nell'art. 97 delle disposizioni di attuazione.

Frequente è un equivoco a tale proposito, cioè l'equivoco tra il vincolo per il giudice a tenere conto dei soli fatti acquisiti tramite gli atti del processo e il vincolo di tenere conto solo dei fatti indicati dalle parti, qui non bisogna fare confusione, perché non tutti gli atti del processo sono compiuti dalle parti, e allora occorre introdurre un'altra distinzione, la cosiddetta dei fatti principali e fatti secondari.

Il processo, come è ispirato al principio dispositive e quindi spetta solo alla parte di decidere se far valere o meno la propria situazione di vantaggio, di far valere il proprio diritto, ebbene, in molte occasioni, vedi la disciplina del giudicato, i fatti svolgono una funzione individuativa del diritto fatto valere, in altre occasioni, no! Ricordiamoci la distinzione fra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati che possono sussistere più volte e contemporaneamente fra le stesse persone (diritti ad una prestazione pecuniaria - posso essere creditore di Tizio di 100 lire a titolo di mutuo e di altre 100 a titolo di risarcimento del danno), in altre situazioni, l'individuazione della situazione soggettiva di vantaggio può essere compiuta esaustivamente attraverso il riferimento al merito che ne forma oggetto, quando si richiede l'accertamento del diritto di proprietà su un bene immobile, i fatti costitutivi di tale diritto, non assolvono ad una funzione individuativa, perché, che io abbia acquisito il diritto reale sul bene immobile attraverso contratto, ovvero attraverso usucapione non cambia il contenuto del diritto.

Ebbene! fatti principali sono i fatti costitutivi, anche individuativi del diritto, perché, il giudice può tenere conto dei soli effetti giuridici prodotti da fatti principali dedotti dalle parti e la circostanza che si acquisisca attraverso gli atti processuali di ulteriori e diversi fatti costitutivi di un diritto che però non è individuato attraverso i suoi fatti non crea particolari problemi, ma tutte le volte che, l'introduzione di nuovi fatti concerne un effetto giuridico prodotto da fattispecie eterodeterminate, allora, l'introduzione di nuovi fatti cambia anche il diritto, quindi tenere conto di fatti produttivi di un identico effetto giuridico diversi da quelli allegati dall'attore, vorrebbe dire pronunciare su di un diritto diverso, ed in questo senso l'iniziativa del giudice contrasterebbe con il principio dispositivo in senso sostanziale, per cui, se lui dicesse che è vero che Tizio è creditore di 100 lire, ma non come lui disse a titolo di restituzione di somma data a mutuo, bensì a titolo di risarcimento del danno provocato da un diverso fatto illecito, il giudice andrebbe a tutelare un diritto diverso, violando il principio della domanda.

Parliamo, invece di fatti secondari, per alludere a quei fatti che svolgono non già una funzione individuativa della fattispecie giuridica azionata in giudizio, bensì fondamentalmente una funzione di prova dei fatti principali, perché, opera nel processo civile, il meccanismo delle presunzioni.

Quando parliamo di presunzioni, nel processo civile, facciamo riferimento ad un concetto diverso da quello che usano i penalisti quando dicono che in diritto penale non si presume niente, la presunzione, in diritto civile, può essere una inversione dell'onere della prova nell'ipotesi di presunzione legale, ma la presunzione semplice, in realtà, tratta la modalità di assolvimento dell'onere della prova, ossia si intende per presunzione, l'inferenza che si ottiene attraverso una ricostruzione indiziaria dell'accertamento dei fatti, una costruzione indiretta dell'accertamento dei fatti.

Un caso illustrativo di fatto secondario, lo supponiamo in una controversia per un incidente stradale, e si afferma la responsabilità di una delle parti in quanto, la sua automobile procedeva oltre i limiti di velocità: ebbene, l'accertamento delle tracce della frenata sull'asfalto è accertamento di un fatto secondario, cioè che vi è stata una frenata brusca, da cui si evince in via inferenziale, che l'automobile andava forte, che è il fatto principale produttivo dell'effetto giuridico provocato dall'attore, e cioè la responsabilità risarcitoria del danno.

Rispetto ai fatti secondari non è conurabile alcuna titolarità esclusiva da parte delle parti del potere di dedurli nel processo, non avrebbe senso, quindi, nel fatto secondario, il giudice può tenere conto che questo sia stato ritualmente introdotto nel processo, sia acquisito tramite atti processuali ancorché si tratti di atti processuali diversi degli atti della parte che fa valere la situazione soggettiva di vantaggio prodotta da quel fatto stesso.

Discorso analogo, lo si può fare ai fini della ricerca delle fonti di prove, e qui il codice fornisce degli esempi illustrativi, perché in materia di prova testimoniale, la regola generale è quella della disponibilità soltanto su istanza di parte, sono le parti a scegliere chi testimonierà in giudizio, però in alcuni casi il giudice può disporre d'ufficio la chiamata di testi.

Il caso più famoso è quello che costituisce la risposta degli ordinamenti romanistici al problema della testimonianza del relato che è perfettamente ammissibile, anzi contempla il potere e dovere del giudice a disporre d'ufficio, in quanto, possibile la chiamata del teste diretto: il teste Tizio dice che Caio mi ha riferito che..! bene chiamiamo Caio, ebbene, il potere istruttorio del giudice è esercitato compatibilmente con la regola del divieto di scienza privata, egli può chiamare d'ufficio questo teste, perché, a tale teste ha fatto riferimento altro teste nell'esercizio dell'attività processuale.

Tanto premesso, non dobbiamo confondere la tempistica richiesta per l'esercizio di attività processuali dirette a costituire il potere e dovere del giudice a pronunciare sull'effetto giuridico e la tempistica delle iniziative processuali dirette a produrre nel processo il fatto da cui può scaturire l'effetto giuridico eventualmente invocato dalla parte, possiamo dire che, in realtà, nel codice troviamo una disciplina compiuta e precisa delle preclusioni alla sollevazioni di eccezioni, come preclusioni alle eccezioni richieste di pronuncia sull'effetto giuridico prodotto del fatto, mentre non troviamo una disciplina esplicita intorno alla preclusione della deduzioni dei fatti nel processo, sicché, si possono comporre diversi connessi interpretativi, per esempio: possiamo dire in linea generale che l'eccezione rilevabile d'ufficio può essere fatta valere per la prima volta in Cassazione, ma non è possibile dedurre i fatti, eventualmente, produttivi dell'effetto giuridico invocato, perché è tardi, quindi, potrò sollevare d'ufficio, magari in Cassazione una nuova eccezione, ma soltanto se i fatti produttivi dell'effetto giuridico che io invoco, sono stati ritualmente dedotti nel processo nelle fasi di merito dello stesso.

Si discute se nel momento in cui la parte è autorizzata, nelle fasi di marito, ad introdurre nuove richieste di pronuncia su effetti giuridici, se ciò sia possibile soltanto in quanto e in tanto siano stati tempestivamente e ritualmente allegati ai relativi fatti in limite litis, o se ciò possa avvenire anche sulla base dell'allegazione in quell'occasione di nuovi fatti.

Il caso più interessante è quello della trasformazione della domanda di adempimento di domanda di risoluzione del contratto, è la legge sostanziale che con l'art. 1453 consente alla parte di compiere il ricorso di causa, e si tratta di capire in che modo si possa coordinare questa disciplina con quella prevista dal diritto processuale generale, ai fini della trasformazione della modificazione della domanda del suo mutamento, e qui ci troveremo davanti ad un vero e proprio mutamento della domanda. Dobbiamo intendere questa norma come norma autorizzativa del mutamento della domanda anche per esempio, già in grado d'appello? Plausibilmente si! Dobbiamo però, anche ritenere che ciò possa avvenire sulla base dell'allegazione di nuovi fatti soltanto in grado d'appello? Spesso si dice di si per ragioni strategiche, perché ai fini della dell'accoglimento della domanda d'adempimento è sufficiente che si dimostri anche un inadempimento non grave, mentre ai fini della risoluzione occorre dimostrare la gravità dell'inadempimento, e nel contesto in cui due parti contrattuali sono in giudizio, ma una ancora interessata all'adempimento, è inopportuno incentivarla a dedurre subito, in limite litis, fatti di inadempimento gravi, perché questo esacerberebbe il conflitto sin dall'inizio rendendo inevitabile la quasi immediata trasformazione della domanda di adempimento in domanda di risoluzione, però, si dice che la deduzione di fatti nuovi non sia soggetta a termini particolari di preclusioni se non quelli determinati o dalla sopravvenuta irrilevanza di tali fatti, in quanto, produttivi di effetti giuridici non più invocabili, ovvero, dall'esaurimento di quelle fasi della causa innanzi alle quali è possibile svolgere istruzione probatoria intorno ai fatti stessi, e quindi, senz'altro, non per la prima volta in Cassazione, ma magari anche per la prima volta in grado d'appello.

Si ammetta la deduzione per la prima volta in grado d'appello, di fatti prodottosi nel corso del giudizio e produttivi di effetti giuridici invocabili ai fini del rigetto della domanda, perché se noi escludiamo la deducibilità delle sopravvenienze anche nelle fasi di merito del giudizio e gli effetti giuridici della sopravvenienze e dei fatti sopravvenuti, non possiamo impedire alla parte di farli valere e quindi dobbiamo consentirle di farli valere in un successivo giudizio, ove si invochi, per esempio, l'effetto estintivo della situazione giuridica quale accertata, ma accertata.

Si ricordi quanto detto in tema di limiti cronologici del giudicato, accertata con riferimento alla situazione giuridica prodottasi in limite litis.

Quindi alla fine, il risultato sarebbe antieconomico, perché, se il fatto si prodotto nel corso del giudizio è invece razionale, in tanto e in quanto sia ancora possibile svolgere un'azione probatoria, tenerne conto già in quel giudizio, perché, non si può, in ogni caso impedire alla parte di far valere gli effetti prodotti da quella fattispecie, solo perché si è verificata in pendenza di causa.

Laddove la parte avrebbe potuto dedurre ritualmente e tempestivamente, in limite litis, sembra più difficile accettare che la parte, in via generale, salvo eccezioni come quelle del mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione, la parte possa introdurre liberamente nelle fasi di merito e quindi sarebbe opportuno interpretare la disciplina non soltanto all'attività consistente nella richiesta al giudice di pronunciare sull'effetto giuridico, ma anche, all'attività di introduzione dei relativi fatti, sebbene, tale introduzione, a differenza della richiesta di pronuncia dell'effetto giuridico possa, magari, validamente essere compiuta da soggetti diversi dalla parte, quindi è altro il problema della legittimazione di produrli, altro è il problema tempistica della loro introduzione.

·    Eccezioni rilevabili d'ufficio

In alcuni casi, la legge ci dice che un'eccezione è rilevabile d'ufficio, in altri casi ci dice che è rilevabile su istanza di parte, e quando non ci dice niente come ci regoliamo? Una norma c'è, perché, il disposto dell'art. 112 del codice di procedura, implicato tra chiesto e pronunciato, dice che il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre il limite di essa e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che siano riservate alle parti.

Questa norma a proposito della domanda è sufficiente dire poche banalità! Chi si è pronunciato può dar verso ad extra petizione o ultrapetizione, a seconda se la pronuncia travalichi sul piano qualitativo ovvero sul piano quantitativo dai limiti della domanda, e c'è un vizio della sentenza censurabile tramite l'impugnazione ordinaria.

Più delicato, è l'ipotesi di omessa pronuncia, in teoria, si dice che un giudice pronunci su tutta la domanda, si può certamente impugnare la sentenza e ottenere una pronuncia della domanda da parte del giudice d'appello, ma si può anche riproporre la domanda stessa sin dal primo grado, non essendosi formato il pregiudizio di un giudicato preclusivo della riproposizione della stessa essendo mancata la stessa pronuncia sulla domanda, in tanto e in quanto sia illegittima l'omissione della pronuncia sulla domanda, perché, può capitare che il giudice illegittimamente ometta di pronunciare sulla domanda.

Come mai può capitare? Perché possono sussistere nessi d'incompatibilità o di condizionamento fra diverse domande! Nessi di alternatività, per cui il caso più eclatante è quello dell'assorbimento della domanda di garanzia, nell'ipotesi di rigetto della domanda principale.

Se il garantito non viene dichiarato soccombente e responsabile rispetto alla domanda principale, non vi è ragione di andare a pronunciare sulla domanda di garanzia sulla sussistenza di un rapporto di garanzia e pertanto, validamente rimane assorbita la pronuncia su tale domanda; è impregiudicata la questione, non si forma pregiudicato alcuno e qui non c'è un vizio della sentenza nell'omettere la pronuncia sulla domanda.

Ma restiamo ai casi in cui effettivamente si conuri come viziata l'omissione sulla pronuncia della domanda, cioè, in cui il giudice inaspettatamente nella sentenza, non indica la pronuncia sulla domanda stessa. Ebbene, dobbiamo tenere conto, qui, che sul piano pratico, la tendenza giurisprudenziale non ravvisa mai l'omissione di pronuncia, perché, c'è dietro quel tipo d'approccio che abbiamo già visto quando abbiamo parlato dei limiti oggettivi del giudicato, tendenzialmente la giurisprudenza preferisce ritenere che si sia già giudicato su qualcosa, e quindi, se una sentenza, appare lacunosa la giurisprudenza tende ad affermare che vi sia rigetto implicito della domanda.

Ma torniamo sul tema delle eccezioni! Nel linguaggio dell'art. 112 sembra essere nel senso che le eccezioni siano rilevabili d'ufficio, salvo i casi in cui la legge esplicitamente riservi alla parte il potere di chiedere una pronuncia sull'effetto del giudizio impeditivo dell'avvenimento della domanda. In realtà, la questione è controversa, perché, da un lato c'è questa norma, dall'altro occorre tener conto che il processo è ispirato al principio dispositivo, e quindi sembrerebbe che gli effetti giuridici prodotti dalle fattispecie attributive di situazioni sostanziali di vantaggio, spettino alle parti sul piano sostanziale e spetti, pertanto anche, alle parti di valere, se poi c'è stata violazione di norme imperative non si può impedire al giudice di tenerne conto per evitare altrimenti che le parti, attraverso l'omissione di attività difensive, riescano a raggiungere proprio quel risultato che il legislatore si era prefisso d'impedire, però, il principio dispositivo generale sembrerebbe suggerire la regola opposta a quella rinvenibile nell'art.111, cioè la regola che in generale le eccezioni siano rilevabili soltanto su istanza di parte.

Come uscirne? Giuseppe Chiovenda, diceva una cosa strana, illustra certe dinamiche di sviluppo dell'aggiornamento dottrinale, egli prende le mosse dal diritto romano e ricollega, la distinzione tra eccezioni rilevabili d'ufficio ed eccezioni rilevabili a istanza di parte alla distinzione romanistica tra eccezioni fondate sullo ius civile e distinzioni fondate sullo ius honorarium, sviluppando un  discorso complesso, ma alla fine tira fuori la sua carta principale, cioè dice: "attenzione! Nel nostro ordinamento la sentenza produce un effetto d'accertamento del rapporto giuridico che non ha un carattere innovativo", in casi particolari espressamente previsti dalla legge la pronuncia del giudice può avere un effetto costitutivo di una situazione sostanziale modificativo di una situazione sostanziale, e si tratta di quei particolari casi di azioni costitutive in forza dell'art. 2908 oggi sono ammissibili soltanto nei casi previsti dalla legge, nel sistema chiovendiano, è generale l'azione d'accertamento, le azioni costitutive sono azioni tipiche nominate.

Se noi, osserva Chiovenda, qualifichiamo un'eccezione come eccezione rilevabile solo a istanza di parte e la parte poi questa eccezione non la rileva, la sentenza del giudice finisce per costituire un nuovo rapporto giuridico.

Questo è un ragionamento balzano, perché lo stesso Chiovenda non nega che in alcuni casi le eccezioni siano rilevabili solo su istanza di parte e in questo ragionamento è difficile argomentare in modo definitivo, perché non esiste un elenco delle eccezioni rilevabili d'ufficio, ne quelle rilevabili a istanza di parte, anzi dovremmo ritenere che, ne le una ne le altre siano soltanto quelle previste dalla legge.

Probabilmente le eccezioni rilevabili d'ufficio e le eccezioni rilevabili a istanza di parte, sono come i numeri pari e i numeri dispari, c'è ne sono di infinite sia da un lato che dall'altro e si può individuare anche in mancanza di un'esplicita indicazione legislativa, sia, in certe ipotesi il regime della rilevabilità a istanza di parte, sia, in altre ipotesi il regime della rilevabilità d'ufficio, per cui occorre verificare caso per caso, e abbastanza concretamente.

Per esempio: si può concludere nel senso della rilevabilità a istanza di parte anche in mancanza di un'esplicita indicazione legislativa, quando la fattispecie che s'invoca consiste in un controdiritto potestativo esercitabile in autonomo giudizio, sicché dato che l'annullamento del contratto o la risoluzione possono formare oggetto di autonomo giudizio, ecco che l'eccezione d'annullabilità del contratto si dovrebbe qualificare come eccezione rilevabile a istanza di parte anche laddove la legge nulla dicesse, specialmente quando si tratti, poi, di diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale, cioè diritti potestativi esercitabili, per esempio la risoluzione per inadempimento e possibile esercitarlo anche in sede stragiudiziale attraverso il meccanismo della diffida ad adempiere, l'annullamento con regime di giudizio.

Possiamo rilevare eccezioni a istanza di parte quando si fondino sulla violazione di obblighi non generali, ma particolari, che non escludano l'efficacia dell'attuazione spontanea dell'obbligato.

La violazione di norme imperative, generalmente si ritengono rilevabili d'ufficio, ma la violazione di norme dispositive, a sua volta, non sempre è rilevabile su istanza di parte, perché abbiamo ipotesi in cui si dice che l'effetto giuridico si produce ipso iure, ovvero automaticamente, cioè senza l'eccezione di parte nel processo? No! Perché, sarebbe un circolo vizioso.

Per automaticamente si intende dire, non tanto a prescindere da un'iniziativa di parte, ma a prescindere dalla manifestazione di volontà della parte.

Per chiarire la questione facciamo il caso dell'eccezione di amento, la legge non dice da nessuna parte se sia rilevabile d'ufficio o a istanza di parte, però la legge sostanziale ci dice anche che, il amento eseguito dal debitore incapace non è ripetibile.

Da questa norma enunciamo che l'effetto giuridico del amento è prodotto dal amento come mero fatto giuridico, il amento produce effetto estintivo dell'obbligazione anche se chi lo ha compiuto non voleva compierlo, anche se chi l'ha compiuto era ubriaco, cioè l'effetto giuridico, già sul piano sostanziale viene prodotto a prescindere dalla manifestazione di volontà della parte, è prodotto automaticamente nel senso che è prodotto anche se non voluto dalla parte.

Allora se stiamo sul piano sostanziale, l'effetto giuridico si produce anche se non voluto dalla parte, diventa logico ritenere che anche nel processo l'effetto giuridico debba essere tenuto in considerazione dal giudice, debba essere oggetto della pronuncia del giudice anche se manca una volontà della parte, sicché, laddove l'attore convochi in convenuto in giudizio dicendo lui stesso che il credito è prescritto, il convenuto ha l'onere di costituirsi in giudizio per sollevare tempestivamente l'eccezione di prescrizione, perché l'eccezione di prescrizione è rilevabile soltanto a istanza di parte e se il convenuto non si costituisce questa eccezione è destinato a perderla.

Invece, l'attore costituito il giudizio per la restituzione di un debito già ato, e lo dice lui stesso, in questo caso il convenuto può anche non costituirsi, egli fa conto sul fatto che il giudice dovrà, d'ufficio, tenere conto dell'effetto istintivo prodotto dal amento, che è lo stesso attore allega e quindi può restare tranquillamente contumace.

Naturalmente, poi, il convenuto oltre al caso estremo di proporre domanda riconvenzionale, ovvero sollevare eccezioni non rilevabili d'ufficio, ovvero sollevare eccezioni rilevabili d'ufficio, ovvero contestare i fatti costitutivi allegati dall'attore, ovvero può restare passivo, ma quale effetto ha la passività del convenuto, cosa succede se il convenuto non contesta i fatti costitutivi?

Senz'altro non c'è alcuna preclusione alla facoltà di contestarli successivamente, però, si ritiene che la non contestazione del convenuto renda pacifici i fatti affermati e non contestati, pertanto, come tali, non bisognosi di prova, quindi la circostanza che la contestazione avvenga per la prima volta in Cassazione, cioè quando non può più svolgersi istruzione probatoria attorno a tali fatti può destare qualche perplessità, deve ritenersi, per la verità, che la circostanza che i fatti siano da ritenersi pacifici in assenza di contestazione del convenuto, non escluda che tali fatti possano comunque ritenersi inesistenti laddove venga acquisita a processo la prova dell'inesistenza degli stessi, cioè, la non contestazione non ha alcun effetto vincolante che invece è prodotto dall'esplicita confessione dei fatti stessi, la quale avrebbe efficacia vincolante di prova legale ed escluderebbe la stessa ammissibilità di prove dirette ad affermare l'inesistenza di tali fatti.

Pertanto, la non contestazione non può avere un effetto vincolante neppure quando si protragga per tutto il corso del processo, però, il semplice fatto che renda superfluo la prova di tali fatti suggerisce che si debba escludere dopo non aver contestato, muovere la contestazione per la prima volta nel giudizio d Cassazione, ma il problema è più teorico che pratico, perché, in Cassazione si arriva dopo essere passato dal grado d'Appello, attraverso la disciplina della specificità dei motivi d'Appello si fa si che il mancato assorbimento dell'onere di contestazione non sia di fatto mai rimediabile in Cassazione, perché in Cassazione si finisce per arrivare con questioni ormai già definite.

Nel caso particolare della non contestazione di somme, può prodursi validamente la fattispecie del provvedimento anticipatorio cui abbiamo già accennato dell'art. 186 bis, ovvero analogamente nell'art. 423 con riferimento al rito speciale del lavoro, dove si accenna all'ordinanza di amento di somme non contestate.

Qui parliamo di non contestazione di una parte costituita; distinguiamo la mera dissenza della parte che consiste nella mancata izione della parte stessa, da quella che si definisce come costituzione in giudizio, che consiste in un attività preliminare da effettuarsi in limite litis, diretta da consentire alla parte di svolgere un ruolo attivo nel processo, e si profilano almeno due aspetti diversi del processo.

Un profilo è quello delle conseguenze derivanti dalla mancata costituzione della parte, e un altro è quello dell'obbligo del patrocinio.

·    Il contumace

Per quel che riguarda le conseguenze della mancata costituzione o mancata costituzione difensiva della parte, noi abbiamo un diritto positivo che compie una scelta molto precisa tra due orientamenti radicalmente diversi.

Un orientamento è quello che attribuisce alla scelta della parte di non difendersi attivamente un valore concludente. Nella disciplina tedesca la passività del convento equivale alla ammissione dei fatti costitutivi allegati dall'attore, quindi una formazione concludente che porta alla formazione accelerata di un provvedimento idoneo al giudicato, sentenza che ha posizione a prescindere dalla dimostrazione dell'involontarietà della contumacia, opposizione che a sua volta innesca un riesame a cognizione piena ed esauriente del diritto fatto valere in giudizio.

Negli ordinamenti di derivazione francese, come il nostro, parte dal presupposto che non si debba attribuire alla contumacia un valore concludente, quindi, in linea generale, escludono che dalla contumacia discenda una conseguenza di confessione o di ammissione e persino escludono che possa pronunciarsi nei confronti del contumace un provvedimento anticipatorio fondato sulla circostanza che il contumace non abbia mosso contestazioni, l'ordinanza di amento di somme non contestate può essere resa, ex art. 186 bis, nei confronti delle sole parti costituite.

In effetti la parte contumace, qualche svantaggio pratico, c'è l'ha: da non poter esercitare una difesa attiva nel processo, però, il diritto positivo è sostanzialmente protettivo nei confronti del contumace, prevedendo, in particolare, che gli sia data notifica personale di tutti quegli eventi processuali, rispetto ai quali la protrazione dell'inattività può produrre conseguenze sfavorevoli.

Questo criterio, è quello che può consentirgli di memorizzare l'elenco contenuto nell'art. 292 degli atti da notificarsi personalmente alla parte, come il deferimento del giuramento decisorio, perché se la parte non risponde perde la causa; il perimento dell'interrogatorio formale, perché la parte che non si presenta a rispondere nell'interrogatorio formale rende un comportamento valido come confessione, quello sì, di confessione dei fatti dedotti tramite l'interrogatorio formale.

Gli si deve dare notificazione formale delle se contenenti nuove domande, perché cambiano l'oggetto del giudizio, quindi si deve ancora, ha spiegato la Corte Costituzionale, dichiarando costituzionalmente illegittima in parte la norma anche di dare notificazione personale, della produzione di scritture private nei suoi confronti, perché, se la scrittura privata non è tempestivamente disconosciuta si produce un effetto probatorio sfavorevole e vincolante per la parte contumace, parte che invece ha la possibilità di disconoscere la scrittura privata soltanto al momento in cui si costituisce e tale possibilità gli è data anche se in realtà il termine sarebbe già decorso laddove tale fosse stata costituita, però la Costituzione ha presupposto nel valido compimento del disconoscimento della scrittura privata.

Qualche conseguenza della contumacia c'è, per esempio, la disciplina generale della cosiddetta interruzione del processo, che ha come ratio quella di proteggere la garanzia dell'effettività del contraddittorio, prevede che nell'ipotesi di morte della parte il processo possa essere interrotto, alfine che i suoi eredi abbiano modo di valutare se è il caso o meno di proseguire il giudizio e di raggiungere un accordo con gli avversari.

Nel caso in cui la parte sia costituita in giudizio tramite procuratore, è compito del procuratore nell'esercizio della sua professionalità, di decidere se è il caso o meno di provocare questo effetto interruttivo, che provoca ovviamente un rallentamento dei tempi del processo, e lo decide insindacabilmente dichiarando o meno l'evento in udienza, è chiaro che normalmente l'evento verrà dichiarato in udienza se concerne la parte convenuta, meno facilmente se concerne la parte attrice.

Se la parte muore prima che sia decorso il termine per la tempestiva costituzione in giudizio, pur dopo la proposizione della domanda giudiziale, quindi mentre già il processo è pendente, l'effetto interruttivo opera automaticamente, perché non è ancora munita la parte di un difensore tecnico o provvisto della competenza per decidere se sia il caso o meno di interrompere il processo.

Ma se muore la parte contumace? Posto che la contumace si presuma volontaria, è chiaro che è sempre possibile dimostrare l'involontarietà della contumacia e conseguentemente essere rimessi in termine e integrati nella possibilità di compiere tutte le attività eventualmente precluse per effetto della scelta di non costituirsi, che sia appunto in realtà non voluta.

Presumendosi, invece la contumacia volontaria succede che se, la parte contumace muore il processo si interrompe soltanto nel momento in cui la notizia dell'evento viene acquisita al processo, il che può avvenire, allorché, l'evento sia menzionato nella relata di notifica di alcuno di quegli atti che devono appunto essere notificati personalmente al contumace stesso, ovvero quando l'evento sia notificato alle altre parti e presumibilmente accada a cura degli eredi, quando questi vengono a conoscenza della pendenza di un processo che concerne il loro dante causa.

Potremmo dire, da questo punto di vista, che il contumace è ben protetto, ma in realtà e meno protetto soltanto nella misura in cui non è munito di un difensore tecnico, quindi, nel suo complesso la disciplina della contumacia è una disciplina di favore per il contumace, che si ritiene sopravvaluta l'esigenze di accuratezza nell'attribuzione del diritto sostanziale proprie della giustizia civile.

Considerando un sistema alla risoluzione dei conflitti, sembra invece sensato attribuire alla contumacia un valore confessorio, e in questa direzione si sta muovendo il legislatore, in quanto, nella nuova disciplina del processo societario, l'istituto della sentenza contumaciale viene introdotta prevedendosi che la mancata costituzione in giudizio abbia valore di ammissione dell'esistenza dei fatti allegati dall'attore a fondamento della situazione soggettiva di vantaggio fatta valere con la domanda giudiziale, ed è plausibile che questo tipo d'istituto possa essere esteso alla generalità del contenzioso civile in occasione della riforma del processo civile nel suo complesso.

Questa soluzione incentiverebbe la costituzione in giudizio, incentiverebbe la parte a far valere le proprie ragioni, ma è sensato proporsi una domanda a proposito di un punto che si da per scontato, e cioè, per costituirmi in giudizio ho bisogno di qualcuno, perché, salve particolari eccezioni, cause di modiche valori davanti al giudice di pace, la regola generale la parte stia in giudizio tramite il patrocinio di un procuratore legalmente esercente, perché è un processo dispositivo teso a risolvere conflitti, in cui io faccio valere i miei diritti soltanto, in tanto in quanto, mi sembra giusto farli valere e non posso decidere di farli valere male, quindi l'avvocato serve per far valere bene i diritti, per assicurare una migliore corrispondenza al diritto sostanziale dei risultati che si realizzano attraverso il processo, ma questo ragionamento è un ragionamento che è valido per giustificare l'obbligo del patrocinio nel processo penale, perché nel processo penale ci richiedono un'accuratezza nell'accertamento dei fatti nell'applicazione della legge sostanziale, quindi obbligo del patrocinio perché bisogna fare le cose per bene, ma nel processo civile la parte potrebbe rinunciare estragiudizialmente al suo diritto quando si tratta di diritti disponibili, ma come normalmente avviene, perché non può disporne gestendolo male? Inoltre, la verità e che, la necessità che vi schermo sia uno tra la parte e il giudice, crea molti problemi, perché crea tutti quei problemi che si pongono in quelle occasioni in cui un soggetto svolge nell'interesse di un altro soggetto, attività la cui qualità, l'altro soggetto fa fatica a valutare, perché non ho una specifica preparazione tecnica per valutare se fa i miei interessi oppure i suoi.

·    Il difensore tecnico (avvocato)

L'avvalersi del difensore tecnico favorisce il raggiungimento di un accordo stragiudiziale, perché dialogano soggetti che non sono personalmente interessati all'esito della causa, e quindi più disponibili a trovare un accordo, ma ci sono metodi più efficaci per raggiungere l'accordo transativo tra le parti, che non vengono seguiti, per esempio, sarebbe molto efficace prevedere sin dalla fase preparatoria un obbligo di scambio reciproco dei mezzi di prova utilizzabili in processo, e questo favorisce la riduzione delle divergenze di valutazione delle parti intorno alle probabilità di vincere, quindi favorisce il raggiungimento dell'accordo transativo perché le parti non si d'accordo quando sono sicure di vincere, ma quando sanno che la probabilità che il primo vinca è del 60%, è facile raggiungere l'accordo sul 60% della cifra richiesta, ma anche questo non si fa, e allora è difficile giustificare l'obbligo della difesa tecnica solo come strumento per favorire la soluzione conciliativa delle controversie.

C'è un altro aspetto! Lo schermo del difensore tecnico consente alla parte di conservare il controllo sulla gestione della controversia evitando di trasformarsi con ciò, in una fonte di informazione, questa funzione è importante anche in tutti quei sistemi in cui sia vietato alla parte di mentire in giudizio, allora in questa occasione il difensore serve, perché è chiaro che dei fatti di causa, tipicamente la parte è testimone diretto, quindi se racconta cose inesatte intorno ai fatti di causa, la parte sta mentendo, ma se lo fa un difensore tecnico, egli si è sbagliato!

Ma nel nostro ordinamento, la parte può raccontare tutte le frottole che vuole, senza incorrere in sanzione penale alcuna, non potrà neanche essere questa la giustificazione al patrocinatore.

Esso facilità le comunicazioni perché ha l'obbligo di rendersi reperibile, ha l'obbligo di eleggere domicilio, provvedere a fungere da canale di trasmissione nei confronti della parte, ma dato che comunque chi deve essere informata è la parte difesa, alla fine, dover passare attraverso l'avvocato è un passaggio in più, anzi il meccanismo avvantaggia la parte che deve assolvere a l'onere di informare l'avversario, però al prezzo di espropriare la parte che doveva ricevere l'informazione per il diritto di essere informati, perciò, non è una giustificazione fortissima, e si potrebbe assolvere allo stesso risultato imponendo direttamente alla parte, anziché al difensore di eleggere domicilio e di rendersi reperibile ai fine della trasmissione di informazioni che l'avversario abbia l'onere di trasmettere, anche qui è difficile giustificare l'obbligo della difesa.

Oppure per non violare l'art. 2908, per non avere azioni costitutive al di fuori dei casi previsti dalla legge?

Per tutto quello che riguarda il contenuto del difensore e all'accuratezza della decisione della controversia e dell'applicazione della legge sostanziale, è valido il ragionamento fatto prima, e cioè che è un discorso che vale per il processo penale, ma non giustifica invece, che la parte sia preparata del diritto ad autodifendersi, di parlare se stessa a proprio favore in giudizio nel processo civile, quindi l'obbligo del patrocinio non serve alle parti casomai, forse serve al giudice o meglio, fa comodo al giudice, perché se le modalità di gestione del contenzioso sono fortemente burocratizzate, sono fortemente standardizzate, il sistema opera più efficacemente se c'è un corpo di specialisti che provvede ad un primo inquadramento standardizzante della fattispecie da fornire al giudice, compiono un lavoro preliminare di classificazione e ordinamento del conflitto e dei problemi che gli hanno dato origine, in  quella che dovrà poi essere compiuta dal giudice, perciò serve ai giudici l'obbligo del patrocinio, però se ne fa a meno in quell'ordinamento in cui il reclutamento dei magistrati comporta un grado minore di burocratizzazione dell'amministrazione della giustizia, dove i giudici sono degli improvvisatori sentono meno il bisogno di questo lavoro preliminare degli avvocati di inquadramento standardizzazione e classificazione del problema nell'ambito delle grandi prestabilite categorie.

Ma se ci rendiamo conto che il problema è questo, è sensato avere delle riserve, perché, il vantaggio che se ne trae in termini di efficienza e speditezza dell'amministrazione della giustizia, a conti fatti è assai modesto, perché, certo, l'avvocato aiuta a inquadrare, però poi, perché perseguita l'interesse del cliente, almeno uno dei due ha un ben interesse a cercare di sabotare lo svolgimento del processo, è chiaro che il suo compito, sarà un po' di aiuto e un po' di ostacolo alla celere e rapida definizione della causa, quindi non si può giustificare la soppressione al diritto all'autodifesa che invece si può, plausibilmente, qualificare come una garanzia meritevole di protezione costituzionale alla luce della garanzia costituzionale della difesa, perché altro è dire che la parte deve potersi avvalere di un avvocato tutte le volte che vuole, è giusto che il sistema dell'assistenza legale consenta che ai meno abbienti di avere un'assistenza efficace, quindi non soltanto su una base di un sistema obsoleto e gratuito, ma di dover scegliere un avvocato retribuito convenientemente e quindi non reclutato con il sistema gratuito patrocinio, costretto a lavorare gratis e perciò lavora male, ma deve essere compreso anche il diritto esercitabile attraverso una scelta, cioè se c'è una possibilità di avvalersi anche dell'avvocato, ma anche il diritto di scegliere di difendersi di persona.

·    Le nullità (art. 156 c.p.c.)

Possiamo definire la disciplina delle cosiddette nullità formali (comma 1° art. 156), il quale stabilisce che la nullità di un atto processuale per violazione delle norme sulla forma può essere dichiarata soltanto in quei casi che sia espressamente prevista o comminata dalla legge, cioè si pone una regola che si può già individuare nel codice napoleonico che ha l'ambizione di escludere la discrezionalità del giudice nell'individuare quei casi in cui la violazione delle norme sulla forma possa essere sanzionata con la declaratoria di nullità dell'atto stesso, in questo contesto si può parlare di atto processuale come nozione comprensiva: e degli atti processuali di parte e dei provvedimenti aggiunti.

Questa caratteristica di ottimismo illuminista settecentesco, purtroppo, o per fortuna, secondo i punti di vista, si è scontrata abbastanza presto con l'esperienza pratica dei primi metà dell'ottocento il legislatore francese e degli altri codificatori processuali in seguito ad introdurre un temperamento alla regola stessa, e cioè, quello che ritroviamo nel 3° comma dell'art. 156, ove si prescrive che può essere dichiarata la nullità di quell'atto processuale che sia carente dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, intendendosi che si, potrà pur darsi che qualche caso in cui la n nullità dell'atto processuale possa essere dichiarata anche quale conseguenza di violazioni per le quali non sia espressamente comminata la nullità della legge, ma ovviamente ciò può accadere solo in casi estremi e fondamentalmente allo scopo di impedire la elezione della disciplina della nullità degli atti processuali, cioè di impedire che la parte possa, pur rispettando il dettato letterale della norma, impedire la protezione di quei interessi, il conseguimento di quelle finalità, che il legislatore si è preposto per conurare la disciplina dell'atto processuale, ovviamente è chiaro che ciò finirebbe per accadere a discapito della controparte, e quindi è opportuno consentire attraverso questa valvola di sicurezza al giudice di proteggere la parte dai comportamenti elusivi del suo avversario.

Questo punto è forse quello dei più chiari, ma in realtà, alla prima lettura di queste discipline suggerisce al lettore candido, di porsi almeno un paio di domande.

Anzitutto può essere sensato domandarsi se possano darsi ipotesi in cui la nullità dell'atto processuale sia conseguenza della violazione di norme diverse da quelle che regolano la forma dell'atto. Per altro verso ha senso domandarsi quale sia la conseguenza giuridica delle violazione delle norme sulla forma in tutte quelle ipotesi in cui questa non sia la nullità dell'atto stesso.

Ebbene, per quel che riguarda la questione della sussistenza delle cosiddette nullità non formali o extraformali occorre chiedersi che cosa specificamente si intenda per norma sulla forma, perché da un certo punto di vista si potrebbe dire che in realtà è il processo di protocollo, ma si potrebbe replicare a questo tipo di visione, che tradizionalmente, nel campo giuridico, si intende per forma la modalità di esteriorizzazione di una manifestazione, di una dichiarazione all'esterno, il modo in cui questa viene resa riconoscibile, sicché, può ben darsi che sussistano violazioni delle norme processuali che non si qualifichino affatto come violazioni delle norme sulla forma, orbene, naturalmente, anzitutto possiamo porci il problema di un ipotesi di confine su cui effettivamente c'è il vanto, per esempio la disciplina della scansione cronologica degli atti processuali.

Si qualifica per esempio, scolasticamente, come violazione sulla forma la proposizione di una sa di risposta prima della notificazione dell'atto di citazione, o possiamo immaginare come violazione di norma l'assunzione di un mezzo di prova prima del provvedimento di ammissione dello stesso, e su questo i pareri sono discordi ed effettivamente potremo immaginare che la nozione di forma è comprensiva anche di queste ipotesi, e perché questo ci interessa! Perché riteniamo che si possa dare nullità anche per violazione di norme diverse da quelle che regolano la forma ci dobbiamo automaticamente domandare in che misura possa risultare applicabile a queste fattispecie l'intera disciplina prevista per le nullità formali e anzi, generalmente, si giunge alla conclusione che almeno in parte questa disciplina risulti inapplicabile alla cosiddette nullità extraformali, in quanto queste possano rinvenirsi.

Ma dobbiamo fare attenzione! È chiaro che la violazione della norma processuale è sanzionata da una sua propria ed autonoma disciplina. Rivolgersi ad un giudice diverso da quello competente conura una situazione di incompetenza e una violazione sulla norma della competenza che è una disciplina distinta da quella della nullità in senso proprio.

La violazione di un  termine posto a pena di decadenza implica l'inammissibilità dell'atto compito fuori termine, magari questa inammissibilità può essere la conseguenza della declaratoria di nullità dell'atto che se invece è stato compito nei termini e viene reiterato fuori termine e diventa pertanto inammissibile. In realtà è condivisa l'idea che in quelle ipotesi in cui la violazione processuale non abbia una disciplina specifica, sia abbastanza naturale qualificare come nullità dell'atto la conseguenza della violazione della norma, e in questo senso una suggestione legislativa abbastanza forte ci proviene dalla regola dell'art. 158, nella parte in cui la norma qualifica come nullità l'inosservanza delle disposizioni sulla costituzione del giudice e sulla partecipazione del PM, ed è chiaro che in queste ipotesi non possiamo più rinvenire un infrazione sulla norma sulla forma in senso stretto.

Per converso ci si potrebbe domandare, ma un momento! Non c'è un art. 121 dove dice che le forme devono essere solo quelle congrue allo scopo? È vero che il principio generale che opera nel processo civile è quello della libertà delle forme e d'accordo come principio generale, però in realtà, esistono numerose disposizioni che regolano la forma dell'atto come modalità di esteriorizzazione della dichiarazione e anche come requisiti di forma contenuto.

L'ipotesi tipica di violazione delle norma sulla forma sono quelle che consistono sulla forma del contenuto, esempio l'art. 163 nello stabilire i requisiti dell'atto di citazione indica che deve essere specificato quali siano le parti, quale sia il giudice a cui ci si rivolge, etc., l'omissione di alcune di queste indicazioni si qualifica come violazione della norma sulla forma, in applicazione del disposto comminato dell'art. 156 c.1° e c.3°, scopriamo però, che l'omissione di alcune di queste indicazioni non comporta nullità alcuna, il caso più eclatante è quello della indicazione delle norme di diritto su cui si fonda la domanda, infatti l'art. 163 prescrive su quali norme di diritti la domanda si commini, però in nessun luogo del codice è presente la sanzione della nullità come conseguenza dell'omissione di tali indicazioni, poiché l'art. 164 fa discendere la disapplicazione dei fatti costitutivi, ma non anche l'indicazione delle norme di rito e si aggiunge che tali indicazione non è affatto indispensabile per il conseguimento dello scopo dell'atto in quanto, il principio iura novit curia assicura che il giudice possa d'ufficio a supplire a quest'omissione provvedendo lui stesso all'individuazione delle norme di diritto applicabile alla specie.

Passiamo all'altra questione! E cioè cosa accade quando questa novità non c'era. Le deviazioni dallo schema legale, come si dice, quando non comportano la nullità cosa portano? In linea generale e di massima si usa dire che queste comportano la cosiddetta irregolarità dell'atto processuale. Qual è la rilevanza giuridica dell'irregolarità processuale? Alludono all'irregolarità poche norme del codice di rito! Ritroviamo l'espressione dell'art. 182, nell'art. 316 laddove però la ricostruzione più attendibile è quella che ritiene che tali norme alludano all'ipotesi della mancata regolarizzazione tributaria dell'atto processuale, la quale in realtà, in forza di riforme sopravvenute successivamente alla emanazione del c.p.c. è irrilevante nel processo, restando irrilevante la responsabilità tributaria, e quindi non comporta l'inammissibilità dell'atto processuale o la nullità dello stesso o qualsiasi altra conseguenza che sia rilevante ai fini del processo.

Troviamo anche il termine irregolarità nel disposto dell'art. 617, laddove si prevede che nel contesto del processo esecutivo sia sempre possibile fare prevalere l'irregolarità dell'atto esecutivo e in questo caso qualsiasi deviazione dello schema legale in questo particolare caso è rilevante, può essere fatta valere, nel contesto del procedimento esecutivo.

Qualcuno sostiene che la nullità degli atti processuali sarebbero tutte della annullabilità, in quanto, l'effetto dell'atto potrebbe venir meno soltanto dal momento in cui la nullità stessa venga dichiarata, ma questa costruzione è opinabile ed è difficile riferire unica sicura base definitiva di questa conclusione, c'è però un motivo diverso e valido che giustifica l'assenza di qualsiasi riferimento all'annullabilità dell'atto processuale nel lessico del codice di rito.

Il termine non si usa perché la nozione di annullabilità evoca fenomeni la cui applicazione nel processo civile è estremamente ridotta, anzi, deve tendenzialmente escludersi per varie ragioni, in particolare nelle esigenze di instabilità che discendono dalla sequenzialità multilaterale dello spirito del procedimento. In termini dogmatici, l'esclusione o la forte delimitazione della rilevanza dei cosiddetti vizi della volontà nel processo si spiega rimarcando il carattere non negoziale degli atti del processo, in vista delle finalità non solo di risoluzione del conflitto, ma anche di attuazione della legge e del processo stesso, sicché, le manifestazioni di volontà compiute attraverso gli atti processuali non possono impugnarsi solo perché non se ne voleva il risultato, si ammette soltanto che si faccia valere l'involontarietà dell'atto stesso, salve particolari eccezioni come per l'ipotesi della confessione dove in qualche misura il vizio della volontà può essere fatto valere, ma in misura ridotta, perché la confessione è revocabile per errore, ma non per dolo e se riuscite a fare confessare il vostro avversario con l'inganno l'avete messo nel sacco, perché non potrà revocare la sua confessione se quanto confessato risponde a vero.

Quindi niente annullabilità dell'atto processuale, ma questo non vuol dire però che non si distingua, nella disciplina del processo, fra le ipotesi in cui il vizio può essere fatto valere su istanza di parte o può essere rilevato d'ufficio; questa distinzione si ritrova invece e si usa per alludere alla stessa la contrapposizione fra nullità assolute e nullità relative, intendendosi per nullità assoluta quella rilevabile dal giudice anche d'ufficio, per nullità relativa quella rilevabile soltanto ad istanza della parte interessata.

Però, questa distinzione fra nullità assolute e nullità relative, tende un  po' ad esaurire il lessico a disposizione, sicché, nell'esperienza giurisprudenziale li ritroviamo di frequente per indicare una forma estrema di sanzione per violazione delle norme sulla forma il termine di inesistenza giuridica dell'atto processuale. Un termine che a molti non piace, che ha l'aria contraddittoria, un atto esiste o non esiste, che cosa è questa inesistenza giuridica ed alcuni, infatti, ha proposto di utilizzare la locuzione "nullità radicale", per esempio, ma io credo che non sia particolarmente utile soffermarsi su questa questione lessicale.

Prendiamo per buono il termine esistente, in tanto in quanto effettivamente lo si ritrova di frequente nella pressi giurisprudenziale e domandiamoci, piuttosto, quando e perché si adotta una sanzione ancora più grave di quella della nullità, e soprattutto in cosa consista questa maggiore gravità.

Sul "quando" diciamo, in prima battuta, che la giurisprudenza fa ricorso oltre che all'ipotesi, che più che altro è teorica della non identificabilità del contenuto dell'atto, fa ricorso sovente al criterio della presenza di difformità dell'atto dallo schema legale talmente gravi da rendere "impossibilissimo" il conseguimento dello scopo, mentre nell'ipotesi in cui al comma 3° si verterebbe in casi in cui il conseguimento dello scopo dell'atto risulterebbe molto improbabile, secondo le Sezioni Unite avremmo questa inesistenza quando il conseguimento dello scopo sarebbe "moltissimo improbabile", è chiaro che questo spiega poco, molto poco! Quindi per capirla meglio, perché si fanno questi discorsi, concentriamoci sull'esame delle conseguenze giuridiche della declaratoria di nullità dell'atto processuale. Cosa succede se un atto processuale è nullo?

Abbiamo ipotesi diverse! Ad un estremo possiamo immaginare la mera pretermissione dell'atto, cioè si fa come se l'atto non fosse stato compiuto e in varie ipotesi questa soluzione è semplice, praticabile e perfino banale, .nullità dell'assunzione di un mezzo di prova!..chi citeremo facendo a meno di quel mezzo di prova!..

Al lato estremo, avremo l'ipotesi in cui il processo venga definito senza una pronuncia sul merito, cioè attraverso una pronuncia in mero rito, come si dice, o anche di assoluzione di osservanza del giudizio, è chiaro che questa il processo per quanto possibile deve pronunciare sul merito, per quanto possibile possiamo immaginare la pretermissione nei casi di atti di acquisizione probatorio, magari di atti di disposizione del diritto compiuti attraverso il processo, facciamo finta che non  siano accaduti!

Il problema diventa serio rispetto ai cosiddetti atti di impulso, e ciò appunto in riferimento a caratteri di propedeuticità sequenziale che sussiste tra gli atti processuali, il processo è pur sempre una specie di procedimento e anche nel processo opera il fenomeno della cosiddetta nullità per delibazione.

Per quanto per l'estensione di nullità di un atto agli atti successivi, sia comunque ispirata, in generale al principio utile per inutile no vitiatur, rimane fermo che gli atti processuali devono svolgersi secondo una sequenza cronologica predeterminata, alterabile solo in modo abbastanza modesto, sicché gli atti di impulso sono sempre dipendenti dai loro precedenti e quindi in forza di quanto prevede l'art. 159, la nullità dell'atto si estende agli atti successivi che ne siano dipendenti, anche se la nullità che impedisce all'atto di produrre certi effetti non impedisce la produzione degli effetti con i quali il vizio sia compatibile, nonostante la nullità di una parte dell'atto non colpisca le parti che ne siano indipendenti, quindi non si estende agli atti indipendenti, ma agli atti dipendenti, per la verità, che sono molti e quindi la nullità dell'atto di citazione, dell'atto di introduzione della causa, laddove non venga mai sanata sfocia nella nullità di tutti gli atti successivi e non tutti, perché poi, il processo è una specie di procedimento in cui, però, la sentenza può trovare in se stessa la fattispecie costitutiva dei suoi effetti, si che, appunto, la sentenza che dichiara la nullità di tutti gli atti che l'hanno preceduta è una sentenza valida e non nulla per delibazione.

Si può discutere se questa nullità per delibazione sia formale o extraformale, sostiene che si tratti di nullità formale perché tende ad equiparare i rispettivi regimi, ma più importante è osservare che, in questa ipotesi, la nullità si deve qualificare come questione pregiudiziali di rito ex art. 187, e risulta indispensabile concludere che laddove manche la declaratoria di nullità sia invece appunto viziata la sentenza, e soggetta a riforma in appello, in mancanza di riforma in appello la stessa sentenza d'appello sia soggetta a cassazione senza rinvio ex art. 382.

Non è una opinione pienamente condivisa perché qualcuno la contesta affermando che la nullità è sempre sanabile, che i disposti degli artt. 187 e 382 riguardano altro, ora, è vero che il processo per quanto possibile deve emettere sentenza sul merito, ma in realtà si deve concludere che non sempre la nullità sia sanabile a meno di interpretare il diritto positivo in modi che danno adito a risultati non accettabili ai quali si deve rimediare con rimedi peggiori, per chiarirlo occorre esaminare come si può impedire che la nullità di un atto di impulso a sua volta impedisca la pronuncia sul merito.

Abbiamo diverse forme di sanatoria della nullità dell'atto, anche di sanatorie in senso lato, per cui, per esempio, ex art. 157, in linea di massima le nullità sono rilevabili solo ad istanza di parte tranne i casi in cui la legge disponga espressamente in senso contrario ed occorre in questo caso un'istanza tempestiva da parte della parte interessata, nell'interesse della quale è stato posto il requisito assente dall'atto caratterizzato dalla nullità e sempre che questa parte non vi abbia dato causa ve nemmeno abbia rinunciato anche tacitamente a far valere la nullità della stessa, però, alcune nullità sono rilevabili d'ufficio per espressa disposizione di legge e la regola della tipicità delle nullità rilevabili d'ufficio, è quella che più di ogni altra appare di discutibile applicabilità alle ipotesi di nullità extraformali, e in ciò in quanto queste, tipicamente ledono la capacità di difendersi della parte. Il caso eclatante: una parte vittima di un fatto interruttivo del processo; "il decesso del procuratore". L'interruzione del processo qui si produce automaticamente per il solo fatto del decesso del procuratore, a seguito di questa non possono compiersi atti del processo che non siano atti diretti a riattivare l'effettività del contraddittorio quella della riassunzione o di costituzione di prosecuzione a seconda della parte interessata, ovvero, tuttalpiù degli atti urgenti, gli atti che non siano la riattivazione della causa o magari urgenti sono inevitabilmente colpiti da nullità, ma dobbiamo far gravare proprio sulla parte che si trova in difficoltà difensiva l'onere di far valere il vizio stesso? Proprio lei che non può difendersi dovrebbe avere l'onere di eccepire tempestivamente la nullità dell'atto compiuto, che è nullità derivante proprio dal fatto che sia compiuto senza che questa possa difendersi? No! Non ha senso!

Questo tipo di nullità è qualificabile come, senz'altro, nullità rilevabile d'ufficio, fermo restando che non sarà una nullità rilevabile ad istanza di parte diversa da quella che è stata colpita dall'evento, non può giovarsi l'avversario che tra l'atro è parte che ha dato causa alla nullità stessa, compiendo l'atto nonostante l'interruzione,  però non si può impedire al giudice, invece,  di rilevare d'ufficio che l'atto compito era nullo.

Ancora abbiamo, l'ipotesi della nullità derivata dal cosiddetto raggiungimento dello scopo, come prevede in via generale il 2° comma dell'art. 156, non può essere mai dichiarata la nullità dell'atto quando sia stato raggiunto lo scopo stesso, ma ciò anche in quelli ipotesi in cui la nullità derivava proprio dalla circostanza che ha i requisiti indispensabili per lo raggiungimento dello scopo è stato raggiunto in ogni caso, tuttavia anche la sanatoria per il raggiungimento dello scopo è una sanatoria che deve essere applicata con prudenza.

Il caso che si capisce meglio è di nuovo quello della nullità della citazione, lo scopo dell'atto di citazione è complesso, per un verso c'è l'esigenza di mettere la controparte al corrente della causa per consentirle di difendersi e per altro verso la funzione di determinare l'oggetto del giudizio, quindi, è la tempestiva costituzione della parte, magari certo può comportare sanatoria per il raggiungimento dello scopo di quelle nullità che riguardino la così chiamata vocativo in ius, cioè di quella mancanza di elementi che sono funzionali al raggiungimento dello scopo di consentire al convenuto di difendersi, ma quando la nullità colpisca quegli aspetti che si dicono attinenti alla detta edictio actionis e cioè la determinazione dell'oggetto del giudizio, la costituzione del convenuto non può obbligare alcuno effetto sanante, perché non da essa può dedursi che cosa sia stato domandato se non è l'attore stesso a chiarirlo.

Ancora, la nullità può essere sanata attraverso la cosiddetta rinnovazione dell'atto, anzi l'art. 162 prescrive che il giudice, per dichiarare la nullità di un atto processuale, debba disporne, se possibile, la rinnovazione. Ma quando non è possibile? È chiaro che se è deceduto il testimone non sarà possibile disporre la rinnovazione dell'assunzione della prova testimoniale nulla, però questo è un caso che ci interessa di meno, perché è risolvibile senza che ciò impedisca la pronuncia sul merito della causa.

Ci si può chiedere se la rinnovazione sia impossibile, o comunque non debba essere disposta in quelle ipotesi in cui sia inutile, cioè, quando è sopravvenuta la decadenza, sicché il compimento dell'atto processuale sia a tal punto tardivo, ma potremmo dire, un momento! Ma la rinnovazione potrebbe anche produrre efficacia retroattiva! In alcuni casi è sicuro che questo avvenga, anzi lo dice esplicitamente la legge che in varie ipotesi la rinnovazione dell'atto nullo produce i sui effetti sananti facendosi che gli effetti dell'atto si considerino prodottisi sin dal momento in cui l'atto era stato compiuto in modo nullo, purché venga tempestivamente, nel termine fissato dal giudice, compiuta la rinnovazione e alcuni sostengono che la retroattività degli effetti della rinnovazione costituisce la regola generale.

Si potrebbe obiettare a quest'ipotesi che la disciplina della decadenza verrebbe svuotata di contenuto, ma l'obiezione è forte e non ancora decisiva perché si potrebbe dire, svuotata di contenuto no, rimane applicabile in quelle ipotesi in cui la legge espressamente escluda la retroattività degli effetti della sanatoria, per esempio parlando ancora di citazione con riferimento alle decadenze ai vizi dell'edictio actionis, per cui, la rinnovazione dell'atto ha effetto sanante, ma restano salvi i diritti quesiti medio tempore, restano ferme le decadenze maturate medio tempore.

Ma c'è un problema ben più importante, e cioè, quanto più facilmente si ammette la retroattività della sanatoria della nullità per rinnovazione tanto più facilmente all'esigenze di giustizia e di buon senso si tende ad escludere tale effetto nell'esperienza giurisprudenziale qualificando la fattispecie non come nullità ma come inesistente, ce ne accorgiamo quando osserviamo a quali atti processuali tipicamente si attribuisce la qualificazione di atto giuridicamente inesistente.

Il campo di applicazione più vasto è probabilmente quello delle notificazioni, sovente, ci dice la giurisprudenza, non è nulla ma è inesistente quella notificazione che sia compiuta in luogo e a persona che non abbiano nulla a che fare col destinatario, perché se questa violazione si verificasse come nullità si potrebbe attraverso la rinnovazione consentire la retroattività della produzione dei suoi effetti poiché la nullità della notificazione è una di quelle ipotesi rispetto alle quali l'art. 291 prescrive esplicitamente che la rinnovazione abbia effetti retroattivi, e quindi proprio lì viene fuori la giurisprudenza che parla di inesistenza, ma non è soltanto rispetto alle notificazioni che questo concetto emerge, perché lo si ritrova anche e molto spesso, con riferimento alle sentenze, perché qui opera quello che forse è il meccanismo estremo di sanatoria e cioè la sanatoria derivante da giudicato.

L'art. 161 enuncia il principio della cosiddetta conversione delle nullità in motivi di gravame, ma in realtà quello che è importante in questa norma non è tanto il dirci che se vi è stata una nullità non sanata io che ne sono vittima potrò farla valere proponendo appello contro la sentenza che ha omesso di dichiararla e ha invece pronunciato sul merito, assicurandomi così la declaratoria di nullità di sentenza impugnata e in quanto possibile un nuova decisione sul merito della causa e naturalmente se il giudice di appello omette di darmi ragione posso farla valere con ricorso per cassazione, con possibilità di giungere a una pronuncia appunto di cassazione senza rinvio tutte le volte che questa nullità non sia sanabile retroattivamente.

Ci interessa la norma soprattutto nella parte in cui dice che le nullità delle sentenze soggette ad appello e ricorso per cassazione può essere fatta valere solo nei modo e nei termini previsti per queste impugnazioni, e cioè, non può essere fatta valere quando tali impugnazioni non siano proponibili, quando sia decorso il termine per la proposizione delle stesse, cioè quando si sia formato il giudicato.

Il 2° comma dell'art. 161 aggiunge che questa regola non si applica nelle ipotesi in cui la sentenza sia priva della sottoscrizione del giudice, certamente non vuol dire che questo vizio non possa essere fatto valere con l'appello, al contrario abbiamo anche una specifica indicazione legislativa nel senso che l'appello in questa ipotesi non è solo proponibile, ma è fondato, ed anzi, il giudice ai sensi dell'art. 354, il giudice d'appello deve, in queste ipotesi, rimettere la causa al primo giudice.

Il significato di questa norma è che in tali ipotesi il vizio può essere fatto valere anche se si è formato il giudicato, al di la della formazione del giudicato, quindi, per esempio, potrà essere nuovamente proposta la stessa domanda ancorché respinta con sentenza formalmente passata in giudicato, ma priva di sottoscrizione, ovvero, laddove detta sentenza venga utilizzata come titolo per l'esecuzione forzata, il convenuto potrà far valere l'inesistenza del diritto di procedere all'esecuzione forzata tramite opposizione all'esecuzione facendo anche valere tutto ciò che poteva essere fatto valere nel processo, pur conclusosi, con sentenza passata in giudicato non si produce alcuni di quegli effetti preclusivi del dedotto e del deducibile che discendono dalla formazione del giudicato e proprio la circostanza che la sanatoria derivante dalla conversione delle nullità in motivi di gravame sia così forte induce molti e anche a volte la giurisprudenza, ad individuare ipotesi ulteriori, rispetto a quella dell'omessa sottoscrizione del giudice, in cui la sentenza si dice giuridicamente inesistente, non nulla ma inesistente.

Quali sono quest'ipotesi, alcuni sono casi di scuola, si dice per esempio che sia in esistente la sentenza completamente priva di motivazione, più interessante è notare che si qualifica spesso, secondo certe evidenze, come giuridicamente inesistente la sentenza resa a seguito della pretermissione del litisconsorte necessario, tale sentenza risulterebbe anche come uniliter data e cioè inidonea a produrre effetti, non solo nei confronti di quel soggetto pretermesso che al processo non ha partecipato, ma anche nei confronti di quei soggetti che pure al processo hanno partecipato, anzi hanno avuto tutte le più ampie opportunità di dedurre la pretermissione del litisconsorte necessario e non l'hanno fatto, sicché, l'inesistenza della stessa potrebbe essere fatta valere in ogni tempo anche ad istanza di costoro, perché per poter difendere il litisconsorte pretermesso, attraverso il ricorso a questa opzione, è chiaro che la sentenza non sarà opponibile, che non sia vincolante tra le parti che hanno partecipato già desta qualche perplessità. Immaginiamoci il caso.

Tizio, Caio e Sempronio coeredi devono dividere un eredita, ma Tizio crede che Sempronio sia deceduto da gran tempo e Caio sa che Sempronio è vivo in Brasile. Caio si trova in una posizione comoda, perché, se vince è fatta, se perde si ricorda che c'è Sempronio in Brasile.

Tornando all'ipotesi dell'omessa sottoscrizione, qualcosa di strano c'è, perché, la sentenza che non contiene la sottoscrizione di alcun magistrato è un pezzo di carta, poniamo però, che ci sia la firma del presidente e non dell'estensore diverso dal presidente, secondo la giurisprudenza in questo caso avremo l'inesistenza, ma comporta soltanto nullità il vizio di costituzione del giudice, e quindi sembrerebbe esserci una nullità se per esempio deve decidere un collegio composto da due componenti anzi che tre, se invece è deciso da un componente di tre, ma uno non firma, avremo l'inesistenza, ma c'è di peggio! Quando si comincia a dare spazio al concetto di inesistenza è facile che la giurisprudenza scoppia, per esempio la giurisprudenza consolidata ha sempre ritenuto che si qualificasse come inesistenza l'ipotesi in cui l'atto di notificazione nei confronti di più parti difese da un unico procuratore venisse notificato in un numero di copie inferiore a quello delle parti.

L'art. 170 prescrive che al procuratore costituito in giudizio per più parti gli atti nel corso del procedimento possano anche notificarsi in unica copia, ma l'art. 285 prescrive che la sentenza si notifichi al procuratore ai fini del decorso dei termini per l'impugnazione della stessa, diversamente dalla notificazione dell'esecuzione che va esibita personalmente alla parte, ma quella ai fini del decorso del tempo per l'impugnazione si notifica al procuratore, ma non si applica il 2° comma dell'art. 170, cioè, va notificata in tante copie quante sono le parti da lui difesa e allora si arguisce ulteriormente che la notificazione dell'atto d'appello debba essere compiuta in tante copie quante sono le parti rappresentate a maggior ragione, vista che questa è notificazione alla parte presso il procuratore precostituito nel precedente grado di giudizio, ma se manca una copia? Non sappiamo quali tra le più parti difese dal procuratore siano destinatari di notificazione e quali no, perché le cose si confondono e quindi dobbiamo concludere che nessuno l'abbia ricevuta.

La conclusione suona paradossale, perché altro è dire che se l'avversario notifica al procuratore costituito, non nel precedente grado del giudizio, ma presso il procuratore costituito nel grado ancora precedente avremo inesistenza, se io notifico il ricorso per cassazione al difensore costituito in tribunale quando in appello il mio avversario aveva un difensore diverso, il sospetto che stia giocando sporco è forte, perché se il mio avversario ha cambiato avvocato vuol dire che di quello di primo grado non era contento! Anzi probabilmente non corrono buoni rapporti, quindi sto notificando a persona che, si, ha avuto a che fare col destinatario, ma è difficile che gli trasmetta la notizia e non ha nessun dovere di farlo.

Nel caso che diciamo adesso le cose stanno diversamente, perché questo soggetto è in rapporto con tutte queste parti e ciò che si fa gravare sul procuratore destinatario è sostanzialmente un onere che da quando i prodigiosi progressi della tecnologia hanno realizzato le macchine fotocopiatrici non è troppo gravoso da assolvere, quindi questa nozione di in esistenza è pericolosa, perché noi dobbiamo metterci un po' nell'animo e esaminare come funzionano queste norme, assumere il punto di vista dei soggetti interessati, mettiamo allora dal punto di vista del giudice dell'impugnazione che ha tante cause da decidere e naturalmente dovrà esaminare le eccezioni processuali, e come abbiamo detto esiste e deve affermarsi una pregiudizialità logica legata a questioni di rito e questioni di merito, rispetto a tutte queste impugnazioni, l'esame del rito lo deve fare sempre, ma l'esame del merito lo deve fare solo se ci sono eccezioni di rito, il che vuol dire che ritenere fondate le eccezioni di rito accelera il lavoro, perché questa causa me la sbrigo senza considerarla e la tentazione è forte di trasformare la disciplina delle forme dell'impugnazione in una disciplina tendenzialmente tesa a porre ostacoli alla proposizione della stessa e poco hanno a vedere con la sua apparenza di fondatezza dal punti di vista del merito della causa, finisce per diventare la proposizione dell'impugnazione un'attività che richiede un salto nel cerchio di fuoco, il superamento di ostacoli fondamentalmente gratuiti possono portare a fenomeni inquietanti.

Il caso che ha avuto anche un discreto spazio sulla stampa, per esempio è quello della faccenda della procura speciale per il ricorso per cassazione. La procura per il ricorso per cassazione deve essere rilasciata in uno spazio di tempo abbastanza ristretto, perché per un verso deve essere conferita successivamente alla pronuncia della sentenza impugnanda altrimenti perde le sue caratteristiche di specialità di procura conferita specificamente per il giudizio di cassazione, inoltre deve essere conferita prima della notificazione per ricorso in cassazione poiché trattandosi di procura speciale non si applica la regola che consente il conferimento sino al momento della costituzione in giudizio, quindi se arriva la notifica di una sentenza d'appello vi sentirete in vacanza! E succedeva che quando il cliente doveva partire si facevano mettere un po' di firme su di un foglio a protocollo, dopodiché si scriveva un pochino sopra la firma del cliente la procura conferita in calce al ricorso, sicché, la verità della firma poteva essere autenticata dal difensore e il difensore compiva in quest'ipotesi un'autentica minore, cioè attestava la genuinità della firma non della data in cui era stata apposta.

Perché la legge consentiva questo? Perché il legislatore muoveva dal presupposto che se la firma era in calce al ricorso la firma della procura significava che il ricorso era stato scritto, e se il ricorso era stato scritto la sentenza era già stata pronunciata. Ad un certo punto c'era un arretrato pauroso in cassazione e un primo presidente della cassazione efficiententista che diceva: "questo arretrato lo smaltiamo alla grande!!". Han preso un bel paccone e guardiamo se in calce è proprio in calce, perché se magari ci sono due righe di distanza.questa presunzione che sia stata compilata la procura successivamente alla compilazione dell'atto viene meno, perché, guarda caso non è proprio sotto ma un po' troppo sotto, sarebbe stato naturale che sia stata proprio sotto sotto, non tre righe sotto! Ci sono tre righe? Fuori dalla finestra! E così un po' di ricorsi sono andati a finire nel cestino.

Molti si lamentarono e quindi si pensò di venire incontro alle parti ammettendo che la procura si poteva ottenere prima, ma si è seguita una via più tortuosa, cioè venne introdotta una norma che prevede che si considera in calce al ricorso anche la procura spillata.

Ma bisogna affrontare tutto questo problema a monte e rendersi conto, appunto, di quante degenerazioni possono derivare in sede di impugnazione dall'uso improprio della nozione di inesistenza dell'atto processuale in forza della particolare natura degli incentivi e delle pressioni che operano sul giudice delle impugnazioni, e quindi proprio per questo motivo il diritto positivo deve essere interpretato in modo tale da suggerire il meno possibile che si faccia ricorso alla nozione di inesistenza dell'atto processuale, e ulteriormente, dato che la nozione di inesistenza dell'atto processuale si impone allorquando si prevede una retroattività della sanatoria per rinnovazione, la conseguenza è che deve essere interpretato in modo restrittivo qualsiasi disposto che preveda la retroattività della sanatoria per rinnovazione, perché, questo innesca a sua volta il ricorso alla nozione di inesistenza e l'affermazione della nozione di inesistenza si presta a gravi degenerazioni, sicché in via generale si deve concludere che la sanatoria per rinnovazione possa produrre degli effetti retroattivi solo esclusivamente in quei casi in cui la legge preveda questa possibilità.

·    La sospensione del processo

l'arresto è temporaneo anche se si può verificare che la causa della sospensione coincida con la definizione del processo, in quanto tale l'evento si distingue dalla cessazione stessa e quindi dobbiamo definirlo come un arresto temporaneo e i suoi effetti sono individuati dall'art. 298 e si stabilisce, fatta eccezione per gli atti urgenti, durante la sospensione del processo non possono essere compiuti atti del procedimento e non decorrono i relativi termini, a fatta eccezione oltre che per gli atti urgenti  per gli atti e per i termini necessari per la riattivazione del procedimento sospeso, quando ovviamente è cessata la causa della sospensione, come vedremo più avanti si rende necessario compiere iniziative per riattivare il processo entro termini che ovviamente invece è corto e devono quindi compiersi in questi atti.

Si possono conurare numerosissime forme di sospensione contemplate dal c.p.c. in vario modo una classificazione abbastanza rilevante, come vedremo, ma anche se sembra avere uno spessore teorico modesto, è quella che piace definire come distinzione fra sospensioni a tempo determinato e sospensioni a tempo indeterminato, ovvero sia fra i casi in cui la data in cui cesserà la causa della sospensione è certa nell'an e nel quando, e quelli in cui la data è certa nell'an ma nel quando si potrà vedere solo a cose fatte, così abbiamo sospensioni a tempo determinato nel disposto dell'art. 332 c. 2° con riferimento all'ipotesi in cui si è avuto litisconsorzio in un precedente grado di giudizio e l'impugnazione sia proposta da soltanto alcuna delle parti che abbiano partecipato al grado precedente e che tuttavia non sia inscindibile il litisconsorzio prodottosi, appunto, in primo grado o in appello rispetto al ricorso di cassazione, per questa fattispecie, quindi, non è previsto a pena di inammissibilità che l'impugnazione sia proposta nei confronti di tutte le parti del grado precedente al giudizio, però, il legislatore deve favorire per quanto possibile la concentrazione in un unico processo di tutte le impugnazioni proposte contro la stessa sentenza, pertanto, si prescrive che la parte che impugni nei confronti di alcuni soltanto dei litisconsorti, abbia anche l'onere di dare notizia di questa impugnazione alle altre parti, ossia di notificare l'impugnazione alle altre parti pur senza, con ciò, convenire al giudizio di impugnazione.

Tutto ciò è richiesto soltanto nei confronti di quelle parti, rispetto alle quali, non sia decorso il termine per la condizione del gravame, cioè, quelle, appunto che non fossero poste a conoscenza della pendenza del giudizio di impugnazione, quelle che nei confronti non è decorso il termine, se non fossero poste a conoscenza della sopravvenienza del giudizio di impugnazione, potrebbero promuoverne uno separato ed autonomo di loro iniziativa, pur stando al legislatore di concentrare tutte queste impugnazioni in un processo unico.

Laddove, quindi, non sia stata fatta questa notificazione, il giudice coordina se è compiuta e se nessuna della parti vi provvede, il giudizio di impugnazione riamane sospeso finché non siano decorsi i termini per l'impugnazione di queste altre parti.

Sappiamo sin dall'inizio quando durerà questa sospensione, se anche non prendiamo nessuna iniziativa, la causa della sospensione necessariamente cesserà con il decorso del termine per l'impugnazione delle parti non evocate nei giudizi legali.

Sempre a tempo determinato, sono le sospensioni che sempre più spesso si ritrovano con funzione alternativa diretta a favorire il ricorso preventivo ai metodi alternativi di risoluzione di controversie, in particolare alla conciliazione, e correntemente il legislatore prevede l'onere di esperire il tentativo di conciliazione tra le parti prima di adire il giudice, che prevede anche che la domanda sia proposta senza che sia stato esperito il tentativo di conciliazione e il processo venga sospeso per dare modo alle parti di provvedervi, ma venga sospeso sempre che un termine massimo oltre il quale in ogni caso il tentativo di conciliazione si considera fallito e quindi le sospensioni finiscono per durare tuttalpiù sei mesi, anche a tempo determinato, la sospensione, su istanza concorde delle parti contemplata dall'art. 296, che non può durare più di quattro mesi, quindi, è un istituto totalmente privo di applicazione dato che, nella prassi giudiziaria è normale che tra un'udienza e l'altra intercorrano più di quattro mesi, normalmente un anno, quindi non c'è mai quasi bisogno di ottenere una sospensione di quattro mesi, considerando anche, tra l'altro, che questa costituzione va autorizzata dal giudice, e un accordo più consistente può essere raggiunto dalle parti che siano d'accordo con la più semplice tecnica della deserzione bilaterale all'udienza stessa, e il giudice ne deve fissare una nuova non essendo più prevista la regola che demanda per pochi giorni il vigore della diserzione bilaterale dell'udienza che comportava l'immediata estinzione del processo (abrogata nella primavera del 1995).

Interessanti sono le sospensioni a tempo indeterminato, in cui fondamentalmente la sospensione, è giustificata dalla circostanza che si debba attendere la pronuncia di una decisione diversa da quella da rendersi nel procedimento, appunto soggetto alla sospensione, tuttavia suscettibile di influenzare l'esito del procedimento stesso.

Con questa conclusione un po' generica mettiamo insieme l'ipotesi che la dottrina tradizionale amava distinguere le ragioni, a me pare, fondamentalmente portanti, cioè, per aiutare la memorizzazione di una distinzione di base che serve però a tutt'altro indirizzo. Mi riferisco con questo alla distinzione tra le cosiddette sospensioni proprie e sospensioni improprie del processo civile.

Secondo la dottrina che ha elaborato questa classificazione dobbiamo palare di sospensione propria soltanto in quei casi in cui il processo è sospeso, la decisione della controversia è sospesa, in attesa di una decisione su di un'altra causa o controversia oppure relativa alla domanda, abbiamo invece sospensioni proprie quando la decisione che si attende è la decisione su di una mera questione relativa alla stessa domanda intorno alla quale può svolgersi un sub procedimento diretto al suo accertamento, e quindi, in casi di sospensione impropria sono le ipotesi in un cui un giudizio sospeso per la pendenza del regolamento di competenza, per la proposizione del regolamento di giurisdizione, per la risoluzione di una questione di legittimità costituzionale di una legge.

In tutte queste ipotesi il sub procedimento costituisce una fase speciale di giudizio, per cui, si soleva dire in realtà che il processo continua sia pure dinanzi al giudice deputato a risolvere con particolare efficacia una questione di carattere pregiudiziale di questione e non di vera è propria domanda, nel senso che su di essa potrebbe aver luogo un autonomo giudizio, sul procedimento può essere innescato solo nel contesto del procedimento che ha un più ampio oggetto, ossia che ha per oggetto, appunto, una domanda giudiziale diretta ad ottenere una pronuncia attributiva di un bene della vita.

La distinzione, peraltro, è importante per muoversi nell'ambito della disciplina codicistica, poiché, la disciplina della sospensione del processo, nel codice di rito, è disciplina relativa alle ipotesi di sospensione propria, mentre i casi di sospensione impropria trovano delle loro autonome discipline nelle particolari disposizioni che regolano sui procedimenti, sicché la disciplina dettata per la sospensione propria può risultare non sempre del tutto applicabile alle ipotesi di sospensione impropria e, diciamolo subito, il rilievo vale in particolare per la questione dell'impugnabilità del provvedimento di sospensione tramite regolamento di competenza, ai sensi dell'art. 42 come novellato dalla legge 353/90, poiché si ritiene generalmente in questa disciplina possa applicarsi soltanto alle ipotesi di sospensione propria di cui all'art. 295 espressamente richiamato dallo stesso art. 42 e non invece ai casi di sospensione impropria.

C'è una ragione pratica di questa distinzione e cioè, che le sospensioni improprie durano molto meno, perché si deve svolgere soltanto una fase davanti ad un ufficio speciale, le sospensioni improprie sono si a tempo indeterminato, ma sono terribili soprattutto le sospensioni proprie, che in attesa di una definizione di una vera e propria controversia può implicare l'attesa dello svolgimento del procedimento in tutti i sui gradi di giudizio e quindi, per andare sul concreto, vuol dire anziché aspettare due anni bisogna aspettarne dieci!

Più di tutto, io ritengo sia più importante, la distinzione, non molto tradizionale in dottrina, ma di cui si deve parlare, cioè la distinzione tra sospensioni disciplinate in maniera razionale e sospensioni disciplinate in maniera non razionale, distinzione tutta mia se vogliamo!

Per spigare cosa intendo, rievoco la metafora della monetina sopra il materasso! Una decisione oggi vale di più di una decisione domani! Cosi come una monetina di oggi vale più di quanto valga questa stessa monetina domani, e questo a prescindere dall'inflazione, perché il denaro può essere investito e fatto fruttare facendo previsioni sul futuro, previsioni che a volte saranno anche sbagliate, ma saranno perlopiù più giuste che sbagliate, e quando le previsioni sono più giuste che sbagliate di solito l'investimento frutta denaro, e quindi la sospensione è disciplinata in modo irrazionale costringendo a mettere le monetine sotto il materasso tutte le volte che la legge sia automatica.

La sospensione è invece applicata in moda razionale tutte le volte che ci sia uno spazio di discrezionalità del giudice di decidere se sospendere o meno, parlo ovviamente delle sospensioni a tempo indeterminato, alla luce di una prognosi sul contenuto della decisione che si dovrà attendere, e per fare un esempio: allorquando la legge prevedeva che la mera proposizione del regolamento di giurisdizione comportasse automaticamente la sospensione del processo, questa sospensione era da considerarsi irrazionale, ed infatti incentivava il ricorso alla strumento del regolamento preventivo di giurisdizione in funzione meramente dilatoria della pronuncia sul merito della causa, cioè incentivava una litigiosità di mala fede diretta a frustrare l'efficienza dell'amministrazione della giustizia.

Più razionale, senza dubbio, invece è la disciplina emersa a seguito della riforma del '90, in forza della quale il giudice sospende il processo in tanto in quanto ritenga che l'istanza non sia manifestamente infondata e il ricorso sia manifestamente inammissibile, cioè deve evitare di sospendere tutte le volte che si ha abbastanza sicura di una prognosi nel senso che l'istanza verrà respinta, perciò, ci avviciniamo alla razionalità. Meglio ancora, a mio avviso, sarebbe una regola che anziché spostare il baricentro della prognosi da un versante dello spettro com'era la formulazione iniziale dell'ipotesi di non manifesta infondatezza in cui sostanzialmente si consente al giudice di evitare la sospensione solo in casi estremi, solo quando sia palese che il ricorso verrà rigettato.

Ancora più razionale sarebbe una disciplina che semplicemente prevedesse la sospensione sulla base di una prognosi di accoglimento del ricorso e di escluderla sulla base di una prognosi di rigetto del ricorso anche se questa prognosi non è sicurissima.

Questo spiega perché si deve fare attenzione quando si legge, come spesso accade, che in dottrina una vivace polemica nei confronti delle sospensioni discrezionali. Perché la dottrina combatte perlopiù le sospensioni discrezionali? Perché ha in mente soprattutto una prassi giurisprudenziale secondo la quale, la sospensione del processo potrebbe essere disposta anche al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, cioè al di fuori di quei casi in cui la legge diversamente prescriva; la diversa decisione da attendere abbia un'importanza tale da giustificare la sospensione, e ammette quindi il ricorso a sospensioni facoltative e discrezionali del processo al di fuori dei casi previsti dalla legge. Ripeto! È senz'altro condivisibile l'idea che la sospensione non possa essere disposta che nei casi previsti dalla legge, si può magari discutere su quanto siano ampi i casi previsti dalla legge, in particolare per esempio, la sospensione giustificata dalla pregiudizialità di una controversia di carattere penale, presso un giudice penale, la sospensione il cui ambito di applicazione non è molto chiaro perché la disciplina si è formata con stratificazioni alluvionali di norme concepite e scritte da mani diverse e animate da motivazioni diverse abbastanza difficili da coordinare, sicché può risultare non chiarissimo quale siano esattamente i casi in cui si applichi questa disciplina, ma naturalmente, altro è dire rispetto ai casi di confine questo rientra - questo non rientra, alché dire possiamo sospendere a prescindere dalla decisione se si tratti di uno dei casi previsti dalla legge, ed è certo che si tratti di casi previsti dalla legge.

Altro è dire però, che sia da escludere che in casi previsti dalla legge sia esercitabile una discrezionalità del giudice, al contrario! Al contrario, a meno che, non si parli di indiscrezionalità come arbitrio, ma quando parliamo discrezionalità nel mondo del diritto non parliamo affatto di arbitrio, tutte le volte che la legge utilizza l'espressione "..il giudice può o sospendere..", non vuol dire che la sua decisione sia o possa essere completamente arbitraria, deve essere in ogni caso e comunque guidata da criteri di razionalità, e i criteri di razionalità gli indicano criteri di riferimento per decidere se sospendere o meno, appunto le prognosi attorno il contenuto al risultato della decisione che si dovrà prendere, questo è il criterio razionale e quindi in questo modo che si riempie il contenuto della disciplina positiva prevista dal legislatore in tutte quelle ipotesi in cui il legislatore ha espressamente previsto in misura più o meno ampia la discrezionalità del giudice  nel disporre o meno la sospensione, in misura ristretta allorquando, come l'art. 367 permette di evitare la sospensione nei soli casi di manifesta infondatezza e manifesta inammissibilità, in maniera più ampia in quei casi come di quello in cui all'art. 337 nella parte in cui si prevede che quando la autorità di una sentenza sia invocata in un diverso processo laddove questa sia impugnata il giudice può sospendere il giudizio, in attesa della decisione sull'impugnazione della sentenza la cui autorità è stata appunto invocata.

Questo "può" vuol dire che non c'è nessuno automatismo, ma vuol dire anche che questa discrezionalità deve essere esercitata sulla base dei criteri guida che stiamo appunto cercando di individuare, alludiamo fra l'altro quando parliamo di prognosi della decisione attesa.

Quindi questa guerra contro le sospensioni discrezionali contro le sospensioni facoltative non bisogna farsi fuorviare e soprattutto non credere troppo a quei giuristi che sembrano ancora nel mito del giudice interprete automatico della legge. Dei margini di discrezionalità c'è ne sono sempre e comunque in realtà dell'interpretazione giudiziaria, persino in quei casi in cui si prevede l'automatismo della sospensione, tant'è che per un buon gioco, quei giudici che già prima della novellazione dell'art. 367, escludevano l'effetto sospensivo della proposizione del regolamento di giurisdizione manifestamente inammissibile su rilievo che, in quei casi il giudice si trovava al cospetto di un atto che pur avendo solo la veste formale del regolamento di giurisdizione in realtà non ne aveva il contento, sicché, la sua proposizione poteva benissimo giustificare l'omissione del provvedimento di sospensione sulla base di una delibazione di una sua manifesta inammissibilità.

Tanto detto, la discrezionalità c'è sempre, non bisogna averne paura, ma bisogna gestirla razionalmente.

Se la sospensione è disciplinata in maniera razionale, essa non costituisce affatto un incubo, uno spettro alla giustizia, un spregevole istituto sul quale la maggior parte della dottrina si è scagliata, anzi può costituire in realtà un modello d'ispirazione di carattere generale, quando si pongano esigenze di coordinamento fra le decisioni di vario genere a cui bisognerebbe ricondurre per esempio altre parti del diritto positivo che non rispondono ai requisiti di razionalità della sospensione; pensiamo al caso dell'art. 705 del codice di rito, questa norma ha dettami in materia sul procedimento possessorio, e costituisce una delle tante applicazioni della regola spoliatus ante omnia restituendus, si parte dall'idea che la violazione del possesso dev'essere repressa celermente per ragioni di ordine pubblico e quindi si stabilisce anche che in pendenza del procedimento possessorio, il convenuto non possa promuovere l'azione petitoria, cioè colui che ha spogliato il possessore del possesso, ma è il vero proprietario della cosa, non può far valere di essere il vero proprietario della cosa in tanto che il provvedimento possessorio non sia stato eseguito, cioè, finché lo spogliato non sia stato restituito nel possesso, fatta salva l'ipotesi in cui il convenuto possa dimostrare che la mancata esecuzione del provvedimento dipende dal fatto del possessore, ma ciò che più sorprende addirittura è che l'azione petitoria è dichiarata improponibile o improcedibile ovverosia; il proprietario non soltanto non può ottenere, finché non sia eseguito il provvedimento possessorio l'accertamento pieno del suo diritto di proprietà nei confronti dell'attore in possessorio, ma non può nemmeno conseguire la produzione degli effetti della domanda giudiziaria di rivendica del bene.

La Corte Costituzionale si è espressa in particolare per stabilire che le ragioni petitorie possono essere sempre fatte valere allorquando sussistano i presupposti per la loro tutela in via d'urgenza, ovverosia se il diritto di proprietà è minacciato da pregiudizio grave o irreparabile è possibile farlo valere in via cautelare anche in pendenza di procedimento possessorio, ma parliamo soltanto della tutela cautelare, inoltre si ritiene in qualche ura che le ragioni petitorie possano essere dedotte in via di eccezione nel giudizio possessorio, però, resta il fatto che tutte le volte in cui soprattutto non sussistano i presupposti della tutela d'urgenza, il proprietario sia la parte in disagio tra le due, non abbia la possibilità neppure di conseguire il vantaggio.

Mi pare quindi che in questa disciplina debba essere reinterpretata e riletta nel senso che, in realtà la sanzione nei confronti della parte che promuove l'azione petitoria in pendenza di un giudizio possessorio, che tra l'atro, si articola in tutte e cinque le fasi del giudizio, questa parte abbia diritto per lo meno alla riduzione degli effetti della domanda e che quindi, il giudizio petitorio debba essere sospeso allorquando penda il giudizio possessorio e meglio ancora sarebbe dire che questo procedimento può essere sospeso in tanto in quanto l'azione possessoria non appaia manifestamente infondata, o meglio ancora in tanto in quanto appaia fondata.

La disciplina di base della sospensione del processo, cioè quella che regola il fenomeno della sospensione propria, della sospensione del processo per pregiudizialità ai sensi dell'art. 295, è qualificata come una disciplina irrazionale, perché nelle ipotesi in cui penda controversia pregiudiziale dalla cui risoluzione dipende la definizione della causa, il giudice è obbligato a sospendere, del tutto indipendentemente da una ogni valutazione intorno all'apparenza di fondatezza della domanda con cui viene innescata la controversia pregiudiziale.

Ed essendo irrazionale favorirà il ricorso a tattiche di carattere dilatorio? Certamente! È cosa frequente che domande di carattere viziate vengano in realtà proposte e formulate al solo scopo di procrastinare la definizione del merito del giudizio, tant'è che si cominciò fin dagli anni '80 a discutere sul come contenere questo fenomeno cui si imputavano notevoli responsabilità nella protrazione dei tempi nella giustizia civile, sicché le riforme di questi ultimi anni hanno avuto per obiettivo quello di ridurre l'ambito di applicazione dell'istituto della sospensione per pregiudizialità, alcune delle quali abbiamo visto, per esempio: il mutamento del rito per ragioni di connessione introdotto attraverso la novellazione dell'art. 40.

In che modo questa disciplina riduce l'ambito di applicazione dell'istituto della sospensione necessaria? Perché, la sospensione è concepita tradizionalmente, come strumento diretto a favorire il coordinamento dei giudicati sul presupposto che le controversie legate da un nesso di connessione per pregiudizialità di pendenza non possano sempre essere trattate e decise in un unico processo.

Il cumulo di più cause in un unico processo, favorisce il coordinamento delle decisioni della linea a cause connesse, perché assicura l'unicità del giudice e anche l'unicità del processo, quindi tutte le riforme dirette a favorire il cumulo delle cause nello steso processo in deroga alle norme sulla competenza e in deroga alle norme sul rito, hanno indirettamente l'effetto di ridurre l'ambito di applicazione dell'istituto della sospensione, perché consentono, appunto, di trattare contemporaneamente le cause connesse in un unico processo davanti ad un unico giudice, e lo stesso effetto hanno quelle interpretazioni giurisprudenziali attraverso le quali si è ampliato l'ambito di applicazione della disciplina della continenza a discapito di quella della disciplina della connessione, sicché la disciplina della continenza, secondo la giurisprudenza dominante ormai da anni, è applicabile non soltanto nelle ipotesi tradizionali in senso più stretto di continenza in cui si abbia coincidenza di parti, coincidenza di causa petendi e mera variazione quantitativa del petitum, ma si applica anche in casi in cui, si dice in giurisprudenza, si abbia una variazione quantitativa della causa petendi, ossia si deduca una fattispecie parte della quale è costituita dalla fattispecie oggetto di altro giudizio, e addirittura, sempre secondo la giurisprudenza, si applicherebbe alla disciplina della continenza persino in ipotesi di connessioni tra domande contrapposte e quindi domande provenienti da parti diverse, quando siano negate da vizi di pregiudizialità reciproca si dice particolarmente intensi.

Perché si vuole applicare la disciplina della continenza? Perché per le ipotesi di continenza, la legge consente che la riunione sia disposta d'ufficio e rilevata in ogni stato e grado del giudizio, mentre la riunione per connessione può essere disposta soltanto in tanto e in quanto la relativa questione viene sollevata entro la prima udienza, sicché complicare la disciplina della continenza allarga le possibilità di rinvii dei procedimenti che siano in ipotesi pendenti dinanzi a giudici diversi onde cumulare le cause connesse in uno stesso processo ed evitare così che si debba sospenderne una.

Questo discorso vale per l'introduzione della disciplina della derogabilità per connessione della competenza per materia del giudice di pace, che è appunto derogabile sempre verso l'alto, così il riparto verticale della competenza risulta essere mai più posta in conflitto, a meno per quel che riguarda il riparto verticale nello stesso grado di giudizio ostativo al cumulo processuale e quindi alla trattazione in un unico processo di controversie legate dal nesso di pregiudizialità posto appunto in alternativa, altrimenti ci sarebbe stata la sospensione necessaria.

Si sono poi proposte soluzioni alternative di vario genere, per esempio, c'è chi ha sostenuto che la sospensione può essere disposta  soltanto a condizione che la controversia pregiudiziale sia effettivamente pendente, e non quando sia semplicemente dedotta dinanzi ad un giudice che non potrebbe conoscerne per ragioni di competenza.

Nel periodo di prima applicazione del codice, quando il volume del contenzioso era molto minore, si riteneva ragionevole questa disciplina, che ritiene utile favorire il coordinamento delle decisioni in questa maniera, congruo volendo, non se ne abusava ancora tantissimo, e quindi si riteneva che fosse più che sufficiente dedurre la questione nell'ambito del procedimento del giudicato la questione passibile di formare oggetto di autonomo giudizio e quindi formare oggetto di controversia pregiudiziale appartenente però alla competenza inderogabile di un giudice diverso, anche in modo molto implicito o anche limitandosi a sollevare una eccezione di incompetenze del giudice adito rispetto a quella potenziale controversia. Oggi si tende ad essere più restrittivi da questo punto di vista e si tende anche ad affermare che la questione dev'essere sollevata nell'ambito del procedimento pregiudicato da quella parte che sia legittimata ed interessata  a promuovere un accertamento pregiudiziale, cioè provvista delle relative condizioni dell'azione, sicché, non potrebbe, ad esempio, essere invece inutilmente sollevata al fine di rendere necessaria la sospensione la questione dalla parte avversa, secondo i casi in cui la legge espressamente lo prescrive, così, per chi studia sul Mandrioli, il caso di cui dell'art. 35 costituisce un esempio di accertamento incidentale ex lege, per previsione di legge, in quanto, se leggete la norma osserverete che la remissione al diverso giudice competente per conoscere del controcredito opposto in compensazione viene fatto valere soltanto in via d'eccezione, si rende necessaria allorquando tale controcredito venga contestato, ossia quando per effetto di un'iniziativa diretta ad ottenere un accertamento con efficacia di giudicato intorno al controcredito che proviene però non dal titolare del controcredito, ma dal suo avversario, cioè da colui che contesta il controcredito ceduto in compensazione.

In mancanza di contestazione, il controcredito viene riconosciuto in quanto fatto valere soltanto in via di eccezione e quindi senza che ciò inneschi alcun problema di sospensione  per pregiudizialità, se il controcredito viene contestato si rende necessario quest'accertamento con efficacia di giudicato e anormalmente questo è possibile per effetto di iniziativa del convenuto cioè del titolare passivo di questo controcredito che, appunto, si trovi a contestarlo, sarebbe quindi un accertamento incidentale ex lege.

Oggi ha senso domandarsi, se sia possibile fare di meglio. Qualcuno aveva auspicato che la sospensione per pregiudicalità civile venisse resa discrezionale e ci sono stati anche processi di riforma del codice di procedura civile in questo senso, e bisogna dire, se si legge per esempio il codice di procedura civile tedesco, si scopre che in Germania la sospensione è sempre solo discrezionale anche in ipotesi si pregiudizialità. Si! Sembrerebbe un'idea un po' folle, però, quando questa proposta venne formulata, molti si stracciarono le vesti osservando che la sospensione per pregiudizialità non è giustificata esclusivamente da obiettivi di economia processuale, che appunto potrebbero ispirare su una scorta di ragionamento economico su una sospensione di carattere discrezionale, l'economia processuale può realizzarsi solo attraverso l'utilizzazione discrezionale dei poteri del giudice.

Si dice, e si diceva, dei principi di esigenza di coordinamento dei giudicati. Ma su questo punto era senz'altro il punto di partenza da cui muoveva il legislatore del'42, che era sul piano storico non c'è dubbio vittima di quello che si era definito come un mito dell'armonia dei giudicati, però, potrebbe trattarsi di un mito in cui oggi, in effetti, non abbiamo più tanta voglia di credere e allora vale la pena di esplorare queste norme per capire se davvero c'è esplicitamente, inequivocamente, in questa disciplina un riferimento all'esigenza di coordinamento del giudicato. Perché, i giudicati in qualche modo si coordinano! Comunque in maniera più o meno efficiente; pensiamo al disposto dell'art. 336, nella parte in cui consta il cosiddetto effetto espansivo interno della sentenza di riforma che l'effetto espansivo esterno, ovverosia, l'art. 336 dispone che la riforma o la cassazione di una parte della sentenza estendono i loro effetti anche alle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata e inoltre, questo è l'effetto espansivo interno, la riforma o la cassazione di una sentenza estendono i loro effetti anche agli atti e ai provvedimenti indipendenti dalla sentenza riformata o cassata.

Questa norma è stata riformata dalla legge 353/90 allo scopo di introdurre la regola della immediatezza della produzione dell'effetto espansivo, il disposto precedente prescriveva che l'effetto espansivo si producesse soltanto se c'era il passaggio in giudicato della sentenza di riforma, e la cosa era rilevante soprattutto ai fini esecutivi, cioè, anche se la sentenza di primo grado era stata riformata, l'esecuzione poteva essere conseguita e financo addirittura promossa fin tanto che tale sentenza d'appello non fosse passata in giudicato, questa particolare disciplina destava non pochi problemi pratici, fin tanto che l'altro carattere eccezionale è la regola dell'esecutività della sentenza di primo grado. Di norma la sentenza di primo grado non era esecutiva.

Quindi, in realtà, soltanto in quelle particolari ipotesi di esecutività della sentenza in prima iure si poteva produrre il fenomeno curioso della esecuzione di una sentenza già riformata e si trattava in particolare delle controversie di lavoro in cui si muoveva dall'idea che si dovesse tutelare in modo particolare il lavoratore subordinato, l'esecutività della sentenza di primo grado era assicurata solo in suo favore e gli aspetti processuali della disciplina venivano rinforzati dagli aspetti sostanziali della disciplina del rapporto, perché l'esecutività della sentenza implicava che il lavoratore avesse diritto a continuare a percepire le retribuzioni a seguito della riforma della sentenza pronunciata in suo favore e tutto ciò era sufficiente ad instaurare, comunque, un rapporto di lavoro di fatto che giustificava, poi in ogni caso, l'irripetibilità delle retribuzioni percepite anche qualora la sentenza di riforma venisse poi confermata dalla cassazione.

Con la generalizzazione dell'esecutività delle sentenze di primo grado era più che sensato prevedere l'immediatezza dell'effetto caducatorio dell'efficacia del titolo esecutivo della sentenza a seguito della sua riforma, anche per non incentivare eccessivamente la proposizione di ricorsi in cassazione al solo fine di preservare l'efficacia esecutiva di un titolo ormai riformato.

Anche qui, è difficile portarsi a casa "capre e cavoli", perché ci sono gli aspetti attinenti all'efficacia esecutiva della sentenza riformata, ma ci sono anche i problematici aspetti attinenti alla sua efficacia ai fini della prosecuzione dell'istruzione probatoria, in particolare con riferimento all'ipotesi della condanna generica, e qui i problemi diventano complicati perché invece sarebbe più sensata, rispetto a questi effetti della sentenza di primo grado, conservarne l'efficacia nonostante la riforma per evitare costosi andirivieni di attività probatorie che poterebbero essere rinnovate per effetto di eventuali andirivieni tra corte d'appello cassazione della pronuncia impugnata.

Il caso è questo! Pronunciata sentenza di condanna generica, una sentenza la cui utilità per la parte consiste nella facoltà di iscrivere ipoteca giudiziaria, infatti la sentenza di condanna ha un effetto principale di costituire titolo esecutivo ed alcuni effetti secondari come l'ipoteca giudiziale che trasforma la prescrizione breve in prescrizione ordinaria, converte il sequestro in pignoramento, la sentenza dei condanna per l'an con riserva di procedere in una successiva fase di giudizio per la liquidazione del quantum della prestazione dovuta, è esplicitamente prevista tra le sentenze non definitive dall'art. 278, è priva di efficacia esecutiva dopo l'iscrizione di ipoteca giudiziaria per la cifra prudente che io stimo incappando se imprudente a quanto previsto dall' art. 96.

Ovviamente, l'istruzione procede sul presupposto della validità della sentenza di condanna generica, che è sentenza non definitiva passibile di impugnazione immediata, nell'ipotesi in cui venga accolta l'impugnazione della sentenza di condanna generica parrebbe che l'istruzione non possa più proseguire in vista dell'immediatezza dell'effetto caducatorio, e ciò ancorché, la sentenza di riforma sia a sua volta ricorribile per cassazione.

Il problema è che questo andirivieni non è sensato, infatti, allorquando nel 1950 il legislatore aveva reintrodotto l'impugnabilità immediata delle sentenze non definitive, che non era prevista nella versione originale del codice del '42, aveva anche introdotto nelle disposizioni transitorie una serie di norme dirette a regolare questo fenomeno in guisa tale da evitare sprechi di attività processuali, e quindi, aveva previsto che nell'ipotesi in cui la sentenza di condanna generica riformandosi riformata in appello, l'art. 129 bis delle disp. di att., prevede che se viene proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di riforma, l'attività istruttoria in primo grado può sospesa su istanza di parte, quindi vuol dire che normalmente prosegue; occorre un'istanza di parte che anche in presenza di istanza di parte non è necessario e doveroso sospendere, rimane un ambito di discrezionalità del giudice, potrebbe in effetti continuare quando ritenga probabile l'accoglimento del ricorso in cassazione, quando ritenga fondato il ricorso per cassazione e quindi probabile la cassazione della sentenza di riforma della sentenza di primo grado, fa benissimo il giudice a non sospendere e proseguire nell'istruzione ed a evitare che vengano rallentati i tempi della tutela dell'attore che abbia ragione.

Questo escursus serve, soprattutto a ricordarci che una possibile modalità di coordinamento delle decisioni è quella del coordinamento a posteriori, ossia una decisione successiva può avere effetto caducatorio di una decisione precedente anche se passata in giudicato, può darsi che la pronuncia di liquidazione del quantum sia addirittura passata in giudicato e non sia stata impugnata, tuttavia, la successiva pronuncia di una sentenza di riforma o di cassazione della sentenza della condanna generica, travolge anche automaticamente la pronuncia di liquidazione del quantum.

Questo punto è considerato pacifico, ma si può obiettare che l'art. 336 si applica in ipotesi di pregiudizialità tra questioni relative alla stessa domanda, ossia si applica nel rapporto tra sentenze definitive e non definitive riferite tutte ad una stessa domanda e non risolve, quindi, il problema del coordinamento tra le decisioni relative a controversie a domande diverse nei rapporti di pregiudizialità, ciascuna delle quali sia passibile di formare oggetto di un autonomo giudizio.

Potremmo immaginare che si applichi la disciplina generale della repressione del contrasto di giudicati, così come la rinveniamo nella lettura dell'art. 395 n. 5, questa norma nel disciplinare i casi di cosiddetta revocazione ordinaria della sentenza, prevede che sia soggetta a revocazione quella sentenza che sia contraria ad altra precedente sentenza passata in giudicato tra le stesse parti, sempre purché, il giudice non abbia pronunciato sulla relativa eccezione, con ciò si intende dire che se abbiamo due sentenze passate in giudicato sulla stessa causa cronologicamente successive, prevale la seconda in forza del generale principio per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. La prima sentenza è deducibile nel provvedimento che ha dato luogo alla seconda e quindi rimane assorbita, tanto è vero che, è onere della parte far valere tempestivamente il contrasto della seconda decisione con la prima, cioè farlo valere prima che sulla seconda si formi il giudicato attraverso la proposizione dell'eccezione, che in questo caso è impugnabile con ricorso in cassazione la sentenza d'appello che mal decida sull'eccezione di giudicato tempestivamente proposta, il legislatore da anche alla parte la possibilità, quando non sia stata sollevata l'eccezione in quel giudizio, di avere qualche minuto di recupero per dare la possibilità di proporre giudizio di revocazione, ma di revocazione ordinaria perché viene prima sempre che la sentenza sia passata in giudicato nei confronti della sentenza d'appello, pero solo in tanto in quanto sia sentenza d'appello che abbia omesso di pronunciare sulla eccezione di giudicato allo scopo di far valere prima della formazione del secondo giudicato la presenza di un primo precedente giudicato, anche se parte della dottrina ritiene comunque che prevalga la prima, ma se entrambe sono passate in giudicato è la seconda che prevale.

Ci sono dei meccanismi di coordinamento a posteriori, ma qui potremmo anche dire, un momento! L'art. 395 si applica a contrasti di giudicati sulla stessa causa, ancora non c'è il caso di cui ci stiamo occupando, cioè il caso di contrasti tra controversie diverse legate da un rapporto di pregiudizialità.

Naturalmente, può darsi, che per queste controversie non ci sia quella possibilità in più che è quella dell'istanza di revocazione ordinaria, ma è sempre possibile far valere un giudicato sulla questione pregiudiziale del procedimento che ha oggetto la causa dipendente che naturalmente considerare viziata, impugnabile la sentenza che disattenda il precedente giudicato pur di far valere questa violazione nella misura in cui ciò e consentito attraverso il sistema dell'impugnazione ordinaria.

Ma viene da dire, se è vero che il legislatore non ha predisposto nessun rimedio speciale per reprimere a posteriori il mancato coordinamento di giudicati fra cause pregiudiziali e cause dipendenti. Se è vero. Può darsi di no! Poteremmo ritenere che l'art. 336 possa essere applicato estensivamente è un'idea tutt'altro che pellegrina, ma se è vero che non c'è nessun rimedio speciale per reprimere, perché ci deve essere un rimedio speciale per prevenire?

Qui pecchiamo per eccesso! Perché addirittura blocchiamo il procedimento per impedire che si avveri un rischio che poi non vogliamo reprimere se si avvera, .strano! Potremo pensare, forse, che c'è una qualche norma che assicura alla parte al diritto a conseguire un giudicato sulla controversia pregiudiziale prima del giudicato sulla controversia dipendente. Ma questa norma non c'è, perché l'art. 2909 c.c. mi consente di far valere il giudicato ad ogni effetto, ma non mi dice in nessun modo che ho diritto di ottenere un giudicato pregiudiziale prima di un giudicato dipendente, ci saranno pure, e ci sono certamente, le ragioni logiche che inducono a suggerire che il giudicato sulla controversia pregiudiziale spieghi un effetto vincolante nella controversia dipendente magari non valga invece in contrario, cioè che il giudicato sulla controversia dipendente non sia spendibile nella decisione sulla controversia pregiudiziale, cosa che la giurisprudenza non pensa molto volentieri, ma la dottrina ama pensare e ama dire per ragioni logiche o pratiche, perché è più facile vedere le implicazioni e le premesse di ciò che si sta discutendo e quindi quando discutiamo della controversia pregiudiziale più facilmente vediamo come saranno le implicazioni per le eventuali controversie dipendenti e quindi discutiamo quella controversia in modo da tenerne conto, mentre se discutiamo la dipendente è meno facile che abbiamo in mente tutte le possibili controversie pregiudiziali da cui questa può dipendere e quindi, si capisce che si abbiano maggiori riserve nei confronti del giudicato implicito sulle questioni pregiudiziali di merito, anche quando possano formare oggetto di autonomo giudizio che sovente si ritrova in giurisprudenza.

Però, resta il fatto che il diritto positivo non mi conferisce un diritto alla priorità cronologica dell'accertamento pregiudiziale, e qualcuno, infatti ha detto, che in realtà questa disciplina non ha l'obiettivo di favorire il coordinamento del giudicato, bensì, quello di favorire la giustizia delle decisioni, e questo, parte della dottrina lo ha detto sulla base di una ricostruzione che però è un po' opinabile della dinamica riproduttiva degli effetti della sentenza costitutiva.

Si muove dalla premessa che l'effetto costitutivo della sentenza si produca soltanto con il suo passaggio in giudicato, premessa diffusa, ma opinabile per alcuni non condivisa, salvi i casi in cui la legge espressamente disponga altrimenti, ciò non esclude, ovviamente che, l'effetto attributivo del bene della vita derivante dall'accoglimento della domanda costitutiva non possa essere magari anticipato quando sussistano ragioni d'urgenza, sicché, è dominante la tesi che ritiene possibile la tutela costitutiva in via d'urgenza al fine dell'ottenimento dell'effetto attributivo del bene della vita, ovverosia, per capirci: il fondo intercluso ha bisogno del passaggio, posso farmi autorizzare a passare anche con un provvedimento cautelare, ancorché la costituzione della servitù di passaggio si perfezioni, dal punto di vista della produzione degli effetti giuridici, magari col passaggio in giudicato della sentenza che accoglie la domanda per il merito.

Si diceva, che muovendo dalla premessa generale questi effetti si producono solo con il passaggio in giudicato, alcuni hanno detto, ma questa norma sulla sospensione serve a proteggere quella parte che ha bisogno della produzione degli effetti costitutivi, e quindi, deve attendere il passaggio in giudicato della sentenza  acciocché la parte possa far valere questi effetti costitutivi nel procedimento pregiudicato, però questo sarebbe abbastanza convincente se non fosse che, per un verso, appunto, è opinabile che gli effetti costitutivi si producano soltanto con il passaggio in giudicato nell'enunciato della pronuncia della sentenza, specialmente a seguito dell'evoluzione della generalizzata esecutività delle stesse, perché molti ritengono che anche gli effetti costitutivi si producano dal momento della pronuncia della decisione.

In secondo luogo, la disciplina non è formulata con alcuno specifico riferimento al problema della tutela costitutiva e quindi creare questo collegamento così stretto appare alquanto opinabile, e poi soprattutto, questo ragionamento fa di nuovo capo alla premessa che la disciplina di cui all'art. 295 sia diretta a permettere di far valere un effetto prodotto dal giudicato, e qui, bisogna leggere questa norma e dire dove l'art. 295 parli di giudicato! Perché l'idea che questo strumento sia diretto a favorire la teoria delle decisioni, sembra un'idea meritevole di essere sviluppata meglio, sottolineando che in questa norma non si parla affatto di giudicato. Il giudice sospende il processo, quando egli stesso o altro giudice devono risolvere un'altra controversia dalla cui definizione dipende la risoluzione della causa. Devono risolvere, decidere! Non si dice risolvere con efficacia di giudicato, non si dice decidere con efficacia di giudicato! Qui di giudicato non si parla e visto che giudicato non si parla, perché non possiamo provare a pensare che questa norma preveda in realtà, il diritto a far valere gli effetti di una diversa decisione anche se non passata in giudicato, cioè del tutto indipendentemente del suo passaggio in giudicato. Dobbiamo prestare omaggio alla volontà del legislatore storico? Certamente no! Il legislatore del '42 può aver scritto materialmente queste leggi! Nel '42 intendeva certamente riferirsi all'effetto di giudicato! Però gli è rimasto nella penna, non lo ha scritto, e se non lo ha scritto, noi possiamo, forse, interpretare questa disciplina nel modo più sensato per le condizioni di oggi, soprattutto in considerazione nella circostanza che si tratti di una disciplina viziata dal prevedere che non c'è spazio per l'interprete, la norma richiama nel prevedere l'automatismo della sospensione.

La norma è chiarissima nel senso di escludere qualsiasi margine di discrezionalità nel limitare al minimo, diciamo, i margini di discrezionalità del giudice nel disporre la sospensione. Su quello non si può lavorare! Non c'è spazio interpretativo! Ma c'è invece nell'individuarsi davvero che l'obiettivo sia nel coordinamento del giudicato, o se possa anche essere inteso come un obiettivo di mero coordinamento delle decisioni, il che dal punto di vista teorico è tuttaltro che insensato, perché si può benissimo aderire all'impostazione secondo cui la sentenza produce effetti, che vengono detti imperativi tradizionalmente, sin dal momento della sua pronuncia e del tutto a prescindere dal suo passaggio in giudicato, il che magari non necessariamente vuol dire spingersi a sostenere di giudicare soltanto una qualità degli effetti della sentenza. Ci sono effetti che si producono soltanto al momento del passaggio in giudicato della decisione.

Tuttavia, è perfettamente ammissibile che alcuni effetti si producano sin dal momento della pronuncia, effetti quali, per esempio, quello di far gravare sulla parte che intenda contestare delle implicazioni dell'attribuzione del bene della vita compiuta nella sentenza, e la decisione sulla causa pregiudiziale anche se non passata in giudicato. Un effetto che potremo dire persuasivo, che incide sugli oneri di argomentazione delle parti e sugli oneri di motivazione della decisione da parte del giudice.

Insomma, si potrebbe come, una parte della dottrina ha tentato più volte di dimostrare, che la sospensione per pregiudizialità ai sensi dell'art. 295, non necessariamente dura sino al momento del passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale, bensì può durare anche soltanto fino al momento della pronuncia sulla causa pregiudiziale. Però, per raggiungere questo obiettivo bisogna fare i conti con i dati del diritto positivo e qualche difficoltà la crea.

Per esempio un aggancio per sostenere che la sospensione per pregiudizialità cura soltanto un grado del giudizio è stato cercato da molti nel disposto dell'art. 337, cioè quello secondo cui quando l'autorità di una sentenza invocata in un  diverso giudizio, questo può essere sospeso laddove la sentenza sia impugnata. Questa norma, per i sostenitori della tesi tradizionale, cioè della tesi secondo cui la sospensione per pregiudizialità dura fino al passaggio in giudicato della decisione della causa pregiudiziale, si applicherebbe in quelle ipotesi in cui la sentenza sulla causa pregiudiziale sia investita di un'impugnazione straordinaria. Si dice! Finché dura il corso delle impugnazioni ordinarie, la causa dipendente deve essere sospesa finché non è arrivato in giudicato, se invece viene proposto l'impugnazione straordinaria allora la sospensione della causa pregiudicata diventa facoltativa e a sostegno di questa argomentazione c'è un argomento filologico, forte fino ad un certo punto, e cioè quello che ricollega questa norma al suo antecedente nel codice del 1865, ove si prevedeva pure una sospensione discrezionale e mai si faceva esplicito riferimento a quella disciplina all'ipotesi delle solo impugnazioni straordinarie, però quest'argomento è forte fino ad un certo punto, tutto sommato vale tanto quanto l'argomento che il legislatore del '42 era a conoscenza della formulazione limitativa contenuta nella norma del 1865, e si come tale prodotta, evidentemente ha volute eliminare questa restrizione, cioè rendere applicabile la disciplina della sospensione discrezione anche nell'ipotesi di impugnazione ordinaria.

A dire il vero, c'è un ulteriore argomento filologico più forte, e cioè la circostanza che l'art. 337 faccia specifico riferimento all'autorità di una sentenza e nel linguaggio invaso nella tradizione dottrinale, l'autorità della sentenza è l'autorità della cosa giudicata.

La sentenza non passata in giudicato è considerata provvista di un'efficacia ma non di un autorità, qui l'argomento è più forte da quello lessicale precedente, però è tutto sommato un argomento non così forte da costringerci a pensare che l'art. 337 non sia applicabile nei confronti dei casi di impugnazione ordinaria, perché, si ha parlato di autorità.una imprecisione..

Rimaniamo ancora nell'ambito delle forzature interpretative ammissibili, se noi riteniamo questa disciplina applicabile ai casi di impugnazione ordinaria. Però, come coordinare questo art. 337 con l'art. 295? Andrioli proponeva di coordinarlo in questo modo, diceva: "se la causa pregiudiziale sorge, o è dedotta prima che sia stata emanata qualsiasi sentenza sulla causa dipendente, allora si applica l'art. 295, e il procedimento relativo alla causa dipendente resterà sospeso fino al passaggio in giudicato della causa pregiudiziale, ma se invece, la causa pregiudiziale sorge nel momento in cui sulla causa dipendente si è già arrivati a sentenza, allora si applicherà l'art. 337, Andrioli era un grande avvocato e con questa espressione, senza dirlo esplicitamente evocava un aspetto abbastanza significativo della problematica, e cioè quando succede che questa causa pregiudiziale scoppi, quando la causa dipendente è stata decisa, puzza di bruciato è forte che questa sia tirata fuori soltanto per vantare la tutela dell'attore della causa dipendente.

Andrioli formulava questa tesi in un epoca in cui la sentenza di primo grado non era esecutiva, e questo già costituiva un incentivo alla proposizione dell'appello e quindi nel contesto di un appello, magari in già quanto tale proposto al fine di procrastinare l'esecutività della decisione, veniva anche evocata la necessità di attendere la decisione di una controversia pregiudiziale che ancora doveva cominciare e quindi una situazione cui era lecito sospettare che il convenuto da causa dipendente stia giocando sporco, perciò era sensato sentire al giudice in quell'occasione di evitare la sospensione.

Va anche menzionata una particolare interpretazione minoritaria secondo cui secondo cui l'art. 337 non si applica in casi di impugnazioni straordinarie, ma neanche in casi di vera e propria pregiudizialità di pendenza, bensì sarebbe diretto a favorire un coordinamento delle decisioni nelle ipotesi di connessione impropria, o comunque in quelle ipotesi di connessione che non rientrano nello schema stretto della pregiudizialità di pendenza.

La tesi di Montesano che cerca di quadrare in un'altra maniera il rapporto tra l'art. 295 e 337.

Ma torniamo alla tesi di Andrioli, per cui scatta il 295 se la causa pregiudiziale sorge nel contesto del giudizio di primo grado sulla causa dipendente, si applica il 337 se questa sorge nel contesto del giudizio di impugnazione della causa dipendente.

Sarebbe stato sensato in qualche modo se fosse stato, come si diceva: sospendo necessariamente quando la pregiudiziale sorge mentre la pregiudicata è in primo grado, sospendo facoltativamente se la pregiudiziale sorge quando la pregiudicata è in secondo grado, però il testo della norma, in realtà, non consente di arrivare proprio esattamente a questa deduzione, che un qualche senso magari c'è l'avrebbe, appunto perché potremo dire, che puzza di bruciato, la causa pregiudiziale che sorge quando è stata già decisa la causa pregiudicata, in realtà il testo della norma induce Andrioli a trovare un'interpretazione che consente di applicare largamente la 337 ai casi di pregiudizialità, ma che è un pochino diversa, perché in realtà è così. Si applica l'art. 295 quando la controversia pregiudiziale viene dedotta nella controversia pregiudicata e la controversia pregiudiziale non è stata ancora decisa, si applica il 337 quando nel contesto della controversia dipendente si deduce una controversia pregiudiziale che è stata già decisa. E qui il quadro è un po' diverso, non è proprio coincidente a quanto dicevamo prima in cui in effetti c'è puzza di bruciato, qui, se io sono l'attore della causa dipendente e voglio cercare di evitare che questa sia sospesa sino al passaggio in giudicato della decisione pregiudiziale, io devo cercare di proporre la mia domanda sulla causa dipendente dopo la decisione della causa pregiudiziale.

In realtà, qua, i margini di manovra non sono margini di manovra di colui che propone la domanda pregiudiziale per bloccare la causa dipendente, sono immagini di manovra di colui che deve proporre la causa dipendente quando già pende una causa pregiudiziale.

Il problema di Andrioli a me fa pensare ad un ufficio pubblico che sia aperto dalle 09.00alle 10.00, al 30° piano e l'ascensore inizia a lavorare alle 09.55, mi mette in difficoltà, io vorrei prendere l'ascensore per farmi 30 piani, ma rischio di arrivare a ufficio chiuso, ossia tutti gli incentivi che sono incentivi a ritardare la proposizione della controversia, sono incentivi molto discutibili, come anche sono discutibili i vari meccanismi che vanno a procrastinare l'esame del merito della causa ai tentativi di conciliazione. Perché soprattutto quando questi incentivi non mi consentono la produzione degli effetti della domanda giudiziale, perché qui devo proprio aspettare la domanda, io rischio che nel frattempo il diritto mi venga prescritto, che sopravvenga una decadenza, rischio di trovarmi l'ufficio chiuso quando prendo l'ascensore, cioè quando avrò proposto la causa aspettando la pronuncia della sentenza, cioè aspettando che partisse l'ascensore in modo da "prendere l'ascensore del 337", l'ascensore veloce, invece delle "scale dell'art. 295", e rischio però che nel frattempo il diritto me lo sono perso.

Per pensarne un'altra, bisogna soprattutto combattere con un particolare dato lessicale che è l'art. 297, esso è stato tradizionalmente considerato come l'indicatore più forte di tutti, nel senso che si debba attendere il passaggio in giudicato della decisione pregiudiziale, perché l'art. 297, regolando gli oneri di riattivazione del processo a seguito della cessazione della causa della sospensione contiene un provvedimento obsoleto con riferimento all'art. 3 del c.p. che non è stato mai coordinato e che si può considerare come non scritto, comunque, dice che il processo deve essere riassunto a pena di estinzione entro sei mesi dal passaggio in giudicato dalla cessazione della causa di sospensione o dal passaggio in giudicato della controversia sulla causa pregiudiziale.

Cessazione della causa di sospensione fa riferimento a quelle ipotesi di sospensione impropria, la conclusione del giudizio dinanzi alla corte costituzionale sulla questione di illegittimità costituzionale della norma da pronunciarsi sul regolamento di giurisdizione, di competenza e così via,.

Il passaggio in giudicato della causa pregiudiziale fa riferimento alle ipotesi di sospensione necessaria per pregiudizialità ex art. 295, questa norma sembrerebbe proprio indicare che in queste ipotesi la causa della sospensione cessa con il passaggio in giudicato della decisione sulla controversia pregiudiziale. Ma è proprio così? In realtà no! Perché, questa norma contempla un termine acceleratorio non un termine dilatorio, questa norma non contiene nessun termine dilatorio, cioè dice fino a quale momento ed entro quando il processo va riassunto a pena di estinzione, pone il dies a quem ma del dies a quo non dice niente, ossia, nulla dice questa norma in ordine agli effetti della riassunzione del procedimento sospeso, compiuta prima del passaggio in giudicato della causa pregiudiziale. La norma non ne parla! Pone certamente un termine acceleratorio, poi nel porre un termine acceleratorio è di manica larga, non fa fretta alla parte che sia interessata dalla riattivazione del procedimento prima di subire gli effetti dell'estinzione, devono passare sei mesi dal passaggio in giudicato della causa pregiudiziale, e in effetti a quel punto l'inattività della parte lascia desumere che sia venuto meno l'interesse alla riattivazione del procedimento, ma se la parte ha interesse a riattivarlo prima?

Faccio questo discorso, perché, sono convinto che la parola non impedisca in alcun modo di riassumere la causa prima del passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale.

Se letta in connessione con l'art. 295, nella parte in cui questa norma non fa riferimento alcuno al passaggio in giudicato della causa pregiudiziale, possiamo desumere che dal combinato disposto emerga una soluzione, del tutto sommato ragionevole nel contemperare l'interesse delle parti perché la causa della sospensione nell'ipotesi di pregiudizialità, può ritenersi cessata con la pronuncia della sentenza, sia pure della sentenza di primo grado sulla causa pregiudiziale, però, le parti non hanno l'onere di riattivare immediatamente dopo la pronuncia della sentenza sulla causa pregiudiziale a pena di estinzione, spetta a loro, in particolare a quella parte tra le due che abbia più fretta, decidere se convenga o meno correre il rischio di far conto su una decisione pregiudiziale che potrebbe essere caducata con l'impugnazione ordinaria, quindi ha un grado di instabilità certamente più elevato della decisione che sia passata in giudicato.

Se si tratta di soggetto avverso al rischio, comunque che non abbia particolare fretta, può tranquillamente aspettare, se preferisce riattivare il procedimento soltanto dopo essere entrato in  possesso di una sentenza munita e provvista dei pieni effetti di giudicato può tranquillamente aspettare che questo si formi, se invece ha fretta e li riassume prima, ecco allora che non vi è più bisogno di applicare l'art. 295, perché in questa ipotesi siamo invece nel campo di applicazione andrioliano dell'art. 337, che posso rendere applicabile senza bisogno di dover procrastinare la stessa proposizione della domanda; posso intanto proporre la domanda, salvo subire la sospensione necessaria, e poi riassumere un procedimento già attivato, ma rispetto al quale nel frattempo ho potuto contare sull'effetto della domanda, posso riassumerlo dal momento in cui è resa una sentenza ancorché pure soggetta da impugnazione ordinaria, sulla controversia pregiudiziale.

Tutto questo, pur forzando la mano del dettato normativo, ci consente di condurre un po' di più a ragionevolezza, della disciplina della sospensione necessaria, facendo in modo, che se non altro, un certo margine di discrezionalità, subordinato all'iniziativa della parte, e quindi pure subordinato al generale principio dell'impulso di parte, possa operare anche nel contesto della sospensione per pregiudizialità. Si tratterebbe, insomma, di uno strumento interpretativo, più efficiente di quello strumento correttivo e repressivo che è dato dall'introduzione del regolamento di competenza, che anzi, in larga misura è controproducente, è ha rischiato persino di essere il rimedio peggiore del male se fossero passate certe interpretazioni, perché nel momento in cui un provvedimento viene qualificato come un provvedimento impugnabile, succede che la decisione sullo stesso acquista gradi di stabilità che prima non aveva proprio perché il provvedimento è impugnabile, una volta che non sia stato impugnato o che l'impugnazione sia stata respinta.

In precedenza era pacifico che il provvedimento di sospensione avesse carattere meramente ordinatorio e fosse quindi pienamente revocabile in qualsiasi momento anche dal giudice che l'avesse emesso, dal momento in cui è stata introdotta, invece, la possibilità di proporre regolamento di competenza, si è cominciato più seriamente a dubitare di una sua revocabilità, anzi, l'orientamento prevalente è in giurisprudenza, oggi è nel senso che il provvedimento di sospensione non possa essere revocato, ma il provvedimento è senz'altro passibile di revoca quando mutino le circostanze che lo hanno reso necessario e giustificato, sicché ad esempio, se ci troviamo nell'ipotesi di, in cui in realtà questo non è applicabile: la causa pregiudiziale è giunta in grado d'appello e quindi in parte fa sorgere la controversia pregiudiziale allo scopo di rallentare la definizione del giudizio d'appello, che consegue una sospensione necessaria per pregiudizialità, in teoria questa causa in appello dovrebbe restare ferma finché la pregiudiziale esaurisce il suo corso, ma siccome è fortemente probabile, che fra cause connesse per ragioni di pregiudizialità, comunque si abbia la stessa competenza, è anche fortemente probabile che l'impugnazione della sentenza sulla causa pregiudiziale debba essere riconosciuta dallo stesso giudice investito dell'impugnazione della sentenza sulla causa pregiudicata, e allora, in grado d'appello è possibile l'applicazione dell'art. 274, in forza del rinvio alla generale applicabilità delle norme sul procedimento in primo grado e quindi è possibile disporre la riunione presso lo stesso giudice o addirittura presso la stessa sezione o magistrato di cause connesse pendenti presso lo stesso ufficio giudiziario. Questa riunione può consentire la realizzazione a posteriori, nel corso dello svolgimento del procedimento del processo simultaneo, e quindi, le due cause potrebbero essere riunite e potrebbero conseguentemente essere revocate, da quella sospensione della causa pregiudiziale che trovava la sua condizione negativa  nell'impossibilità di trattarle in un  unico processo, quindi deve essere concessa anche nell'ipotesi in cui il provvedimento è stato confermato dalla Corte di Cassazione, la regola dell'ordinanza di sospensione quando possiamo riunire in grado di impugnazione le controversie in un unico processo.

Ma si è rischiato anche di peggio! Si è rischiato che il provvedimento, come parte della dottrina aveva proposto, considerato come un provvedimento di tipo decisorio, che di conseguenza dovesse assumere anche la forma della sentenza, con ulteriore implicazione che quindi le pronunce sulle istanze di sospensione dovessero assumere forma di sentenza, sia nell'ipotesi in cui la sospensione venisse disposta, sia nell'ipotesi in cui l'istanza di sospensione venisse rigettata e quindi risultasse soggetta a regolamento di competenza anche l'ordinanza di rigetto dell'istanza di sospensione, talché avremo avuto il rimedio peggiore del male, perché, a quel punto la parte in malafede altro non aveva da fare che produrre istanza di sospensione e a seguito del rigetto proporre regolamento di competenza e lucrare sull'effetto sospensivo del regolamento di competenza ai sensi dell'art. 48, cioè non ci sarebbe stato modo di evitare la sospensione, perché o la si concedeva, oppure la si otteneva come conseguenza dell'impugnazione del provvedimento di rigetto.

Per fortuna queste interpretazioni non sono state accolte ed è assolutamente assodato in giurisprudenza che i provvedimenti di rigetto dell'istanza di sospensione non siano soggetto a regolamento di competenza perché la ratio della disciplina è quella di consentire un riesame dei provvedimenti che rallentano lo svolgimento del processo sul presupposto che nell'ipotesi in cui sia invece omessa una sospensione dovuta, la parte che ne sia vittima trovi comunque un rimedio nella successiva declaratoria di nullità degli atti compiuti in derivazione dell'obbligo di sospensione del processo, mentre la parte che sia vittima della sospensione non dovuta, non aveva alcuno strumento per tornare in possesso del tempo perduto, e quindi solo in quell'ipotesi si rendeva particolarmente importante offrire uno strumento di tutela consistente nella facoltà di conseguire un riesame della decisione presso un giudice diverso.

Però anche se non sono passate interpretazioni pericolose, lo strumento del regolamento di competenza riamane un rimedio incongruo per rendere razionale la disciplina della sospensione. Perché mentre l'obiettivo della razionalità andrebbe perseguito incrementando la discrezionalità del giudice del merito nel disporre o meno la sospensione nei casi in cui la legge imponga che venga pronunciata, non è affatto congruo prevedere un riesame in sede di legittimità, potendo anche immaginare un esame davanti ad un giudice diverso, un esame proprio dinanzi alla Corte di cassazione che è giudice della legalità, e quindi è giudice del cui riesame necessariamente conculca gli aspetti di discrezionalità della decisione, perché la cassazione è appunto il giudice dell'esatta uniforme osservanza delle norme di diritto, è il giudice che deve applicare le norme in modo generalizzato, deve prendere decisioni che non tengano conto dei dettagli del caso concreto e che quindi non può tener conto delle apparenze di fondatezza o delle prognosi intorno all'esito della controversia pregiudiziale, può tenere conto soltanto degli astratti dei rapporti logici sussistenti fra le controversie, non può e nemmeno potrebbe, perché non appartiene al ruolo della cassazione, delibare le apparenza di fondatezza, perciò si finisce in un certo senso, per andare incontro a soluzioni paradossali, succede che questo strumento non è passibile di applicazione estensiva a tutte le ipotesi in cui la sospensione sia discrezionale e questo non desta particolari problemi per tutte quelle ipotesi in cui è prevista dalla legge una sospensione discrezionale.

Ma che dire delle ipotesi in cui la giurisprudenza ritiene possibile una sospensione discrezionale anche in mancanza delle previsioni legislative? Sono impugnabili questi provvedimenti o no? Paradossalmente la giurisprudenza, secondo poi alla fine si rende conto che le discrezionalità non sono così brutte come le si dipingono, spesso è di manica larga e dice che questi provvedimenti sono per definizione non impugnabili, perché non sono previsti ai sensi dell'art. 295, in realtà sarebbe più congruo dire che quando sono resi al di fuori dei casi previsti dalla legge dovrebbero essere invece impugnabili perché resi in mancanza di presupposti di legge per renderli, però, non ci si può neanche scagliare troppo nei confronti della giurisprudenza della cassazione che un po' formalisticamente si ricollega alle circostanze che sia esplicitamente previsto il controllo solo sulle sospensioni ex art. 295, e d'altronde è quello il controllo che noi facciamo bene, e lo facciamo al punto che dichiariamo inammissibili i procedimenti di fatto, prediamo di tutela anche di quella tutela consistente della facoltà di riesame della pronuncia presso giudice diverso, la parte che sia vittima di sospensione pronunciate al di fuori dei casi previsti dalla legge.

Abbastanza controversa è soprattutto la possibilità di applicare questa disciplina alle ipotesi di sospensione che sono tutelate dalla legge 218/95, laddove si contempla la ura della sospensione nell'ipotesi di litispendenza internazionale, cioè nell'ipotesi che la stessa causa penda innanzi ad un giudice straniero, e di sospensione per l'ipotesi in cui una causa connessa sia pendente dinanzi ad un giudice straniero. L'ipotesi di sospensione per connessione è quella più vicina all'ipotesi di sospensione per pregiudizialità, cioè il giudizio è sospeso perché pende causa pregiudiziale, però qui, la norma esplicitamente prevede la facoltatività del potere di sospensione, e lo stesso fatto che questa sospensione sia di carattere discrezionale dovrebbe escludere la facoltà di consentirne il riesame attraverso l'impugnazione del relativo provvedimento del regolamento di competenza.

Più delicato è il caso della sospensione della litispendenza internazionale, perché qui si prevede che il giudice sospenda, ma sospenda in tanto in quanto ritenga che la decisione possa essere riconosciuta in Italia, e qui ci si trova di fronte a una norma che introduce una discrezionalità nella forma di una prognosi, questa volta non più soltanto sul contenuto della decisione attesa, ma anche intorno alla sua riconoscibilità, la circostanza che si effettui questa prognosi rende la disciplina di questa sospensione razionale e a mio avviso esclude che si renda necessario ricorrere a questo anomalo strumento che è il regolamento di competenza, come invece per la cassazione la ratio decidendi era quella di adottare per inammissibilità dei regolamenti di giurisdizione, con cui si cercava di far valere la litispendenza internazionale sul presupposto che questa creasse una questione di giurisdizione e in quei contesti la giurisprudenza era animata dall'intento di dissuadere la proliferazione dei ricorsi per regolamento di giurisdizione, assieme a quello di competenza essendo congruo che sia confinato esclusivamente al riesame delle sospensioni ai sensi dell'art. 295 e tuttalpiù di quelle sospensioni discrezionali che in realtà vengono compiute al di fuori di qualsiasi presupposto di legge compresi quelli che legittimano il ricorso alla sospensione facoltativo o discrezionale.

·    L'interruzione del processo

Tradizionalmente la disciplina dell'interruzione del processo è preposta a garantire l'effettività del contraddittorio, con questa locuzione classica in dottrina si allude che questa disciplina tenda a far si che la parte abbia, se vuole difendersi attivamente, la concreta possibilità di decidere se farlo e farlo efficacemente. Pertanto, precede che in occasione di una serie di eventi, tassativamente indicati dal legislatore, (si produca un fenomeno avente effetti giuridici analoghi a quelli della sospensione, e cioè appunto, un arresto dello sviluppo sequenziale del procedimento con divieto di compiere atti che in sospensione del decorso dei termini fatta eccezione per la sospensione per gli atti e i termini relativi per la riattivazione del procedimento interrotto), dai quali si può desumere che vi possano essere difficoltà per la parte di difendersi o vi sia la necessità per la parte di ripensare alle sue strategie difensive.

In concreto di quali eventi si tratta! Per un verso di eventi che pregiudicano la capacità della parte di difendersi perché colpiscono il procuratore legalmente costituito e per latro verso gli eventi che incidono sulla parte, o perché si tratta di vicende successorie e sicché bisogna dare spazio di tempo al successore per decidere se ripensare alla strategia difensiva, ovvero di vicende non pur avendo carattere successorio comportano un mutamento della persona che prende le decisioni.

Per quanto riguarda gli eventi relativi alla parte personalmente, si tratta di casi di:

- morte;

- perdita della capacità della parte o del suo legale rappresentante;

- cessazione della rappresentanza legale, un'ipotesi assai frequente tutte le volte che la parte sia un minore e dato che il processo dura a lungo è inevitabile che prima o poi con il conseguimento della maggiore età cessi la rappresentanza legali dei genitori e si possa produrre un fenomeno interruttivo del processo.

Spesso l'evento interruttivo ha anche un carattere successorio sicché si presenta l'ulteriore problema per cui la riattivazione del procedimento deve avvenire nei confronti di persona diversa da quella nei cui confronti il procedimento pendeva in precedenza, fermo restando che occorre distinguere tra la vicenda successoria in quanto tale e la vicenda interruttiva, perché, la vicenda successoria non necessariamente produce un effetto interruttivo, cioè in quanto bisogna distinguere due diverse ipotesi. L'ipotesi in cui la parte sia costituita a mezzo di procuratore e un caso in cui, per così dire, in cui la parte non è completamente scoperta, perché c'è comunque un procuratore costituito in giudizio che ha la situazione sotto controllo e può ben darsi che sia nell'interesse della parte evitare perdite di tempo, pertanto, l'effetto interruttivo in quest'ipotesi si produce se e soltanto se l'evento viene dichiarato in udienza dal procuratore legalmente costituito o notificato alle altre parti. Questa dichiarazione costituisce l'esercizio di un diritto ovviamente potestativo esercitato dal difensore nell'esercizio discrezionale dei suoi poteri, che ovviamente devono essere concordati con la parte, ma l'eventuale violazione degli accordi con la parte deve poi rilevare in sede di responsabilità professionale del difensore nei confronti della parte stessa, perché una volta dichiarato l'evento o non dichiarato non si potrà far valere la violazione di patti in pregiudizio degli avversari.

In mancanza della dichiarazione in processo non risulta la vicenda successoria e si applica la regola per cui la sentenza produrrà i suoi effetti anche nei confronti della parte che è succeduta alla parte originale, così come accade quando si ha una vicenda successoria non produttiva di effetti interruttivi, perché, per esempio, si tratta di un trasferimento a titolo particolare per atto tra vivi, per cui ai sensi dell'art. 111 si applica la regola per cui la sentenza produce i suoi effetti anche nei confronti del successore a titolo particolare ancorché costui non sia mai intervenuto nel giudizio proseguito fra le parti originarie.

Se l'evento viene appunto dichiarato in udienza, il processo è interrotto e si renderà necessario la sua riattivazione che può avvenire in due forme diverse a seconda se la riattivazione avvenga su iniziativa della parte colpita dall'evento o dai suoi successori, ovvero su iniziativa della parte avversaria.

La parte colpita dall'evento o i suoi successori possono riattivare il procedimento nella forma della costituzione in prosecuzione, la parte avversaria invece riattiva il procedimento nella forma dell'atto di riassunzione di cui occorre ricordare soprattutto una peculiarità, e cioè un aspetto della disciplina positiva, che è diretta, a venire incontro alle difficoltà dell'avversario e nell'ipotesi della vicenda successoria, abbia problemi ad individuare quale specificamente sia il legittimato passivo rispetto al diritto controverso, si prevede pertanto, all'art. 300, che in questi casi la riassunzione possa essere compiuta e notificata collettivamente impersonalmente agli eredi della parte defunta nell'ultimo domicilio della stessa, si tratta di una disposizione di favore per la parte avversaria.

Può ben darsi che queste attività vengano compiute, e che possono essere compite validamente, prima che si produca l'evento per effetto interruttivo, cioè prima che il difensore della parte colpita dall'evento lo dichiari in udienza e così compiuta con l'effetto di impedire a priori che alcun effetto interruttivo si produca, cioè, se gli avversari sono a conoscenza del decesso della parte, possono per così dire "tagliare la testa al toro", quando il difensore non da alcuna dichiarata in udienza, e preventivamente impedire che si produca l'effetto interruttivo, provvedendo da soli a compiere un atto di riassunzione che in questo caso è efficace e vale addirittura a prevenire la produzione dell'effetto interruttivo.

Questo, invece non è possibile tutte le volete che l'evento colpisca la parte prima della sua costituzione in giudizio, perché, in tali ipotesi, invece, l'effetto interruttivo si produce automaticamente e senza  bisogno di alcuna dichiarazione in udienza sul presupposto, appunto che in questi casi la situazione non sia sotto controllo da permettere al difensore della parte interessata, di disporre dei tempi dell'effetto, questo si produce automaticamente, come per altro la possibilità per l'avversario di salvare in ogni caso la situazione, agli effetti della domanda inizialmente proposta tramite la riassunzione, più tragico è il caso dell'avversario che si presenta quando la parte deceda prima ancora della notifica dell'atto di citazione.

Ci sono dei tempi tecnici tra il momento in cui si consegna all'atto di citazione all'ufficiale giudiziario, finché provveda alla notificazione e in quello in cui la notificazione viene eseguita, se la controparte muore prima che si perfezioni il procedimento notificatorio, allora in questo caso abbiamo perduto anche gli effetti della domanda, perché non si può nemmeno salvare la pendenza del processo riassuntivo, qui, si tratta seccamente di un processo promosso contro parte inesistente, perché defunta al momento della notificazione della citazione, e in questo caso sfortunato non rimane altro che ricominciare tutto da capo con un nuova citazione nei confronti della parte avversaria, citazione che è, naturalmente più onerosa dell'atto di riassunzione, perché l'atto di riassunzione contiene certamente il riferimento agli atti interruttivi del giudizio interrotto, ma è l'atto più semplice da redigere perché può essere redatto, per così dire de relato, cioè richiamandosi a quanto già scritto nell'originario atto di citazione.

Particolare è l'ipotesi in cui evento relativo alla parte colpisca una parte contumace ed in questo caso la disciplina è protettiva della parte contumace fino ad un certo punto, perché si muove dalla premessa che fino a prova contraria la contumacia non costituisca una scelta volontaria della parte, e quindi, l'effetto interruttivo si produce nel momento in cui viene acquisita in processo notizia dell'evento stesso per effetto della relata di notifica compiuta dall'ufficiale giudiziario, allorquando costui si reca  a notificare personalmente gli attiche per legge devono essere notificati personalmente.

Quali sono questi atti? C'è un elenco che si può memorizzare, ma si ricorda bene se si tiene presente che si tratta di tutti quegli atti del processo rispetto ai quali la passività della parte comporta specifiche conseguenze sfavorevoli, e quindi si tratta del deferimento dell'interrogatorio formale, perché la mancata presentazione della parte personalmente a rispondere dell'interrogatorio formale, che, se è senza giustificato motivo, comporta come conseguenza che si ritengano ammessi, confessati; il deferimento del giuramento decisorio, rispetto al quale la mancata presentazione della parte ha gli stessi effetti; la proposizione di domande nuove o riconvenzionali, che pongono il problema di scegliere se è il caso di costituirsi in giudizio e dar luogo a una strategia difensiva più attiva, non era previsto, ma introdotto dalla Corte Costituzionale, che debba anche essere notificata, al contumace, notizia del deposito di scritture private, poiché, rispetto alla scrittura privata la mancanza di tempestivo disconoscimento produce l'effetto del riconoscimento tacito della scrittura stessa, anche quando il mancato disconoscimento sia la conseguenza della scelta della parte di restare contumace.

A dire il vero la legge consentiva e consente tuttora, al contumace di disconoscere anche tardivamente le scritture prodotte contro di lui a seguito della sua costituzione tardiva, ma ovviamente sempre che si costituisca e questo dal punto di vista dell'effettività del contraddittorio ha senso in tanto in quanto egli sappia dell'avvenuto deposito di scrittura nei suoi confronti, quindi l'effetto interruttivo nei confronti del contumace si produce quando avviene la relata di notifica, ovvero a seguito di notificazione dell'evento alle altre parti, notificazione che può essere compiuta da parte degli eredi del successore della parte colpita dall'evento, o da colui che abbia acquisito la capacità. Tutti questi eventi producono effetto interruttivo in tanto in quanto si manifestino entro la chiusura della discussione, sul presupposto che nel corso della fase decisoria non vi sia spazio per l'attività difensiva di parte, e quindi non vi sia ragione per garantire l'effettività del contraddittorio dopo la chiusura di questa fase.

Sulla base di un ragionamento analogo, la giurisprudenza tende ad escludere l'applicabilità della disciplina dell'interruzione, anche all'intera fase del procedimento innanzi alla Corte di Cassazione, sul presupposto che il ricorso per cassazione è attivato per iniziativa di parte, ma una volta attivato il procedimento si accoglie animato dall'impulso d'ufficio, quindi non richieda la protezione della garanzia dell'effettività del contraddittorio fra le parti. Si tratta però di una forzatura, perché questa garanzia dovrebbe ritenersi protetta anche a prescindere dall'esigenza di assicurare al processo l'impulso delle parti, così ha detto a lungo la dottrina, e in effetti, la Cassazione in alcune particolari ipotesi, ha ammesso che l'effetto interruttivo potesse prodursi, però, in un ipotesi di carattere estremo in cui si era avuto contemporaneamente il decesso della parte e anche dell'unico procuratore abilitato alla sua difesa.

Occorre notare, infine, a proposito dell'elenco degli eventi interruttivi relativi alla parte, che non rilevano quegli eventi che discendono da mere manifestazioni di volontà della parte, perché non si può concedere alle parti, di potere a loro arbitrio, produrre effetti interruttivi del procedimento, pertanto noterete, se fate riferimento alla cessazione della rappresentanza legale, non produce effetto interruttivo alcuno la cessazione della rappresentanza volontaria e nemmeno la cessazione della rappresentanza organica della persona giuridica, sul presupposto che ovviamente ci sia sempre qualche sostituto del rappresentante organico cessato dalle funzioni, che in qualche modo in forza della disciplina della rappresentanza della persona giuridica possa parlare anche della stessa, resta il fatto però che si riconosce valenza interruttiva a eventi analoghi alla morte riferibili alla persona giuridica, cioè quegli eventi produttivi del fenomeno successorio con riferimento alla persona giuridica ancorché si cerchi poi di individuarne il momento in modo da non lasciare eccessivamente all'arbitrio della parte la produzione dell'effetto interruttivo, comunque si può pensare che l'estinzione della persona giuridica possa eventualmente, come la morte, produrre l'effetto interruttivo. Però occorre rimarcare che un problema di questo tipo si pone frequentemente, con riferimento alle ipotesi in cui l'evento interruttivo colpisca la persona del difensore o procuratore legalmente esercente, in quest'ipotesi è chiaro che l'evento interruttivo produce i suoi effetti sempre automaticamente a prescindere da qualunque dichiarazione, perché, se l'evento colpisce il difensore è ovvio che non si può far gravare su di lui l'onere tutelare, e gli eventi tassativamente indicati dal legislatore sono: la morte, la sospensione o la radiazione dall'albo, che causano la perdita del cosiddetto ius postulandi.

Non producono invece effetto interruttivo, l'interdizione per esempio, del procuratore legale, se l'avvocato diventa pazzo non c'è nessun intervento interruttivo, comunque l'effetto si pronuncia solo quando il consiglio dell'ordine abbia preso provvedimento sanzionatorio nei confronti dell'avvocato che non sia più in grado di esercitare la professione, spetta soltanto all'Ordine deciderlo attraverso le irrogazioni delle sanzioni previste dalla legge.

Molto si è discusso, però, dell'ipotesi di cancellazione dall'albo, perché, nella disciplina professionale vigente al momento dell'emanazione del codice del '42, la cancellazione dall'albo era un provvedimento conseguente esclusivamente a manifestazioni di volontà del procuratore, il quale per esempio cambiava residenza e si trasferiva pertanto dall'albo di un tribunale all'albo di altro tribunale, non per effetto della disciplina allora esigente dello ius postulandi con riferimento al contenzioso pendente presso il tribunale da cui si era cancellato, questo non poteva giustificare l'interruzione perché alla fine sarebbe stato sufficiente munirsi di un difensore dal domicilio erratico per bloccare il processo sine die, però a seguito di riforme successive dell'ordinamento professionale, si è introdotta una qualificazione di cancellazione di carattere sanzionatorio.

Quando la cancellazione dall'albo sia una conseguenza di un provvedimento sanzionatorio si ha qualche difficoltà a continuare ad affermare la tassatività dell'elencazione legislativa delle cause di interruzione del processo.

La riattivazione del procedimento deve avvenire entro un termine perentorio a pena di estinzione del processo, ma quando decorre questo termine? Qui occorre ricordare una giurisprudenza della Corte Costituzionale degli anni '70, che ha modificato il dettato legislativo precisando che il termine per la tempestiva riassunzione decorre dal momento dell'interruzione del processo, tutte quelle volte in cui l'interruzione del processo, a sua volta, coincide con l'acquisizione al processo della notizia dell'evento interruttivo, quindi se l'effetto interruttivo si produce quando il procuratore dichiara in udienza l'evento che ha interessato la parte assistita, è anche dal quel momento che decorre il termine per la riassunzione a pena dell'estinzione del procedimento, perché l'effetto interruttivo qui già coincide con il verificarsi dell'evento, ma con l'acquisizione al processo della sua notizia è fonte di conoscenza legale per tutte le parti che hanno l'onere di partecipare all'udienza e se non si accorgono di quello che succede è un problema loro, come si dice! Ma in quelle occasioni in cui invece l'effetto interruttivo si produce automaticamente e a prescindere dall'acquisizione al processo della notizia dell'evento e cioè tutte le volte in cui  questo sia la conseguenza di un evento che colpisca la parte prima della sua costituzione in giudizio e sempre, naturalmente, prima della sua dichiarazione di contumacia perché altrimenti l'effetto interruttivo discende dall'acquisizione al processo della notizia dell'evento, ovvero, in tutti quei casi in  cui l'interruzione sia prodotta da un evento che colpisce il procuratore legale e quindi, di nuovo, si produca automaticamente, il termine per la riassunzione decorre dal momento in cui la parte abbia conoscenza legale dell'evento stesso, principio che si applica per il termine per la riassunzione del procedimento sospeso, anche qui il termine ai fini della riassunzione decorre dal momento in cui si abbia la conoscenza legale della cessazione della causa della sospensione, e non come formulava la norma dalla conoscenza legale della cessazione.

Gli effetti giuridici dell'interruzione sono analoghi a quelli della sospensione, ma volendo approfondire possiamo notare qualche differenza, perché qui la disciplina è posta a garanzia all'effettività del contraddittorio, quindi mentre si può immaginare che la disciplina della sospensione protegge interessi che vanno anche al di la di quelli immediati delle parti, quindi interesse generale all'economia dei giudizi, sembrerebbe che, la disciplina dell'interruzione protegga specificamente gli interessi di una parte, e cioè quella parte colpita dall'evento, però poi, capita di leggere che comunque che qui c'è in ballo una garanzia, che la tutela delle garanzie è una tutela da realizzarsi nell'interesse pubblico, perché si fanno questi strani discorsi?

Il problema si può impostare in un modo un po' più moderno, osservando che quella che è in gioco è una nullità appartenente alla categoria delle cosiddette nullità di protezione, che nel diritto sostanziale vanno proliferando soprattutto per effetto dell'espansione del diritto di fonte di derivazione comunitaria, e questo fenomeno è un fenomeno in cui vi sono invalidità degli atti, che derivano dalla violazione di norme poste nell'interesse, fondamentalmente, di una parte che sono dirette a proteggere questa parte da una situazione di debolezza in guisa tale da far si  che il relativo vizio sia anche rilevabile d'ufficio, ma pur sempre nell'interesse della parte protetta e non nell'interesse dell'avversario.

Questo tipo di disciplina è frequente in materia di tutela dei consumatori, degli utenti, dei rapporti su fornitura, in molte occasioni cui si ritenga che la parte è molto più debole dell'altra, e la nullità che è rilevabile d'ufficio, ma solo a vantaggio di una parte, un fenomeno analogo si presenta in questa situazione, perché la nullità dell'atto compiuto nonostante l'interruzione del processo, è una nullità che il giudice possa rilevare d'ufficio, perché altrimenti, faremmo gravare l'onere di far valere la nullità proprio sulla parte che si trova in difficoltà difensiva, perciò la conseguenza giuridica della violazione delle norme sull'interruzione del processo, a mio avviso deve essere comunque qualificata come una nullità assoluta e rilevabile d'ufficio, ancorché le norme siano poste nell'interesse di una parte sola, rimane, tuttavia, una asimmetria tra le parti, perché è costante e condivisibile l'orientamento per cui, la violazione della disciplina dell'interruzione non può utilmente fatta valere dall'avversario della parte colpita dall'evento, e questo anche nell'ipotesi in cui, a prescindere dal principio della soccombenza che è il generale requisito necessario per l'impugnazione delle sentenze e quindi far valere l'eventuale nullità della sentenza  resa nonostante l'interruzione del processo, ed è resa appunto perché nessuno si è accorto dell'evento interruttivo verificatosi automaticamente a prescindere dall'acquisizione al processo della sentenza.

Questa nullità, si diceva, può essere fatta valere dalla parte in sede d'impugnazione della sentenza in tanto in quanto l'impugnazione sia possibile ad opera di parte che sia soccombente, ma può essere fatta valere soltanto dalla parte colpita dall'evento e non a proprio vantaggio dall'avversario della parte colpita dall'evento.

·    L'estinzione del processo

È un fenomeno che si ricollega ad un'idea non banale, noi in astratto potremmo immaginare che rientri nella piena disponibilità delle parti interessate la scelta di avviare o meno il processo, in questo modo, certamente, potremo ritenerci a posto con il principio dispositivo in senso sostanziale.

Non è detto che questo principio ci debba spingere e ci costringa anche ad ammettere che le parti possano anche impedire che il processo si concluda con la pronuncia sul merito, cioè potremmo pensare che una volta avviato il processo la cosa sia nelle mani dell'autorità giudiziaria e debba essere a questo punto risolta nel merito. È un idea che ha suoi vantaggi o svantaggi, perché il suo vantaggio evidente è quello economico, perché se noi consentiamo alle parti di fare marcia indietro ci esponiamo all'eventualità che poi venga ricominciato il processo che si continui con un "dentro/fuori" che fa sprecare risorse giurisdizionali, allunga i tempi di quanti sono in attesa che gli uffici giudiziari diano a loro ascolto, però c'è qualche controindicazione tra cui la principale è quella della claustrofobia, disincentiveremmo fortemente il ricorso alla giustizia come strumento di risoluzione delle controversie se le parti avessero il timore che una volta entrati nel processo, poi non se ne possa più uscirne, inoltre una regola in questo senso finirebbe anche per fomentare strategie delle parti che impediscano comunque la pronuncia del merito della causa attraverso il compimento di atti nulli appositamente, allo scopo di impedire la pronuncia della causa nel merito e per rimediare a questa nullità si dovrebbe incrementare il potere del giudice di sostituirsi alle parti nel compimento degli atti, e alla fine questa soluzione finirebbe per costare di più di quanto potrebbe rendere, e quindi il principio dispositivo in senso sostanziale è accomnato largamente da un principio dispositivo in senso processuale più o meno attenuato con la conseguenza che, pur non essendo il processo completamente cosa delle parti, e sebbene che i poteri delle parti possano essere integrati dai poteri del giudice di direzione dell'udienza, dal potere del giudice di fissare autonomamente l'udienza successiva, o di integrare materiale probatorio introdotto dalle parti al fine di rendere una decisione che più accuratamente applichi il diritto sostanziale, però, si ritiene soprattutto che il principio dispositivo la regola per cui il processo rimane soggetto in larga misura all'impulso di parte.

Quindi una pronuncia sul merito non ha luogo quando le parti omettano di coltivare il procedimento nel corso del suo procedimento, salve le particolari ipotesi in cui si possa giustificare l'impulso d'ufficio successivo all'attivazione del procedimento da parte delle parti come ad esempio nel giudizio di legittimità presso la Corte di cassazione.

Durante le fasi di merito, pertanto, è richiesto alle parti di coltivare il processo e l'eventuale inattività delle stesse comporta che il processo venga definito senza una pronuncia sul merito e con pronuncia in mero rito.

La disciplina dell'inattività delle parti, si può conurare in vario modo, richiedendo una maggiore o minore intensità della coltivazione del processo da parte delle parti, il caso più significativo è quello dell'ipotesi della deserzione bilaterale all'udienza, in cui la disciplina positiva ha visto continui andirivieni nel testo del codice in ordine all'opportunità o meno di prevedere che nell'ipotesi in cui all'udienza non si presenti nessuna delle parti si abbia o meno l'immediata estinzione del processo, oggi vale ancora la regola che la deserzione bilaterale non comporta immediatamente l'estinzione del processo e la stessa si produce allorquando la deserzione venga reiterata e quindi non si presenti nemmeno all'udienza successiva automaticamente fissata dal giudice.

Le varie ipotesi di estinzione per inattività delle parti conurate dal codice sono articolate in maniera abbastanza complessa, perché la disciplina è frutto di un gran numero di compromessi, sicché si distingue in particolare l'ipotesi di estinzione mediata dall'ipotesi di estinzione immediata, a seguito del mancato compimento degli atti da parte delle parti, in varie ipotesi e in generale, quando si abbia la violazione di un termine perentorio fissato per l'estinzione, per esempio nell'ordine di integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorzio necessario, si produce l'estinzione del processo immediatamente, ma in alcune particolari ipotesi, per esempio quella della mancata costituzione in giudizio di entrambe le parti, l'effetto che si produce è quello della quiescenza del processo, con possibilità di riattivazione dello stesso entro un termine annuale attraverso atto di riassunzione e producendosi quindi l'estinzione, solo a seguito dell'inutile decorso di quest'ulteriore termine annuale, il che accade anche in varie ipotesi in cui sia prevista la cancellazione della causa dal ruolo, come ad esempio per la mancata evocazione in giudizio della parte il cui intervento sia ordinato dal giudice ai sensi dell'art. 107, si tratta di varie ipotesi di intervento che ne parleremo in futuro nella disciplina di pluralità di parte delle varie modalità di formazione e di ingresso di nuove parti nel processo.

Comunque il caso che si ricorda bene, distinzione tra litisconsorzio necessario e intervento per ordine del giudice, l'omissione dell'indicazione contraddittoria nei casi del 102 di litisconsorzio necessario = estinzione immediata, nei casi del 107 di intervento per ordine del giudice invece c'è cancellazione dal ruolo e quiescenza annuale del processo con possibilità di riattivazione e quindi l'estinzione mediata del processo solo a seguito dell'inutile decorso dell'ulteriore termine annuale dal momento della cancellazione dal ruolo.

Particolarmente delicato, poi è, l'aspetto della circostanza che a seguito di varie riforme e controriforme alla ricerca di un punto di equilibrio di questa disciplina, nel '50 fu introdotta la regola per cui l'eccezione di estinzione non è rilevabile d'ufficio, anzi, l'estinzione, va eccepita preliminarmente, prima di ogni altra difesa, e si finì per trasformare la disciplina dell'estinzione in una tendenza a favorire la pronuncia sul merito della causa, perché finisce per rendere possibile, attraverso il meccanismo della mancata sollevazione dell'eccezione di estinzione, il recupero di procedimenti nei confronti dei quali si fossero compiuti gli atti anche produttivi di nullità, che avrebbero resa necessaria un pronuncia assolutoria dell'osservanza del giudizio, naturalmente se si muove dalla premessa che non possiamo costringere le parti alla pronuncia sul merito, allora tutte le riforme che alleviano gli oneri di partecipazione, collaborazione e coltivazione al processo, finiscono per favorire la possibilità di rendere la pronuncia sul merito, e il risultato finale si rende più  facile far pendere un processo molto a lungo e si può essere più o meno d'accordo sull'opportunità di lasciare che le parti possano far rendere una causa pendente anche quando non premono perché sia decisa sul merito rapidamente.

Un aspetto importante della disciplina della estinzione per inattività, importante anche al fine poi di discutere la disciplina dell'estinzione per rinuncia agli atti, è un aspetto importante che mai poi vediamo consentire, che la pronuncia sul merito della cusa venga impedita da un'iniziativa unilaterale, ovverosia, le fattispecie di estinzione del processo, hanno e devono avere dei caratteri bilaterali, sicché l'estinzione del processo deve essere eccepita prima di ogni altra difesa, ma è eccezione a disposizione di entrambe le parti, non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma entrambe le parti possono sollevare la relativa eccezione ed anche far valere, l'eventuale estinzione del processo in via incidentale in un nuovo processo successivamente instaurato, nel quale venga dall'avversario sollevata l'eccezione di litispendenza, eccepita la litispendenza contro eccezione in realtà il processo preventivamente avviato su questa stessa causa si è già estinto, con eccezione che io sollevo utilmente nel nuovo procedimento di merito.

Spesso è difficile gestire l'implicazione derivante dalla circostanza che l'estinzione debba essere eccepita, e quindi, ricorrentemente in giurisprudenza si evocano ipotesi in cui il legislatore permetterebbe la declaratoria d'ufficio della estinzione, per lo più si tratta di ipotesi in cui è stato più o meno esplicitamente o per fatti molto concludenti, manifestato da entrambe le parti il disinteresse al conseguimento della pronuncia sul merito.

Accanto a queste, vi sono ipotesi in cui la giurisprudenza cerca di evitare che si realizzi una situazione di indefinita pendenza del procedimento, questo va detto perché a volta si guarda all'efficienza con occhio miope! E quindi, la circostanza che un magistrato abbia sul suo ruolo procedimenti che pendono da molto tempo, è fonte per alcuni di imbarazzo e per molti è facile pensare che se il procedimento pende da molto tempo qualche colpa c'è l'ha il giudice, perciò in questi casi, viene fuori l'idea dell'estinzione rilevabile d'ufficio, però bisognerebbe guardare con più disincanto a questo problema e osservare che in qualche occasione, invece, rendere il processo pendente all'infinito è una soluzione comoda oltreché sensata. Mi riferisco al problema che si crea nell'ipotesi di procedimento introdotto con ricorso, seguito dal decreto di fissazione della prima udienza da parte del giudice e l'onere dell'attore di notificare al convenuto il ricorso e pedissequo decreto nell'ipotesi in cui non venga notificato questo ricorso all'avversario, è un'ipotesi nella quale è forte la tentazione di prevedere la rilevabilità d'ufficio dell'estinzione.

Ma io credo, e ho già accennato che si debba osservare che in questa fattispecie c'è puzza di bruciato! Cioè una fattispecie in cui non è tanto peregrino il sospetto che l'attore si stia cercando il giudice, ne deposita più di uno di ricorsi e notifica quello che è stato assegnato al magistrato che a lui fa comodo, e davanti a questa idea, il ricorso depositato per primo sia quello presso il quale la controversia è radicata e che quindi il procedimento relativamente a dare ricorso non si estingua affatto non è una fattispecie fra quelle tassativamente previste dal legislatore fra le fattispecie estintive, e così non si estingua e men che meno l'estinzione possa quindi essere rilevata d'ufficio.

Con l'estinzione per rinuncia, possiamo consentire alle parti in tanto in quanto siano tutte e due d'accordo, di abbandonare il processo prima che venga definito nel decreto, però non dobbiamo lasciarglielo fare troppo facilmente, quindi per un verso non possiamo impedirglielo e in qualche modo devono poterci arrivare con non eccessive difficoltà, dobbiamo assicurare che la scelta sia ponderata, che sia esplicitamente riconducibile alla persona delle parti, in relazione, in particolare alla disciplina delle caratteristiche dei poteri conferiti mediante la procura nel nostro ordinamento.

In sistemi come in quello tedesco la procura alle liti attribuisce automaticamente al difensore tecnico tutti i poteri della parte salve che ne risultino espresse specifiche limitazioni, quindi la distinzione tra atti processuali e atti sostanziali finisce per coincidere con la distinzione tra atti compiuti nel corso del procedimento e atti compiuti al di fuori dello stesso.

Nel nostro ordinamento si segue, invece, una regola di derivazione francese che costituisce l'eredità di un sistema abbastanza complesso della disciplina della professione forense, e tradizionalmente, nel sistema francese, si distingueva fra le funzioni di difensore e le funzioni di rappresentante in giudizio e qui si è affermato il principio secondo cui la normale procura alle liti, che è indispensabile per il conferimento del potere di rappresentare in giudizio, a sua volta obbligatorio in via di regola in generale, salve le eccezioni dell'onere del patrocinio per cui la parte non può stare in giudizio se non tramite il procuratore legalmente esercente iscritto negli appositi albi, ebbene, la procura non conferisce automaticamente il potere di disporre del diritto in contesa, salvo che ne contenga esplicitamente la menzione, noi richiediamo alla parte soltanto di conferire il potere di compiere e ricevere nell'interesse della parte tutti gli atti del processo, salvi quelli riservati alla parte personalmente e ci riferiamo in particolare alle ipotesi in cui le dichiarazioni della parte vengano utilizzate come mezzi di prova in sede d'interrogatorio formale, di giuramento e chiaro che è la parte personalmente che deve rispondere all'interrogatorio o al giuramento, non può avvalersi dell'avvocato o del difensore tecnico allorquando la parte sia utilizzata come mezzo di prova.

Inoltre l'art. 84 comma 2, aggiunge che la procura alle liti non conferisce il potere di disporre del diritto in contesa se questo non è esplicitamente conferito, persino in quelle ipotesi in cui è chiaro che la scelta deve essere compiuta dal procuratore nell'esercizio della sua competenza professionale, pensiamo al caso più eclatante dell'impugnazione della sentenza nel quale è talmente palese che la scelta debba essere compiuta dal difensore nell'esercizio della sua competenza tecnica, prescrive che ai fini del decorso del termine breve per l'impugnazione la notificazione della sentenza sia eseguita presso il procuratore precostituito nel precedente grado di giudizio, tuttavia il potere di proporre l'impugnazione deve essere specificamente conferita al difensore, perché nella regola generale vigente, la procura si presuma conferita per un grado di giudizio e comunque non è mai possibile conferire in anticipo, se non attraverso l'escamotage della spilla, la procura per giudizio di cassazione.

Ci sono meccanismi che favoriscono la tipica delle decisioni dispositive del diritto in contesa, per esempio quando venga raggiunta la conciliazione, c'è un meccanismo che facilita la ratifica da parte della parte interessata dell'accordo conciliativo raggiunto dal difensore, ma è sempre necessario una specifica manifestazione di volontà e per quanto riguarda gli atti dispositivi?

Una delle fattispecie produttive dell'estinzione del processo, accanto a quella dell'inattività è quella della cosiddetta rinuncia agli atti per la quale la legge prescrive espressamente che sia conferita dalla parte personalmente, o dal difensore munito di procura speciale a questo fine, quindi è una decisione che deve provenire dalla parte, inoltre, ci aggiunge l'art. 306, che la rinuncia, che proviene dalla parte attrice, deve essere accettata dalla parte convenuta, e si ritiene anche qui, accettata dalla parte convenuta personalmente o dal difensore munito di procura a tale scopo, però, la norma aggiunge, deve essere accettata dalla parte costituita che abbia interesse alla prosecuzione del giudizio.

Ora, qualche perplessità viene! Innanzi tutto, nel riferimento alla parte costituita, l'applicazione del dettato letterale della norma porterebbe a far pensare che nell'ipotesi in cui, il convenuto non sia ancora costituito, ma neanche sia ancora stato dichiarato contumace, possa produrre effetti estintivi la rinuncia di atti compiuta unilateralmente dall'attore senza bisogno della sua accettazione, però, se si osserva l'evoluzione di questa disciplina e in particolare si tiene conto del contesto culturale del codice del '42, si deve pensare, a mio avviso, che qui vi dev'essere stato un lapsus caso del legislatore, perché, la disciplina del codice del 1865, prevedeva la possibilità dell'accettazione dell'avversario in ogni occasione e giustamente si era ritenuto che la necessità di una specifica accettazione fosse una condizione di carattere vessatorio in varie occasioni, per esempio quando il convenuto fosse stato dichiarato contumace, se muoviamo dalla premessa che la contumacia si presuma volontaria, questa esplicita scelta di rinunciare ad un'attiva difesa, può essere considerata come un'accettazione in via preventiva dell'eventuale estinzione del processo per rinuncia agli atti per fatti concludenti.

Il comportamento della parte che si rende contumace è senza dubbio concludente nel senso di non essere interessata al conseguimento di una pronuncia sul merito della controversia e quindi, certamente era congruo escludere la necessità dell'accettazione della parte contumace e anche di quella parte che avesse appunto compiuto comportamento inconcludente nel senso del disinteresse alla pronuncia sul merito, per esempio quella parte convenuta che avesse sollevato l'eccezione di rito, se la parte ha sollevato eccezione di rito è evidente che non ha nessun problema a ottenere la definizione del processo in mero rito.

Credo che il legislatore del '42 abbia inteso raccogliere quest'idea e però abbia finito per esprimerla male, quindi è preferibile ritenere che nell'ipotesi in cui la rinuncia agli atti venga compiuta in pendenza dei termini di costituzione del convenuto, in realtà questi effetti estintivi si possono produrre solo quando il convenuto l'accetta, cioè quando il convenuto è già reso parte per effetto della notificazione della citazione, la causa è già pendente in quel momento, e la circostanza che gli sia dato un termine per decidere se difendersi attivamente o meno non è circostanza che può giocare a suo svantaggio, cioè non può tornare a suo pregiudizio la circostanza che li utilizzi anche completamente il termine che la legge gli concede per decidere se costituirsi o meno, pertanto la rinuncia dovrebbe produrre i suoi effetti quando il convenuto venga dichiarato contumace, ovvero nell'ipotesi in cui venga accettata prima della scadenza dei termini di costituzione dal convenuto stesso.

Inoltre, nella parte in cui la norma fa riferimento all'ipotesi del convenuto che non abbia interesse alla prosecuzione della causa, questo interesse andrebbe inteso come una sorta di corrispettivo da parte del convenuto dell'interesse ad agire alla prosecuzione del giudizio, da valutare strettamente sulla base di una teoria della prospettazione, e quindi non mi pare corretto che si possa giungere alla conclusione, come invece alcuni hanno suggerito, che il convenuto non abbia interesse alla prosecuzione della causa quando egli si sia difeso soltanto nel merito e però il giudice ritenga che la domanda debba essere comunque respinta per motivi di rito e indipendentemente dalle prospettazioni del convenuto, e ciò, perché mi sembra improprio e anche controproducente indurre a questa delibazione incidentale nell'esito del giudizio il giudice, più congruo, invece è che si ritenga disinteressata alla prosecuzione del processo la parte che abbia sollevato eccezioni di rito, ma del tutto indipendentemente dalla fondatezza delle stesse e quindi anche nelle ipotesi in cui il giudice ritenga che le eccezioni di rito sollevate dal convenuto siano invece infondate, esclusivamente in base alla teoria della prospettazione.

La rinuncia è uno di quei casi in cui l'estinzione si ritiene rilevabile d'ufficio, d'altronde, avente la stessa struttura palesemente bilaterale, trovando quindi fondamento in manifestazioni concordi di volontà tra le parti, richiedere che questa manifestazione venga reiterata attraverso la sollevazione dell'eccezione di estinzione, in questo caso è un eccesso.

Teniamo distinta la fattispecie di rinuncia agli atti regolata dal giudice dalla particolare ipotesi che si presenta nel giudizio di cassazione ove si prevede la ura della rinuncia al ricorso, e si muove dal presupposto che qui, normalmente il giudizio non sia necessario al fine di rendere una decisione sul merito della causa e tradizionalmente è appunto così il rimedio ha carattere soltanto rescindente, quindi si prevede esplicitamente e congruamente che la rinuncia sia seccamente unilaterale; la rinuncia al ricorso proviene dalla parte ricorrente e produce i suoi effetti senza alcun bisogno dell'accettazione dell'avversario.

In questo panorama, si inserisce un'ampia esperienza giurisprudenziale che bisogna coordinare con le risultanze dell'atto normativo e cioè tutta l'esperienza giurisprudenziale concernente il misterioso fenomeno della rinuncia all'azione.

Cos'è la rinuncia all'azione e in che modo sarebbe diversa la rinuncia all'azione dalla rinuncia agli atti del giudizio? Sono possibili varie teorie e naturalmente molto dipende da cosa si intende per azione, per esempio coloro che muovono dalla teoria di un'azione non è situazione legittimante, ma situazione legittimata dalla pendenza stessa del processo, un'ovvia conseguenza che l'espressione "rinuncia all'azione" non può che far riferimento allo stesso fenomeno che è appunto la rinuncia agli atti, per coloro che intendono l'azione come diritto civico, ove è palese che non può aver luogo mai un'efficace rinuncia all'azione, trattandosi di un diritto palesemente indisponibile come diritto civico, e un discorso analogo intorno ai limiti della disponibilità dei presupposti processuali, vale per l'ipotesi in cui si faccia riferimento alla rinuncia all'azione in senso astratto, intesa come azione legittimante, cioè come diritto al conseguimento di una pronuncia sul merito non in quanto innescato da una domanda giudiziale, ma in quanto preesistente a prescindere dall'esercizio dell'azione.

C'è però la possibilità di conferire un significato sensato alla rinuncia all'azione se l'intendiamo riferita all'azione in senso concreto, cioè al diritto alla pronuncia di merito favorevole. È plausibile perché alcuni negozi come in cosiddetto pactum de non petendo, possano qualificarsi come negozi dispositivi dell'azione in senso concreto.

La cosa è discussa, perché, si può dubitare che questi negozi abbiano effettivamente un'efficacia vincolante per il giudice, vale a dire lo costringano davvero a rigettare la domanda ancorché fondata, potendosi prospettare che la violazione del patto di non petendo, dell'impegno a non esercitare l'azione, possa essere fonte di distinta possibilità risarcitoria, salvo le difficoltà di individuare in che maniera potrebbe essere poi risarcito il relativo danno, ma al di la di questo possiamo ritenere che, se la nozione può avere un senso con la conclusione che si tratta, ai fini particolari della distinzione fra atti sostanziali e atti processuali come la concepiamo noi e non come la concepiscono i tedeschi, di un atto sostanziale anche se compiuto nel corso del processo, un atto di disposizione di un diritto sostanziale per il quale, quindi a maggior ragione è necessariamente presupposto il conferimento di una procura speciale, o meglio, di una procura che contenga anche l'attribuzione della facoltà di disporre del diritto in contesa, e correlativamente, anche la necessità dell'accettazione tutte le volte in cui debba essere bilaterale la struttura del negozio dispositivo nel suo contenuto applicativo, ricordiamo che la rimessione del debito è efficace solo quando sia accettata da punto di vista sostanziale.

Il problema è che in giurisprudenza spesso si legge, invece di rinuncia all'azione, di rinuncia alla domanda, che rientrano fra i poteri del difensore e sono efficaci senza bisogno di accettazione. È strano! A cosa si fa riferimento? Si fa riferimento ad un fenomeno completamente diverso da quello del patto di non petendo e dei negozi sostanziali di carattere applicativo, si fa riferimento invece, ad un fenomeno legato alla dinamica della progressiva semplificazione del tema del giudizio e del tema della decisione nel corso dello sviluppo del procedimento, è chiaro che sin dal momento della proposizione della domanda giudiziale, la parte deve precisare le proprie conclusioni, ma nel corso dello sviluppo del procedimento si raccolgono i mezzi di prova, e a chiusura del procedimento stesso prima della rimessione della causa in decisione, la parte è tenuta di nuovo a precisare le conclusioni. Le facciamo precisare di nuovo perché se non le ripete proprio tutte, significa che ha rinunciato a quelle che non ha ripetute, è un provvedimento diretto a favorire una progressiva riduzione del tema della decisione.

Ma i dubbi sono forti! Anzitutto che questo possa avvenire senza accettazione dell'avversario, è molto discutibile e infatti andando ad esaminare poi le fattispecie in cui il problema si è concretamente apporre, si scopre che la giurisprudenza dice, che l'avversario si può opporre, cioè può insistere lui affinché si abbia comunque una pronuncia sulle domande non ripetute in sede di precisazione definitiva delle conclusioni, e allora la cosa è più accettabile, perché diciamo sostanzialmente che questa rinuncia avviene attraverso un'accettazione, magari tacita della rinuncia stessa, in un particolare contesto processuale al fine di favorire la semplificazione del tema della decisione e si rende auspicabile aggravare gli oneri di tempestività della reazione delle parti, dobbiamo però fare salva la regola generale della bilateralità dei fenomeni semplificativi del tema della decisione.

Per quanto riguarda la riconducibilità alla parte personalmente dell'iniziativa applicativa, io direi che in realtà, si può concepire l'ammissibilità di una rinuncia alla domanda compiuta esclusivamente dal difensore a cui non sia specificamente conferito il potere di disporre del diritto in contesa, soltanto in tanto in quanto si tratti di rinuncia ad alcune fra più domande cumulativamente proposte in contesti in cui in ogni caso la pronuncia sulle domande non rinunciate, produrrebbe un effetto preclusivo rispetto a quelle rinunciate. Cioè in ipotesi in cui effettivamente è in gioco solo una questione di competenza tecnica nella scelta delle modalità delle strategie difensive della parte attrice , per cui si ha un concorso di domande per l'ottenimento dello stesso risultato giuridico e la rinuncia ad alcune costituisce in realtà, soltanto, la scelta da parte del difensore , della modalità tecnica più efficace per conseguire il risultato, e allora in questa particolare ipotesi, pare che possa accettarsi la conclusione che possa risultare efficace la rinuncia derivante dalla mancata riproposizione della domanda in sede di precisazione delle conclusioni, ma sarei molto prudente nell'individuare questo tipo d'ipotesi, estremamente restrittivo nell'ammettere che questo possa avvenire rispetto a domande che non siano legate da questi vincoli di connessione per incompatibilità, e invece stiano in piedi da sole, rispetto a queste, i fenomeni semplificativi dell'oggetto del giudizio non mi sembrano accettabili se non vengono osservate le formalità specificamente previste dalla legge per la rinuncia agli atti.

Diversamente da quanto accade per l'interruzione, perché è ovvio che finisce per colpire tutto il procedimento, salva l'ipotesi in cui si abbiano forme di litisconsorzio facoltativo ed improprio, compatibili con la separazione dei procedimenti e la produzione degli effetti interruttivi soltanto nel procedimento in cui sia coinvolta soltanto la parte colpita dall'evento e non in quello che interessi soltanto alle altre parti che risultino separabili dal procedimento cumulato.

La pronuncia di estinzione è pronuncia di rito, perché, come recita l'art. 310, non estingue l'azione, ossia resta ferma la riproponibilità della domanda, per questo, appunto, bisogna essere abbastanza prudenti nel consentire che si largheggi con la facoltà di abbandonare il processo che sia stato già innescato, soprattutto nell'escludersi che possa essere abbandonato il processo unilateralmente.

Perdono effetto gli atti compiuti fatta eccezione le sentenze sul merito, quelle che regolano la competenza e una serie, che nel corso del tempo si va facendo sempre più lunga, di provvedimenti cosiddetti ultrattivi ancorché privi della forma della sentenza: le ordinanze anticipatorie di condanna, i provvedimenti di carattere cautelare a contenuto anticipatorio, oggi è vigente la regola per cui è sempre necessaria l'attivazione e la coltivazione  di un ulteriore causa a cognizione piena sul merito a pena di inefficacia del provvedimento cautelare, ma è già prevista nel rito societario, ed è destinata a diventare la regola generale, quella per cui se il provvedimento cautelare ah un contenuto anche anticipatorio degli effetti della sentenza di merito e la successiva estinzione della causa a cognizione piena nel tempo stesso, non comporta l'inefficacia del provvedimento cautelare e questi possa produrre in via ultrattiva i suoi effetti pur essendo inidoneo il provvedimento stesso a produrre l'efficacia vincolante della cosa giudicata in senso pieno.

Per quel che riguarda le prove, l'art 310, prescrive altresì che esse siano utilizzabili in un diverso giudizio, come argomenti di prova, ma l'orientamento dominante che si tratti di una vera , libera valutabilità delle prove stesse e che quindi la degradazione dell'efficacia probatoria non sia tale da far si che queste prove possano fondare l'accertamento sul fatto solo in quanto corroborate, potranno risultare pienamente sufficienti a fondare l'accertamento sul fatto o perderanno, invece, l'efficacia vincolante dell'effetto di prova legale, qualora si trattasse di prove legali come il giuramento o la confessione.

 Infine, le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate, salvo in caso di rinuncia e salva l'ipotesi in cui la rinuncia si disponga diversamente.

Questa disciplina è da ricollegare a quanto disposto dall'art. 338, con riferimento all'estizioni di giudizi d'impugnazione. Prevede l'art. 338, che l'estinzione dei giudizi di appello e di revocazione ordinaria comporti il passaggio in giudicato della decisione impugnata, a meno che, ne siano stati modificati gli effetti e con provvedimenti resi negli stessi giudizi di impugnazione.

Con riferimento all'appello, è chiaro che si fa riferimento all'ipotesi della pronuncia di sentenza non definitiva di riforma della decisione impugnata, per esempio: sentenza di primo grado di rigetto della domanda, nel corso del giudizio d'appello viene emanata sentenza di condanna generica con riserva di liquidazione del quantum, con prosecuzione del procedimento per la liquidazione del quantum, e condanna sull'an di riforma della sentenza di rigetto ottenuta in primo grado, l'estinzione del giudizio di appello, successivamente a questa pronuncia, non fa passare in giudicato la sentenza di rigetto della domanda.

Per il giudizio di revocazione si fa riferimento alla circostanza che, nella revocazione, si distingue, ancorché magari, non necessariamente ciò avvenga tramite la pronuncia di sentenza non definitiva, distingue una fase rescindente da una fase rescissoria e quindi laddove non sia resa sentenza definitiva rescindente, di annullamento della decisione impugnata con revocazione, in consecuzione del giudizio per l'ottenimento di una nuova pronuncia sul merito della causa, analogamente non si produce l'effetto del passaggio in giudicato della decisione impugnata.

Questa disciplina, che prevede per altro il passaggio in giudicato della decisione impugnata, si può distinguere da quella cosiddetta consumazione dell'impugnazione, diversamente a quanto, a volte avviene in dottrina, mi sembra utile rispettare il dettato legislativo, che abbastanza chiuso in questo senso, la cosiddetta consumazione del diritto d'impugnazione consistente nella non riproponibilità della dichiarazione dichiarata inammissibile o improcedibile, non necessariamente implica il passaggio in giudicato della decisione impugnata, perché ben può darsi che l'impugnazione sia dichiarata inammissibile per essere ammissibile una diversa impugnazione ordinaria, perfettamente compatibile, quindi con l'impedimento della formazione della cosa giudicata. L'estinzione, perciò, deve necessariamente presupporre una valutazione di ammissibilità della proposta impugnazione, in quanto, dalla stessa, discende, e la legge vuole che discenda, un effetto più incisivo.

È interessante anche l'art. 338, qualcosa che l'art. 338 non dice. L'estinzione del giudizio d'appello, è un'impugnazione ordinaria, dice l'art. 338, è chiaro che non si può immaginare l'applicabilità di queste disposizioni alle impugnazioni straordinarie, qui è chiaro, anzi il giudicato c'è l'ha già! Ma perché non si parla di ricorso in cassazione? L'estinzione per ricorso in cassazione, provoca il passaggio in giudicato della decisione impugnata? Intanto dobbiamo dire che l'estinzione del giudizio in cassazione può avvenire, perché, si, non potrà avvenire l'estinzione per inattività, a causa del discorso che facevamo sulla circostanza che il giudizio in cassazione è animato dall'impulso d'ufficio, quindi in rara occasione potrà interrompersi, più facilmente potrà essere sospeso tutte le volte che si sollevi una questione di legittimità costituzionale di una norma, ma in tutte queste ipotesi la riattivazione del procedimento, non richiede quelle attività di formare riassunzione della causa, che sono previste invece per la riattivazione dei procedimenti sospesi o interrotti nelle fasi di marito, cioè nei gradi di giudizio di primo grado o appello, è sufficiente, in forza dell'impulso d'ufficio che anima il procedimento in cassazione, un'istanza informale alla Corte stessa, ovviamente corredata da documentazione che dimostra la possibilità concreta di riattivarlo e cioè la cessazione della causa di sospensione.

Tuttavia, l'estinzione del giudizio di cassazione, può comunque aver luogo nel procedimento di cassazione per effetto della già menzionata rinuncia al ricorso, la quale, evidentemente produce gli effetti estintivi dell'impugnazione stessa, ma passa in giudicato la decisione impugnata? Qui, credo che ci sia una spiegazione particolare della ragione per cui il procedimento di cassazione non è menzionato, cioè che questa parte del codice è stata scritta da uno studioso illustre, ne parleremo quando parleremo del giudizio di cassazione, che si vide sconfitto su una delle sue idee principali, e cioè l'idea che il procedimento di cassazione fosse un'impugnazione straordinaria. Ovverosia, Calamandrei, pensava e voleva che si ritenesse, che la proponibilità del ricorso per cassazione non impedisse del passato in giudicato della sentenza, come avviene in altri ordinamenti, ma finì per prevalere invece, l'idea che la distinzione tra impugnazioni ordinarie e straordinarie si dovesse fondare sulla rinvenibilità del vizio denunciato dall'esame della sentenza, e quindi il ricorso per cassazione dovesse qualificarsi come impugnazione ordinaria, come tale impeditiva della formazione del giudicato.

Però, è un lapsus froidiano, quando si è provato a parlare delle impugnazioni la cui estinzione fa passare in giudicato la decisione impugnata, e si deve concludere coerentemente con il sistema e con le scelte di fondo, in ogni caso compiute dal sistema, che l'estinzione del giudizio di cassazione del pari, comporti l'estinzione per rinuncia, e riguardo alla rinuncia al ricorso comporta il passaggio in giudicato della decisione impugnata con il ricorso stesso.

·    Le prove

Il segreto professionale del difensore, è certo che favorisca un accertamento più accurato della verità, perché? Il fine dell'accertamento accurato della verità è l'introduzione di informazioni, da parte delle parti direttamente interessate, che è sempre utile.

Attraverso il filtro della consulenza dei legali si fa in modo che la parte eviti di rivelare soltanto quelle informazioni che effettivamente le nuocciono e effettivamente potrebbero restare segrete, e si evita la propensione che la parte ha a nascondere ancor più l'informazione, cioè anche quelle, che in realtà, non gli nuocerebbero, o quelle che gli nuocerebbero, ma che comunque verrebbero alla luce lo stesso, sicché, l'intermediazione di un difensore nei confronti del quale la parte possa contare su di un rapporto confidenziale, alla fine sul lungo periodo promuove l'accuratezza dell'accertamento della verità, mentre, è chiaro che si spieghino soltanto in conformità ad esigenze della protezione della manifestazione della personalità, altri segreti professionali quali potrebbero essere quelli del confessore o del medico, anche se, si potrebbe poi dire che c'è un'esigenza di protezione della salute pubblica.

Discutibili, risultano invece, altre forme d'ostacolo della ricerca della verità che sembrerebbero arrivare a proteggere il diritto della parte a non cooperare nell'accertamento della verità, o addirittura a sabotarlo financo con la menzogna.

Per tradizione, nel nostro ordinamento, si ammette pacificamente il diritto della parte di mentire, la parte che menta in giudizio non è soggetta ad alcuna specifica sanzione, sulla base delle verità di una concezione dispositiva del processo in parte sulla base di una comprensione per il dilemma umano in cui si trova colui che sia soggetto all'alternativa tra mentire in giudizio e dire la verità recandosi danno, che però sono tutte esigenze, che si tende, negli ordinamenti moderni a disconoscere sempre di più, è disconosciuto completamente il diritto della parte civile di mentire, entra sempre nell'ordinamento anglosassone, ma probabilmente, li, questo accade perché, per tradizione di un'amministrazione della giustizia meno professionalizzata, dove si è meno portati a distinguere tra obblighi giuridici e obblighi morali, e quindi ammettere la menzogna della parte sembra brutto, perché è sempre un comportamento riprovevole, ma possiamo anche vedere che la base di mentire è stato copiato pure nell'ordinamento tedesco! Alcuni hanno speculato nella circostanza che la legge vi ha introdotto la sanzione penale per la parte civile menzognera, che è più tenue della sanzione prevista per il testimone menzognero in diritto tedesco, sul fatto che la legge che ha ritenuto questa regola rechi la data del 1933, ma non bisogna farsi confondere, in realtà è una legge che è stata approvata prima del cancellierato imperiale, questa norma, infatti è sopravvissuta senza problema alla caduta del regime dell'epoca.

Considerazioni, rispetto ai limiti dell'accertamento della verità, si rinvengono in disposizioni, come quelle che regolano la disciplina dell'esibizione delle prove documentali, si tratta dell'ipotesi, in cui, la parte voglia fare acquisire al processo un documento che non si trova in suo possesso, in quest'ipotesi la legge consente che un ordine di esibizione possa essere rivolto all'avversario e a un terzo, con limiti molto discutibili. Si richiede che dall'esibizione non derivi all'altra parte avversa grave danno, si richiede che non comporti rivelazione di segreti, ma si richiede anche, la specifica indicazione del documento e del suo contenuto, il che diventa discutibile, perché contiamo esperienze straniere, in particolare quella statunitense in cui questa regola non si prevede affatto, il dovere di cooperazione di parte avverse all'accertamento della verità, comprende anche il dovere di esibire documenti che sono individuati anche genericamente, anche per classi, allo scopo di consentire alla parte di utilizzare l'istruzione probatoria del processo civile, anche attività di indagine vera e propria intorno ai fatti che hanno dato origine al conflitto, ma anche per venire a conoscenza di fatti ulteriori, di cui magari si era all'oscuro all'inizio della causa.

Si prevede anche, che la parte, che fuor di ottemperare all'ordine di esecuzione va incontro a una sanzione meramente processuale sul piano della valutazione probatoria, cioè che il suo comportamento si qualifica come argomento di prova a suo sfavore, con l'implicazione, secondo la dottrina prevalente è poco apprezzabile, cioè che non possa, l'accertamento sul fatto fondarsi esclusivamente su tale argomento di prova, cioè si tende a dire che l'argomento di prova può condurre a una decisione attorno al fatto, quando sia corroborato da un altro argomento, per esempio, da altro argomento proveniente da fonte diversa, da un diverso comportamento processuale,.

Va detto, però, che la giurisprudenza dominante respinge questo tipo di interpretazioni e con una lieve forzatura la giurisprudenza ritiene in larghissima maggioranza che anche un argomento di prova da solo e non corroborato possa essere sufficiente a giustificare un accertamento del fatto.

Segue il problema che si pone allorquando l'ordine di esibizione sia rivolto ad un terzo, perché nei confronti del terzo, ovviamente non è applicabile la sanzione che abbiamo appena descritto.

Secondo l'interpretazione prevalente, si potrebbe irrogare al terzo una sanzione pecuniaria, in applicazione analogica ritenendosi che la disciplina dell'esibizione nel richiamare quanto ai presupposti la disciplina dell'ordine di ispezione, di cui all'art. 118, richiami tale disciplina anche sotto il profilo di conseguenze di inottemperanza, infatti l'art. 118 prevede l'irrogazione di una pena pecuniaria, si ritiene che si possa erogare questa anche in caso di inottemperanza all'ordine di esibizione. In realtà questa interpretazione può creare alcune perplessità, infatti, prevedere sanzioni pecuniarie solo nei casi espressamente contemplati dalla legge sembra un po' problematico, ma questo soltanto in astratto, perché poi, il contenuto della sanzione è talmente modesto che di fatto non esiste applicazione pratica, cioè nessuno fa istanza per l'applicazione detta.

Qualcuno ha ipotizzato che il documento di cui si chiede l'ispezione, possa essere comunque acquisito al processo, tramite lo strumento del sequestro probatorio, contemplato dall'art. 670 specificamente, in quelle ipotesi in cui si voglia acquisire, appunto, un documento di cui sia controverso il diritto all'esibizione, ma qui ci sono due problemi!

Il primo è che il diritto all'esibizione, a che fa riferimento l'art. 670, plausibilmente si esamina la norma considerando anche l'origine storica, in riferimento a quell'ipotesi in cui la parte vanti di diritto sostanziale all'esibizione del documento, potrebbe in ipotesi essere conseguito pertanto, attraverso la pronuncia di sentenza di merito, come fino ad un paio di anni fa prevedeva il diritto tedesco che contemplava soltanto diritti sostanziali all'esibizione del documento in particolarissime ipotesi, e secondo la tradizione del processo romano-canonico, perché il diritto all'esibizione di portata processuale, cioè l'esibizione di documenti allo scopo di provare i fatti in causa, costituisce un'innovazione abbastanza recente nei diritti processuali europei, risalente, a seconda degli ordinamenti a vari momenti del ventesimo secolo, e quindi il diritto di contenuto processuale di esibizione, contemplato all'art. 210 del codice di rito, non è quel diritto all'esibizione di cui parla l'art. 670, e in secondo luogo, anche volendo immaginare che l'art. 670 si applichi anche ai diritti all'esibizione a fondamento meramente processuale, rimane fermo che il provvedimento di sequestro è un provvedimento di natura soltanto cautelare diretta ad assicurare che la prova non si disperda nel corso della durata del procedimento e quindi anche la sua attuazione dell'esecuzione attraverso l'apprensione del documento e l'affidamento alla custodia, è chiaro che alla custodia della parte che ne è già in possesso, sicché il provvedimento ha di fatto, fondamentalmente l'effetto di introdurre una responsabilità penale per la dispersione del documento in capo alla parte che ne sia nominata custode, ma non comporta ancora acquisizione a processo il documento stesso, e non comporta affatto, quindi, la possibilità che il giudice se ne avvalga ai fini della decisione sul fatto, sicché, anche una volta che il documento sia stato sequestrato, in ipotesi, la parte potrebbe ancora continuare a rifiutare di esibirne l'esibizione, cioè l'acquisizione al processo, subendo le conseguenze che si diceva poc'anzi, che, appunto, il terzo conservi una facoltà di rifiutare l'ottemperanza e eventualmente soffrendo la sanzione di cui si diceva.

Secondo una tesi minoritaria, ispirata all'esperienza del diritto tedesco, ove l'esibizione sarebbe nei confronti del terzo coercibile direttamente, proprio perché, non risulterebbe applicabile all'esibizione a differenza dell'ispezione, la condanna pecuniaria quale conseguenza dell'inottemperanza del terzo, cioè si argomenta così! Dato che non si prevede alcuna sanzione per inottemperanza, l'inottemperanza non è ammessa, ovvero sia, cosiccome, la legge prevede che il testimone che si rifiuti di presentarsi a deporre, possa essere soggetto ad accomnamento forzato, da parte della forza pubblica. Il terzo che si rifiuti di esibire il documento può essere soggetto a perquisizione da parte della forza pubblica allo scopo di rinvenirlo nei luoghi in cui può esercitarsi il possesso del documento stesso. È materia che risente dell'esperienza tedesca, dove quella dell'esibizione fino a due anni fa, perché il diritto tedesco è stato cambiato per introdurre il diritto sostanziale, ma per coloro che muovono dal presupposto che il diritto all'esibizione sussista solo quando abbia un fondamento sostanziale, è chiaro poi, che, questo diritto può essere fatto valere in modo da ottenere anche una sentenza di condanna all'esibizione, poi, la sentenza di condanna all'esibizione non sia passibile di esecuzione forzata, e sono queste suggestioni ad indirizzare questo modello interpretativo, ma l'opinione dominante in giurisprudenza è nel senso che, non vi siano modalità per rendere coercibile direttamente l'ordine di esibizione.

Dal punto di vista sistematico, sembra incongruo rispetto al fatto che il testimone si può accomnare coattivamente, ma sul piano pragmatico, la cosa si capisce benissimo, perché il diritto ad ottenere l'accomnamento forzato del testimone, che delitto è, voi ve ne avvarreste? C'è una bella differenza cruciale tra testimone e documento! Il testimone è dotato di una volontà e quindi se lui non vuole cooperare è inutile accomnarlo forzatamente, verrà in udienza e dirà che non si ricorda nulla! Infatti non esistono applicazioni pratiche dell'accomnamento forzato del testimone nelle cause civili! Non ha senso! Perché il testimone va a deporre solo se è consenziente a deporre, se no, è solo uno spreco di tempo e di soldi.

Mentre il documento, non avendo una sua forza di volontà, non può mentire, quindi ben altro effetto avrebbe la coercibilità dell'ordine di esibizione rispetto alla coercibilità al dovere di rendere testimonianza.

Resta il discorso da fare che, questo limite alla possibilità di avvalersi di prove documentali tutte le volte che queste siano in possesso di altri, è di molto dubbia compatibilità con le garanzie costituzionali fondamentali poste dall'art. 24 della Costituzione, nelle quali, da tempo, si ritiene, secondo alcuni, come implicazione del dettato dell'art. 24 comma 1°, cioè del diritto e garanzia d'azione di far valere i diritti legittimi, secondo altri, secondo le implicazioni del dettato del comma 2° dell'art. 24, cioè del diritto di difesa, si diceva come implicazione di questa disciplina, si deve individuare un diritto costituzionalmente garantito alla prova.

Diritto che ha varie implicazioni! Implica , che la parte debba potere dedurre per assumere prove orali o depositando spontaneamente ottenendo l'esibizione da parte dell'avversario delle prove documentali ad introdurre nel processo, e veder valutate nella motivazione della sentenza, siano esse prove dirette o contrarie, tutte quelle prove che siano rilevanti per la dimostrazione di fatti di causa, cioè che, in base alla previsione del loro possibile esito, siano potenzialmente idonee ad eliminare o ad introdurre l'incertezza intorno alle verità delle affermazioni sui fatti principali o secondari da cui dipende il contenuto della decisione della causa.

Pertanto la difficoltà di individuare per quale motivo questo diritto a non cooperare nell'accertamento dei fatti possa ritenersi preminente, induce a dubitare seriamente della compatibilità di questa disciplina con il dettato costituzionale.

Va detto che, il cosiddetto diritto alla prova, va dimostrato attraverso qualche chiarimento che spieghi in che modo interferisca il diritto alla prova con la garanzia del contraddittorio, è chiaro che il diritto alla prova e la garanzia del contraddittorio convergono nel garantire che per esempio, il diritto della parte anche a dedurre, a far assumere, veder valutata la prova contraria a quella dedotta dall'avversario, ma pure quella contraria a quella di cui si è disposta l'assunzione d'ufficio, come prevedono esplicitamente gli articoli184, 421, e così via, peraltro, occorre aggiungere che la regola del contraddittorio, implica anche, che nel processo, possa tenersi conto soltanto di prove ritualmente introdotte, cioè dedotte e assunte nel rispetto di quelle regole del processoché proteggono il diritto delle parti di contribuire alla formazione della decisione, sicché, ad un certo punto, in certi contesti, come quello del processo penale, sembrano esserci come quei diritti alla prova contrastanti, quando c'è ad esempio: favoreggia l'applicazioni del diritto alla prova quando si afferma l'inammissibilità dell'utilizzazione di prove che non siano formate nel dibattimento. Qui, il discorso non quadra, perché, ha senso soltanto se si pensa che il diritto alla prova non ce l'abbia solo l'imputato, ma anche la parte pubblica, perché, altrimenti se ci rendiamo conto che s'è anche una parte pubblica che ha un diritto alla prova, certo che il discorso quaglia molto meno.

Alcuni principi fondamentali vanno rispettati, e in particolare di base e in tutti gli ordinamenti del mondo, compresi quelli totalitari, vale la regola di scienza privata, è un fondamento normativo nel nostro ordinamento, un po' nascosto, e si trova solo nell'art. 97 delle disposizioni di attuazione che prescrive che il giudice possa tener conto solo di ciò che apprende attraverso gli atti del procedimento, non può prendere quei fatti d'informazione.

Questo filtro è funzionale non soltanto nella garanzia del contraddittorio, ma anche all'esigenza di accuratezza dell'accertamento dei fatti, perché si riconosce, generalmente, che il mezzo di prova che sia assunto al di fuori del quadro procedimentale, difficilmente può essere valutato in modo accurato dal giudice, trova per altro, un temperamento questa regola, nel disposto dell'art. 115 comma 2°, nella parte in cui consente che non vi sia bisogno di prova alcuna dei fatti notori o fatti generalmente conosciuti, rispetto ai quali, non può parlarsi di scienza privata, perché, di dominio pubblico.

La disciplina della modalità aperte al contraddittorio, quindi dell'introduzione delle prove nel processo, quindi implica che, se la prova non sia formata nel dibattimento, quando sia introdotta sia comunque concesso discutere delle sue implicazioni per quanto possibile. Certo partecipare alla sua formazione, si! Ma non per questo escluderla a priori quando non sia stato possibile per tutti partecipare alla sua formazione, c'è la facoltà di interloquire su di essa, discuterla, dedurre le prove contrarie, ed esibirle ai fine di una realizzazione unanime del diritto alla prova; si diceva della disciplina delle modalità aperte al contraddittorio, nell'introduzione delle prove nel processo, l'assunzione di documenti e l'assunzione di prove orali, concorre quindi, con quella che esclude la stessa ammissione di prove, la cui raccolta leda valori superiori, e quindi assieme a questa disciplina, attua il principio della legalità della prova.

Però, nel principio di legalità dell'introduzione della prova nel processo, ne divieto di prove contrarie alla legge, a tutela di valori ritenuti preminenti, dal legislatore, impongono alcun principio di tipicità dei mezzi di prova, una parte della dottrina ritiene che, il catalogo legale delle prove civili, sia tassativo ed esaustivo, ma in realtà, da nessuna parte si rinviene disposizioni di questo tipo, per quel che riguarda almeno in processo civile, pertanto nulla esclude che la decisione possa basarsi anche su prove di carattere atipico, sicché, da questo punto di vista, inutilmente si è espressamente sancita l'ammissibilità dell'utilizzazione del documento informatico quale mezzo di prova nel processo civile, perché, la sua ammissibilità, non richiedeva nemmeno lo sforzo, che alcuni hanno compiuto, per inquadrarlo come esempio di mezzo di prova, in realtà già previsto dal codice civile nello schema della riproduzione meccanica per esempio, inutilmente, perché è vero che la giurisprudenza dominante riconosce anche questo, non esiste un catalogo legale delle prove di carattere tassativo, non esiste una regola di tipicità dei mezzi di prova, anzi, vien da dire che l'intervento del legislatore nazionale  e anticipatore, tra l'altro, del legislatore comunitario, è stato provvido nella scelta di attribuire alla firma digitale a doppia chiave informatica, addirittura il valore della prova legale, qui c'è stato, alla base un equivoco atistico, perché la disciplina della firma digitale, introdotta in Italia nel 1997, prima della direttiva comunitaria, ricalcava pedissequamente la disciplina di uno stato federato degli USA, che aveva introdotto l'ammissibilità della firma digitale quale mezzo di prova e l'aveva equiparata, dal punto di vista degli effetti, a quella della sottoscrizione manuale, solo che, la sottoscrizione manuale, in quell'ordinamento non aveva efficacia di prova legale. Invece da noi, l'equiparazione della sottoscrizione tramite firma digitale alla sottoscrizione manuale, aveva per implicazione che la sottoscrizione digitale avesse un'efficacia di prova legale che implica come conseguenze la proposizione di querela di falso e che in alcune ipotesi, non è nemmeno possibile ammettere la prova della falsità delle risultanze della prova documentale, neppure attraverso querela di falso.

La scrittura privata fa prova legale della provenienza della dichiarazione della parte che l'ha sottoscritta, certo, si può disconoscere, ma inutilmente quando la firma è di propria mano.

È possibile la querela di falso, quando c'è una falsificazione, una contraffazione del documento, un'alterazione, la giurisprudenza ha un po' ampliato l'applicazione della querela di falso , così ritiene che si possa denunciare querela, anche nell'ipotesi di abuso di "biancosegno", cioè l'ipotesi in cui si abbia firmato un foglio in bianco e qualcuno con cui nn si ha alcun rapporto se ne impadronisca e ci scriva che gli dobbiamo un miliardo! Ma la giurisprudenza non ha mai ammesso la deduzione tramite la querela di falso del cosiddetto abuso di biancosegno contra pacta, ossia nell'ipotesi in cui consegno a qualcuno un assegno in bianco dicendogli:"scrivici pure 1.000" e lui ci scrive 10.000. Qui c'era un patto di riempimento che è stato violato, io non posso escludere la produzione di effetti giuridici della manifestazione di volontà compiuta attraverso la dichiarazione contenuta nel documento, dimostrando che vi è stata la violazione del patto. Questa violazione del patto, certo è fonte di responsabilità in capo a colui che l'abbia violato, ma nei confronti del terzo, in questo caso il prenditore dell'assegno, che posso fare? Posso far qualcosa solo se dimostro che è in mala fede, dimostro che è complice, altrimenti devo are! E tutto questo effetto altro non è, che un prodotto dell'efficacia di prova legale, per la sottoscrizione manuale. Nei confronti del terzo, anche quando io faccia valere che non abbia mai voluto quella dichiarazione, che ne volevo una completamente diversa, finché non provo la sua malafede non c'è niente da fare.

Le regole di prova legale, compresa questa, si possono defatigare, per esempio affermando che favorisce il commercio, favorisce il traffico giuridico perché l'efficacia di prova legale del documento, comporta che il terzo possa fare un ragionevole affidamento sulle risultanze della prova documentale senza bisogno che si svolga un processo per accertare quale sia stata effettivamente la mia manifestazione di volontà, però quando c'è la sottoscrizione manuale non posso dimostrare che ho firmato senza leggere, che è quello che io non posso dimostrare, ma con la firma digitale il fatto è ben diverso, perché, è una firma della cui risultanza non c'è niente che rechi traccia delle caratteristiche della persona che ha sottoscritto o meglio della persona che ha posto la firma con la sua sottoscrizione, quindi niente mi consente di evincere che sia stato neanche vicino al mio naso il documento su cui risulta apposta la firma digitale, perciò l'acquisto della cosiddetta firma digitale, mi espone, in realtà, a una alternativa; o non uso quasi mai questa firma, cioè la uso soltanto io quando c'è la mia persona fisica presente oppure me ne avvalgo con la tecnologia della doppia chiave informatica che è legata ad una tecnologia di protezione molto particolare.

Il fenomeno della prova legale non va confuso con il principio di legalità della prova: abbiamo prova legale tutte le volte in cui il legislatore predetermina il valore probatorio del mezzo di prova. Il principio generale è quello contrario a quello posto dall'art. 116 comma 1°, e cioè la regola che spesso si qualifica la libera valutazione o convincimento del giudice del mero apprezzamento, inoltre l'art. 116 parla di facilitare il commercio, la prova legale facilita il riesame della decisione da parte del giudice dell'impugnazione gerarchicamente sopraordinato, perché, l'accertamento del fatto viene standardizzato, quindi trattazione orale della causa, concentrazione cioè svolgimento del processo per rendere le udienza più possibile ravvicinate, immediatezza cioè coincidenza fra il giudice presso il quale si accolgono le prove e il giudice che pronuncia intorno all'accertamento del fatto, si intende anche dire, che l'accertamento del fatto più accurato, è quello compiuto dal giudice in cui si accolgono le prove, cioè dal giudice di primo grado.

Ci può dire che l'elenco di prove legale, possono costituire inutili mezzi di disposizione del diritto attraverso il processo, si dice questa cosa a proposito della confessione o del giuramento, ma anche qui qualche obiezione si potrebbe formulare, perché, questa distorsione del rapporto tra atti sostanziali e atti processuali, può dar luogo a ingiustizie, sarà pur vero che si tratta di diritti disponibili, ma perché disporne incongruamente  e attraverso i mezzi di prova quando si può disporne attraverso gli atti negoziali dispositivi? Perché consentire l'elusione della disciplina degli atti sostanziali dispositivi? Il rischio forte è il rischio sostanziale, poi ci sono ragioni storiche dietro alle regole di prove legali, che sono ispirate dall'obiettivo di limitare la discrezionalità del giudice nell'accertamento dei fatti, probabilmente la più importante delle ragioni per cui è nato il sistema delle prove legali è stata questa: si temeva che il giudice decidesse a piacimento, ma se lo strumento più efficace per conseguire questo risultato, che vale la pena di perseguire, consiste nel valorizzare il vero significato della regola del libero convincimento, sicché il riferimento del libero apprezzamento il quale implica che la discrezionalità del giudice, nell'apprezzamento delle prove, non sia affatto pura, ma deve essere anche questa guidata da criteri razionali di critica della prova, da riconoscere intersoggettivamente verificabile, e di cui il giudice di merito deve dar conto della motivazione, onde assicurare che la decisione, pur non potendosi garantire che venga presa razionalmente, sia la meno razionalizzabile, pena il suo annullamento per vizio della motivazione.

Motivazione, controllo di conformità dei criteri razionali, può essere esercitato dal giudice superiore, dalla Cassazione, senza nessun particolare bisogno di regole di prova legale, anzi, plausibilmente, ottenendo risultati sul lungo termine, più accurati, proprio evitando, che tali criteri di razionalità siano rigidamente predeterminati dalla legge, perché la vera razionalità sull'indagine dei fatti è data dalla flessibilità! Gli automatismi, sono sintomo di un'intelligenza inferiore! Oggi, ci accorgiamo facilmente di quanto fossero assurde tante regole di prova legale nel passato, crescendo ce ne accorgiamo di come fossero aberranti le regole che distinguevano il valore della prova testimoniale a seconda se resa da uomini o da donne, per esempio. Regole che erano frequentissime per i sistemi di prova legali nel processo canonico, e anche in alcune stagioni del processo anglosassone.

Nella misura in cui le regole di prova legale minano in realtà la razionalità nell'accertamento dei fatti, e soprattutto quando rendono inammissibili prove dirette a dimostrare la falsità delle risultanze della prova legale, si debbano considerare, fondamentalmente, come relitti medievali anch'essi non compatibili con la garanzia costituzionale del diritto alla prova, e valga questa considerazione, anche, per l'impossibilità di dimostrare di aver firmato un documento senza leggerlo.

Questo dubbio, per altro, non si può porre con riferimento a quella che si può considerare, solo in senso lato, la regola di prova legale, in senso molto lato, perché, disciplina non gli effetti probatori dei mezzi di prova, ma se si vuole, quelli della mancanza di prove, più esattamente dell'incertezza sui fatti, cioè, si sta alludendo alla regola dell'onere della prova posto dall'art. 2697.

La regola ha due significati del tutto razionalmente condivisibili, anzitutto la regola vieta in caso d'incertezza sui fatti in cui il giudice non può pronunciarsi in mero rito, il giudice, in questi casi, può pronunciare sul merito della domanda, con provvedimento, quindi, potenzialmente idoneo a precludere la riproposizione della stessa.

In secondo luogo, la regola ripartisce tra le parti il rischio dell'incertezza attorno ai fatti, stabilendo poi, in sostanza che il giudice non accerta alcun effetto giuridico se non quando risultino accertati i fatti che lo abbiano prodotto.

Questa disciplina è stata molto dibattuta. In generale il problema dell'onere della prova è stato dibattuto in Germania.

Cosa si intende per onere, quando parliamo di onere della prova? Perché, in realtà, questo onere è un onere in senso improprio, come impropria è l'espressione che la parte deve provare come dispone l'art. 2697, perché è impropria? Perché all'omessa deduzione di prove, non consegue affatto, automaticamente, la sanzione consistente nel ritenere inesistente il fatto allegato, al contrario, vale nel nostro ordinamento il cosiddetto principio di acquisizione, il quale comporta che il fatto allegato sia ritenuto esistente anche quando viene provato tramite un mezzo offerto dal'avversario o tramite un mezzo assunto d'ufficio dal giudice, quindi, per chiarire questo aspetto si dice che nel nostro ordinamento, l'onere della prova è un onere in senso oggettivo e non in senso soggettivo. L'onere della prova in senso soggettivo, invece, si ritrova nell'ordinamento americano.

La regola dell'onere della prova che abbia significato oggettivo implica che si debba ritenere assolutamente sbagliato dire, come a volte si dice, che la presenza di poteri istruttori del giudice, cioè i poteri del giudice di disporre d'ufficio l'assunzione di mezzi di prova non dedotti dalle parti, rinvii la regola dell'onere della prova. L'art. 115 comma 1°, certamente enuncia un principio generale di disponibilità delle prove, per cui il giudice decide sulla base delle prove dedotte dalle parti, salvi i casi previsti dalla legge, e quando vale il principio opposto, sia quando si tratti di quei casi previsti dalla legge e il giudice dispone d'ufficio l'assunzione di prove, che sono diversi: c'è il caso dell'ispezione, c'è il caso di giuramenti suppletorio e istruttorio, c'è il caso di testimonianza de relato, cioè si afferma la regola del sentito dire che non è accettato dalla legge anglosassone, perché si ritiene che la giuria non sia in grado di valutare nel modo accurato il valore di una testimonianza de relato, nel nostro ordinamento, invece, la testimonianza de relato è perfettamente ammissibile, però si prevede, nel potere istruttorio del giudice, di chiamare il testimone diretto e disporre, egli stesso d'ufficio, che sia sentita la persona che ha direttamente assistito allo svolgimento dei fatti.

Nelle cause che non sono soggette a trattazione collegiale, inoltre, il giudice ha il potere di disporre d'ufficio l'assunzione di quei testimoni, ai quali le parti abbaino fatto riferimento negli atti di causa, compatibilmente con il divieto di scienza privata, ma non abbiano poi chiamato a deporre, nell'ipotesi in cui la parte, nell'atto scriva che erano presenti al fatto Tizio, Caio, Sempronio, chiamo a deporre gli stessi.

In alcuni riti speciali, ad esempio, in quello del lavoro, addirittura, il giudice può disporre anche d'ufficio l'assunzione di ogni mezzo di prova anche al di la dei limiti previsti dal codice civile.

Ebbene, tutto quello che accade in queste ipotesi, è che di fatto sarà curato il sistema di rigetto attorno ai fatti, ma la regola dell'onere della prova come tale, non viene minimamente intaccata, cambia, semmai, la frequenza della sua applicazione. Incidentalmente viene da osservare che il giudice ha scarsi strumenti per esercitare i suoi poteri istruttori, perché non è personalmente coinvolto nella lite, e quindi,  i fatti non li conosce, come fa a sapere, addirittura, che ci sono delle prove oltre a quelle dedotte dalle parti, inoltre, oltre ad avere scarsi strumenti ha scarsissimi incentivi a compiere indagini d'ufficio, perché il processo civile ha per oggetto diritti disponibili, quindi la causa può pur sempre essere definita dall'accordo delle parti, e allora con che voglia si svolgono le indagini d'ufficio!

Di regola, il funzionario pubblico si attiva spontaneamente nell'indagini, tuttalpiù se questo è il suo unico compito, se ciò mi garantisce visibilità, come il caso del PM nel processo penale, quindi anche quando il giudice possiede ampi poteri istruttori, rimane pienamente applicabile la regola dell'onere della prova, ogni qualvolta comunque esista incertezza intorno ai fatti, e non meno sbagliato è anche dire che incida sull'onere della prova qualsiasi regola che incrementi il dovere delle parti di cooperare nell'accertamento della verità, ad esempio vietando alla parte di mentire o imponendole di ottemperare agli ordini di esibizione di documenti anche contro la sua volontà.

Si sa bene che la parte non deve essere strumento del suo avversario e certamente nel contesto del processo penale può essere più facilmente comprensibile l'idea che la parte sia tenuta a cooperare all'indagine diretta ad accertare la responsabilità penale, e si può anche capire che la arte che non cooperi, o non voglia cooperare all'accertamento della verità nel corso del processo civile, magari non si spinga fino a mentire in giudizio, ma scelga il silenzio perché non vuole cooperare, questa parte non possa essere soggetta a sanzioni penali, ma molto più difficile è capire perché non possa essere soggetta a sanzioni in termini di diretta soccombenza nella lite, come pure in varie occasioni si prevede, per esempio: la parte che non si presenti a rispondere all'interrogatorio formale, è sanzionata dalla legge nel senso che il giudice debba ritenere sussistenti i fatti affermati, cioè che la mancata izione, senza giustificato motivo della parte, abbia l'effetto di una confessione dei fatti allegati e si traduca in sostanza automaticamente nella soccombenza nella lite, e allora perché non dovrebbe accadere lo stesso per la parte che si rifiuti di ottemperare all'ordine di esibizione!

Regole che prevedessero la soccombenza della parte che non ottemperi all'ordine di esibizione o qui prevedesse la diretta coercibilità nell'ordine di esibizione resa nei confronti della parte o resa nei confronti del terzo, in nessun modo eliminerebbero la vigenza della regola dell'onere della prova, che resterebbe intatta, tuttalpiù, sarebbe, forse, meno frequente la sua applicazione, cioè, di fatto meno frequente, la decisione della causa sulla base dell'applicazione dell'onere della prova, perché, sarebbe meno frequente l'ipotesi dell'incertezza intorno ai fatti.

L'onere della prova può essere suscettibile di essere invertito, può cioè accadere che un fatto debba ritenersi esistente fine a prova contraria, al contrario di quel che prevede l'art. 2697. Fonte di tale inversione, possono trovarsi nella legge o in atti di volontà delle parti. La legge inverte l'onere della prova con il fenomeno della cosiddetta presunzione legale relativa, qui occorre distinguere, anzitutto, il fenomeno della presunzione legale relativa da quella della presunzione legale assoluta, cioè quella che non ammette la prova contraria, e si tratta di ipotesi molto rare, che in realtà, costituiscono forme di semplificazione della fattispecie, e quindi, in questo caso non incidono sull'onere della prova, ma si potrebbe dire che lo eliminano in tanto in quanto, eliminano la rilevanza giuridica del fatto per un verso, per altro verso, le presunzioni legali iuris tantum, appunto relative, che ammettono la prova contraria vanno tenute seccamente distinte dalla presunzioni semplici o presunzioni del giudice.

Qui, il dettato normativo, ancora una volta suggerisce un po' di confusione. La presunzione semplice costituisce propriamente una modalità di assolvimento dell'onere della prova. Si verifica quando il giudice, da un fatto noto, trae conclusioni intorno ad un fatto ignoto, cioè si tratta sostanzialmente di un accertamento del fatto compiuto in via inferenziale, l'esempio che più spesso si fa, è quello della traccia della frenata nell'incidente automobilistico, da cui si desume quanto andava veloce la vettura; il fatto ignoto: la velocità e superamento dei limiti di velocità, si ricostruisce sulla base del fatto noto, cioè la lunghezza della traccia della frenata.

Il codice civile tende ad equiparare la presunzione legale relativa alla presunzione semplice dicendo che si tratta del caso in cui anche la legge, da un fatto noto trae conclusioni intorno ad un fatto ignoto. Le cose non stanno così! Perché la presunzione semplice, in realtà, non muove da alcun fatto noto, ma è seccamente l'inversione dell'onere della prova disposto in un caso particolare dalla legge. In che tipo di casi particolari? Per lo più, nel caso dei fatti negativi, certo! Proprio rispetto a quelli in cui tipicamente l'onere della prova si tradurrebbe nell'onere di una probatio diabolica, per lo più sopravviene una presunzione legale, tipicamente la più famosa è la presunzione di buona fede, perché la buona fede è un fatto negativo, in quanto è l'assenza di conoscenza della provenienza del bene dal soggetto che non è il proprietario, l'assenza di consapevolezza di complicità del torto, e provare la buona fede, vuol dire provare un fatto negativo, che io non ho mai saputo nel corso di anni, che quel bene proveniva da un soggetto che non era proprietario, è chiaro che sarebbe per me diabolico doverlo provare e che molto più facile per l'avversario provare il fatto positivo che io ne sia venuto in qualche modo a conoscenza, perché quello avrà per forza, una collocazione spazio-temporale più facilmente individuabile.

La distinzione fra fatti principali e fatti secondari, per cui i fatti principali sono i fatti produttivi degli effetti giuridici di cui si richiede l'accertamento in giudizio, fatti secondari sono quei fatti da cui si traggono conclusioni intorno alla sussistenza dei fatti principali, in casi, come si dice di monopolio delle parti  nell'introduzione dei fatti nel processo, al monopolio attinente all'introduzione di fatti principali, non all'introduzione dei fatti secondari, perché se si cambiano i fatti principali, si dice può darsi che si faccia valere un diritto diverso e quindi introdurli da parte del giudice violerebbe il principio dispositivo in senso sostanziale, cioè, renderebbero oggetto di decisione un diritto diverso da quello dedotto in giudizio dalla parte, mentre non si giustifica un monopolio delle parti nell'introduzione dei fatti secondari, perché, nel contesto di un sistema in cui vi sia un principio dispositivo attenuato, sotto il profilo processuale, in cui addirittura, il principio dispositivo sia del tutto abbandonato, come accade nel rito del lavoro, e che quindi il giudice possa disporre dei mezzi di prova senza limiti al di la di quelli richiesti dalle parti, questi mezzi di prova, debbono poter vertere anche su fatti diversi da quelli indicati dalle parti quando si tratti di fatti secondari, naturalmente sempre purché, dell'esistenza di questi fatti il giudice abbia appreso attraverso atti del procedimento, non necessariamente atti delle parti, perché neghiamo, appunto, che vi sia monopolio delle parti nell'istruzione probatoria, attraverso atti del procedimento, ad esempio dalla narrazione di altri testimoni, e quindi un testimone, che occasionalmente dice che si è verificato quest'altro fatto, se io sono un giudice del lavoro che può svolgere l'istruzione probatoria autonomamente, al di la delle indicazioni delle parti, io posso chiedere ad altri testi, sempre di cui sono a conoscenza attraverso gli atti del processo, di deporre anche intorno a questi ulteriori fatti che sono venuto a conoscenza tramite altri testimoni.

La norma dell'art. 5 ci interessa, in materia di lavoro, perché, prevede che la discriminazione possa essere provata anche sulla base di dati di carattere statistico, che l'onere della prova di un fatto negativo privo di connotazioni precise spazio/temporali, non può essere attribuito per effetto di un patto, perché sarebbe eccessivamente gravoso e incorrebbe un onere di probatio diabolica.

L'inversione può anche dipendere dall'iniziativa unilaterale, però, l'opinione dominante, nel senso che si debbano porre alle iniziative unilaterali condizioni talmente restrittive, da far si che il fenomeno sia privo di applicazione pratica, cioè, si può verificare l'inversione unilaterale dell'onere della prova, soltanto se la parte offra di provare l'inesistenza del fatto con l'esplicita assunzione delle conseguenze negative dell'insuccesso, altrimenti, la mera offerta di provare il contrario, e ciò che l'altra parte sarebbe oberata a provare, non può comportare l'inversione dell'onere della prova.

Neppure, potersi davvero affermare in via generale, che si produca l'inversione della prova per effetto della non contestazione dei fatti.

Altra ovviamente, è l'ipotesi della vera e propria confessione del fatto, dove abbiamo addirittura prova legale della sua esistenza, nell'ipotesi dell'ammissione del fatto, o riconoscimento della sua verità, ma non da parte della parte interessata, con applicazione della disciplina della confessione ammessa dalla parte attraverso il suo difensore tecnico e parliamo allora di ammissione, più difficile, in realtà, individuare uno specifico fondamento punitivo, è un'idea molto diffusa, peraltro, che possa aversi una rilevatio onere probandi con la conseguenza della mancata attestazione dei fatti, la legge pone diverse specifiche conseguenze per la mancata contestazione, quando per esempio, consente la pronuncia dell'ordinanza di amento di somme non contestate, arrivare però, a generalizzare questa conseguenza, sulla base del dato formativo è abbastanza faticoso. Ma ci sono disposizioni che prevedono l'onere di prendere specifica posizione verso i fatti allegati, perché, intanto quest'onere, normalmente non è previsto a pena di decadenza e non è proprio chiaro quale sia 'immediata conseguenza del mancato assorbimento di quest'onere.

Si può immaginare che il mancato assorbimento dell'onere di prendere posizione sui fatti allegati, sia non prendendone alcuna, sia prendendone genericamente, non può mai escludere alla luce dell'ordinamento ora vigente l'operatività, ma tuttalpiù può portare all'inversione dell'onere della prova e non può mai escludere che la prova dell'inesistenza del fatto non contestato possa essere presa, in ogni caso in considerazione dal giudice, allorquando venga da una sua iniziativa istruttoria.

Le presunzioni giurisprudenziali, sono un fenomeno che riguarda la tendenza della giurisprudenza, ad avvisare presunzioni che non sono ne semplici, perché non sono fondate sulla inferenza dell'accertamento dei fatti secondari, e non sono nemmeno previste dalla legge, e si parla in questo caso, di presunzione giurisprudenziale, nome riconosciuto in dottrina col quale si allude a orientamenti giurisprudenziali tendenti per dare esistenti fatti non provati, in mancanza, però, di norme o di manifestazioni di volontà delle parti che l'autorizzino a fare ciò. Esso costituisce una secca disapplicazione della norma posta dall'art. 2967, quindi non può essere approvata con troppa leggerezza, si tratta di capire perché succede per fare in modo di orientare che succeda, e di solito, questo fenomeno emerge nell'intento di venire incontro a particolari difficoltà di ricerche della prova, quindi sia in cui ipotesi le particolari difficoltà di accesso alla prova derivino dalla struttura del fatto, nella circostanza che si tratti di un fatto negativo, in particolare quello privo di spazi temporali precise, sia emergono in particolari settori in cui la difficoltà di accesso alla prova del fatto dipende dalla situazione di debolezza della parte, per cui, il fenomeno è ricorrente, soprattutto nelle controversie di lavoro, dove si cerca di supplire alle difficoltà che questa parte incontra nel conflitto sostanziale e nella gestione processuale del profilo sostanziale, al punto che le disparità di accesso alla prova di fatti, che sussistono nelle controversie tra datore di lavoro e lavoratore, vengono alleviate e non soltanto con l'utilizzazione di poteri istruttori d'ufficio, ma anche attraverso il ricorso a presunzioni giurisprudenziali, cioè, all'inversione dell'onere della prova che non risultano esplicitamente giustificate nei disposti legislativi nella pattuizione sopravvenuta tra le parti.

·    Le prove orali e prove documentali

Nel diritto anglosassone, le prove consistono essenzialmente in testimonianze, cioè dichiarazioni orali rese in udienza su domanda delle parti, o meglio dai loro difensori, in tale maniera si acquisiscono le dichiarazioni, sia di chi è a conoscenza dei fatti, sia delle parti, sia degli esperti qualificati per fornire conoscenze tecniche utili per comprendere come possa essersi formata la dinamica dei fatti, il processo civile italiano, soprattutto dal punto di vista del diritto delle prove, è collocato tradizionalmente su di un versante opposto, per evitare il sistema processuale canonico, si è tante volte, in questo secolo, contrapposto il mito dell'oralità è rimasta largamente immutata e ancora, le più recenti riforme hanno inciso pochissimo su quest'assetto. Certo! Rispetto al processo medioevale molto è cambiato, ad esempio il principio di immediatezza è più largamente attuato, perché la prova delegata, cioè la prova assunta da un giudice diverso da quello che decide sul fatto, è limitata ai csi in cui debba assumersi fuori dalla circoscrizione, ai sensi dell'art. 203, è un'attenuazione della tradizione che si avvicina al principio dell'immediatezza, anche se deve ricordarsi che una realizzazione piena del principio di immediatezza si ha soltanto quando il giudizio sul fatto, compiuto da colui dinnanzi al quale le prove sono state assunte, è quasi del tutto insindacabile, come avviene laddove il processo si svolga dinanzi alla giuria anglosassone.

Già solo l'idea che si abbia un nuovo giudizio sul fatto in sede di appello sulla base delle risultanze probatorie acquisite in primo grado, quindi sulla base della documentazione compiuta nel processo verbale, attenua di molto la realizzazione del principio di immediatezza nel suo significato più compiuto.

Inoltre, l'oralità in materia di prove, rimane ativamente assai limitata, anche sotto ulteriori profili, per esempio: si deve rimarcare che l'assunzione della prova testimoniale è fortemente formalizzata, perché al teste si pongono soltanto le domande previamente formulate dalle parti tramite la cosiddetta modulazione ai sensi dell'art. 244, a queste domande possono aggiungersi domande di chiarimento ex art. 253 che il giudice può porre, ma solo intorno ai fatti già individuati nei moduli e questo comporta che nonostante, in teoria, le domande vengono poste dal giudice, nella prassi, questi si limiti a prendere cognizione sottoscrivendolo nel verbale redatto per iscritto addirittura dai difensori stessi.

In secondo luogo, la prova testimoniale soffre gravi limiti di ammissibilità di carattere oggettivo derivanti dalla preferenza del legislatore per le prove scritte, ritenute più affidabili, preferenza che si manifesta non solo nell'attribuzione a gran parte delle prove scritte del carattere di prova legale, ma anche nella preferenza per le prove scritte rispetto alle prove orali, alché, non è ammessa senza specifica autorizzazione del giudice, la prova testimoniale di contratti superiori a un valore molto modesto, non è ammessa se non quando il giudice ritenga verosimile che il contratto sia stato modificato verbalmente e la prova testimoniale di fatti modificativi posteriori alla modificazione del documento e addirittura non è ammessa in via di principio laddove si ravveda la sussistenza di patti modificativi del contenuto del documento conclusi anteriormente o contemporaneamente alla redazione dello stesso, sul presupposto che sia inverosimile che la dice, questa ipotesi, la modificazione del verbale del contratto, salvo che, sussista un principio di prova scritta, col che, si intende dire che sussista una prova scritta priva dei requisiti pieni della scrittura privata, per esempio una scrittura non sottoscritta, oppure, salva l'ipotesi in cui la parte dimostri di essere stata nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi il documento, ovvero ancora, nell'ipotesi in cui abbia perduto il documento senza colpa, documento, si intende dire, rappresentativo del patto modificativo, con la conseguenza che non è ammissibile provare un patto modificativo anteriore o contemporaneo alla stipulazione del documento che sia stato effettivamente compiuto soltanto verbalmente, è necessario che ci sia pur sempre un documento, che si provi che c'era un documento anche se non si è in grado di produrlo in giudizio, e questo a prescindere  dalla circostanza che per il contratto sia richiesta la forma scritta ai fini della validità, o anche solo ai fini della prova, quando, addirittura, sia richiesta la forma scritta del contratto per la prova o per la sua validità, in questo caso, la prova testimoniale del contratto stesso, è ammessa soltanto se si dimostri la perdita incolpevole del documento.

Si discute, intorno alla portata dell'art. 421 sotto questo punto di vista, nella parte in cui ammette il ricorso  a mezzi di prova disposti d'ufficio dal giudice anche al di la dei limiti previsti dal codice civile, è abbastanza pacifico che il giudice possa disporre l'attenzione di prove testimoniali per quanto riguarda i patti modificativi e per quel che riguarda i contratti di valore superiore a 5.000 lire.

Più controverso è sei il giudice possa, nell'esercizio dei suoi poteri istruttori d'ufficio, derogare anche ai limiti di ammissibilità della prova testimoniale rispetto ai contratti per i quali la forma scritta sia richiesta ai fini della validità o ai fini della prova, qualcuno sostiene che se il giudice lo facesse, finirebbe per derogare anche alla disciplina della forma del contratto. Nel discorso va però osservato, senz'altro, non si presta ad applicarsi, rispetto ai contratti i quali la forma scritta sia richiesta ai fini della prova, come per il contratto di transazione per l'avvocato, e per quanto riguarda l'ipotesi in cui la forma sia richiesta ai fini della validità, la conclusione che il giudice del lavoro non possa derogare ai limiti di ammissibilità previsti dal codice civile, è da respingere per cui si presenti una conseguenza della circostanza che la forma sia richiesta ai fini della validità,perché se noi vogliamo dedurre tramite prova testimoniale la conclusione di un contratto di compravendita immobiliare, e ci riferiamo a questi tipo di contratti attinenti a diritti reali, in forma orale, è chiaro che la stessa prova è inammissibile, perché, irrilevante fondamentalmente, nel senso che non ha rilevanza giuridica la conclusione in forma verbale di un contratto di compravendita immobiliare, ma se andiamo a provare per testimoni, che effettivamente quel contratto è stato concluso in forma scritta, è ragionevolissimo, che nel contesto del contenzioso del lavoro, si possa derogare i limiti di ammissibilità previsti dal codice civile in tanto in quanto, questi consentono la prova per testi che il contratto si è concluso in forma scritta soltanto nell'ipotesi di perdita incolpevole del documento, pertanto, dovrebbe ammettersi che nel campo del lavoro, la prova testimoniale della conclusione, sempre per iscritto del contratto di compravendita immobiliare, anche quando il documento sia stato perduto colpevolmente, è una disciplina anche nei limiti soggettivi dell'ammissibilità della prova testimoniale, che si aggiunge ai diritti di astenersi dal deporre (la tutela dei segreti professionali) nel comprimere l'utilizzabilità delle prove testimoniali.

Alcuni, dei limiti soggettivi dell'ammissibilità della prova testimoniale sono stati eliminati dalla giurisprudenza costituzionale, in attuazione della garanzia del diritto alla prova, sicché, il divieto di testimonianza dei parenti stretti a favore delle questioni di stato, contemplato dall'art. 247, non è più in vigore e lo stesso dicasi per i limiti all'audizione dei minori di anni 14, contemplata dall'art. 248, questi possono essere sentiti come testimoni, con una precisazione, ovviamente, che la modalità dell'assunzione della prova testimoniale deve essere diversa, ma in che cosa? Qual è la prima cosa che si fa fare ad un testimone? Lo si fa giurare! E su questo si innesca la responsabilità penale per la falsità della testimonianza. Ebbene, il minore di 14 anni, non è imputabile, come tale, pertanto, non è comunque soggetto a responsabilità penale in caso di falsità, anche accertata, delle sue dichiarazioni testimoniali e quindi non lo si fa nemmeno giurare!

Però, è rimasto in vigore, sebbene non siano mancate varie ipotesi di rimessioni alla Consulta della questione, la cosiddetta incapacità di testimoniare posta dall'art. 246 a carico di quei soggetti che vi avrebbero un interesse nella causa, che potrebbe legittimare di intervenire nel giudizio come parti. Il fondamento di questa esclusione si rinviene nella generale impostazione restrittiva dell'uso della testimonianza, che caratterizza il nostro ordinamento, sul presupposto che in sostanza saremmo al cospetto di parti potenziali e le parti, in realtà, non testimoniano nel nostro processo civile, anche se nel processo non vuol dire che non ci siano dichiarazioni orali delle parti, anzi, le parti sono tenute a ire personalmente e per rispondere anche a domande non previamente formulate, nel cosiddetto interrogatorio libero di cui all'art. 117.

È chiaro che nel requisito della previa formulazione delle domande c'è anche un altro aspetto di dequalificazione dell'importanza della prova orale, perché è vero che il contenuto in termini di scoperta della verità che si può conseguire da domande che il testimone, con molta probabilità, già conosce, è abbastanza modesto, per distinguere il testimone menzognero da quello sincero, ma nel nostro sistema questo è irrilevante, in quanto poggia sulla prova documentale ed ha una scarsa fiducia di fondo nella dichiarazione orale, quindi ci troviamo in un circolo vizioso, avendo scarsa fiducia la si assume come se contasse poco e poi i risultati confermano che c'è da avere poca fiducia, per esperienza di una prassi che rileva quanto sia diffusa in concreto, nella nostra vasta esperienza giurisprudenziale la falsità della testimonianza .

Alle dichiarazioni rese in tale sede dalle parti, così come in realtà, al rifiuto ingiustificato di presentarsi, o di rendere dichiarazioni nel contesto dell'interrogatorio libero o più in generale, al comportamento processuale delle parti, ad esempio elusivo o dilatorio, si attribuisce un valore probatorio non pieno, ai sensi dell'art. 116 comma 2°, e ciò implica che non possa fondarsi l'accertamento di un fatto esclusivamente su uno di tali elementi, si dovrebbero, cioè trovare riscontro altrove, applicandosi un principio generale come disposto dall'art. 2729 del c.c., in cui ammette il ricorso alle presunzioni semplici, soltanto quando queste siano gravi, precise e concordanti e i requisiti della concordanza è normalmente inteso nel senso che la prova per presunzione sia costituita da un ragionamento inferenziale che trovi riscontro almeno in un ragionamento inferenziale diverso e giustificato da una fonte diversa.

Gravità e precisione, fanno riferimento alla univocità del nesso tra fatto noto e fatto ignoto e qui, c'è un fenomeno curioso, cioè, dall'esame della giurisprudenza, si scopre che ci sono molte oscillazioni intorno al principio sulla questione se la presunzione possa operare solo quando ci sia un nesso ineluttabile ed indefettibile tra fatto noto e fatto ignoto, o anche quando vi siano forti probabilità che la fatto noto debba ricollegarsi il fatto ignoto. Questo fenomeno accade nella Corte di Cassazione allorché compie il sindacato indiretto sull'accertamento del fatto attraverso l'esame della collimazione, qui è probabilmente fondato  il sospetto che queste oscillazioni giurisprudenziali costituiscano uno strumento con cui la giurisprudenza della Cassazione si presta alla giustizia del caso concreto, e quindi profittare dei suoi poteri di riesame in diretta, dove l'accertamento del fatto attraverso il controllo sulla motivazione, per compiere, in realtà un esame diretto della conclusività dei mezzi di prova e confermare o meno la sentenza a seconda se ritenga che, in presenza di forti probabilità, sia effettivamente ragionevole o meno raggiungere la conclusione raggiunta dal giudice, e quindi, quando ritiene che la conclusione sia irragionevole, dice che ci vuole la certezza, e non basta la probabilità, quando la ritiene ragionevole, anche la probabilità va bene  e non c'è bisogno della certezza.

Attraverso questa oscillazione la Cassazione tende un po' ad abusare dei suoi poteri di controllo, perché ora è impegnata soltanto a formulare il principio ed applicarlo in maniera sistematica, preferibilmente il principio secondo cui è sufficiente una forte probabilità che tutto sommato è più ragionevole di quello che richiede la certezza del nesso tra fatto noto e fatto ignoto.

Comunque, secondo la dottrina, le presunzioni semplici e più in generale gli argomenti di prova e anche le cosiddette prove atipiche, tra cui prevalgono per esempio le certificazioni amministrative, dovrebbero assumere il valore della cosiddetta semiplena probatio, si tratta però, di una tesi dottrinale non accolta dalla giurisprudenza, che in realtà, spesso e volentieri fonda la decisione su tali elementi anche in assenza di riscontri, e questo orientamento della giurisprudenza appare criticabile solo nella misura in cui le inferenze non violino criteri generali di razionalità, posto quanto si è detto a proposito della prova legale.

Solo eccezionalmente avviene, che le parti, prestino giuramento, questo può definirsi d'ufficio, secondo la legge, per integrare una prova semipiena, si tratta di giuramento suppletorio, ovvero per determinare un valore della cosa oggetto della controversia, e si parla in questo momento di giuramento estimatorio, puo, poi definirsi, ma soltanto su istanza dell'avversario, nonché essere da questo riferito a colui che originariamente era deferito, per farne dipendere, come si dice, la decisione totale o parziale della causa, e si riferisce in questo caso al giuramento decisorio, che è, potremmo dire, il più eclatante e discutibile dei casi di prova legale.

Infatti, avendo giurato, la parte può rispondere, in sede penale, della falsità delle sue dichiarazioni, però, in sede civile il giuramento è una prova legale assoluta, rispetto alla quale non è ammessa alcuna prova contraria, salva solo l'ipotesi in cui sia reso in un processo poi estinto , in questo caso l'applicazione dell'art. 310, in forza del quale le prove assunte nel processo estinte sono utilizzate in un diverso processo, ma con il valore di argomento di prova e in quest'ipotesi, il giuramento decisorio perde la sua forza concludente.

Non produce l'effetto vincolante della prova legale, il giuramento che sia prestato da soli alcuni fra più litisconsorti necessari, e ciò in forza del suo carattere indirettamente dispositivo del diritto sostanziale, comunque, al di la di queste ipotesi invece, il giuramento è concludente se la parte soccombente, per effetto delle dichiarazioni così giurate, può ottenere soltanto il risarcimento dei danni a seguito della condanna penale per falsità del giuramento del suo avversario, e paradossalmente, non è nemmeno possibile, e la legge lo specifica, ottenere la revocazione della sentenza sulla base della dimostrazione che sia stata conseguita, appunto, attraverso una prova falsa, perché la legge si premura di escluderlo esplicitamente.

L'assurdità del sistema del giuramento decisorio, che probabilmente è la più medioevale delle prove legali, spiega, quindi, il perché sia di scarsa applicazione pratica, in concreto, a prescindere dalla sussistenza dei diritti di ammissibilità riferibili anche a questo mezzo di prova e che possiamo brevemente ricordare! Deve vertere su un fatto proprio a conoscenza del fatto altrui, parliamo rispettivamente il giuramento de veritate o de scientia, non può avere ad oggetto fatti illeciti, evocandosi una delle tante varianti del dilemma per la parte se giurare il falso che riconoscere la sua responsabilità del fatto illecito, inoltre, non può deferirsi in materia di diritti indisponibili, non può essere utilizzato per la prova di contratti per i quali la forma è richiesta ai fini della validità, mentre può essere usato per la prova di contratti, per i quali la forma sia richiesta ai fini della prova e quindi può essere utilizzato per provare la trascrizione, e ancora, non può contrastare le risultanze di un atto pubblico, cioè di una prova legale che ha un'efficacia conclusiva maggiore rispetto al giuramento decisorio.

Da ultimo, in materia di dichiarazioni delle parti, occorre, infine, esaminare l'efficacia delle dichiarazioni delle parti rese fuori dalla sede del giuramento e fuori dalla sede dell'interrogatorio libero, esaminando in particolare il cosiddetto interrogatorio formale.

Questo verte, come la testimonianza solo sulle domande previamente formulate dalle parti, salve ancora, le domande a chiarimento del giudice sugli stessi fatti, e qui, l'efficacia probatoria delle risposte dipende dal loro contenuto. Ha valore di prova il rifiuto ingiustificato di non presentarsi o di non rispondere, lo hanno, teoricamente, anche le dichiarazioni favorevoli alla parte, però, dato che essa non risponde penalmente della loro falsità, la loro credibilità è modesta.

Le risposte a contenuto confessorio, invece, cioè quelle in cui la parte dichiari fatti a se sfavorevoli e favorevoli all'altra parte, come pure le dichiarazioni confessorie rese spontaneamente nel giudizio, cioè al di fuori della sede e dell'interrogatorio formale e dell'interrogatorio libero purché reso dalla parte personalmente, ha valore di prova legale proprio della confessione, ovviamente, quelle rese spontaneamente dalla parte personalmente. Ricordiamo invece che quelle del difensore costituiscono ammissioni, che così come le non contestazioni, non escludono invece, che si tenga conto della prova contraria comunque acquisita a giudizio, restando poi salva la differenza tra ammissione e non contestazione sotto il profilo della ritrattabilità, essendo comunque, validamente prestata la contestazione tardiva in realtà, almeno ai fini della prova, non essendo previsto un onere di contestazione a pena di decadenza, si potrebbe concludere che la non contestazione è ritrattabile efficacemente, provvedendo a una contestazione tardiva almeno nel corso del giudizio di primo grado, poi, per quel che riguarda l'appello, secondo la giurisprudenza più recente le cose si fanno complicate, mentre l'ammissione non è tanto facilmente ritrattabile, perché una volta avvenuta, è chiaro che il giudice ne terrà conto anche se vi fosse una successiva contestazione.

Le risposte confessorie, si diceva, hanno, invece, valore di prova legale esclusiva dell'ammissibilità di qualsiasi prova contraria salve alcune eccezioni, che in realtà sono abbastanza numerose. Innanzi tutto in materia di diritti disponibili, anche in questo caso, è liberamente valutabile la dichiarazione, quando essa sia resa soltanto da alcuni litisconsorti necessari, quindi ovviamente, la dichiarazione confessoria resa in un processo estinto è liberamente valutabile nel successivo processo, in cui siano prodotte le risultanze dell'acquisizione di questa dichiarazione, e inoltre, deve ricordarsi il caso della cosiddetta dichiarazione complessa, in generale in materia di prove si applica il principio dell'inscindibilità della dichiarazione, pertanto, nell'ipotesi in cui la parte nel confessare aggiunga circostanze tali da infirmare l'efficacia dispositiva della confessione, per fare l'esempio classico"..è vero che ho preso 100 lire in prestito, ma le ho già restituite!!..", in queste ipotesi vale il principio dell'inscindibilità, per cui si danno due alternative; l'una è che la controparte contesti le dichiarazioni aggiunte, cioè contesti che le 100 lire siano state già restituite, in questo caso l'intera dichiarazione si considera liberamente valutabile, sia dalla parte confessoria sia dalla parte in cui sono aggiunte dichiarazioni contrastanti; nell'ipotesi in cui, invece, la controparte non contesti, in questo caso ha valore di prova legale la dichiarazione confessoria, ma ce l'ha la dichiarazione nel suo complesso e quindi anche nella parte in cui aggiunge la circostanze che infirmano l'efficacia della dichiarazione, e sicché conviene contestare!

Sono liberamente valutabili le dichiarazioni confessorie rese fuori del giudizio e che non siano rivolte alla parte o al suo rappresentante, così come le dichiarazioni confessorie rese nel corso dell'interrogatorio libero.

Per quel che riguarda le dichiarazioni rese al di fuori del giudizio, ci sarà anche il problema di provare in giudizio che la dichiarazione è stata resa, e naturalmente la prova può essere data tramite prove legali, ovvero tramite prove liberamente valutabili, per esempio tramite prove testimoniali di terzi che vengano a riferire che l'avversario ha reso la dichiarazione confessoria. Non bisogna confondere, ovviamente la più o meno libera valutabilità della prova che la dichiarazione è stata resa, con la più o meno libera valutabilità della dichiarazione stessa.

Questa scissione va tenuta presente, anche per capire il meccanismo di operatività dei mezzi di prova, come la scrittura privata, in cui l'efficacia vincolante è riferita alla provenienza delle dichiarazioni, sicché il carattere conclusivo della prova per scritture private, in realtà, dipende largamente dal contenuto delle dichiarazioni presentate tramite la scrittura.

Vi è da ricordare la possibilità della revoca della confessione per errore di fatto, o per violenza morale, mentre eccezionalmente si attribuisce una rilevanza ai vizi della volontà, mentre, non rileva,  il tono che non comporti errori, nonché l'errore intorno alle conseguenze giuridiche della dichiarazione. Se c'è proprio violenza fisica, diventa superflua la regola, perché in questo caso deve escludersi, addirittura la volontarietà della dichiarazione.

L'inefficacia e l'efficacia di tutte le prove, riguarda esclusivamente i fatti, pertanto la dichiarazione non può vincolare il giudice rispetto alle conseguenze giuridiche dei fatti stessi, il che comunque iure novit curia, sicché, la confessione di essere debitore, nella misura in cui subisce le conseguenze giuridiche, non ha efficacia concludente, specialmente a quanto avviene in altri sistemi in cui si ammette l'efficacia dispositiva al riconoscimento del diritto, convinto per esempio dal convenuto!

Il giudice non può negare la sussistenza di atti sostanziali dispositivi attraverso il processo, e qui, il compimento di atti possono avere sia natura processuale sia sostanziale e si tende a prevedere che debbano essere compiuti, quindi, dalla parte personalmente e non dal difensore, perciò, difficilmente si ammette un meccanismo puramente processuale di disposizione del diritto come quello della confessio in iure, comunque si diceva stragiudiziale, in quanto in tanto, provata tramite prova legale o in caso di dichiarazione resa, ha valore di prova legale resa alla parte o al suo rappresentante e non vi è invece quando resa ad un terzo , contenuto in un testamento, in qual caso liberamente valutabile.

La dichiarazione resa al di fuori del giudizio non è più automatico considerarla prova costituenda in senso stretto, come normalmente la si considera, e va provata in giudizio, evidentemente, tramite prove precostituite a volte tramite prove costituende, ma in se, può considerasi prova costituenda.

La distinzione e la disciplina da applicare tra prove costituende e prove precostituite, si lega alle prove documentali, che sono tipiche prove precostituite, da contrapporsi, appunto alle appena esaminate prove orali a cui si possono aggiungere prove costituende, come le ispezioni, il che provano una disciplina particolare nel processo del lavoro, qualificandosi come accessi, ispezioni la cui ammissibilità è limitata da idealisti principi generali, che limitano l'ammissibilità degli ordini di esibizione e di documenti, a loro volta derogati in particolari ipotesi in materia di esibizione in materie contabili, ecc..

A differenza delle presunzioni semplici, le prove documentali, sono soggette al regime della prova legale, il che le rende largamente conclusive e di pubblica fede, ma questa pubblica fede comporta che non sia ammissibile che possa darsi prova contraria intorno alla sua data, alla sua provenienza da quel pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché intorno alle dichiarazioni che il pubblico ufficiale attesti state rese dalle parti in sua presenza, nonché, intorno ai fatti che egli, ivi attesta che si sono verificati in sua presenza o essere stati da lui compiuti.

Si suole osservare, in questa pubblica fede, che prova l'estrinseco e non l'intrinseco, in particolare, essa concerne la circostanza che le dichiarazioni delle parti siano state rese, ma non si estende ad attestare la loro veridicità. Alcuni pubblici ufficiali, in particolare i notai, sono tenuti anche ad attestare le dichiarazioni sottese in assenza di vizi di volontà, ma che poi, le dichiarazioni delle parti siano veritiere, non è minimamente attestato dal pubblico ufficiale, è vero ciò che dichiara del contenuto il pubblico ufficiale dell'atto, le dichiarazioni del pubblico ufficiale, sono da considerarsi vere, ma le dichiarazioni dichiarate delle parti ben possono esser valse senza che con ciò si abbia una falsità dell'atto pubblico, e la loro falsità può essere veramente dimostrata.

La falsità del giudice può essere valutata in una falsità ideologica, che si ha quando non rispondono al vero le dichiarazioni del pubblico ufficiale, oppure, in una falsità materiale, che si ha quando il documento è stato alterato, o modificato successivamente, ovvero contraffatto non è un documento prodotto da un pubblico ufficiale.

La falsità dell'atto pubblico, peraltro, può dimostrarsi soltanto attraverso lo strumento del procedimento di querela di falso, procedimento che è autonomo e può anche essere proposto in via principale  e non in via incidentale nel contesto di una causa nella quale venga introdotto l'atto pubblico, ed è uno di quei pochi casi in cui, si suole dire che, il giudicato civile opera rispetto ai fatti, al mero fatto della falsità del documento intorno all'effetto giuridico prodotto dal fatto.

La querela di falso può essere prodotta in via principale, cioè autonomamente, o anche in via incidentale nel giudizio in cui l'atto è prodotto come prova, in questo caso occorre il conferimento al difensore di una procura speciale e la querela, con cui si chiede di dichiarare la falsità dell'atto pubblico deve contenere anche l'indicazione degli elementi e delle prove della falsità e gli aspetti della falsità del documento, cioè indicare dove il documento è stato alterato, ovvero, quali, delle dichiarazioni rese da pubblico ufficiale, nel redigere l'atto, non rispondano al vero.

L'interpello della parte che ha introdotto il documento, può rendere inutile il procedimento di querela, rinunciando ad avvalersene come prova, così si può innescare il regolamento di competenza funzionale, che può rendere necessario un sospensione del giudizio di merito che si svolga dinanzi all'autorità giudiziaria diversa dal tribunale. Nel procedimento di querela di falso è necessario l'intervento del PM, il documento è soggetto ad un sequestro , che ha carattere anomalo, perché, si ritiene utile che abbia la caratteristica del processo penale e non quello civile e non costituisce un sequestro, in realtà giudiziario di prove.

Il giudicato, si ritiene che operi ultra partes e l'esecuzione della sentenza di querela può avvenire soltanto dopo il suo passaggio in giudicato, dove può essere promossa anche dal PM, e questo, credo che sia da ricordare a proposito della scrittura privata!!!!!..??

Non si ritiene nella legge una definizione esplicita della scrittura privata, ma possiamo agevolmente definirla come un documento scritto e sottoscritto. Il documento è una res che rechi le tracce degli avvenimenti fattuali, da cui appunto possano evincersi conclusioni attorno agli avvenimenti stessi, e la sottoscrizione del documento stesso porta ad un'assunzione di paternità della dichiarazione, delle dichiarazioni contenute nel testo sovrastante, che può essere stato scritto da chiunque, ma quello che conta è la mano che ha compiuto la sottoscrizione, il cui effetto probatorio è regolato dall'art. 2702, cioè, la scrittura privata fa piena prova, fino a quella di falso, della provenienza delle dichiarazioni da parte del soggetto che l'ha sottoscritta.

La sottoscrizione si ha autenticata, e si identifica quando il pubblico ufficiale attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, ma è importante nel processo civile anche la circostanza che il riconoscimento può essere anche tacito, o più esattamente che la parte che sia imputata la sottoscrizione di una scrittura, abbia, allorché la scrittura sia depositata in giudizio, l'onere di disconoscerla tempestivamente, cioè subito! Una volta depositata la scrittura, la parte contro cui è prodotta ha l'onere di disconoscere la sottoscrizione nella prima difesa successiva al deposito dell'atto.

Particolare è la disciplina che si applica alle parti contumaci, perché, in queste ipotesi la sottoscrizione si ha per riconosciuta, ma è anche concesso al contumace di costituirsi tardivamente e disconoscere la scrittura in quell'occasione. Ricordiamoci, per altro che la Corte Costituzionale ha modificato l'art. 292 prescrivendo che al contumace sia notificata personalmente l'avvenuta produzione di scritture private nei suoi confronti, in tanto in quanto appunto, dal mancato disconoscimento discendono dalla protrazione dell'inattività del contumace conseguenze sfavorevoli nei suoi confronti, cioè, la scrittura si ha per disconosciuta finché il contumace non si costituisca in giudizio.

Il disconoscimento è attenuato per gli eredi della parte che abbia sottoscritto, i quali possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la sottoscrizione del loro autore senza avere l'onere ulteriore di affermare che essa non è autentica.

La parte che intenda ancora avvalersi della scrittura privata come mezzo di prova, può contrastare questo disconoscimento promuovendo un procedimento che, si dice di verificazione della scrittura privata, come il procedimento di querela di falso è un procedimento autonomo a domanda, con la quale si da vita ad un autonomo giudizio, che ha per oggetto l'accertamento, non di un effetto giuridico, ma di un fatto, cioè la genuinità della stessa sottoscrizione. Tale genuinità viene effettuata attraverso ricorso a scritture di azione, e l'accoglimento della domanda comporta la declaratoria della sottoscrizione di mano della parte; la legge fa riferimento alla sottoscrizione e alla scrittura. Posto che, ai fini dell'efficacia della prova legale della scrittura privata, è del tutto irrilevante di quale sia la mano del testo sovrastante la sottoscrizione, si è ardito che oggetto del riferimento di verificazione della scrittura privata, possano anche essere prove scritte diverse dalla scrittura privata, cioè prove scritte non sottoscritte, in riferimento a quella serie di prove scritte non sottoscritte che pure il c.c. regola, come ammissibili mezzi di prova al processo civile, per esempio le scritture domestiche o le annotazioni a margine di un documento, che sono utilizzabili nel processo, in tanto in quanto, anche non sottoscritte, ma in quanto siano olografe della parte interessata, e in questo caso rileva giuridicamente, la circostanza che sia di mano della parte, la scrittura, ancorché non sussista alcuna sottoscrizione. Quindi se la sottoscrittura è vera, la provenienza della dichiarazione può escludersi ricorrendo soltanto alla querela di falso, cioè solo in presenza di falsificazioni, pertanto non si può riconoscere la provenienza del documento, ma non delle dichiarazioni che contiene, magari affermando di non averle lette, si può, tuttalpiù, far valere il vizio della volontà, dell'errore, la divergenza davanti alla dichiarazione trasmessa e quella ricevuta, ma in  questa maniera non si può pregiudicare i terzi in buona fede, e la fattispecie di maggior rilievo, sotto questo profilo, è certamente quella del "biancosegno", in cui la giurisprudenza ritiene che si possa applicare estensivamente, la disciplina della querela di falso in caso di biancosegno compiuto absque partis, mentre il riempimento contra pacta non consente l'esperimento della querela di falso e l'eventuale divergenza tra il prezzo concordato e quello redatto non può essere fatto valere in pregiudizio dei terzi in buona fede.

Questo spiega, appunto, di cosa non vada nell'equiparazione alla scrittura privata del documento informatico sottoscritto con firma digitale, perché la firma digitale è un codice alfanumerico di cui non ha nemmeno senso verificare se sia di mano.

Oltre a quelle esaminate sino ad ora ci sono anche le scritture contabili, ed il telegramma con effetti analoghi a quelli della sottoscrizione della scrittura privata, e questo si verifica allorquando si possa dimostrare che la parte si sia recata nell'ufficio telegrafico ad inviare la dichiarazione, inoltre, c'è una disciplina particolare della prova della divergenza per la dichiarazione trasmessa e la dichiarazione pervenuta al destinatario, che ha dato adito a qualche difficoltà interpretativa, perché la norma dispone che è esente da colpa, quelle divergenze tra la volontà della dichiarazione trasmessa e quella ricevuta dal destinatario e la giurisprudenza ha riconosciuto che in ogni caso non è prescritta, alla parte, la collazione del documento, quindi non può considerarsi in colpa nemmeno la parte che non abbia fatto collazionare il telegramma.

·    I limiti soggettivi del giudicato

Il primo caso problematico è quello dell'individuazione della nozione di terzo, perché il codice utilizza il termine "parte", con una variabile di significati diversi, ci siamo già imbattuti nel problema di interpretare quando ci si riferisce alla parte per regolare attività che svolge o possono essere svolte dalla parte, ovvero, dal suo difensore tecnico munito di procura alle liti, e quando si riferisce alla parte per intendere la parte personalmente, per riferirsi ad attività che non possono essere delegate al procuratore. Ricordandoci questa cosa, affrontiamo un'ulteriore prospettiva dell'ambiguità del significato del termine parte, che è quella che emerge, che per parte si possono intendere cose molto diverse: si può intendere il soggetto che compie gli atti del processo, si può intendere il soggetto nei cui confronti si producono gli effetti degli atti del processo, e non necessariamente si tratta della stessa persona, si può intendere il soggetto nei cui confronti è stata proposta la domanda, si può intendere quel soggetto, che è in realtà, coinvolto nel conflitto e che quindi deve essere considerato la giusta parte.

Prendiamo per esempio il disposto dell'art. 102, nella parte in cui stabilisce che se la sentenza deve essere pronunciata nei confronti di più parti, tutte queste debbono agire, o essere convenute nello stesso processo, allora, qui si fa riferimento a parti, che potrebbero non essere ancora attori o convenute nel processo, e che devono essere resi tali, cioè le giuste parti, come ama spesso dire la dottrina, che nel momento in cui si deve applicare l'art. 102, non sono attori ne convenuti nel processo, quindi non rientrano ancora in nessuna delle tre possibili definizioni sopra dette, non sono ne soggetti che compiono atti processuali, ne soggetti nei cui confronti si producono gli effetti degli atti processuali, perché non sono ancora stati resi parti nel processo e nemmeno sono soggetti nei cui confronti è posta la domanda.

Per chiarezza, in questo caso, il legislatore avrebbe dovuto usare il termine di "soggetti" nell'art. 102; quando la sentenza deve essere pronunciata a favore di più soggetti, tutti questi devono essere resi parte, cioè occorre che la domanda sia proposta anche nei loro confronti, acciocché, nei loro confronti si producano gli effetti degli atti processuali e con ulteriore implicazione, che naturalmente, questi possano compiere tutti gli atti processuali necessari alla loro difesa.

Il discorso diventa più facile! È chiaro che possiamo avere una scissione, tra il soggetto che compie gli atti del processo al quale si producono gli effetti legali del processo, o addirittura tra il soggetto che compie gli atti del processo, e quello nei cui confronti è proposta la domanda, tutte le volte che abbiamo l'ipotesi di rappresentanza legale o di rappresentanza volontaria, nelle quali è pacifico che sia il rappresentante, il soggetto che compie gli atti del processo, che però, la domanda è proposta da o nei confronti del rappresentato, e sarà sempre nei confronti del rappresentato che si produrranno gli effetti degli atti del processo stesso, e in particolare quello della decisione della sentenza.

Un caso più delicato, è quello che riguarda l'ipotesi della sostituzione processuale, perché se muoviamo dalla premessa secondo cui la sostituzione processuale richiede sempre necessariamente il litisconsorzio necessario della parte sostituita, cioè del titolare del diritto che viene da altri fatto valere per effetto di disposizioni di legge, allora il problema non si pone, nel senso che quando il soggetto nei cui confronti si produrranno gli effetti degli atti del processo della decisione, è anche il soggetto che deve essere parte e nei suoi confronti deve essere proposta la domanda e che quindi è abilitato a compiere gli atti del processo.

Se, però, muoviamo dall'ipotesi, in realtà riconosciuta, secondo cui, in  qualche particolare caso è possibile che si abbia sostituzione processuale senza che per questo, il litisconsorte necessario sia la parte sostituita, allora abbiamo un'ulteriore ipotesi di scissione, e se noi riconduciamo alla disciplina della sostituzione processuale i fenomeni che si verificano in occasione della successione nel diritto controverso, ovvero dell'estromissione dell'obbligato garantito, qui, abbiamo l'ipotesi in cui gli effetti degli atti del processo si compiono nei confronti di una persona che non è quella nei cui confronti è proposta la domanda e nemmeno è persona che compie gli atti processuali, pur restando fermo che, la disciplina positiva, consente comunque a questo soggetto di intervenire nel processo ed assumere in proprio il processo stesso, e in questo caso, torna ad esservi coincidenza tra le varie nozioni di parte.

Comunque, dal momento che l'art. 2909 ci dice che il giudicato produce i suoi effetti nei confronti delle parti degli eredi e degli aventi causa, possiamo volendo, riferirci al problema dell'efficacia del giudicato nei confronti di terzi, come un problema riferibile alle fattispecie di soggetti che siano in posizioni diverse da quelle di erede o avente causa, anche quando si tratti di eredi o successori, la cui acquisizione del diritto controverso sia avvenuta nel corso del giudizio, con tutte le implicazioni che discendono dalla circostanza, nell'ipotesi in cui la vicenda successoria sia fondamentalmente fonte dell'interruzione del processo (la morte della parte), il procuratore cella parte costituita colpita dall'evento, decide autonomamente se provocare o meno l'interruzione stessa attraverso la dichiarazione dell'evento in udienza o la sua notificazione alle altre parti, laddove compie la scelta di non dichiarare l'evento, allo scopo di accelerare la definizione del giudizio, in quel processo, la parte deceduta si considera processualmente ancora in vita, pur dovendosi coordinare questa protrazione dell'esistenza in vita della parte deceduta, con le garanzie spettanti al successore, che può intervenire impugnando la sentenza, e il problema di tutelare la controparte che non sia a conoscenza dell'evento, o che lo sia perché lo ha appreso soltanto in via di fatto, allorquando si tratta di individuare il destinatario dell'impugnazione.

Val la pena di accennare che i limiti soggettivi di efficacia del giudicato, ai sensi dell'art. 2909, sono un po' più ampi da questo punto di vista, non coincide con l'ambito soggettivo dell'efficacia esecutiva della sentenza, poiché l'art. 477 precisa che l'efficacia del titolo esecutivo  è opponibile nei confronti degli eredi, e normalmente si tende a ritenere che il riferimento esclusivo agli eredi, implichi che l'efficacia esecutiva della sentenza non possa prodursi nei confronti dei successori a titolo particolare, quando la vicenda successoria sia successiva, a sua volta, alla definizione del giudizio.

Nell'ambito dell'enorme categoria dei terzi veri e propri, possiamo distinguere almeno tre ipotesi principali che sono quelle su cui occorrerà soffermarsi, e si tratta rispettivamente:

1.  dei terzi titolari di situazioni giuridiche dipendenti, da quella conosciuta e decisa della sentenza passata in giudicato;

2.  quella dei terzi titolari di situazione incompatibili con il diritto fatto valere nella sentenza passata in giudicato;

3.  quella dei terzi che siano colegittimati alla proposizione della medesima domanda e all'esercizione della medesima azione , che ha formato oggetto del precedente giudizio.

Dobbiamo distinguere queste tre categorie di terzi, e a nostra volta, dobbiamo anche, a monte, distinguere le diverse categorie degli effetti della sentenza, soffermandoci questa volta sull'espressione res inter alios acta, perché abbiamo visto che non c'è incidentalmente coincidenza tra la portata soggettiva degli effetti di giudicato della sentenza e la portata soggettiva dei suoi effetti esecutivi, inoltre, si può ipotizzare che la sentenza produce anche ulteriori effetti, che vengono qualificati quali effetti imperativi della sentenza, cioè effetti in base ai quali, l'effetto giuridico dichiarato nella sentenza, non potrebbe essere disconosciuto dai terzi che siano titolari di situazioni giuridiche dipendenti, se non dimostrando che la sentenza stessa era ingiusta e questo effetto imperativo si produrrebbe, in teoria, a rescindere del passaggio in giudicato della sentenza, e quindi sin dal momento della sua pronuncia. Si può discutere se all'effetto imperativo della sentenza possa attribuirsi un qualche ambito soggettivo di efficacia coincidente con quello del giudicato, ovvero, come quello dell'efficacia esecutiva, che appunto, si produce a favore dei successori, ma non contro di loro, dei successori successivi alla sentenza.

Di questa asimmetria della produzione degli effetti esecutivi, nei confronti dei successori a titolo particolare, possiamo trovare spunti di riflessione ulteriori, rispetto al fenomeno della produzione degli effetti di giudicato, comunque, gli effetti imperativi, possiamo immaginare che possano prodursi nell'ambito soggettivo di efficacia al giudicato, ma anche rispetto al giudicato c'è chi ha voluto distinguere gli effetti diretti, eventualmente prodotti dal giudicato nei confronti dei terzi, considerando terzi gli aventi causa, ed effetti riflessi, che si produrrebbero nei confronti dei titolari di situazioni giuridiche dipendenti, e che potrebbero risultare più o meno vincolanti.

Perché più o meno vincolanti a seconda dei punti di vista? Perché qui, occorre cercare un ordinamento nella disciplina del codice civile, nel quale, diverse disposizioni accennano o evocano in modo più o meno compiuto un'efficacia della sentenza nei confronti di soggetti che non siano stati attori o convenuti nel processo definito con la sentenza della cui efficacia del giudicato si discute, cioè soggetti nei cui confronti non è stata proposta la domanda, e che quindi, non hanno acquisito la qualità di parte che discende dalla modificazione della citazione nella veste dell'attore o del convenuto a seconda dei casi.

Alcune disposizioni sanciscono in modo inequivocabile, la soggezione del terzo agli effetti della sentenza pronunciata inter alios, il caso che spesso si ricorda è quello di cui all'art. 1595 nella parte in cui dispone che, la sentenza pronunciata, in rapporti di locazione, nei confronti del conduttore, produce i propri effetti anche nei confronti del sub conduttore, in altri casi, si evoca invece, lo schema dell'onere della dimostrazione dell'ingiustizia, e il più chiaro è quello della garanzia per evizione, disciplinato dall'art. 1485, in quest'ipotesi, dice la legge che, il compratore chiamato in causa per l'evizione, ha l'onere di chiamare in causa il suo dante causa garante per l'evizione stessa, se non lo fa, e quindi il venditore garante per l'evizione rimane terzo rispetto al processo, il compratore perde la garanzia  se il venditore prova che esistevano ragioni sufficienti per respingere la domanda, ossia se prova che la sentenza è ingiusta.

In questa disciplina, si evoca un vecchio dilemma intorno alla natura della chiamata in garanzia, della responsabilità del garante, tra coloro che sostengono che il garante ha un obbligo di difesa in giudizio e coloro che sostenevano che invece il garante, fondamentalmente, risponde delle conseguenze della soccombenza, che è la tesi più accreditata in giurisprudenza, ma qui ci interessa la parte in cui, prevede un meccanismo diverso di produzione degli effetti di giudicato nei confronti dei terzi. Quale dei due dobbiamo considerare la regola generale e quale legge, o possiamo almeno individuare dei criteri per stabilire se i vari casi si possono ricondurre all'una o all'altra ipotesi?

Alcuni, hanno formulato una posizione di questo tipo: il terzo, subisce gli effetti del giudicato, in quelle ipotesi in cui e nella misura in cui subirebbe anche gli effetti di una vicenda negoziale fra le parti, però, questa spiegazione sembra spiegare, ma non più di tanto, perché sarebbe d'aiuto, se ci fosse una disciplina che ci chiarisce bene quando il terzo subisce gli effetti del negozio sopravvenuto fra altre parti, cioè quando altre parti possono disporre negozialmente di un diritto anche in pregiudizio di un terzo titolare di una situazione giuridica dipendente.

Tutte queste cose le veniamo a scoprire quando ci imbattiamo in norme che ci dicono che nei confronti del terzo si producono gli effetti del giudicato, allora raggiungiamo la conclusione che il terzo subirebbe anche gli effetti di una vicenda negoziale traslativa del diritto.

Negli altri casi siamo un po' incerti, quindi una guida tanto sicura questa regola non ce la fornisce, regola, alla fine abbastanza elusiva.

Altri, hanno prospettato, invece, che si debba distinguere fra ipotesi in cui sussiste un nessi di dipendenza permanente, ricollegato ad un rapporto di durata, e ipotesi in cui esista un nesso di dipendenza genetica, soltanto fra situazioni soggettive, con la conseguenza che se il rapporto di dipendenza è permanente e legato ad un rapporto di durata, necessariamente dovrebbero prodursi gli effetti del giudicato nei confronti di terzi, mentre, si potrebbe ammettere, la dimostrazione dell'ingiustizia della sentenza da parte del titolare della situazione giuridica dipendente nell'ipotesi di dipendenza genetica di cui sarebbe un tipico esempio l'ipotesi della garanzia per evizione.

È buon senso distinguere i casi in cui è ragionevole far gravare sul terzo l'onere di informarsi o di essere a conoscenza delle vicende e delle caratteristiche  della situazione giuridica pregiudicante, dai casi in cui non sarebbe ragionevole fargli gravare tale onere e questo criterio di ragionevolezza, mi pare che non necessariamente si ricolleghi alla circostanza che il rapporto sia di durata, o il nesso di dipendenza abbia carattere permanente. Se noi immaginiamo la responsabilità del garante della responsabilità civile, dell'assicuratore cntro la responsabilità civile, è banale che in questo caso non si può far gravare troppo sul terzo assicuratore in termini di oneri di controllo sulla bontà delle ragioni del suo assicurato, perché il contratto ha la funzione di favorire l'accettazione del rischio, e bisogna che non sia necessario seguire troppo l'assicurato, controllarlo troppo, perché se si risponde eccessivamente a controllarlo troppo, a quale punto il contratto diventa oneroso e non essere più utile alla locazione dei rischi.

In casi in cui, vedi il caso già della garanzia per l'evizione, è un caso ove è più sensato che il garante debba essere a conoscenza degli eventuali vizi della circostanza, e che ciò che vende, in realtà non è sua, quindi si potrebbero gradare diversi oneri di dimostrazione dell'ingiustizia della sentenza a seconda del nesso tra situazione pregiudiziale e situazione dipendente e del ruolo sociale che svolge il soggetto titolare della situazione dipendente.

Ovviamente questo, dal punto di vista attuale, probabilmente, la soluzione più congrua, è quella che cerca di limitare al massimo la produzione di effetti di giudicato pieno, e quindi di giudicato vincolante anche quando sia sfavorevole nei confronti di soggetti che non siano stati resi formalmente parti nel processo, perciò, se si vuole teorizzare una produzione degli effetti della sentenza nei confronti dei terzi, sembra preferibile, che alla luce della Costituzione vigente il disposto dell'art. 24, della garanzia della difesa, è di limitare ai soli casi previsti dalla legge, come di quella del rapporto di sub locazione, la produzione degli effetti del giudicato nei confronti dei terzi, e casomai, generalizzare l'ipotesi dell'efficacia imperativa, in base alla quale, anche a prescindere del passato in giudicato della sentenza, effetti nei confronti di terzi si possono produrre, ma questi effetti consistono meramente nell'introduzione di un onere di dimostrazione dell'ingiustizia della sentenza resa sulla controversia pregiudiziale.

Vi sono altre ipotesi in cui la legge utilizza formule meno chiare! Per esempio: la sentenza che dichiara la nullità del marchio, o le sentenze che annullano le delibere assembleari delle S.p.a., si dice che hanno effetto nei confronti di tutti i soci, anche quando questi non siano stati formalmente parti nel procedimento, come dobbiamo interpretare queste disposizioni? Dobbiamo pensare che non si tratta più di titolare di situazione giuridica dipendente, come quelle che abbiamo fin ora parlato, qui abbiamo delle ipotesi di colegittimazione, ossia di pluralità di legittimati all'esercizio di un'iniziativa giudiziaria, l'esercizio di un'azione civile, ebbene! In alcune ipotesi la colegittimazione comporta che la legittimazione ad agire è necessariamente congiuntiva, cioè si applica la disciplina del litisconsorzio necessario, ma in varie ipotesi questo non accade e può capitare che l'azione sia esercitata da alcuni soltanto, e probabilmente, la norma più generale di questo tipo di situazioni, è quella che si rinviene nell'art. 1306, cioè nella disciplina delle obbligazioni solidali, laddove si ipotizza che la causa sia promossa soltanto da alcuni concreditori solidali, ovvero nei confronti di alcuni soltanto far più condebitori solidali, così questa norma, ci dice una cosa ancora diversa da quelle che abbiamo visto fin ora, che la sentenza, in questo caso, produce i suoi effetti anche nei confronti dei soggetti che non abbiano partecipato al giudizio, ma soltanto nella misura in cui si tratti di effetti a loro favorevoli e non quando si tratti di effetti sfavorevoli. In questa norma si rinviene il meccanismo del cosiddetto giudicato secundum eventum litis, cioè, a seconda dell'esito della causa, sicché la produzione degli effetti di giudicato per i terzi è soltanto degli effetti favorevoli e non invece degli effetti sfavorevoli.

Ovviamente, anche questa soluzione va adattata a varie situazioni concrete, una particolare difficoltà che si presenta, nell'ipotesi in cui la legge ammetta la produzione di giudicato secundum eventum litis, discende fra il coordinamento di questa disciplina e quella con cui si è affermato nel nostro codice, il principio della cosiddetta personalità dell'impugnazione, sicché l'impugnazione giova soltanto alle parti che l'abbiano proposta, e non alle parti che siano rimaste passive ed abbiano accettato la sentenza, inoltre, l'impugnazione, non sempre dev'essere proposta a pena di inammissibilità nei confronti di tutti quei soggetti che hanno rivestito la veste formale di parte nel precedente grado di giudizio, e si potrebbe, anche in quelle ipotesi di obbligazioni solidali, di cui abbiamo appena parlato, potrebbe essere proposta da alcune soltanto fra queste parti. E allora! L'eventuale accoglimento dell'impugnazione, proposta nei confronti di soltanto alcune delle parti coleggittimate attivamente o passivamente, e che quindi aggraverebbe se producesse i suoi effetti, la loro situazione giuridica, non produrrà effetto nei loro confronti, ma l'impugnazione proposta da alcune soltanto delle parti coleggittimate attivamente o passivamente, fin quanto sia ammissibile, può giovare soltanto a quelle, o anche questa estende i suoi effetti alle parti nei cui confronti pure si era formato un giudicato?

La giurisprudenza, tendenzialmente attribuisce priorità al principio di personalità dell'impugnazione e quindi non consente la produzione di effetti utili, dell'impugnazione in capo a quei soggetti che siano invece rimasti passivi, salva l'esigenza di coordinamento nel regime delle decisioni, per cui, posto che il fideiussore non può mai rispondere di più di quanto risponda il debitore principale, se l'impugnazione del solo debitore principale ha successo e viene accolta, anche la pronuncia contro il fideiussore finisce per essere travolta nell'applicazione della norma sostanziale. Fatta salva l'applicazione di queste specifiche norme sostanziali, la giurisprudenza ammette, invece la diversificazione del contenuto precettivo delle pronunce nei confronti dei colegittimati, quale effetto della proposizione dell'impugnazione da parte di alcuni soltanto di essi.

Abbiamo, poi, quella categoria di terzi che, come abbiamo detto, sono titolari di diritti incompatibili, come di sentenza di nullità del marchio, e della sentenza assembleare, in cui si prevede la produzione della sentenza nei confronti di terzi o di tutti i soci. È chiaro che queste sentenze producono effetti ultra partes, in quanto sono sentenze di accoglimento della domanda, se ne dovrebbe desumere che nelle ipotesi di rigetto della domanda, invece l'effetto nei confronti dei terzi non si dovrebbe produrre, quindi la sentenza che rigetta la domanda di nullità del marchio o rigetta la domanda di annullamento della delibera assembleare. Nella seconda ipotesi l'omogeneità di disciplina e assicurata dal termine decadenziale per l'esperimento della domanda giudiziale.

È in questi termini che si deve affrontare, anche, il problema degli effetti di giudicato sui cosiddetti interessi collettivi.

L'interesse collettivo è una situazione sostanziale di vantaggio di costruzione teorica, che risulta tutelabile in giudizio, in tanto in quanto, il legislatore abbia trasformato l'interesse collettivo, da interesse adespota, all'interesse imputabile ad uno specifico portatore esponenziale dell'interesse collettivo che può essere, di volta in volta: l'ente territoriale, o l'associazione ambientalista, o associazione di consumatori e così via. In tutte queste ipotesi abbiamo forme di colegittimazione attiva, rispetto alle quali, la legge non ci dice come debbano prodursi gli effetti di giudicato. Quindi ci sono due diversi aspetti! Un effetto è quello della produzione di effetto di giudicato nei confronti dei soggetti che sono effettivamente delle vittime della condotta illecita lesiva degli interessi collettivi, cioè gli appartenenti al gruppo il cui interesse collettivo viene leso, altro problema è invece, posto che qui c'è invece una scissione, tra il ruolo di vittima dell'illecito e il ruolo di titolare dell'azione, perché il titolare dell'azione non è la vittima dell'illecito! Quando si dice che l'associazione dei consumatori tutelano l'interesse collettivo dei consumatori, ma le vittime del comportamento illecito sono i consumatori, non le associazioni! Però, sono le associazioni ad essere legittimate all'azione in giudizio. Allora un conto è il problema della produzione dell'effetto del giudicato nei confronti dei consumatori, un conto è l'eventuale produzione di effetti di giudicato degli altri enti colegittimati, a cui sia imputato dal legislatore l'interesse collettivo. Ebbene! Per quel che riguarda i singoli, credo che non ci debbano essere dubbi nel riconoscere che non possono prodursi effetti di giudicato. Tra i vari enti colegittimati, la soluzione più naturale è ovvia in mancanza di disposizioni legislative che dicano diversamente e dovrebbe essere quella del giudicato secundum eventum litis, o tuttalpiù, della cessazione dell'interesse ad agire, cessazione delle condizioni dell'azione, allorquando vi sia stato accoglimento della domanda proposta da uno degli enti colegittimati, e cessazione dell'interesse ad agire per gli altri colegittimati.

Diversamente da quanto dovremmo dire per l'ipotesi delle obbligazioni solidali, una disciplina che eventualmente conurasse, una produzione dell'effetto di giudicato anche sfavorevoli nei confronti degli enti colegittimati, probabilmente non andrebbe incontro ai problemi di legittimità costituzionali, che si verificherebbero se avesse la disciplina delle obbligazioni solidali, perché l'art. 24 conferisce protezione costituzionale alle situazioni soggettive che abbiano il rango del diritto soggettivo e dell'interesse legittimo, ma non conferisce protezione costituzionale alle situazioni soggettive che si qualifichino come meri interessi collettivi, e quindi rispetto a tali situazioni soggettive, si può pensare anche ad una produzione di effetti di giudicato sfavorevoli, nei confronti di soggetti rimasti estranei al procedimento, potrebbe superare una censura di legittimità costituzionale in astratto, comunque non abbiamo ancora norme, che esplicitamente ci indirizzino verso questa soluzione interpretativa.

Dicevamo dei terzi titolari di situazioni incompatibili, ancora, ebbene classicamente si pensa che il terzo titolare di situazioni incompatibili, non può in alcun modo essere pregiudicato dagli effetti di giudicato, può subire, certamente, un pregiudizio di fatto da una decisione resa inter alios, il classico esempio che si fa! Il vero proprietario del un bene in contesa subisce un pregiudizio di fatto sulla circostanza che il suo bene venga dichiarato proprietà di Tizio, nella causa fra Tizio e Caio, per cui Sempronio in qualità di vero proprietario è legittimato ad impugnare la sentenza tramite opposizione di terzo semplice ai sensi dell'art. 404 comma 1°, così come è legittimato ad intervenire nel processo precedentemente, però, alcuni casi possono essere considerati un po' di confine in questa classificazione che abbiamo fatto tra titolari di situazioni dipendenti colegittimati e titolari di situazioni incompatibili, pertanto ripetiamo l'esempio del litisconsorzio necessario! Il litisconsorte necessario pretermesso a seconda delle varie ipotesi in cui può rendersi applicabile questa disciplina, può essere concepito come sia come titolare di un diritto incompatibile sai come un soggetto colegittimato; è ovvio che nei suoi confronti non si possano produrre gli effetti della sentenza, ma più discutibile, è se egli sia legittimato a proporre opposizione di terzo contro la sentenza stessa, perché si discute se la sentenza resa a contraddittorio non integro, cioè pretermettendo un litisconsorte necessario debba considerarsi o meno una sentenza produttiva di effetti almeno tra coloro che abbiano partecipato al giudizio. Perché se la si considera produttiva di effetti almeno tra questi soggetti, allora lo strumento di difesa a disposizione del terzo è, e non può essere appunto l'opposizione di terzo, ossia un'impugnazione contro la sentenza stessa diretta ad ottenere la caducazione dei suoi effetti.

Se, invece, riteniamo che questa sentenza rientri nel novero delle sentenze qualificabili come giuridicamente inesistenti, a questo punto non ci sarebbe legittimazione alla proposizione all'opposizione di terzo, bensì, il terzo pretermesso potrebbe promuovere un'ordinaria azione di accertamento del proprio diritto, facendo come se la sentenza sopravvenuta tra le altre parti fosse inesistente.

La qualificabilità di questa sentenza come inesistente appartiene ad una tradizione giuridica, cioè di quella dottrina che ha condotto all'introduzione della disciplina del litisconsorzio necessario, in precedenza assente nel nostro ordinamento processuale importandola dall'esperienza giuridica tedesca, per sostenere che si dovesse attribuire al giudice il potere di ordinare d'ufficio l'integrazione del contraddittorio e quindi di ordinare d'ufficio alle parti di coinvolgere nella causa un altro soggetto, potere che contrasta con la tradizione del principio dispositivo, è difficile da giustificare, perché viene da dire: "..se io sto litigando con Caio, perché devo chiamare in causa anche Sempronio?!!..con cui non sto litigando!!?!!..", ebbene per giustificare l'esercizio di questo potere ufficioso, si amava prospettare in alternativa conseguenze catastrofiche, se non si fosse fatto si sarebbe lavorato a vuoto! La sentenza sarebbe stata giuridicamente inesistente, e si capisce che per giustificare l'esercizio di questo potere ufficioso, che è comunque sensato, nel momento in cui il diritto positivo prevedesse questo potere, era ragionevole prospettare conseguenze catastrofiche, perché se non lo si fosse esercitato, ora che abbiamo una previsione esplicita di diritto positivo non abbiamo più bisogno di prospettare conseguenze catastrofiche come argomento interpretativo a favore dell'affermazione della sussistenza di questo potere del giudice, non c'è ne più bisogno! Anzi, è possibile fare riferimento alla disciplina posta dall'art. 161, cioè che nella disciplina sulla nullità della sentenza, la legge prescrive che le nullità si facciano valere solo nei modi e nei termini previsti per le impugnazioni ordinarie, e che sfugga a questa regola, soltanto l'ipotesi della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, e che comunque, in via generale, dovremmo limitare al massimo il ricorso al concetto di inesistenza come concetto che ci consente, ma dovremmo usarlo solo in casi estremi, di evitare l'applicazione della disciplina delle nullità quando riterremmo che questa porti a conseguenze sgradevoli.

In realtà, in questa ipotesi, applicare la disciplina delle nullità, è tutt'altro che incongruo dal punto di vista della concezione "sportiva " del processo, perché, immaginiamo di essere Tizio e Caio, e Caio sta pretermettendo Sempronio perché Tizio non lo sa, e allora la situazione mi consente di "giocare sporco", infatti, concludiamo tutto il processo, e se finisce bene per me, la cosa va bene: Tizio è all'oscuro che Sempronio è ancora vivo in Australia! Se finisce male esaurito tutto il processo a giochi fatti, tiro fuori l'asso dalla manica..ci siamo dimenticati di Sempronio!!! Quindi è congruo che coloro che sono stati fondamentalmente parti del processo, abbiano l'onere di far valere l'eventuale pretermissione del litisconsorte necessario in quel processo, e non abbiano l'opportunità di farlo in ogni tempo, potrà farlo in ogni tempo soltanto il litisconsorte necessario pretermesso, eventualmente consentendo anche a lui la proposizione dell'opposizione di terzo che era stata originariamente disegnata soltanto per l'ipotesi del titolare di veri e propri diritti incompatibili, cioè del vero proprietario del bene in contesa e non di questa ura ibrida che è quella del litisconsorte necessario pretermesso.

Sono terzi completamente diversi, ad questi terzi titolari di diritti incompatibili, quei terzi che sono legittimati a proporre la cosiddetta opposizione di terzo revocatoria, quando si ricorda l'azione revocatoria in diritto civile diventa facile ricordare chi sono anche i soggetti legittimati all'opposizione e di terzo revocatoria, cioè i creditori aventi causa, legittimati all'opposizione di terzo revocatoria, e in questo caso abbiamo però, per un verso aventi causa, cioè soggetti che subirebbero gli effetti del giudicato e possono ottenere l'annullamento della decisione e sia privata di effetti, dimostrando che la sentenza è frutto di collusione e accanto ad essi sono legittimati i creditori all'esercizio dell'azione revocatoria contro negozi che siano in pregiudizio delle loro ragioni, e che sono soggetti che non subiscono alcun pregiudizio giuridico dalla sentenza, se non il pregiudizio di fatto derivante dal depauperamento della garanzia patrimoniale. Una regola è questa! Potrebbe sembrare poco sportiva! Com'è che questi terzi fruiscono del giudicato favorevole senza avere corso neanche il rischio di subire il giudicato sfavorevole?

L'immagine atistica ci rivela che questa stessa regola è adottata nell'ordinamento processuale che più di ogni altro forse è ispirato alla concezione sportiva della giustizia, cioè quello statunitense, dove costituisce regola generale che il giudicato su formi non soltanto intorno ai diritti, cioè sull'accoglimento o il rigetto della domanda sulle situazioni soggettive direttamente attributive del bene della vita, ma è pacifico che si formi anche sulle mere questioni e però, che si formi soltanto sulle questioni che siano state esplicitamente discusse e decise, e non invece, come ama fare la giurisprudenza da noi, sulle questioni decise esplicitamente. Allora il ragionamento dell'ottica sportiva diventa sensato, perché, il soggetto nei cui confronti si produce un giudicato sfavorevole è il soggetto che è stato formalmente parte del processo, anzi che abbia effettivamente discusso e deciso la questione, invece consentire a questo soggetto, che ha discusso e deciso la questione e ne è uscito soccombente di discuterla nuovamente da capo, soltanto perché è cambiato l'avversario sarebbe poco sportivo, perché, raddoppierebbe le sue chance di vincere sulla questione, in ragione del numero di avversari che si trova ad avere, sicché, anche alla luce di una concezione sportiva del processo giudicato secundum eventum litis nei confronti di coloro che siano rimasti estranei al procedimento, si giustifica invece tranquillamente.

·    Il litisconsorzio (pluralità di parti)

Vediamo di affrontare analiticamente il problema della disciplina della pluralità di parti nel processo, sia nel cumulo soggettivo!

Abbiamo già visto in larga misura il fenomeno del cumulo oggettivo, osservando che quando si tratta di causa fra le stesse parti, più domande contro lo stesso convenuto possono essere cumulate in un unico processo anche se non abbiano nessun altra connessione tra di loro, perché una scelta dell'attore, quella di complicarsi il processo di sua iniziativa, quindi a questo punto dio vista la legge non fa obiezioni, mentre cause a parti invertite possono essere cumulate nello stesso processo, in  tanto in quanto, vi sia una comunanza di questioni, sicché la domanda riconvenzionale è ammissibile anche al di la dei limiti previsti dall'art. 36, e cioè anche quando non vi sia connessione per il titolo o per l'oggetto, ma soltanto una connessione impropria per questioni di fatto, purché non si modifichi la competenza, mentre la modificazione vera e propria della competenza è possibile soltanto nelle ipotesi di connessione propria. E questo per quanto riguarda l'ipotesi in cui le parti siano le stesse.

Poniamoci il problema di individuare in quale misura sia possibile proporre domande contro più convenuti in uno stesso processo! Ebbene! In quest'ipotesi la legge consente di convenire più soggetti nello stesso processo, sia nell'ipotesi di connessione propria, ossia quando le domande anche in comune il titolo e l'oggetto, sia in ipotesi di connessione impropria, e quindi appunto nel caso in cui vi sia una mera comunanza di questioni a giustificare la proposizione di domanda con più convenuti in un unico processo, e cosi pure acciocché possano aversi più attori in uno stesso processo contro un unico convenuto.

Entrambi i fenomeni sono di litisconsorzio rispettivamente dal lato attivo e dal lato passivo e quando sussista un nesso di connessione meramente impropria, cioè, possibile soltanto in quanto non vi sia alcuna deroga alle disposizioni sulla competenza, vale a dire quando il giudice adito sia originariamente competente per tutte le domande cumulativamente proposte.

Nelle ipotesi, invece in connessione propria, è possibile la modificazione della competenza soltanto nei limiti in cui lo consente l'art. 33, nella parte in cui prevede più soggetti possano essere convenuti nello stesso processo, ma in questo caso è soltanto presso il foro che sia foro del domicilio, cioè foro generale di almeno uno di questi litisconsorti.

Diversi problemi applicativi si pongono perché nell'art. 33 è molto usato ai fini di forum shoping, cioè ai fini della scelta se non del magistrato, almeno dell'ufficio giudiziario a cui rivolgersi, perché tutte le volte che ho disposizione più convenuti, posso scegliere tutte le volte che questi hanno domicilio in luoghi diversi, di concentrare il processo dinanzi a uno qualsiasi di questi e magari provo anche a concentrare in fori più comodi, e quindi, è ricorrente per un verso l'affermazione che la modificazione della competenza, ex art. 33, non sia possibile nell'ipotesi del cosiddetto convenuto fittizio, cioè quando tra i più convenuti c'è ne uno individuato esclusivamente allo scopo di radicare la competenza presso il suo domicilio, e la giurisprudenza ritiene di potere sindacare molto approfonditamente, se la domanda proposta nei confronti di quel convenuto il cui domicilio è presso il foro adito, nell'ipotesi in cui sia l'unico ad avere domicilio presso il foro adito e la domanda non abbia carattere collusivo, e qui siamo d'accordo, ma fino ad un certo punto perché la legge non lo prevede, come non prevede quel potere che pure la giurisprudenza si auto attribuisce di verificare l'apparenza di fondatezza della domanda, per verificare che non sia stata proposta presuntuosamente al solo scopo di modificare la competenza nei confronti degli altri convenuti. In realtà la giurisprudenza dovrebbe solo verificare se effettivamente è stata proposta domanda nei confronti di quel convenuto, però, dobbiamo prendere atto dell'orientamento diffuso onde cercare di limitare i fenomeni di forum shoping attraverso questa tecnica un poco eversiva del dettato normativo.

Spesso si dice che non è possibile convenire più soggetti presso il foro del fatto illecito, cioè non si possono utilizzare tutti quei fori di cui all'art. 20, allo scopo di concentrare i litisconsorti presso il giudice così scelto, almeno uno deve avere effettivamente residenza in quel foro, mentre se il foro è il foro in cui si è verificato il fatto illecito comune a più soggetti, ma non è foro di residenza o domicilio di alcuno di essi, sembrerebbe inammissibile il litisconsorzio facoltativo passivo in questa ipotesi. Qua bisogna stare attenti alle forzature, in quanto, in realtà, se il fatto illecito è il fatto generatore della responsabilità, almeno nella prospettazione di parte, quindi poi, che lo sia effettivamente, dovrebbe essere sindacabile soltanto in misura modesta, soltanto nella misura in cui ammettiamo l'assunzione di sommarie informazioni, quindi se il fatto illecito si è verificato innanzi al giudice adito  ed è quello del fatto generatore della responsabilità comune ai più litisconsorti, di fatto il litisconsorzio facoltativo passivo in quel foro, si dovrebbe ammettere perché non c'è alcuna modifica della competenza, in quanto i litisconsorti sono concentrati presso un foro che è foro originariamente competente per ciascuno di essi, sicché, il cumulo soggettivo perso il foro del fatto illecito dovrebbe risultare inammissibile soltanto in quella ipotesi in cui il litisconsorzio si fondi, per esempio, sulla comunanza dell'oggetto,  allora il fatto generatore della responsabilità non sia comune a tutti i soggetti, ma ad alcuni soltanto, e si cerchi di convenire presso quel foro anche coloro a cui non si imputi la commissione di un illecito presso quel foro.

Il litisconsorzio può essere creato originariamente per effetto, nell'ipotesi del litisconsorzio del lato passivo della originaria proposizione della domanda nei confronti di più convenuti, ovvero, può formarsi successivamente nel corso del procedimento per effetto di fenomeni di chiamata del terzo che può avvenire ad istanza di parte, nei casi di cui all'art. 106, cioè nell'eventualità in cui dove una delle parti ritenga che la causa sia comune ad un terzo o nell'ipotesi in cui pretenda di essere garantita dal terzo, ovvero può essere disposto anche dal giudice ai sensi dell'art. 107, e ancora nei casi in cui il giudice ritenga la causa comune al terzo. La legge non fa esplicita menzione della possibilità del giudice di ordinare l'intervento del garante, però è abbastanza diffusa l'idea che il giudice possa ordinare anche l'intervento del garante, rientrando questa ipotesi nell'ipotesi di comunanza di causa, in tanto in quanto, la chiamata del garante sia effettuata allo scopo di rendere a lui opponi bile il giudicato che verrà a formarsi, e quindi evitare che (vedi es. del art. 1485 che possa dimostrare che la sentenza era ingiusta e che esistevano ragioni per respingere la domanda), ciò comporti la proposizione di vera e propria domanda nei confronti del terzo, ossia, questa chiamata del giudice non amplierebbe l'ambito oggettivo della lite, bensì, sarebbe diretta solo ad ampliare l'ambito soggettivo dell'efficacia della decisione su quella stessa causa.

Rispetto al caso del litisconsorzio necessario di cui all'art. 102, di cui abbiamo parlato prima, dobbiamo ricordare che ci sono numerose differenze applicative, anzitutto la più evidente è quando il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 102 e il decorso del tempo perentorio per provvedervi comporta automaticamente l'estinzione del processo; nell'ipotesi in cui il giudice ordini di chiamare in giudizio una parte ai sensi dell'art. 107, il decorso del termine perentorio per provvedere alla chiamata comporta la mera cancellazione della causa dal ruolo, e non indirettamente l'estinzione del processo, trattandosi in questo caso di estinzione mediata in cui l'estinzione stessa sopravviene soltanto col decorso del termine di un anno dalla cancellazione della causa dal ruolo senza che nessuna delle parti abbia provveduto a riassumere il giudizio.

Ci sono poi ulteriori differenze, l'applicazione dell'art. 102, è secondo la giurisprudenza del tutto priva di discrezionalità, quindi le relative decisioni sono pienamente sindacabili in sede d'impugnazione, mentre la chiamata del terzo ex art. 106, toglie dall'obiettivo di ampliare il materiale di causa sulla cui conoscenza fondare la decisione, comunque dobbiamo ricordarci che il garante è il potenziale interveniente litisconsortile, secondo alcuni titolare dei rapporti pregiudiziali e potenziale interveniente principale adesivo nonché ipotesi del vero legittimato passivo.

La chiamata di parte, che come tale realizza un litisconsorzio dal lato passivo, va poi tenuta distinta dalla mera denuncia di lite che è prevista in alcune disposizioni codicistiche, ma non comporta l'assunzione formale della veste di parte nel procedimento, una denuncia di lite l'abbiamo vista quando parlando di sospensione abbiamo accennato all'art. 332, che ha l'onere di notificare la proposizione dell'impugnazione ai litisconsorti di causa scindibile, pena la sospensione del processo fino al memento in cui sia decorso il termine dell'impugnazione nei loro confronti, questa notificazione è mera denuncia di lite, ma non rende questi soggetti parte del giudizio di gravame, ne così pure denuncia di lite è quella a carico del conduttore ai sensi dell'art. 1586 c.c. nell'ipotesi di causa di molestie e così via o nel 1777 del c.c..

Il così chiamato intervento del terzo, normalmente comporta la realizzazione  del litisconsorzio da lato attivo, perché possa aversi anche un'ipotesi del litisconsorzio dal lato passivo ingenerato da un intervento volontario del terzo, nella materia regolata dall'art. 105, che distingue tre diverse ipotesi di intervento volontario del terzo: si parla in dottrina di intervento principale per evocare l'ipotesi di quel terzo che intervenga fra una causa tra altre parti allo scopo di far valere un diritto contro tutte le altre parti, cioè un diritto incompatibile; si denomina in dottrina interveniente litisconsortile o adesivo autonomo, da non confondere con l'adesivo dipendente, adesivo solo se si aggiunge autonomo, e cioè colui che fa valere in giudizio il diritto, ma nei confronti di alcune soltanto delle parti, il diritto ovviamente, sempre connesso propriamente con quello dedotto in giudizio cioè quello dipendente dallo stesso titolo relativo allo stesso oggetto, e si definisce intervento adesivo dipendente, o semplicemente adesivo, per coloro che chiamano litisconsortile l'intervento adesivo autonomo, l'intervento di quel terzo che interviene per appoggiare le ragioni di una delle parti quando vi abbia un proprio interesse. Questo terzo tipo di intervento è il più delicato dal punto di vista teorico, perché si conura come l'intervento di un soggetto che non propone alcuna domanda, e che quindi, è un intervento che potrebbe realizzarsi anche dal lato passivo del litisconsorzio, vale a dire potrebbe essere compiuto in appoggio alle ragioni del convenuto.

Quali soggetti possiamo ritenere legittimati all'interveto adesivo dipendente perché provvisti di un proprio interesse? Il pensiero soccorre subito ai titolari di situazioni soggettive dipendenti, i quali corrono il rischio di subire in misura più o meno accentuata, gli effetti della sentenza pronunciata inter alios. Quindi il problema è che la legge non è chiarissima nell'individuare  di quali poteri sia provvisto l'interveniente adesivo dipendente, sicché, secondo l'interpretazione tradizionale, per trovare la disciplina di riferimento, occorreva guardare a quella dei poteri attribuiti al PM, in quelle controversie, in cui, egli fosse interveniente privo del potere di azione. È una disciplina che abbiamo già ricordato quando abbiamo parlato delle azioni e mere azioni, nei casi in cui il PM non è titolare del potere di azione, ma interveniente necessario, per regola generale, egli non può impugnare la sentenza, fatta eccezione per le cause matrimoniali ed escluse quelle di separazione tra i coniugi.

È chiaro che le eccezioni delle cause matrimoniali allude alle accentuate particolarità del nostro ordinamento, nella traccia di un epoca in cui il nostro ordinamento era molto diverso da quello del resto del mondo da questo punto di vista, sostanzialmente si riteneva molto importante impedire che le parti ottenessero il risultato di divorziare quando non  potevano ottenerlo, e che quindi, questo giustificava il potere d'impugnazione del PM nella cause matrimoniali, che non a caso si escludeva nelle cause di mera separazione coniugale.

Perciò, da questa disciplina, si evinceva che il soggetto che partecipasse al giudizio, ma fosse privo del potere di azione, fosse anche conseguentemente privo del potere di impugnare la sentenza, però questa soluzione qualche perplessità, la desta, in quanto avremo ipotesi in cui il terzo titolare di una situazione soggettiva dipendente a tal punto pregiudicata da quella pregiudiziale, il terzo sarebbe impotente di fronte agli effetti del negozio concluso tra le parti; ad esempio, il caso del subconduttore, che pacificamente subirebbe gli effetti del giudicato, ma, in realtà, il titolare di situazioni giuridiche dipendenti non sempre sono in una posizione giuridica così debole, anzi, a volte, avrebbero la possibilità, se non fossero evocati in giudizio, di dimostrare che la sentenza era ingiusta, quindi, da più parti si erano sollevati dubbi e si era affermato che fosse ingiusto escludere in via generale il potere di impugnazione autonomo della sentenza dell'interveniente adesivo dipendente, per tacere il fatto, che addirittura, in alcune pronunce giurisprudenziali decisamente inesatte avevano escluso il potere di impugnare autonomamente la sentenza qualificandolo come interveniente adesivo dipendente e addirittura del sostituto processuale, il quale nell'ipotesi dell'alienazione della res litigiosa, ha il potere di impugnare autonomamente la sentenza e la legge glielo attribuisce esplicitamente, in ipotesi come quelle dell'azione surrogatoria, sembra strano che sia sprovvisto del potere di impugnare la sentenza, quando egli avrebbe potuto, se non fosse stato preceduto dal suo creditore, esercitare in proprio l'azione civile, ed è tra l'altro un litisconsorte necessario nella causa.

Gli orientamenti di riforma più recenti sono tutti nel senso di favorire l'affermazione generale della regola opposta, cioè della regola per cui l'interveniente adesivo dipendente la sentenza la può impugnare, anche qui con una radicalità estrema, per esempio, nella nuova disciplina del diritto societario è largamente riformato il sistema dell'impugnazione della delibera assembleare di società per azioni, prevedendosi che l'annullamento possa essere chiesto soltanto da quei soci che siano titolari di una quota minima di azioni, però, facendo salvo il diritto di tutti i soci comunque ad essere risarciti dei danni subiti per effetto della cattiva gestione degli amministratori, e quindi anche, nell'ipotesi in cui si è esercitato un'azione di responsabilità cumulativamente alla impugnazione della delibera assembleare, di partecipare a quel giudizio al fine di coltivare l'azione di responsabilità stessa, trovandosi, però, rispetto all'impugnativa di delibera assembleare in una situazione di intervento anch'esso dipendente, allora cosa facciamo! Può impugnare la sentenza anche se non avrebbe potuto proporre la domanda? L'introduzione nel rito societario della regola per cui l'interveniente adesivo dipendente può impugnare la sentenza probabilmente è troppo radicale, nel senso che il socio legittimato alla sola azione di responsabilità possa certamente proseguirla e coltivarla anche nel caso in cui la cumulativa azione di annullamento della delibera assembleare venga rigettata, e la sentenza di rigetto non venga impugnata.

Resta il dubbio se il giudice possa, o meno, in via incidentale delibare l'illegittimità della delibera e che quindi, non tenerne conto ai fini dell'azione risarcitoria proposta dal socio che non sarebbe stato legittimato ad ottenere l'annullamento della delibera, ma sembra difficile arrivare a sostenere che possa invece impugnare la sentenza che pronuncia sulla domanda che egli non avrebbe neppure potuto proporre.

Per quanto riguarda, invece, la distinzione tra intervento principale e intervento adesivo autonomo, occorre rimarcare che non si tratta di una distinzione che facciamo per il gusto delle distinzioni, la proposizione di domanda nei confronti di tutti e nei confronti di alcuni soltanto, incide in modo radicale sulla disciplina della scindibilità del litisconsorzio nelle fasi di gravame, in particolare, si ritiene che l'intervento principale dia vita ad un litisconsorzio comunque di carattere inscindibile in sede di gravame, diversamente l'interveniente adesivo autonomo propone una domanda, che a seconda dei casi può risultare scindibile e quindi è compatibile con lo scioglimento del litisconsorzio e i successivi gradi del giudizio.

Inoltre, la distinzione è rilevante ai fini della valutazione dei requisiti di tempestività dell'intervento volontario, difatti, la legge consente, con riferimento al giudizio ordinario di cognizione, che l'intervento possa aver luogo siano all'udienza di precisazione delle conclusioni, però, l'interveniente non può con ciò compiere atti che siano preclusi alle altre parti, salvo che egli intervenga per l'integrazione necessaria del contraddittorio. Ne consegue che, se si considera la disciplina della formazione delle preclusioni, la quale implica che alla conclusione della prima udienza di trattazione non possano in nessun modo essere introdotte nuove domande, intendendosi la prima udienza comprensiva di tutti i suoi eventuali scansionamenti giustificati da chiamate, controchiamate e successivi ampliamenti dell'ambito soggettivo del contraddittorio, comunque svolte le attività di cui all'art. 183, non è senz'altro possibile in alcun modo intervenire proponendo nuove domande, pertanto, l'intervento all'udienza di precisazione delle conclusioni, è intervento che può essere realizzato solo, o dal litisconsorte necessario pretermesso ovvero dall'interveniente adesivo dipendente, cioè del terzo che interviene, ma senza proporre alcuna autonoma domanda, bensì solo per appoggiare le ragioni di una delle parti. Per converso, l'intervento principale di intervento adesivo autonomo, dovrebbero tutti essere convinti entro il termine per la tempestiva costituzione del convenuto, così come d'altronde, nelle controversie di lavoro si esclude qualsiasi intervento che non sia stato compiuto, appunto entro questo termine.

Però, l'interveniente principale, ossia, quel soggetto che può intervenire in primo grado, ma soltanto entro il termine di costituzione del convenuto, ha la facoltà di intervenire in grado d'appello, perché l'art. 344 consente l'intervento in appello di quel soggetto che sarebbe legittimato a promuovere opposizione di terzo, conurando quella che si definisce come opposizione di terzo anticipata, è una di quelle ipotesi in cui in grado d'appello proposta una nuova domanda, tenendosi conto del fatto che se passasse in giudicato, in sua assenza, la sentenza d'appello, lui potrebbe comunque rivolgersi allo stesso giudice tramite opposizione di terzo, così si risparmia un grado di giudizio consentendogli di intervenire direttamente in quella sede.

Per quel che riguarda la chiamata di parte, la chiamata in garanzia, può darsi che sia compiuta mediante proposiazione di autonoma domanda, e in questo caso è anche possibile una modifica al riparto verticale della competenza ai sensi dell'art. 32 e quindi la concentrazione dinanzi alla fine al tribunale delle due domande, una delle quali sia in ipotesi di competenza del giudice di pace.

La garanzia si distingue, a loro volta in garanzia propria o impropria a seconda se si abbia un rapporto giuridico unico, talché si afferma che nell'ipotesi di garanzia impropria, come quella per l'assicurazione per la responsabilità civile ha un regime so proprio, nell'ipotesi di garanzia propria sarebbe applicabile l'art. 106, quindi la facoltà della parte di chiamare in causa il terzo, ma non sarebbe applicabile l'art. 32 in tema di modificazione del riparto verticale della competenza, il che vale appunto, ma non vale per l'assicurazione della responsabilità responsabilità civile, qui è pacifico che la modifica della competenza sia possibile, per quel che riguarda la garanzia propria si distingue a sua volta in garanzia propria reale o dell'effetto reale, che è collegata al trasferimento di un diritto, come nei casi del 1485, ma anche del 1266 e 1586 del c.c., la garanzia propria reale si distingue dalla garanzia propria personale, che è quella che si presenta nelle obbligazioni solidali, nei rapporti di fideiussione, ecc..

Questa distinzione tra garanzia propria e impropria, però ha sempre meno successo, di recente, in realtà i limiti all'applicabilità della disciplina della garanzia propria, emergono quasi tutti in particolare settore che è quello delle vendite a catena, in cui è particolarmente labile il nesso tra i rapporti giuridici lungo la scala della catena distributiva, talché gli orientamenti dottrinali più recenti, sono anche che alla garanzia impropria bisogna applicare la disciplina della garanzia propria sia dal punto di vista della modificazione della competenza, sia dal punto di vista della scindibilità della controversia in sede di gravame, osservando che ai fini della scindibilità ciò che rileva non è tanto la distinzione tra il carattere proprio o improprio della garanzia, bensì, il rapporto tra la sentenza e la domanda d'impugnazione, per cui, in particolare, si afferma che si dovrebbe avere sempre inscindibilità in tutte le ipotesi in cui sia necessario la coltivazione anche in via condizionata della domanda di garanzia, e quindi in tutte le ipotesi di rigetto della domanda principale, si avrebbe alla fine scindibilità quasi soltanto nel caso in cui vi sia stato accoglimento della domanda principale e l'impugnazione investa esclusivamente la pronuncia sulla sussistenza del rapporto di garanzia, purché la domanda nei confronti del garante sia stata proposta esclusivamente dal garantito e non sia stata accomnata da una domanda, nei casi in cui è possibile, direttamente proposta dall'attore in via principale nei confronti del garante.

·    Il litisconsorzio necessario

Oltre alla conseguenze processuali che abbiamo descritto, cioè quella dell'estinzione nell'ipotesi di mancata integrazione del contraddittorio di mancata inottemperanza all'ordine di integrazione del contraddittorio disposto dal giudice, ovvero, nullità e inesistenza a seconda delle opinioni della sentenza nell'ipotesi in cui non venga ordinata l'integrazione del contraddittorio e venga resa pronuncia sul merito che passi in giudicato, ricordiamoci ancora che c'è la fase intermedia, cioè l'ipotesi in cui venga pronunciata sentenza sul merito senza ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte, e però questa sentenza venga impugnata. Per questo caso, la legge prevede in deroga alla regola generale per cui le nullità compiute nel corso del giudizio di primo grado possono essere sanate attraverso la rinnovazione, in grado d'appello, o con possibilità del giudice d'appello di pronunciare direttamente nel merito della causa deviando dalla regola generale, in questa ed in alcune altre particolari ipotesi, la legge prevede che il giudice d'appello rimetta la causa al primo giudice, dovendosi assicurare al litisconsorte pretermesso il doppio grado di giudizio, e quindi la facoltà del doppio esame della sua situazione giuridica da parte del giudice del merito.

Comunque, per ora, ci limitiamo ad osservare che sia ammesso, in giurisprudenza che la causa possa essere direttamente decisa nel merito in grado d'appello, allorquando il litisconsorte necessario intervenuto in appello ex art. 344, chieda lui stesso e con il consenso delle altre parti che anziché rimettere la causa al primo giudice questa venga direttamente decisa nel merito in appello.

Laddove nemmeno il giudice d'appello si avveda della pretermissione del litisconsorte necessario, e tuttavia se ne avvede invece la Corte di Cassazione, la questione è ovviamente rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo, e sarà la Corte di Cassazione, in questo caso, a disporre quella rimessione al primo giudice che non era stata disposta dal Giudice d'Appello.

Particolarmente delicato, in tema di litisconsorzio necessario, è il problema dell'individuazione dell'ambito di applicazione di questa disciplina, che non è esplicitamente risolto dal codice, laddove, nell'art. 102, da per scontato che si sappia quali siano quei casi in cui la sentenza deve essere pronunciata nei confronti di più parti, o meglio nei confronti di più soggetti.

Alcuni casi sono esplicitamente previsti dalla legge e quindi su quelli siamo tranquilli! Esempio il caso dell'azione surrogatoria, dell'azione di disconoscimento della paternità, il giudizio di divisione, e numerosi sono i casi in cui la legge prevede la necessarietà del litisconsorzio, e secondo l'orientamento dottrinale, non altri potrebbero questi essere, appunto, al di la dei casi previsti dalla legge, si può solo immaginare, casomai, che sia mancata la notificazione del litisconsorte della domanda proposta contro di lui, nel quale caso si ha la violazione della regola del contraddittorio, un ordine di provvedere alla notificazione, ma non vi è applicazione della disciplina del litisconsorzio necessario, in realtà, con l'ulteriore conseguenza che si possa dubitare persino dell'efficacia tra le parti che abbiano partecipato al giudizio della sentenza.

Altrimenti dicono, i sostenitori della tesi restrittiva, che tutto sommato è un problema dell'attore avere scelto di proporre domanda contro alcuni soltanto dei soggetti titolari della complessa situazione giuridica dedotta in giudizio.

L'opinione maggioritaria, peraltro, è nel senso che invece, sia possibile individuare casi di litisconsorzio necessario anche al di la delle espresse previsioni legislative, in particolare si ascrive a questa opinione colui che maggiormente invocava l'esercizio del potere ufficioso del giudice di disporre l'integrazione del contraddittorio nei casi di litisconsorzio necessario, perché ricordiamolo, nel codice previgente non prevedeva il potere d'ufficio del giudice di disporre l'integrazione del contraddittorio, ma pur sempre prevedeva varie ipotesi di necessarietà del litisconsorzio. Ma secondo l'opinione prevalente soi potrebbe individuare appunto, una serie di categorie di fattispecie, sulla base di un ragionamento sistematico, nelle quali sia giustificabile se doveroso, applicare la disciplina litisconsorzio necessario.

Poi, per carità! Volendo tutte le opzioni sono valide, perché ricordiamo che lo strumento per un verso comprime il principio dispositivo, pe altro verso, senz'altro incrementa l'efficacia dell'attività giurisdizionale, perché, se anche noi accettiamo l'ipotesi che la sentenza produca effetti tra coloro che abbiano partecipato al giudizio, ma non nei confronti che sia rimasto estraneo, il quale potrebbe proporre opposizione, è chiaro che se non si evoca in giudizio il litisconsorzio necessario si pronuncia una sentenza che è comunque instabile, che rischia di essere posta nel nulla su iniziativa del litisconsorte pretermesso, e quindi, può essere ragionevole prevenire questa fonte di instabilità evocandolo in giudizio sin dall'inizio, ma quale sia il suo ambito di applicazione si può discutere, perché le ragioni dogmatico sistematiche che vengono formulate per avviare l'applicazione di questa disciplina, sono largamente opinabili come sono i ragionamenti di carattere dogmatico sistematico.

Per lo più, si dice tradizionalmente, che il campo privilegiato di applicazione di questa disciplina si abbia quando, sia dedotto in giudizio un rapporto giuridico multilaterale e sia esercitata un'azione di carattere costitutivo. Il ragionamento su cui si basa quest'idea, è che: allorquando il rapporto giuridico deve cambiare, cioè deve essere costituito, modificato, estinto tramite il provvedimento del giudice, questo rapporto giuridico non può cambiare per alcuni soltanto dei soggetti e non per gli altri. Non è davvero indefettibile questa conseguenza, perché possiamo immaginare che cambi per alcuni soltanto, ovviamente in modo più lievemente instabile e non ci sarebbe niente di male! Tuttavia, dobbiamo tenere presente che quest'opinione è tradizionale, ampiamente condivisa e largamente applicata in giurisprudenza, sicché costituisce un diritto vivente indagabile nel settore delle azioni costitutive la deduzione in giudizio del rapporto giuridico multilaterale inevitabilmente conduca all'applicazione della disciplina del litisconsorzio necessario.

Ma c'è di più! La prassi giurisprudenziale ha finito per individuare anche ulteriori ipotesi di applicazione della disciplina del litisconsorzio necessario, anche al di fuori del campo delle azioni costitutive, e ciò sempre sulla base di una valutazione secondo cui la sentenza, Chiovenda diceva che sarebbe uniliter data, perché non potrebbe produrre effetto solo nei confronti di alcuni e non nei confronti di tutti. Anche qui si tratta di una petizione di principio, per lo più si tratta di casi in cui è molto forte il rischio che il litisconsorte pretermesso faccia valere le sue ragioni compatibili con quelle accolte in sentenza, e quindi diventa sensato prevenire questo rischio estendendo a lui il contraddittorio, cosa che si potrebbe, secondo me abrogare l'art. 102 e basterebbe l'art. 107 a risolvere tutti i problemi che ove si afferma che si dovrebbero risolvere secondo l'art. 102!

Comunque, queste fattispecie sono, ulteriori rispetto a quelle delle azioni costitutive, nel campo delle azioni di accertamento alcune ipotesi in cui si tratta di accertare l'invalidità di un titolo comune a più persone, e si tratta di ipotesi in cui è particolarmente labile il confine tra tutela d'accertamento e tutela costitutiva, confine che è labile in se, anzi le mode dottrinali sono tutte nel senso di sostenere che il minor numero di ipotesi possibile va qualificato come ipotesi di sentenza costitutiva, per cui ci sono monografie che sostengono che l'annullamento dei negozi non costituisce un'azione costitutiva, ma dichiarativa. Anche di queste vi invito a diffidare, perché in realtà la distinzione un trova riscontro nel diritto positivo, e anzi risulta difficile spiegare perché per esempio, nella disciplina della trascrizione, il legislatore si premuri di distinguere ai fini della produzione di effetti retroattivi fra le sentenze che dichiarano la nullità e invece che annullano il negozi, negli artt. 2652 del c.c.. Hanno interesse a dire che qui si tratta di azioni o di accertamento, ma sostanzialmente costitutive o azioni che hanno caratteristiche comuni con quelle azioni che spesso si chiamano costitutive e che poi, per alcuni sono di accertamento, comunque, quelle che hanno ad oggetto, si diceva, un titolo comune a più soggetti, e ancora, questo è il caso più difficile da ricordare, perché ci sono ragioni pratiche sottili, è dell'ipotesi in cui si chieda, l'adempimento, e qui si tratterebbe di azioni di condanna, di un obbligo di fare indivisibile e comune a più soggetti anche in questo caso, secondo la giurisprudenza, dovremmo rendere applicabile la disciplina del litisconsorzio necessario.

Io ritengo! Per come è oggi il diritto vigente, è chiaro che l'art. 102 esiste, non possiamo abrogarlo, ma ritengo preferibile la tesi che non richiede inuliter data, quindi non ritiene inesistente la sentenza pronunciata in assenza di litisconsorte necessario, la ritiene idonea a produrre effetti tra le parti che hanno partecipato al giudizio, e quindi il litisconsorte pretermesso sia legittimato all'opposizione di terzo in applicazione estensiva del disposto dell'art. 404 comma 1°, nella parte in cui esso risulta concepito per essere applicato all'ipotesi del titolare del diritto autonomo incompatibile.

Questo strumento dell'opposizione di terzo, si è proposto di utilizzarlo nell'ipotesi largamente di scuola, del processo condotto nei confronti del falsus procurator, e anche in questo caso si può immaginare la proposizione di un opposizione di terzo, ha finito per diventare una carta di riserva molto popolare, per cui, bisogna trovare un punto di equilibrio tra le individuazioni delle ipotesi di sentenza nulla opponibile, e l'individuazione di sentenza giuridicamente inesistente in quei casi in cui è effettivamente congruo parlare di sentenza giuridicamente inesistente e applicare estensivamente il disposto dell'art. 161 comma 2°.

In una recente monografia, si formula un'ipotesi abbastanza divertente! E cioè l'ipotesi in cui il processo venga condotto nei confronti del convenuto, senza che a questo convenuto venga mai notificato alcun atto del processo. la legge contempla l'ipotesi in cui il convenuto rimanga contumace e siano nulle tutte le notifiche compiute nei suoi confronti, il caso è regolato dall'art. 327 comma 2°, dove il quale attribuisce al convenuto il potere di impugnare la sentenza in ogni tempo, cioè nei suoi confronti non decorrono i termini perentori che decorrono normalmente dalla notificazione, o in mancanza dalla pronuncia della sentenza per la proposizione dell'impugnazione ordinaria. Perciò, questo è un sistema che protegge abbastanza il convenuto contumace! Anche se in realtà, c'è un caso in cui se: la domanda viene rigettata in primo grado e in appello, e accolta dalla Cassazione, che adesso può pronunciare sul merito in applicazione dell'art. 384, l'art. 327 risulta inutile al convenuto contumace, perché le impugnazioni ordinarie sono già esperite dall'attore soccombente nei gradi di merito del giudizio (teoria fantasiosa)!!

Però questo studio monografico si riflette sul come trattare il caso in cui al convenuto contumace siano state compiute notificazioni nulle, cioè notificazioni compiute violando le prescrizioni formali del dettato legislativo, ma pur sempre compiute a persona in luogo a che abbiano a che fare col destinatario. Ipotizziamo nessuna notificazione, il che poi non è così fantasioso, se pensiamo alla fattispecie delle notificazioni inesistenti, cioè quelle compiute in luogo e a persona che non hanno nulla a che vedere col destinatario, il giudice potrebbe non accorgersi di ciò e procedere e accogliere persino la domanda. Ora ci si domanda come dobbiamo trattare questo convenuto contumace. Certamente non possiamo assicurargli una posizione deteriore da quella che gli compete nelle ipotesi di notificazioni nulle, anzi dovremo dargli qualche opportunità in più, ed ecco che qualcuno dice: "consentiamogli di proporre opposizione di terzo!". Dal punto di vista di un certo modo di ragionare, si potrebbe che costui non è stato mai efficacemente reso parte, perché se la qualità di parte si acquista con la notificazione della citazione e se è vero che questa notificazione non è stata mai eseguita, o sono state eseguite notificazioni giuridicamente inesistenti; lui è stato reso parte nel senso il soggetto nei cui confronti è proposta la domanda, però non è stato messo in condizioni di compiere gli atti del processo e non è mai stato individuato un momento, a partire dal quale egli abbia acquisito la qualità di parte, perché questo momento non è individuabile, poiché tale qualità la si acquisisce solo con la notificazione.

Qui la nozione di terzo che si fa riferimento, quando dicevamo del giudice terzo cioè terzo perché non è personalmente interessato alla causa, e qui non si tratta di terzo in quel senso! Il terzo è colui nei cui confronti non è posta la domanda, e anche qui non è un terzo in questo senso, e parlare di opposizione di terzo suona strano; finchè si dice: opposizione di terzo del litisconsorte pretermesso, ci sono due parti e c'e un litisconsorte pretermesso; finchè si dice l'opposizione di terzo del falsus procurator, c'è un attore, c'è un falso rappresentante e c'è un convenuto fittizio rimasto terzo, ma qui, veramente, c'è l'attore e il convenuto e questa opposizione di terzo sembra un opposizione di secondo, e si leggono, nei riferimenti dottrinali che supportano questa conclusione teorica, citazioni di dottrina tedesca e allora vien da dire, un momento! Ma in Germania parliamo certamente di opposizione, perché in Germania la sentenza contumaciale è una sentenza abbreviata e sommaria soggetta, la sentenza contro il contumace, a uno speciale mezzo di impugnazione che ha la forma dell'opposizione, cioè dell'impugnazione proposta presso lo stesso giudice che ha emanato la sentenza, ma non è un'opposizione di terzo, è l'opposizione del contumace. Mentre l'ipotesi che si è immaginata sia un caso assolutamente appropriato cui parlare di inesistenza giuridica della sentenza, come l'ipotesi di omessa sottoscrizione del giudice, ipotesi in cui non sia mai stato compiuto l'atto a decorrere dal quale si acquisisce formalmente la qualità di parte, è un ipotesi in cui si può immaginare che la sentenza debba essere trattata come sentenza giuridicamente inesistente, e quindi, nell'ipotesi in cui si può tranquillamente escludere che la sentenza produca alcun effetto tra le parti, anche perché non ci sono parti tra le quali la sentenza può produrre effetto, perché c'è solo una parte e l'altro soggetto non è mai stato reso parte, perciò dovremmo ulteriormente ritenere che il soggetto convenuto contumace, a cui non sia mai stato notificato alcun atto del processo, a cui siano state compiute soltanto notificazioni inesistenti abbia la facoltà di promuovere l'opposizione.

La sospensione dell'esecutività dell'atto, non ha ragion d'essere dovendosi qualificare, quell'atto, come sentenza data giuridicamente inesistente e quindi priva di efficacia esecutiva, con la possibilità di far valere il vizio in ogni tempo anche tramite opposizione all'esecuzione, promossa sulla base di quella che solo formalmente ha la veste di una sentenza, ma inidonea a produrre gli effetti sostanziali.

·    Le impugnazioni civile (regole generali)

Affronteremo in particolare quella serie di problemi prodotti dalle norme che vanno dall'art. 323 all'art. 338 del codice di rito.

Il primo problema da affrontare è quello della distinzione tra impugnazioni ordinarie  e straordinarie.

Ci dice il diritto positivo direttamente, quali impugnazioni impediscono la formazione del giudicato, quindi la produzione degli effetti propri del giudicato e quali invece no, sono invece compatibili con questa proposizione, ma si potrebbe domandare se questa distinzione sia arbitraria o trovi in se un fondamento sistematico .

In particolare, la questione si pone in modo rilevante soprattutto con riferimento al ricorso per Cassazione, perché il codice lo qualifica tra le impugnazioni ordinarie, la cui proposizione o proponibilità impedisce alla formazione della cosa giudicata nel codice vigente, ma già nel codice del 1865 qualificava il ricorso straordinario per cassazione come impugnazione straordinaria non impeditiva della formazione del giudicato e in effetti, la scelta del legislatore, che potrebbe anche essere diversa in molti ordinamenti, addirittura si ritiene che la formazione della cosa giudicata avvenga già con la pronuncia della sentenza di primo grado. Alla soluzione accolta nel codice del '42, si arrivò soprattutto sulla base di considerazioni di carattere sistematico, articolate da Chiovenda, il quale sosteneva che il nesso tra ordinarietà e straordinarietà dell'impugnazione passata in giudicato, consisteva in ciò che dovevano ritenersi impeditive nella formazione del giudicato tutte quelle impugnazioni che si fondano su motivi che sono deducibili dall'esame stesso della sentenza. Per converso tutte quelle che si fondano su motivi che non siano deducibili dall'esame immediato della sentenza, devono considerarsi straordinarie, e non impeditive della formazione del giudicato, il che vale per la revocazione straordinaria i cui motivi sono tutti deducibili da eventi esterni rispetto alla sentenza, il deferimento di documenti decisivi, la condanna del giudice per dolo.

Però c'era una teoria sottostante anche nella qualificazione del ricorso per cassazione, come impugnazione straordinarie, e teoria che si fondava sulla radicale distinzione di due categorie di mezzi d'impugnazione e cioè i mezzi d'impugnazione in senso stretto e i mezzi di gravame, intendendosi per mezzo di gravame l'appello, sul presupposto che essendo l'appello diretto otteneva nova pronuncia sul merito della causa, l'appello andava in qualche modo a qualificarsi come una sorta di naturale prosecuzione del giudizio di primo grado, quindi, forse per questo, è ragionevole rinviare alla definizione del giudizio d'appello alla preclusione della sua opposizione agli effetti del giudicato, così come, allora, solo in tale momento si producevano gli effetti esecutivi della sentenza di condanna, effetti esecutivi, che nel regime previgente alla riforma del '90, potevano essere anticipati in determinate occasioni, ma il provvedimento aveva natura latamente di provvedimento cautelare, ordinariamente si producevano invece con la pronuncia della sentenza in grado d'appello, ovvero con decorso del termine per la sua proposizione.

Mezzi di impugnazione tutti gli altri, in quanto invece fondati sulla specifica deduzione di motivi di invalidità della sentenza e diretti ad ottenere, in prima battuta, in modo evidente nel ricorso per cassazione, ma in modo meno evidente comunque rinvenibile anche nella revocazione, diretto ad ottenere fondamentalmente l'annullamento della decisione impugnata, e cioè un giudizio di carattere rescindente riservandosi ad una eventuale prosecuzione del giudizio innanzi allo stesso o qual'altro giudice nel caso della Cassazione, la pronuncia di un giudizio rescissorio avente di nuovo ad oggetto il merito della causa.

Questa diversa impostazione del problema dell'ordinarietà dell'impugnazione, non è del tutto assente anche dal codice vigente, a prescindere dalla circostanza che l'impostazione chiovendiana abbia perso attualità, nella misura in cui a seguito di successive riforme anche il giudizio d'appello va progressivamente perdendo la sua natura di naturale prosecuzione del giudizio di primo grado, si può rinvenire qualche traccia dell'antica distinzione tra impugnazione ordinarie e straordinaria, nelle pieghe del testo del codice, perché il codice è stato scritto, ed in particolare le norme dell'impugnazione sono state scritte da Piero Calamandrei, che era il più importante sostenitore della tesi secondo cui il ricorso per cassazione è un'impugnazione straordinaria.

Un esempio lampante, per non definirli dei lapsus, in cui incorre Calamandrei nella redazione del codice, in cui si è scelto di qualificare il ricorso per Cassazione come un'impugnazione ordinaria, è quello dell'art. 338, esso dice che l'estinzione del procedimento d'appello e di revocazione ordinaria, comporta il passaggio in giudicato della decisione impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto.

Il meccanismo è abbastanza facile da capire! L'estinzione per inattività o per rinuncia nel giudizio d'appello, comporta passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, a meno che, nel corso di giudizio di appello sia stata pronunciata una sentenza non definitiva di riforma della decisione di primo grado, altrimenti il giudizio d'appello si sarebbe concluso.

Il caso più chiaro è quello di pronuncia in primo grado di rigetto della domanda, pronuncia in grado d'appello di sentenza non definitiva di condanna generica del convenuto, la pronuncia di questa decisione, anche se a portata caducatoria della pronuncia di primo grado, tale da impedire un passaggio in giudicato della stessa che ormai è stata riformata sia pure con sentenza parziale.

Discorso analogo si può fare per la revocazione ordinaria, ma per il ricorso per Cassazione?

In prima battuta potremo pensare, forse, che il procedimento per cassazione non si estingue, in effetti abbiamo accennato alla circostanza che, il procedimento per cassazione è animato da impulso ufficioso e quindi si ritiene passibile di interruzione soltanto in casi estremi, e non tramite l'applicazione generalizzata della disciplina dell'interruzione, e anche conseguentemente, si ritiene nell'ipotesi in cui sia eccezionalmente avutasi interruzione o in cui sia disposta la sospensione del procedimento di cassazione, può essere riattivato attraverso una informale sollecitazione d'ufficio, senza bisogno di provvedere ad un atto di riassunzione nel senso tecnico, però, questo non esclude affatto che il procedimento per cassazione sia passibile di estinzione, anzi, come si evince dal disposto degli artt. 390 e 391, è senz'altro ammissibile la rinuncia al ricorso per cassazione, anzi diversamente dalla rinuncia agli atti compiuta nel corso del giudizio di merito, la rinuncia è efficace senza bisogno dell'accettazione dell'avversario, sicché, in questi casi è pacifico che si determini l'estinzione del procedimento di cassazione. Possiamo dubitare che ciò non comporti il passaggio in giudicato della decisione impugnata?

È chiaro che in una prima applicabilità in cassazione di quella seconda parte della norma  che esclude il passaggio in giudicato nell'ipotesi di pronuncia di sentenza non definitiva, perché nel procedimento di cassazione non vi è spazio per la pronuncia di sentenza non definitiva, eventualmente la Cassazione cassa con rinvio, ma la decisione di cassazione con rinvio è sentenza definitiva del procedimento di cassazione, cioè è sentenza cui la Suprema Corte chiude il procedimento dinnanzi a se senza ulteriore prosecuzione delo stesso, il quale va eventualmente riattivato dinnanzi al giudice di rinvio attraverso riassunzione.

Quindi non vi è possibilità per la pronuncia di sentenza non definitiva che impedisca il passaggio in giudicato della decisione impugnata, però si deve riconoscere, che l'estinzione del procedimento di cassazione fa sempre passare in giudicato la decisione impugnata.

La mancanza nell'art. 338 del riferimento alle conseguenze dell'estinzione del procedimento di cassazione, probabilmente si spiega pensando che, nella mente di Calamandrei che scriveva queste norme, non aveva senso parlare di passaggio della decisione impugnata a seguito dell'estinzione del procedimento di cassazione, perché dal suo punto di vista, la decisione impugnata con ricorso per cassazione era già passata in giudicato.

Qualcuno ha anche riproposto in tempi recenti, di ritornare all'antico regime e quindi di ripristinare il carattere straordinario del ricorso per cassazione, ma qui cambierebbe qualcosa! Che in ogni caso tra i motivi di ricorso per cassazione deve rientrare la violazione di legge di cui all'ipotesi di violazione di legge.

Nel regime vigente, noi possiamo dire tranquillamente, che il giudicato civile resiste allo ius superveniens, cioè la volontà della legge compiuta attraverso il comando giudiziale passato in giudicato, conserva la sua efficacia a dispetto dell'eventuale sopravvenienza di una legislazione sostanziale che regoli diversamente il rapporto anche nell'ipotesi in cui la legge sostanziale intenda adire l'efficacia retroattiva, e quindi regolare anche i rapporti sorti e prodottisi anteriormente alla sua entrata in vigore, ebbene, dicevamo, se il rapporto sorto anteriormente all'entrata in vigore tuttavia regolato dalla nuova legge, però è stato conosciuto e deciso in giudizio, e dal giudizio è scaturita una pronuncia passata in giudicato, tale pronuncia non è colpita dall'eventuale effetto ablativo dei diritti sorti da quel rapporto per effetto della legislazione sopravvenuta. E lo stesso discorso vale anche per l'ipotesi  in cui lo ius superveniens consista nella declaratoria di illegittimità costituzionale della norma su cui si è fondata la decisione, perché, appunto, la declaratoria di illegittimità costituzionale prevale solo sul giudicato normale di condanna, ma non sulle altre ipotesi di giudicato.

Se, però, qualifichiamo il ricorso per cassazione come impugnazione straordinaria e riteniamo il giudicato già formato per effetto della sentenza d'appello, dovremmo anche ammettere che lo ius superveniens, soprattutto quando consista in una declaratoria di illegittimità costituzionale, possa essere fatto valere contro questo giudicato, perché, il giudice del merito che ha applicato la norma costituzionalmente illegittima, ha commesso una violazione di legge, perché la legge stessa gli imponeva in quel caso di disapplicare la norma costituzionalmente illegittima, o meglio, di rimettere la questione alla Corte Costituzionale affinché questa provenisse ad una pronuncia declaratoria della illegittimità costituzionale della norma , che non è di carattere costitutivo, ma che accerta che la norma è sempre stata costituzionalmente illegittima.

Quindi se vogliamo far valere lo ius superveniens consistente appunto in una declaratoria di illegittimità costituzionale e la sentenza è impugnabile con mezzi di impugnazione, tra i quali motivi non rientra in generale la violazione di legge, come il sistema attuale, quindi per esempio possiamo impugnarla solo con la revocazione straordinaria, allora dovremo sulla base di un valido motivo di revocazione straordinaria ottenere l'annullamento della decisione, e solo a seguito di nuova pronuncia sul merito della controversia conseguire anche l'applicazione della nuova disciplina dello ius superveniens e quindi la disattivazione della norma costituzionalmente illegittima, ma se la sentenza è passata in giudicato, tuttavia impugnabile per violazione di legge, a questo punto, la circostanza che la norma applicata sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima, è di per se sola, valido motivo per consentire l'annullamento della decisione e il nuovo esame del merito della pronuncia. Quindi cambierebbe un pò il discorso che dovremmo fare, nel trattare della resistenza del giudicato al superveniens, e in particolare dovremo modificare i termini del discorso con riferimento all'ipotesi della declaratoria di illegittimità costituzionale.

 Tutto questo discorso, peraltro, una volta chiarito, ci consente di capire che nulla a che vedere con il concetto di straordinarietà, così come ora lo abbiamo esaminato, il carattere di straordinarietà che si attribuisce al cosiddetto ricorso straordinario per cassazione.

Si parla di ricorso straordinario per cassazione con riferimento alla possibilità, ammessa da ormai più di cinquant'anni dalla giurisprudenza, di proporre ricorso per cassazione contro tutti quei provvedimenti che, per volontà del legislatore, abbiano forma diversa da quella della sentenza, e tuttavia ne abbiano il contenuto sostanziale, e non possano in altra maniera essere oggetto di controllo in sede di legittimità.

Il principio si applica soprattutto a quella congenie di ipotesi in cui che si è prevista in corso di questi anni, la cognizione in camera di consiglio di diritti soggettivi, sul presupposto che il provvedimento in camera di consiglio, sia passibile di reclamo, ma non di impugnazione in sede di legittimità, sul presupposto che tale provvedimento vi incida su diritti soggettivi, e quindi abbia un contenuto sostanziale di sentenza, e sul presupposto, inoltre, che tale provvedimento non sia in realtà, pienamente revocabile, nonostante quanto afferma il disposto dell'art. 742, che esplicitamente ne prevede la revocabilità, e ciò in quanto, per un verso si ritiene che il provvedimento sia revocabile per il mutamento delle circostanze, con il che si consente una revocabilità che tutto sommato finisce per differire pochissimo dall'inefficacia del giudicato, perché come ricorderete non copre certamente le fattispecie prodotte e perfezionatesi successivamente alla sua formazione, salvo il caso della fattispecie perfezionata solo con la manifestazione di volontà che avrebbe potuto essere resa anche in tempo utile per essere dedotta nel giudizio che si è formato in giudicato.

Secondo altre tesi, i margini di revocabilità dei provvedimenti in camera di consiglio sono più ampi, ma la giurisprudenza ha finito per non soffermarsi più di tanto sulla questione, perché ha ravvisato sostanzialmente i presupposti dell'impugnabilità del provvedimento in un suo carattere decisorio e definitivo anche inteso in senso alquanto lato, quindi decisorio non solo perché pronuncia su diritti soggettivi, ma anche perché incide su diritti soggettivi, intendendo tra l'altro, i diritti soggettivi in senso molto ampio, talché si è preferito per ritenere che fosse comunque doveroso, sia pure su linee argomentative diverse, ma alla fine, muovendo esplicitamente da questo presupposto, garantire i controlli di legittimità anche su pronunce di tutela di possesso, che tradizionalmente non si qualificava come diritto soggettivo, e intendendo in senso ampio anche il requisito della definibilità, per cui se si è in presenza della possibilità di ottenere un controllo di legittimità attraverso un diverso percorso, è chiaro che il ricorso per cassazione è escluso, in modello di tutela sommaria come quello del decreto ingiuntivo passibile di opposizione, e a seguito dell'opposizione formante di un giudizio a cognizione piena che si conclude con sentenza impugnabile con i mezzi ordinari di impugnazione, il ricorso per cassazione è inammissibile.

Ma con riferimento ai provvedimenti bicamerali, e in generale sotto il profilo della questione della revocabilità, l'amministrazione è stata di manica larga soprattutto, perché molte volte ha tenuto conto di quella che era sostanzialmente l'irreversibilità di fatto degli effetti del provvedimento. un esempio abbastanza lampante è quello dei provvedimenti che si rendono nel corso del procedimento fallimentare. Lì si ha un bel dire che il provvedimento camerale di riparto è un provvedimento che non esclude comunque che il creditore possa, allorquando il debitore è tornato in bonis agire in via ordinaria e ottenere un giudizio a cognizione piena sulla propria pretesa, al fine di conseguire magari per l'intero quanto gli era dovuto, senza che abbia un carattere vincolante la statuizione contenuta nel piano di riparto del giudice delegato. Però una volta che il riparto è avvenuto la possibilità di recuperare in via ordinaria dal debitore tornato in bonis ha poco di concreto, quindi alla fine, il provvedimento del giudice delegato aveva di fatto il carattere dell'irrevocabilità, ancorché inidoneo a produrre gli effetti della vera e propria cosa giudicata.

Pertanto, per un verso la Cassazione non ritiene indispensabile che il provvedimento abbia il carattere dell'irrevocabilità proprio dell'idoneità della cosa giudicata, ma è sufficiente che abbia il carattere di stabilità e una potenziale reversibilità di fatto degli effetti del giudicato. Per altro verso, la circostanza che il provvedimento risulti ricorribile per cassazione, in questa maniera non implica quindi correlativamente, che il provvedimento sia provvisto degli effetti del giudicato, come qualcuno aveva sostenuto, ossia, dalla riproponibilità per cassazione non deriviamo la produzione degli effetti del giudicato nell'ipotesi in cui il ricorso per cassazione non venga proposto, sul presupposto che, naturalmente come la Corte Costituzionale ha detto, in realtà non vi sia un diritto costituzionale ad ottenere la formazione della cosa giudicata sulla propria pretesa, e che quindi il legislatore goda di un certo margine di discrezionalità nel conurare la stabilità del provvedimento a seconda delle caratteristiche della situazione sostanziale tutelata, quindi, ben possa, con riferimento particolare a quelle situazioni sostanziali che sono tipicamente caduche e soggette facilmente a mutamenti e trasformazioni, il legislatore possa escludere del tutto che si formi in senso pieno la cosa giudicata e prevedere invece che si producano provvedimenti semplicemente stabili, ultrattivi, ma non pienamente vincolanti, in particolare allorché si discuta di cause dipendenti o connesse per pregiudizialità.

In tutti questi casi, parliamo di straordinarietà del ricorso, non certo per intendere che la sua proposizione non impedisca il passato in giudicato della decisione, anzi, laddove comunque al provvedimento prende forma diversa da quella della sentenza non impugnato, tuttavia la legge esplicitamente attribuisca l'idoneità alla cosa giudicata, anche in questa ipotesi la proponibilità per ricorso straordinario per cassazione sicuramente impedisce la formazione della cosa giudicata, quindi il ricorso è straordinario semplicemente perché si fonda non sull'applicazione della norma di legge ordinaria, ma sulla diretta applicazione precettiva dell'art. 111 della Costituzione, sul presupposto che queste norme di diretta applicazione precettiva, siano applicabili e giustifichino la disapplicazione della disciplina contenuta nella legge ordinaria, senza bisogno di conseguire una declaratoria di legittimità costituzionale da parte della Consulta.

Queste norme costituzionali vengono applicate e fatte prevalere sulla legislazione ordinaria direttamente dalla giurisprudenza ordinaria senza bisogno dell'intervento della giurisprudenza costituzionale, quindi la straordinarietà del ricorso è esclusivamente in questo! Non può fondarsi sull'applicazione della legge ordinaria. Il campo di applicazione privilegiato sono i provvedimenti a contenuto decisorio che abbiano forma diversa da quella della sentenza, anche se si può trovare qualche ipotesi di sentenza a cui si può immaginare  che sia applicabile il ricorso straordinario per cassazione ed il caso più significativo è quello della sentenza che decide sulla opposizione agli atti esecutivi, che è un rimedio alla disposizione delle parti del procedimento esecutivo allo scopo di far valere le irregolarità degli atti del procedimento esecutivo, cioè qualsiasi deviazione dallo schema legale degli atti del procedimento esecutivo e financo all'inopportunità degli atti del processo esecutivo, talché si dice ad esempio che la parte poterebbe proporre opposizione contro il provvedimento di fissazione della data dell'udienza per la vendita dell'immobile, adducendo che in quel periodo i prezzi salgono e se si rinvia la data dell'udienza si incassa di più. È una valutazione di mera opportunità e non c'è nessuna violazione di legge e neanche un'irregolarità in senso tecnico, perché qui, non c'è una forma prevista dalla legge sia pure non a pena di nullità, che sia pure stata disattesa, però la sentenza che decide l'opposizione agli atti esecutivi è qualificata dall'art. 618, come non impugnabile.

Verrebbe naturale, a questo punto, applicare il disposto dell'art. 111 Costituzione, salvo che qualcosa si potrebbe obiettare, e cioè si potrebbe sostenere che siamo in presenza di provvedimento, che ha si la forma della sentenza, ma non ne ha la sostanza, perché questo provvedimento non incide realmente sui diritti soggettivi e cioè, su posizioni di vantaggio attributive di un bene della vita al di fuori del processo. incide solo su principi di vantaggio che hanno propriamente un contenuto processuale e cioè, il diritto al regolare svolgimento del procedimento esecutivo, quindi esisterebbero argomenti per negare la ricorribilità per cassazione di questa sentenza sulla base dell'art. 111 anche se prevalentemente viene riconosciuta su una base di una piatta applicazione dell'idea meccanica, secondo cui se abbiamo una sentenza, la stessa dovrà pur essere oggetto di un riesame di legittimità.

Dobbiamo invece ricordarci che si qualifica come ricorso ordinario, e non come ricorso straordinario, quello che si propone contro le sentenze che la legge dichiari inappellabili, posto che il ricorso per cassazione è previsto dalla legge contro le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado, quindi è applicabile in questo caso l'art. 360. La distinzione non è puramente accademica, perché c'è anche un risvolto pratico non rilevantissimo, ma pure c'è, infatti, secondo la giurisprudenza più recente l'ambito dei motivi deducibili tramite ricorso ordinario non coincide con l'ambito dei motivi deducibili tramite ricorso straordinario, perché, col ricorso straordinario, si può far valere la violazione di legge e tale concetto può essere considerato comprensivo sia dei cosiddetti errori in iudicando, cioè delle false applicazioni della legge sostanziale, sia dei cosiddetti errori in procedendo, cioè per delle false applicazioni della legge processuale, però con riferimento al motivo di ricorso per cassazione che è rappresentato dalla insufficiente, omessa o contraddittoria coltivazione su di un punto decisivo della controversia, l'orientamento della giurisprudenza più recente, è nel senso che, nell'ipotesi di omissione della motivazione sia ammesso ricorso straordinario qualificandosi la stessa come violazione di legge determinativa di nullità della sentenza, in quanto la sentenza risulterebbe priva di un elemento indispensabile per il raggiungimento del suo scopo. Ma nell'ipotesi in cui la motivazione sia semplicemente contraddittoria, in questo caso non si verificherebbe una diretta violazione della legge processuale e non sarebbe ammessa la proposizione del ricorso straordinario per cassazione, sul piano pratico questa distinzione non ha grandissima portata, perché i ricorsi molto raramente vengono fondati esclusivamente su vizi della motivazione.

In qualche modo, la Cassazione ha cercato di anticipare una proposta di riforma che la Cassazione stessa aveva patrocinato, che prevedeva l'abrogazione del n. 5 dell'art. 360, quindi ha sfruttato la possibilità offerta dal meccanismo del ricorso straordinario per cassazione, per verificare gli effetti di questo eventuale cambiamento del diritto vigente, ha verificato che gli effetti sarebbero scarsi e questa proposta di riforma non è stata più coltivata, probabilmente saggiamente, perché alla fine, il riesame della motivazione è un'attività di controllo che va conservata, sebbene debba rimarcarsi l'opportunità che venga compiuta senza che la Cassazione travalichi nel riesame del merito della causa, quindi il riesame dei fatti sostanziali.

Tutto questo discorso vale per quei provvedimenti che abbiano la sostanza della sentenza in forma diversa, ossia in forma di ordinanza e di decreto per volontà di legge, questo è molto importante per la giurisprudenza costante, diversa è la soluzione da adottarsi in tutti quei casi in cui il provvedimento a contenuto decisorio sia resa in forma diversa da quello della sentenza a causa di un errore del giudice, il ragionamento è questo! Nell'ipotesi in cui è il legislatore a volere che il provvedimento abbia sostanza di sentenza, ma forma di ordinanza o di decreto, la legge costituzionale è legge superiore e consente di disapplicare la volontà legislativa, ma se questo effetto è il risultato di un errore del giudice, allora noi non possiamo tollerare che un errore del giudice privi la parte di tutto il sistema dei mezzi ordinari di impugnazione, quindi, il provvedimento è impugnabile, ma non con ricorso in Cassazione, bensì con l'appello, cioè con il normale mezzo d'impugnazione nei confronti della sentenza, proponendosi, casomai, il ricorso per cassazione, naturalmente ordinario, nei confronti della sentenza di appello.

L'ipotesi non del tutto pellegrina, trova campo di applicazione e il più illustrativo dei casi è questo! Muoviamo dall'ipotesi che una sentenza abbia condannato l'Amministrazione universitaria a chiudere una finestra, sulla base di questo provvedimento che ha natura di titolo esecutivo si promuove l'esecuzione forzata dell'obbligo di fare, ai sensi dell'art. 612 occorre, con ricorso al giudice del luogo dove dev'essere compiuta l'obbligazione, che tale giudice determini le modalità dell'esecuzione. Poniamo l'ipotesi che nel determinare le modalità di chiusura della finestra il giudice dell'esecuzione disponga la costruzione di un muro. Con questo provvedimento, con cui il giudice avrebbe dovuto semplicemente determinare la modalità dell'esecuzione, è un provvedimento con cui il giudice abusivamente ha anche modificato il contenuto dell'obbligo, perché fa chiudere non una ma quattro finestre. Si tratta di provvedimento abnorme, in cui il giudice ha abusivamente persino in  assenza di una domanda di parte, esercita un pieno potere decisorio, ma lo fa non perché autorizzato dalla legge, e che anzi prevedeva che egli si limitasse a determinare le modalità dell'esecuzione, e questo è il caso tipico in cui la giurisprudenza ammette pacificamente la proposizione dell'appello nei confronti di tale ordinanza, che pertanto esclude la proponibilità: primo dell'opposizione agli atti esecutivi, perché, qui non si parla di irregolarità, ma c'è un vero provvedimento decisorio, e poi dell'opposizione all'esecuzione che sarebbe infondata, perché la parte procedente è in possesso del titolo per agire in via esecutiva, e la contestazione che muove a provvedimento del giudice è contestazione che non implica mai che la parte creditrice non abbia il diritto di procedere a esecuzione forzata.

Conclusivamente abbiamo:

- ricorso straordinario in varie ipotesi bicamerale, ricorso in realtà straordinario forse all'opposizione agli atti esecutivi;

- appello quanto si tratta di provvedimenti abnormi;

- ricorso ordinario quando parliamo di sentenze inappellabili, come le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, la cui appellabilità comporta la ricorribilità in Cassazione, ma in via assolutamente ordinaria.

Naturalmente, cosiccome le impugnazioni ordinarie si fondano su motivi deducibili dall'esame della sentenza, il termine per la loro proposizione decorre dalla notificazione della stessa, o in mancanza dalla sua pubblicazione pervenuta tramite il deposito in cancelleria.

Con riferimento alle impugnazioni straordinarie i termini decorreranno dal successivo memento in cui la parte è venuta a conoscenza del motivo di impugnazione straordinaria, restando caso a parte quella dell'opposizione di terzo semplice che è impugnazione proponibile senza termine alcuno, per le altre ipotesi decorre comunque il termine.

La notificazione della sentenza, ai fini della decorrenza del termine breve e di gravame è notificazione che va effettuata ai sensi dell'art. 285 a norma dell'art. 170 comma 1°, cioè al procuratore costituito per la parte nel precedente grado di giudizio, naturalmente va notificata personalmente alla parte se è rimasta contumace in quel grado di giudizio, ma la regola generale è quella della notifica al procuratore ai fini della decorrenza del termine breve, sicché la notificazione della sentenza ai fini dell'impugnazione è un fenomeno che va tenuto distinto, dalla notificazione della sentenza ai fini dell'esenzione, che va invece compiuta alla parte personalmente allorquando la legge prescriva la notificazione del titolo esecutivo quale atto prodromico all'esecuzione.

Ove poi, la parte dimostri di essersi resa involontariamente contumace nel giudizio, risulta applicabile l'art. 327, che gli consente di impugnare la sentenza in ogni tempo in tanto in quanto dimostri di essere affetta da nullità qualsiasi notificazione che sia stata effettuata nel corso del giudizio.

Legittimati attivamente all'impugnazione sono, fatta parte l'opposizione di terzo, quanti siano stati parti nel giudizio concluso con la decisione impugnata, intendendo la nozione di parte in senso ampio, o in particolare con riferimento all'ipotesi di sostituzione processuale di successione nel diritto controverso, poiché l'avente causa del successore al diritto controverso è senz'altro legittimato ad impugnare la sentenza anche se non è stato parte in senso formale nel procedimento, ovviamente avrà l'onere di dare prova della sua qualità ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione stessa; fra le parti, inoltre sono legittimati ad impugnare le parti che si qualifichino come soccombenti.

La questione della soccombenza come requisito dell'impugnazione, si presenta diversamente a seconda del mezzo d'impugnazione, cioè distinguere tra impugnazione e mezzi di gravame, perché con riferimento all'appello occorre coordinare il regime della soccombenza con le caratteristiche devolutive dell'appello civile e notiamo l'art. 346. questa disposizione prescrive che le domande e le eccezioni non accolte in  corso del primo grado di giudizio, debbono essere espressamente riproposte nel giudizio d'appello dovendosi in mancanza presumerle rinunciate.

La circostanza che l'effetto della mancata riproposizione della domanda e eccezione non accolta, sia quello della rinuncia, implica che si tratti necessariamente di domande che non sono state accolte, ma non sono state nemmeno respinte, perché se queste domande avessero formato oggetto di un'esplicita pronuncia di rigetto, la parte avrebbe dovuto impugnare propriamente quel capo di decisione, non impugnando non può aversi una rinuncia, ma casomai la formazione del giudicato di rigetto di quella domanda, e quindi può trattarsi solo di quelle domande sulle quali legittimamente il giudice omette di pronunciare, e questo accade in tutte quelle ipotesi in cui si può verificare l'assorbimento della pronuncia sulla domanda, in tutte quelle ipotesi in cui sussistono nessi di condizionamento tra le domande posti dalla legge, o anche posti dalle parti, tali per cui l'accoglimento o il rigetto di una domanda esclude l'esame dell'altra. Caso chiaro è quello delle domande di garanzia: se la pronuncia sulla domanda principale è favorevole alla parte garantita, non c'è ragione per provvedere sulla domanda di garanzia, perché mancando ad esempio il presupposto della responsabilità civile dell'assicurato, non c'è ragione per pronunciare sulla pubblicazione risarcitoria dell'assicuratore. Questo nesso di condizionamento può essere del tutto naturale o magari posto dalla parte che chiede esplicitamente al giudice di pronunciare su di una domanda in via subordinata al rigetto o all'accoglimento di altra domanda.

Le eccezioni, per regola generale con riferimento alla generalità del sistema delle impugnazioni e quindi comprensivo anche delle impugnazioni in senso stretto si deve ritenere che sia soccombente soltanto quella parte che abbia visto rigettare, almeno in parte, una propria domanda o accogliere, almeno in parte, una domanda proposta contro di se. Quella parte che invece, ha visto rigettare l'eccezione e però, accoglierne un'altra con conseguente rigetto della domanda di merito, quindi la parte convenuta che sollevando più eccezioni se ne vede respingere una e accoglierne un'altra, questa parte non è soccombente, perché non esiste nessuna, almeno parziale accoglimento della domanda nei sui confronti, e quindi questa parte non è legittimata a prendere l'iniziativa di impugnare la sentenza.

In questo caso, però, l'art. 346 prescrive che, al fine di ottenere un nuovo esame dell'eccezione esplicitamente rigettata, il convenuto vittorioso nel merito abbia comunque l'onere di riproporre la questione, volendosi ritenere la stessa rinunciabile in mancanza di tale riproposizione.

L'ambito di applicazione della disciplina della riproposizione copre parti che non sono coperte da quello della disciplina dell'impugnazione, sicché, impugnazione e riproposizione sono fenomeni diversi, talché termini rigorosi sono prescritti per l'impugnazione della sentenza, ma fino alla riforma del '90, si riteneva che la riproposizione potesse aver luogo per tutto il corso del giudizio d'appello fino all'udienza delle precisazioni delle conclusioni in appello, non essendo prescritta esplicitamente alcuna preclusione, talché molti facevano osservare che vi era una fortissima sperequazione in danno dell'appellante e a favore della parte vincitrice in primo grado l'appellante doveva tirare fuori tutte le sue ragioni di riesame in limite litis, mentre l'appellato con riferimento alle eccezioni esplicitamente rigettate aveva tutto il tempo nello svolgimento del giudizio di appello per ricordarsi di riproporre l'eccezione in precedenza respinta.

Col nuovo regime, alcuni hanno sostenuto, che applicandosi, per effetto del rinvio previsto dall'art. 359 anche in appello la disciplina delle preclusioni nel giudizio di primo grado, che si dovrebbe interpretare la nuova disciplina nel senso che anche le riproposizione debbano, a pena di decadenza, compiersi con la sa di risposta , o tuttalpiù nella prima udienza del giudizio d'appello, però si tratta di interpretazioni un po' forzate, e non è detto effettivamente che la giurisprudenza giunga ad arrivare a queste conclusioni.

Questa disciplina della riproposizione ci consente di dire in tutta tranquillità, che privo della legittimazione a impugnare autonomamente la sentenza è il convenuto che si sia visto respingere un'eccezione, tuttavia, l'appello è provvisto di questo effetto devolutivo, ma il ricorso per cassazione sembrerebbe di no! Non esiste nella disciplina del procedimento per cassazione una norma corrispondente all'art. 346, e qui il problema della parità delle armi, allora, si potrebbe porre dal punto di vista della parte vittoriosa con maggior comodo. In particolare, quando si tratti di eccezioni di rito, perché, se la Cassazione non riesaminando un'eccezione di rito, perviene ad accogliere il ricorso per un motivo riferito ad un errore illimitato, e pertanto cassa la sentenza favorevole al convenuto, rinviando al giudice del merito affinché pronunci nuovamente sulla domanda, e potenzialmente l'accolga, dinanzi a quel giudice di rinvio, l'eccezione di rito riferita alle precedenti fasi del giudizio, viene ad non essere più spendibile, perché la Cassazione, cassando con rinvio proprio formulando il principio di diritto a cui il giudice di rinvio deve attenersi, secondo la giurisprudenza, implicitamente, ha anche accertato la regolarità dello svolgimento del procedimento sino a quel momento, poiché prevale la pregiudizialità interna fra questioni di rito e questioni di merito, tale per cui, la pronuncia sull'errore in iudicando può aver luogo soltanto in tanto in quanto, non sussistano errori in precedendo, e quindi, la parte vittoriosa del tutto orbata dalla possibilità di coltivare nel corso del procedimento l'eccezione processuale rigettata nelle precedenti fasi del giudizio, perciò, per consentire alla parte vittoriosa questa coltivazione, la Cassazione ha escogitato una strana soluzione! Quella di consentire a questo soggetto, di impugnare la sentenza, ma non autonomamente, non in via principale, bensì in via incidentale, cioè a seguito dell'impugnazione avversaria e qualificando questo ricorso incidentale proposto da una parte, che in realtà non è soccombente, ma ha solo visto risolvere a suo sfavore una fra più eccezioni, ha qualificato questo ricorso incidentale come ricorso incidentale condizionato. Ma condizionato da che cosa?

Qui, il condizionamento del ricorso non dipende da un atto di volontà della parte, dipende dalla circostanza che questa parte è priva della legittimazione ad impugnare autonomamente, e si può immaginare che questo ricorso sia condizionato alla fondatezza del ricorso principale, che sarebbe la tesi più rigorosa, ma questi ricorsi incidentali avevano per oggetto questioni di rito, e in particolare questioni di rito che erano rilevabili d'ufficio, perché poi il terreno privilegiato soprattutto è quello delle questioni di giurisdizione, sicché, le parti tendevano ad avvalersi del rimedio del ricorso incidentale condizionato per coltivare queste questioni comunque importanti, dal punto di vista della Cassazione, perché meritevoli di pronuncia da parte delle Sezioni Unite ecc., la Cassazione ha finito per ritenere condizionati alla vera ammissibilità del ricorso principale, addirittura l'esame del ricorso incidentale condizionato ed era consentito che questo venisse valutato in via prioritaria rispetto all'esame del ricorso principale, probabilmente si è trattata di un a piccola forzatura, funzionale soprattutto a risolvere il problema che vi sarebbe altrimenti posto dell'andirivieni fra sezioni semplici e sezioni unite a seguito dei vari passaggi di valutazione di fondatezza del ricorso principale da parte delle Sezioni Semplici, allora il rinvio alle Sezioni Unite della pronuncia sull'incidentale condizionato in tema di giurisdizione, che avrebbe complicato lo sviluppo del procedimento, sicché, è finito in più occasioni per ammettere di trattarli non diversamente dalle impugnazioni incidentali vere e proprie e quindi le impugnazioni non condizionate.

Questo ha ulteriormente suggerito lo sviluppo di vari ragionamenti dottrinali, tendenti a riformulare il concetto di soccombenza ed affermare che dovesse qualificarsi come parte soccombente anche quella parte che avesse visto risolvere a suo sfavore alcune eccezioni, e in particolare, secondo alcuni, se vi fosse astato rigetto delle questioni di rito o accoglimento di quelle di merito, la parte avrebbe avuto anche un diritto a conseguire un rigetto in rito, anziché nel merito o viceversa, a mio avviso questo tipo di interpretazione non può essere accolto, perché, la parte che risulta vittoriosa nel merito, anche se ha visto risolvere a suo sfavore la questione di rito, non si può qualificare come parte soccombente, e non può invocarsi un diritto della parte ad ottenere una pronuncia di rigetto in rito della domanda, anche in considerazione del principio per cui il processo deve tendere, per quanto possibile, alla pronuncia della sentenza di merito, in vista della sua capacità preclusiva della sua riproposizione della domanda, e la definizione del processo in mero rito è sostanzialmente un fallimento del meccanismo e che bisogna evitare o di ammettere soltanto, allorché sul piano sostanziale resti comunque esclusa la riproponibilità della domanda, da limitare a casi particolari e eccezionali non del tutto, certamente un'ipotesi ci sarà, però mi sembra discutibile la tendenza di stendere l'ambito di applicazione del concetto di soccombenza e la legittimazione alle impugnazioni, al solo scopo di favorire il diritto della parte al conseguimento di una pronuncia di rigetto della domanda di mero rito.

Questioni particolari, poi si pongono e sono diventate di attualità, con riferimento alla legittimazione all'impugnazione dell'interventore adesivo dipendente, infatti tradizionalmente, si pensava che l'interventore adesivo dipendente non potesse impugnare la sentenza autonomamente, dovendosi a lui applicare il regime della disciplina dell'impugnabilità della sentenza da parte del PM nelle cause in cui non è titolare del potere di azione.

Gli orientamenti di riforma più recenti, sono tutti nel senso di ammettere, invece, che l'interventore adesivo dipendente possa autonomamente impugnare la sentenza, e quui probabilmente, si è andati da un eccesso all'altro! Perché nella vasta congenie delle ipotesi che si possono qualificare come interventi adesivi dipendenti, era probabilmente eccessivo escludere sistematicamente la facoltà di impugnazione autonoma dell'interventore adesivo dipendente, allorquando, si trattasse per esempio di quel terzo che avrebbe subito gli effetti della sentenza resa inter alios, cioè, nel caso classico del subconduttore, giusto il disposto dell'art. 1595.

L'interventore adesivo dipendente è anche in questo caso, come lui subirebbe gli effetti del giudicato iter alios alla stessa stregua a cui subirebbe gli effetti di un negozio inter alios e ne potrebbe ridiscuterne gli effetti, perché, l'ipotesi che l'interventore adesivo dipendente impugni autonomamente non è esplicitamente, e tutta da coordinare, con il regime di litisconsorzio nei casi di gravame, cioè, dobbiamo sempre ritenere che l'impugnazione debba essere proposta nei confronti di tutte le parti, perché se così non fosse ci si dovrebbe porre il problema se il giudice dell'impugnazione possa riesaminare la statuizione riferita alla parte adiuvata al solo interesse della parte adiuvante, e in che misura l'eventuale accorgimento potrebbe riflettersi sulla posizione sostanziale della parte adiuvata, quindi è un'innovazione molto delicata.

Delicatissime, sono poi, i problemi che sul piano pratico spesso si pongono per l'individuazione della legittimazione passiva all'impugnazione, perché! È banale dire che sono legittimate passivamente la parte vittoriosa della precedente fase del giudizio, ma problemi partici enormi e molto frequenti si pongono, tutte quelle volte che sopravvenga una vicenda successoria, perché qui, dal punto di vista della legittimazione attiva, la questione è più semplice, poiché la parte che vuole impugnare da prova della sua qualità, se vuole farlo, è nel suo interesse e lo fa! La parte legittimata passivamente cerca di nascondersi! Non facilita volentieri la vita dell'avversario che vuole impugnare la sentenza che l'ha vista vincere, quindi se questa parte viene interessata da una vicenda successoria, è facile che non si renda parte diligente nell'informarne l'avversario.

Se la vicenda successoria è sopravvenuta nel corso del giudizio precedente che ha colpito una parte costituita e questa ha omesso la dichiarazione in udienza alla produzione dell'effetto interruttivo e la riassunzione del processo nei confronti dei successori non è avvenuta, ecco che la giurisprudenza viene incontro all'avversario, e dice:" beh! Costui ha il diritto di considerare processualmente ancora in vita l'avversari, finché l'evento non viene fatto risultare in processo!" e quindi, è legittimamente e validamente proposta l'impugnazione nei confronti della parte non più esistente anche se l'avversario ha comunque appreso daliunde dell'evento, con un po' più di difficoltà e solo recentemente la giurisprudenza è giunta a questa conclusione, anche con riferimento a quelle fattispecie determinative di mutamento della parte che sono invece agevolmente conoscibili dall'avversario, cioè il conseguimento della maggiore età, ma la giurisprudenza ha finito per generalizzare questo principio dell'ultrattività per la legittimazione passiva della parte.

Dato che il diritto positivo che consente di giungere a questa conclusione è inequivocabilmente applicabile alle sole ipotesi successorie prodottesi fra la modificazione della citazione e la chiusura della discussione o l'evento equivalente alla chiusura della discussione a seconda delle particolari modalità della fase decisoria scelte dal giudice o dalle parti, comunque fin tanto che vi era la possibilità per le parti di introdurre a processo la notizia. Ma se è successo dopo? Con riferimento agli eventi interruttivi prodottisi dopo la chiusura della discussione, battaglie enormi del codice di rito regolano la proroga dei termini per l'impugnazione, la necessità di notificare nuovamente la sentenza ai fini della decorrenza del termine breve alle parti sopravvenute, cioè agli eredi collettivamente e impersonalmente se è il caso, ma sembrano non prevedere l'ultrattività della persistenza in vita della parte ai fini del processo e quindi se capita che l'avversario deceda nel corso del giudizio, ma il suo procuratore omette di dichiarare, posso impugnare contro di lui, ma se l'avversario muore dopo la chiusura della discussione, dovrò rivolgermi esclusivamente ai successori.

La legge mi viene incontro, perché, se avevo un termine breve per l'impugnazione questo termine viene meno e comincia ad operare nuovamente il termine annuale che inoltre, se l'evento si verifica durante gli ultimi sei mesi del termine annuale, anche il termine annuale è prorogato e da tempo di andare alla ricerca di quali siano le parti legittimate passivamente alla impugnazione, però non mi consente di avvalermi seccamente del dante causa del de cuius come legittimato passivo. Qui in passato c'era ogni anno un fiume di sentenze perché si cercava sempre, e qualche volte si riusciva ad ottenere che la Cassazione in qualche modo desse una mano, quando ci si era sbagliato sull'individuazione del legittimato passivo.

A seguito della riforma del '90 c'è stato un cambiamento importante, cioè quello della disciplina degli effetti della sanatoria per il raggiungimento dello scopo delle nullità di citazione derivanti dall'erroneità dell'individuazione della controparte, e la legge previgente alla riforma del '90, questo tipo di vizio della vocatio in ius, era vizio non sanabile retroattivamente, pertanto, coloro cui venisse notificata un'impugnazione o che avessero notizia della proposizione dell'impugnazione, nei confronti del loro dante causa deceduto durante il termine per impugnare, accordamente attendevano di costituirsi in giudizio, che fosse decorso il termine per impugnare, perché a quel punto, si costituivano in giudizio al solo scopo di eccepire la sopravvenuta inammissibilità del gravame.

A seguito della riforma dell'art. 164, oggi, queste ipotesi di nullità della citazione, sono ipotesi passibili di sanatoria retroattiva per rinnovazione o costituzione del convenuto e quindi si consente alla parte che abbia sbagliato avversario di restare in partita, se ha notificato tempestivamente alla parte non più esistente, purché, ovviamente, se ne accorga in tempo utile, o ci sia la costituzione dei successori provvista di efficacia sanante, ovvero, una rinnovazione su ordine del giudice della notificazione dell'impugnazione idonea a produrre effetti sananti.

I punti essenziali della acquiescenza, sono innanzitutto l'accettazione della sentenza da parte della parte soccombente, accettazione che può essere espressa o può essere anche tacita, cioè compiuta per fatti concludenti, però bisogna stare attenti perché i fatti concludenti sono molto difficili da realizzare, perché, un comportamento incompatibile con la volontà di impugnare la sentenza, è difficile che venga reso, nella prassi l'unico caso che si presenta con una certa ricorrenza, è quello dell'adempimento della prestazione a cui la parte è stata condannata in sentenza, ma attenzione! Questo comportamento può acquisire il valore della acquiescenza solo se la sentenza non è provvista di efficacia esecutiva e quindi, in base al regime oggi vigente, molto raramente visto che normalmente le sentenze sono esecutive, perché se la sentenza è esecutiva, il amento della prestazione può avere anche una giustificazione diversa dalla volontà di accettare la sentenza, e cioè può essere motivato dall'intendimento di evitare anche le spese dell'esecuzione che già potrebbe essere promossa, quindi può avere valore di acquiescenza solo l'adempimento della prestazione previsto in sentenza che non sia esecutivo.  Queste due ipotesi, sono ipotesi di acquiescenza propria. Il 2° comma dell'art. 329, tratta, invece il fenomeno dell'acquiescenza impropria, stabilendo che, l'impugnazione di una parte soltanto della sentenza implica acquiescenza alle parti non impugnate che siano autonome e indipendenti rispetto alla parte impugnata, perché se si tratta di parti dipendenti, l'accoglimento dell'impugnazione ne estenderà i suoi effetti anche a quelli parti come disposto dall'art. 336, in materia di effetto espansivo della sentenza di riforma o di Cassazione.

Se si tratta di parti pregiudiziali? Qualcuno è giunto a sostenere che l'impugnazione del solo capo dipendente risulterebbe inammissibile, perché già vincolato dalla decisione del capo pregiudiziale, in realtà questo è un cattivo modo di esporre i problemi, perché deve senz'altro ritenersi ammissibile l'impugnazione del capo dipendente, ovviamente, tale impugnazione non implica la ridiscussione del capo pregiudiziale, però può implicare che si ridiscuta se effettivamente la decisione del capo pregiudiziale imponga una decisione di quel contenuto del capo dipendente o non magari una decisione di contenuto quantitativamente diverso, quindi non si può generalizzare una simile idea, potrà tuttalpiù capitare che certe impugnazioni siano formulate in guisa tale da risultare inammissibili per impossibilità di accoglimento del loro oggetto in forza della formazione del giudicato, più facilmente, e lo vedremo tra breve, nelle ipotesi litisconsortili.

Qual è l'effetto della acquiescenza? Spesso si dice è il passaggio in giudicato, a volte si dice inammissibilità dell'impugnazione, ma è importante sottolineare una cosa, che anche una volta prestata acquiescenza può capitare che comunque la parte sia legittimata a impugnare per l'effetto della cosiddetta impugnazione incidentale tardiva, tale disciplina, posta dall'art. 334, è diretta a favorire l'accettazione della sentenza. A tale scopo, la disciplina cerca di evitare che la parte parzialmente soccombente sia indotta a impugnare, in prossimità della scadenza dei termini per l'impugnazione, per non correre il rischio che sia soltanto l'altra parte a farlo, cioè, se entrambe le parti potessero soltanto impugnare entro i termini, in prossimità della scadenza dei termini ciascuna delle due parti che magari accetterebbero la sentenza, si sentirebbe indotta a proporre comunque impugnazione per evitare il rischio di essere l'unica delle due a non avere impugnato, quindi la legge consente, alla parte contro cui sia proposta l'impugnazione, direttamente o per effetto del provvedimento d'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 331 che vedremo più avanti, di impugnare la sentenza anche se sono scaduti i termini per il gravame e anche se questa parte ha prestato acquiescenza. Questa impugnazione, che ha il carattere dell'impugnazione incidentale proposta su processo, qualificandosi come tardiva è caratterizzata da un accentuato grado di dipendenza dall'impugnazione principale, perché lo stesso art. 334 prescrive che l'impugnazione principale dichiarata inammissibile allora ha anche l'impugnazione incidentale tardiva perde i suoi effetti, e ciò in quanto, la premessa dell'ammissibilità stessa dell'impugnazione tardiva è che sia validamente proposta un'impugnazione principale.

Ma sottolineare che questo fenomeno di dipendenza venga esteso alle fattispecie d'improcedibilità dell'impugnazione, o alle fattispecie di estinzione o rinuncia all'impugnazione principale, perché in questo caso, innanzitutto il presupposto dell'impugnazione incidentale tardiva rimarrebbe fermo perché sarebbe pur sempre stata validamente proposta l'impugnazione principale e poi, perché, dal punta di vista dell'equilibrio tra le parti risulterebbe incongruo, il meccanismo, potesse essere annullato una successiva impugnativa invalidante dell'impugnante principale, perché le fattispecie di improcedibilità sono sostanzialmente ipotesi di inattività della parte impugnante successiva alla proposizione dell'impugnazione, cioè l'ipotesi che nel giudizio di primo grado verrebbero trattate le fattispecie produttive di estinzione eccepibile soltanto ad istanza di parte, in sede d'impugnazione essendoci già una sentenza sono direttamente determinative del rigetto in rito dell'impugnazione le improcedibilità, quindi la mancata costituzione in termini dell'appellante, ecc.., pertanto, in queste ipotesi si consentirebbe all'impugnante principale, vista la malaparata alla luce dell'impugnazione incidentale tardiva avversa, di fare marcia indietro a discatipo dell'impugnazione avversaria che pure è stata proposta validamente, rispetto alle condizioni della sua riproponibilità, quindi, le poche occasioni in cui la giurisprudenza ha detto diversamente, non debbono indurre alla conclusione che l'impugnazione incidentale tardiva dipenda solo dall'ammissibilità e non altro, dell'impugnazione principale.

Si diceva tardiva incidentale, cioè proposta nello stesso processo. A questo propositi occorre fare un po' di chiarezza sulla disciplina dell'impugnazione incidentale e in particolare sull'onere dell'impugnazione in via incidentale.

Ci sono due norme apparentemente in contraddizione, abbiamo cioè l'art. 333 che ci dice che proposta un'impugnazione principale, tutte la altre impugnazioni contro la stessa sentenza vanno proposte  appena di decadenza nello stesso processo, allo scopo di favorire l'obiettivo della concentrazione in un unico procedimento di tutte le impugnazioni contro la stesa sentenza. Leggendo l'art. 333 si è indotti a pensare che se una parte fa una citazione d'appello l'avversario può a sua volta proporre appello soltanto in quello stesso processo avviato con la citazione d'appello avversaria, attraverso al sa di costituzione nello stesso procedimento, e non potrebbe, invalidamente invece, la parte proporre altra citazione d'appello instaurando il separato procedimento per la propria impugnazione distinto da quello avviato con l'impugnazione avversaria. La separata citazione d'appello sarebbe inammissibile!

Però, l'art. 335, subito dopo, ci dice una cosa che sembra in contraddizione! Le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite anche d'ufficio, ma se devono essere riunite anche d'ufficio allora sono ammissibili! Come sciogliere il dilemma? Si può sciogliere in modi diversi! E anche qui una ricostruzione tendente a favorire in un unico procedimento delle impugnazioni proposte contro la stessa sentenza, quella più ostile alle impugnazioni separate, dice l'art. 335 che si applica in casi molto particolari, per esempio nelle ipotesi in cui si deve tenere conto dello spazio di tempo che incorre fra il momento in cui la parte esaurisce le proprie attività per la proposizione dell'impugnazione e il momento in cui la proposizione dell'impugnazione stessa si perfeziona. C'è uno spazio di tempo che non è più sotto il controllo della parte, perché l'impugnazione deve essere notificata si consegna all'ufficiale giudiziario e il tempo che l'ufficiale giudiziario ci mette a consegnarla e tempo che la parte non può disporre. Ora  se la parte consegna all'ufficiale giudiziario, torna casa,  e in quel momento riceve la notificazione dell'impugnazione avversa, la sua impugnazione non è stata ancora perfezionata, perché deve essere ancora consegnata all'avversario, ma io non ho più il controllo a quel punto sull'impugnazione, ho già fatto quello che dovevo fare per promuoverla, sono incolpevole della circostanza che l'impugnazione sia proposta avviando un processo separato, e allora in questa ipotesi, avverrà la riunione d'ufficio e non è possibile sanzionare la parte per una decadenza in cui è incorsa per effetto della impossibilità di controllare i tempi di perfezionamento della sua iniziativa processuale, poi, secondo alcuni, sarebbero possibili delle impugnazioni separate, quando si riferiscano a cause cumulate nello stesso processo, ma connesse soltanto impropriamente.

La giurisprudenza, invece, è molto generosa, ed è molto aperta ad ammettere che siano avviati procedimenti separati all'impugnazione contro la stessa sentenza, e intende il riferimento alla decadenza di cui all'art. 333, nel senso che si possa avere decadenza in tanto in quanto, vengano violati dei termini e non intanto in quanto vengano avviati procedimenti separati, quindi il significato dell'art. 333, sarebbe inteso nel senso che, proposta l'impugnazione principale ogni altra impugnazione dev'essere proposta entro i termini per proporre l'impugnazione incidentale nel processo avviato con l'impugnazione principale anche se, le modalità di proposizione in non sono quelle della proposizione in via incidentale, ma della proposizione separata.

Quindi tornando al caso dell'appello! Proposta una citazione all'appello, ipotesi magari di sentenza non notificata e decorrenza del termine annuale, l'impugnazione incidentale nello stesso procedimento di appello, dev'essere proposta, pena di decadenza, con la sa di risposta in sede di costituzione tempestiva, e quindi 20 giorni prima della prima udienza fissata per il procedimento stesso di appello. Secondo la giurisprudenza è quindi validamente proposta un'altra impugnazione, anche con separata citazione d'appello, purché sia proposta entro quello stesso termine della sa di risposta in sede di costituzione tempestiva, anche se con ciò si sono avviati due procedimenti separati potendosi provvedere, appunto, alla riunione d'ufficio degli stessi.

Una parte della dottrina, aveva tentato di proporre una soluzione di compromesso tra le opposte esigenze che favorissero un po' di più la concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza, dicendo, sì, sarà pure validamente proposta la citazione d'appello successiva ad altra citazione d'appello, ma proposta entro i termini per la sa di costituzione nel giudizio di appello precedentemente avviato, purché, sempre entro quel termine per la sa di risposta in sede di costituzione tempestiva, la parte richiami la riproposizione del suo appello con separata citazione e in questo modo renda possibile l'esercizio del potere ufficioso di riunione. Però la giurisprudenza non ha voluto accettare neanche questa! È giunta sino ai limiti più estremi, la possibile interpretazione di questa disciplina, ammettendo quindi, per un verso in riferimento all'impugnazione contemporaneamente pendente ai fini di una valida riunione ufficiosa delle due impugnazioni possa avvenire anche ben oltre il decorso del termine della tempestiva costituzione del giudizio di impugnazione preventivamente promosso, e non solo, in realtà, la riunione è esclusa soltanto allorché, uno dei due procedimenti venga definito e quindi fin tanto che pendono entrambi, e non solo! Sempre che ovviamente anche il secondo sia stato proposto tempestivamente, cioè entro il termine per la sa di costituzione e risposta, la definizione di uno qualsiasi dei due procedimenti d'appello, anche quello proposto successivamente, rende improcedibile l'altro! Anche ove si tratti di quello proposto preventivamente! Naturalmente, è chiaro, che la parte vittoriosa del procedimento preventivamente definito, si trova, a questo punto, ad avere l'onere di far valere la preventiva definizione dell'altro procedimento in quello ancora pendente, perché se non lo fa, e si conclude anche l'altro, allorquando si tratterà , sul piano dei limiti cronologici del giudicato di discutere quali dei due provvedimenti prevalga, giungeremo alla conclusione, se ricorderete, che a prevalere sarà il successivo in ordine di tempo, quindi c'è una successiva altalena di oneri di far valere cotanto assorbimento, comporta alla fine la soccombenza della lite , perché, se io ometto anche di far valere la precedente definizione e viene definito l'altro, è l'altro che prevale, perché successivo, perché ho avuto la possibilità e non l'ho sfruttata.

Quindi, complessivamente il sistema dell'impugnazione incidentale tardiva ci consente di osservare questo! Che la proposizione dell'impugnazione, se ci sono ancora termini molto alti per l'impugnazione avversaria, li accorcio! Perché costringe l'avversario a impugnare, magari in via separata, ma pur sempre entro i termini per poter impugnare in via incidentale in quel procedimento, mentre se i termini stanno per scadere, li allunga.

Nel primo caso, l'impugnazione anche separatamente proposta verrà trattata alla stregua dell'impugnazione incidentale tempestiva, nel secondo caso ovviamente l'impugnazione potrà essere proposta solo come impugnazione incidentale tardiva essendo decorso il termine ordinario per l'impugnazione nel contesto dello stesso giudizio di gravame, quindi tutto questo argomento che all'esame introduco con la domanda: "l'impugnazione incidentale tardiva si può proporre dopo i termini, ma fino a quando? Quanto tardiva può essere la tardiva?" non può essere più tardiva dell'impugnazione incidentale, per cui è tardiva rispetto ai termini dell'impugnazione principale, ma deve essere sempre tempestiva come impugnazione incidentale.

Una questione abbastanza delicata è quella se possa proporre impugnazione incidentale tardiva, se possa essere proposta dalla parte che abbia prestato acquiescenza impropria. La legge non distingue esplicitamente, però la giurisprudenza dice, che ciò non è possibile, perché, il caso che stiamo immaginando e quello in cui una parte propone l'impugnazione principale, l'altra parte propone impugnazione incidentale, e allora l'impugnante principale vuole investire ulteriori capi della decisione, dell'impugnazione tramite l'impugnazione incidentale tardiva legittimata dalla impugnazione incidentale avversa. La giurisprudenza tende a dire di no, perché tende a ritenere che i motivi di gravame debbano essere esaustivamente enunciati con la proposizione dell'impugnazione, e quindi non sia possibile dedurre nuovi motivi di impugnazione successivamente perché si verificherebbe un fenomeno di consumazione del diritto d'impugnazione.

Rispetto a questa tesi, credo, si possano muovere diverse obiezioni, oltre quella banale che la legge, appunto non distingue allorquando legittima l'impugnazione incidentale tardiva la parte che abbia prestato acquiescenza, non distingue tra acquiescenza propria e impropria! Inoltre, è vero che in alcune norme codicistiche si conura la consumazione dell'impugnazione, però, questo fenomeno è fenomeno che discende dalla dichiarazione di illegittimità o improcedibilità dell'impugnazione proposta che comporta, appunto, l'effetto della non riproponibilità della stessa (ne abbiamo parlato nel regolamento di giurisdizione che non essendo un'impugnazione disciplina a cui l'effetto consumativi non si applica, cosicché può essere reiterata), per le impugnazioni ordinarie in appello e per ricorso in Cassazione è espressamente esclusa questa possibilità, si, ma per effetto della declaratoria di inammissibilità, che  comporta non riproponibilità della stessa e che incidentalmente, osservo, non implica affatto, come a volte si dice,  passaggio in giudicato della decisione impugnata, può darsi di si e può darsi di no! Perché se l'impugnazione è dichiarata inammissibile, perché non è il mezzo di impugnazione proponibile contro quella sentenza, ma non sono ancora decorsi i termini per proporre un mezzo d'impugnazione effettivamente esperibile contro quella sentenza, quella sentenza non è affatto passata in giudicato! Cioè, se io propongo appello contro sentenza del giudice di pace che ha pronunciato secondo equità, il mio appello viene dichiarato inammissibile, non potrà essere più riproposto, ma quella sentenza non è passata in giudicato, perché ricorribile per Cassazione, comunque a parte questo inciso, di effetto consumativi si parla in riferimento alla declaratoria di inammissibilità, ma la fattispecie che stiamo evocando è fattispecie in cui non c'è alcuna declaratoria di inammissibilità.

Costantemente la giurisprudenza interpreta questa disciplina, ammettendo che nell'ipotesi in cui una parte proponga impugnazione, per esempio non si costituisca in giudizio determinandone l'improcedibilità, ma pendano ancora i termini per proporre l'impugnazione e tale improcedibilità non sia stata ancora dichiarata dal giudice, l'impugnazione possa essere validamente proposta senza problema alcuno, perché l'effetto consumativo discende solo dalla dichiarazione e quindi, risono dimenticato di costituirmi tempestivamente, posso ricominciare daccapo se i termini sono scaduti notificando una nuova citazione di appello rispetto alla quale ho l'onere di costituirmi tempestivamente, ma che non sarà affatto preclusa dall'effetto consumativo della declaratoria, in tanto in quanto, io perfezioni la notificazione dell'impugnazione prima che il giudice abbia l'opportunità di dichiarare l'improcedibilità di quella preventivamente proposta.

Inoltre è plausibile che anche in vista della nuova disciplina delle preclusioni, la parte sia tenuta a denunciare specificamente i motivi dell'impugnazione, ma è più che ragionevole che la parte non possa a piacimento introdurre nuovi motivi di impugnazione nel corso dello svolgimento del procedimento rivolto all'esame dell'impugnazione stessa e quindi, non è ammissibile che la parte incorra all'escamotage dell'impugnazione incidentale tardiva dell'impugnante principale per introdurre nuovi motivi di impugnazione rispetto ai capi precedentemente impugnati, altro è il discorso, allorché, attraverso l'impugnazione incidentale tardiva dell'impugnante principale, si impugnino capi diversi da quelli precedentemente impugnati.

Ricordiamoci tra l'atro che, per lungo tempo la giurisprudenza ha commesso un errore interpretativo grave in materia di impugnazioni incidentali tardive, contro cui la dottrina si è molto battuta finalmente ottenendo ragione nel corso degli anni '80, perché in passato, la giurisprudenza, riteneva che l'impugnazione incidentale tardiva potesse colpire solo i capi della sentenza già colpiti dall'impugnazione principale, ma questa interpretazione è restrittiva e decisamente contrastante con la ratio della norma, le impediva di svolgere a pieno la sua funzione di facilitare l'accettazione della sentenza, quindi oggi, è pacifico che l'impugnazione incidentale tardiva possa colpire capi diversi da quelli impugnati in via principale.

Direi che l'impugnazione incidentale tardiva dell'impugnante principale ovviamente, posto che qui non vi è il problema di favorire l'accettazione della sentenza, ma può comunque avere senso anche favorire l'accettazione parziale della sentenza, dovrebbe quindi essere ammessa in tanto in quanto, si individuino con essa, capi di decisione diversi da quelli oggetto dell'impugnazione principale.

Il litisconsorzio in caso di gravame Il codice distingue due grandi categorie di ipotesi e cioè quelle delle cause inscindibili dipendenti, e quelle delle scindibili dall'altro. Per le ipotesi di cause inscindibili la legge prevede che l'impugnazione debba essere proposta nei confronti di tutte le parti del precedente grado di giudizio ove ciò mancata l'impugnazione, resta pur sempre validamente proposta ai fini dell'impedimento della decadenza, ma il giudice ha il dovere di ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti entro un termine perentorio a pena di inammissibilità di gravame, ma siamo sicuri che il termine sia perentorio? Un veloce ripasso! Se la legge non dice niente, un termine è perentorio o ordinatorio? Ordinatorio! Il problema, quale è!! I termini ordinatori, per lo più sono rivolti al giudice unico e dato che sono rivolti al giudice la loro inosservanza, non può essere sanzionata anche nel processo, o tuttalpiù il giudice potrà andare incontro a provvedimenti disciplinari, magari in qualche caso estremo alla responsabilità civile, in via generale la violazione del termine ordinatorio, da parte del giudice, è priva di sanzione, talché, la dottrina da molti anni, usa definire questi termini "canzonatori"; il giudice deve depositare la motivazione entro 15 giorni ..canzonatorio..e la circostanza, che ovviamente i termini nei confronti del giudice, possano essere solo ordinatori e mai perentori, ha portato a pensare che i termini ordinatori siano privi di sanzioni, ma non è così!!

Il termine ordinatorio a carico delle parti, sono termini comunque la cui inosservanza è comunque sanzionata, si distinguono quando sono a carico delle parti, i perentorio dagli ordinatori, per la prorogabilità, il termine ordinatorio è prorogabile quello perentorio no, ma anche il termine ordinatorio è un termine il cui decorso non può che produrre la decadenza del dovere di parte di compiere l'atto. Probabilmente, tutto sommato, non ha sbagliato qui, il legislatore nel non prevedere che il termine fosse perentorio, cosa è successo? In qualche circostanza, la giurisprudenza si è imbattuta in fattispecie in cui era palesemente scusabile il ritardo della parte nel notificare l'impugnazione ai litisconsorti nel corso delle guerre balcaniche, non si riuscivano a trovare le controparti in un paio di fattispecie giunte all'esame della Cassazione, e la Cassazione ha dovuto fare i salti mortali per non smentire la sua costante qualificazione del termine come "perentorio" e appendere l'eccezionale scusabilità della sua violazione. Mentre più linearmente, avrebbe potuto consentire, riconoscendo la natura di termine ordinatorio, facendo gravare sulla parte l'onere di fare istanza di proroga del termine, una volta resasi conto della difficoltà di perfezionare il procedimento notificatorio in termini. E  qui si chiude l'inciso!

Mentre nell'ipotesi cause civili, qui se, l'impugnazione non è proposta, il giudice ordina nei confronti di tutti di notificare la stessa alle parti nei cui confronti non sia decorso il termine per impugnare e dove ciò non accada il procedimento è sospeso fino al decorso di questi termini. Questa notificazione è notificazione che non rende i litisconsorti parti del giudizio del giudizio di gravame, ma è una vera denuntiatio litis, è come si dice, uno strumento per portare a conoscenza ai litisconsorti della pendenza di un procedimento di impugnazione acciocché, coloro possano qualora vogliano impugnare in via incidentale in quel processo, cioè è uno strumento che ha il solo scopo di aiutare la concentrazione in un unico processo l'impugnazione contro la stessa sentenza.

Il vero problema che pongono gli artt. 331 e 332 è quello di distinguere il loro ambito di applicazione, perché ci sono casi che rientrano nell'uno e nell'altro, per esempio! Nell'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102, è chiaro che questo litisconsorzio non potrà essere scisso in sede di gravame e quindi si applica l'art. 331. Sul versante opposto, litisconsorzio facoltativo improprio, caratterizzato da mera comunanza delle questioni, ma è chiaro che anche qui la causa è scindibile, non ci sono particolari necessità che giustifichino il coinvolgimento di tutti i litisconsorti nel gravame promosso fra alcuni soltanto di essi! Se un'intera categoria di ipotesi che si qualificano come ipotesi di litisconsorzio facoltativo, quanto all'instaurazione, ma necessario quanto alla prosecuzione del processo, cioè tale per cui una volta il processo potrebbe svolgersi fra sole due parti, ma una volta che è entrata nel processo una terza parte bisogna arrivare in fondo tutti insieme.

E quali sono queste ipotesi? Secondo la giurisprudenza anzitutto nei caso in cui si è avuta chiamata del terzo per ordine del giudice ai sensi dell'art. 107, conclusione che vale per l'ipotesi di chiamata non innovativa, perché la scissione del litisconsorzio implica la sussistenza di più cause, mentre nell'ipotesi di chiamata del terzo non innovativa, la causa è sempre unica e immaginare una scissione non ha senso.

Sulla base di questo tipo di argomentazione si giunge anche alla conclusione che sia inscindibile il litisconsorzio determinato da intervento adesivo dipendente, che pure a carattere non innovativo, e quindi anche qui, si tende a dire, come nell'ipotesi di litisconsorzio necessario, vi è un'unica causa e su quest'unica causa non è possibile separare le posizioni delle parti.

Inscindibile è pure il litisconsorzio determinato dall'intervento principale, cioè dall'intervento, come si dice nel terzo che affermi di essere vero proprietario del bene in contesa, così come quello determinato dalla chiamata del vero legittimato passivo da parte del convenuto. Qund'è allora che le cause sono scindibili? Sembra quasi mai! I due campi di applicazione più importanti, in cui le questioni sono più complesse, sono le cause di garanzia e le obbligazioni solidali, perché, qui vale la regola che il litisconsorzio a volte è scindibile, a volte non dipende, ma da cosa dipende? Dipende dal rapporto tra il contenuto della sentenza e quello dell'impugnazione, così è detto in modo da non dire nulla! Vediamo i casi concreti.

Nell'ipotesi delle cause di garanzia possiamo immaginare scindibilità nel caso in cui venga impugnato esclusivamente la pronuncia sulla causa di garanzia senza che venga in nessun modo discussa la pronuncia sulla causa principale. Ad esempio, nella normale fattispecie assicurativa, ad accoglimento di entrambe le domande, l'assicuratore impugna esclusivamente la pronuncia di attribuzione della sua responsabilità negando la sussistenza di un rapporto di garanzia tra lui e il garantito e senza minimamente contestare la responsabilità del garantito nei confronti dell'attore principale, possiamo scegliere, e l'impugnazione può essere proposta semplicemente dal garante nei confronti del garantito senza coinvolgimento del cosiddetto molestante e cioè dell'attore principale.

Per converso, nell'ipotesi di assorbimento della domanda di garanzia per effetto di pronuncia sulla domanda principale determinativa di tale assorbimento perché favorevole alla parte garantita, ebbene, a questo punto il molestante ha onere di impugnare anche nei confronti del garante, il che sembra paradossale perché il garante non è il suo avversario! Questa regola dovrebbe valere anche nel caso in cui il molestante non abbia proposto alcuna domanda diretta nei confronti degli altri, ma perché arriviamo a questa conclusione? Se così non fosse, e fosse consentito al molestante di impugnare solo nei confronti del garantito senza evocare in causa anche il garante, il garantito, perderebbe l'opportunità di coltivare la domanda di garanzia in quello stesso procedimento, in quanto il garantito è vittorioso, ed essendo vittorioso, non ha la possibilità di impugnare, lui pure e di provvedere lui l'evocazione in causa del garante alla coltivazione della causa di garanzia, perché la sua domanda è rimasta assorbita, e se noi gli togliamo questa possibilità, tra l'altro, corriamo anche il rischio di privarlo della stessa garanzia, in quanto, se ricordate il disposto dell'art. 1485 che abbiamo a suo tempo evocato, il garante che è stato parte in grado di giudizio in cui il garantito è risultato vittorioso e vede evocare dal garantito la sua responsabilità per effetto di una sentenza resa nel corso di un giudizio di impugnazione in cui lui non è stato chiamato, è il garante che ha il dovere di dimostrare che la sentenza era ingiusta perché non ha partecipato al procedimento in cui questa sentenza si è formata, sicché il diritto del garantito di essere ritenuto indenne dalle conseguenze della soccombenza, rischierebbe di venir meno per effetto di una combinazione di di iniziative processuali di fronte alle quali il garantito risulterebbe senza difesa. Così, in alcune occasioni, la giurisprudenza ha voluto inventarsi l'istituto dell'appello incidentale condizionale, consentendo al garantito di evocare in giudizio il garante pur essendo lui totalmente vittorioso nel merito, tramite un'impugnazione analoga a quel ricorso incidentale per cassazione che vedevamo prima. Solo che con riferimento all'appello in realtà, questa deviazione dei principi non ha senso e non gli ha accettati, perché solo con riferimento per ricorso in cassazione che si può immaginare l'impugnazione condizionata della parte vittoriosa del merito, ma ci manca solo che si estenda al grado di appello questa possibilità!

Mi rendo conto che a qualcuno può piacere perché coerente con un processo dispositivo l'idea di un processo in cui sono le parti a determinare i loro avversari, ma in realtà ci dobbiamo rendere  conto sempre di più, che invece, i poteri di integrazione del contraddittorio del giudice sono fondamentali affinché l'amministrazione della giustizia possa svolgersi in modo efficiente e quindi un correttivo all'iniziativa di parte si giustifica ampiamente in un buon numero di situazioni, salvo magari discutere sulle sanzioni e sulle conseguenze del mancato esercizio di tale potere, ma almeno la sua previsione dev'essere senz'altro accettata, e quindi è di gran lunga preferibile, dal punto di vista dell'efficienza generale nell'amministrazione dell'attività della risoluzione dei conflitti, far gravare sul molestante che voglia impugnare la sentenza di rigetto della domanda, l'onere di evocare in giudizio oltre al suo avversario, anche quel garante che il suo avversario aveva fatto entrare nel processo così come d'altronde, avrebbe l'onere di evocare anche quel terzo il cui ingresso nel processo sia stato ordinato dal giudice ex art. 107, e che è terzo a cui veramente la causa sia comune, la cui necessità della vocazione nel giudizio di impugnazione viene raggiunta dalla giurisprudenza, sulla base della più labile motivazione secondo cui l'esercizio del potere ufficioso, di cui all'art. 107 dell'esercizio di un potere discrezionale, e quindi insindacabile in sede d'impugnazione perché discrezionale, ed meno forte di quella che sembra sorreggere l'onere di estensione del contraddittorio nel giudizio di gravame in capo alla parte soccombente nei confronti della parte garantita. Non va preso sul serio, l'affermazione spesso ricorrente secondo cui ai fini della scindibilità occorrerebbe distinguere tra garanzia propria e garanzia impropria, perché o intendiamo per garanzia impropria, fattispecie che solo molto rientrano latamente nell'ipotesi di garanzia come le vendite a catena, ma, ma se invece la distinzione, è la distinzione che si fonda nell'ipotesi dogmatica di ipotesi il cui unico fatto generatore della responsabilità è quello in cui siano diverse, ma esiste in realtà un rapporto di garanzia, in senso comunque, qualificabile come rapporto di garanzia, dovrebbero valere regole uguali per tutti, quindi senza distinzioni tra garanzia dell'assicuratore, garanzia dell'evizione, ecc.. E questo per la garanzia!

Sull'obbligazione solidale, bisogna ricordarci che ci sono le due grandi categorie, cioè obbligazioni solidali ad interesse comune e obbligazioni solidali interesse unisoggettivo, cioè la fideiussione.

Per quel che riguarda i casi di fideiussione, la giurisprudenza, in linea generale è tradizionalmente favorevole alla scindibilità, ed è giunta a una cosa che può sembrare strana, cioè, se il creditore impugna la sentenza soltanto nei confronti del fideiussore, l'impugnazione è inammissibile perché? Perché il fideiussore non può rispondere mai di più di quello che risponda il garantito, e quindi è un'impugnazione con la quale il creditore chiede un risultato giuridico impossibile, e questo è un fenomeno che però, io credo, debba essere coordinato con l'art. 331, perciò non si dovrebbe direttamente dichiarare inammissibile tale impugnazione, bensì, disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti della parte garantita acciocché si renda giuridicamente ammissibile anche un accoglimento pieno della domanda parzialmente accolta, poi eventualmente rigettata in primo grado, nei confronti di entrambe le parti, cioè il giudice dovrebbe applicare quei meccanismi correttivi delle deficienze dell'iniziativa processuale di parte.

Con riferimento alle obbligazioni solidali, c'è un classico ragionamento sancito ex art. 1306, il quale chiarisce che può aversi giudicato nei confronti di alcuni creditori o condebitori e non nei confronti degli altri con la conseguenza che sia loro opponibile soltanto se favorevole, ma non sfavorevole il giudicato secundum eventum litis, quindi si desume che non c'è litisconsorzio necessario nell'ipotesi di obbligazioni solidali. Ma una volta che siano stati evocati in giudizio più condebitori solidali, è possibile impugnare solo nei confronti di alcuni? Perlopiù la giurisprudenza dice di si! Quindi è normale che nei confronti di un condebitore passi in giudicato una sentenza favorevole e nei confronti dell'altro una sentenza sfavorevole a seguito del vittorioso esperimento dell'impugnazione solo nei confronti di lui. Infatti, non sarebbe opponibile al creditore la sentenza favorevole ottenuta dal condebitore solidale, da parte di quel condebitore solidale che non sia rimasto estraneo al giudizio come sembrerebbe presupporre l'art. 1306, ma che egli al giudizio stesso ha partecipato e in quel giudizio sia risultato soccombente.

Però il problema sta, nella circostanza che tra condebitori solidali esiste la disciplina dell'azione di regresso, quindi se noi consentiamo al creditore soccombente in primo grado di impugnare solo nei confronti di alcuni condebitori solidali, noi gli consentiamo di privare questi dell'azione di regresso, perché quando quei condebitori solidali, in ipotesi soccombenti in appello e tenuti successivamente a are, e dimostrare in contraddittorio l'inesistenza dell'obbligazione.

Ora! Se in primo grado la domanda del condebitore solidale è accolta, i condebitori solidali soccombenti, possono decidere se evocare in giudizio solo il loro avversario o anche gli altri condebitori, se per caso la loro situazione migliora i condebitori non impugnati non possono lamentarsi di avere perduto l'azione di regresso nei loro confronti per effetto del loro conseguimento di un giudicato di rigetto della domanda non estensibile, a loro non impugnabile nei confronti del quale il passaggio in giudicato è un giudicato di accoglimento della domanda. Perché loro potevano impugnare e non hanno impugnato, quindi, l'idea di generalizzare l'applicazione dell'art. 331 alle obbligazioni solidali passive, evocata nelle recenti monografie, è sballata nella misura in cui la si generalizza, perché in questo caso, la perdita dell'azione di regresso è conseguenza di una inattività processuale del condebitore solidale soccombente, che ha accettato la sua soccombenza a differenza degli altri condebitori, ma nel caso opposto in cui la sentenza è stata di rigetto della domanda, i condebitori solidali non avevano il potere di impugnare, perché parti vittoriose, non erano legittimate ad impugnare e rischiano di perdere l'azione di regresso per effetto dell'impugnazione dell'avversario e allora sembra ragionevole che non si possa consentire all'avversario di determinare arbitrariamente quali tra i coobbligati solidali assoggettare il rischio della perdita dell'azione di regresso e quali no, pertanto nell'ipotesi di sentenza di rigetto della domanda, e in ogni caso di impugnazione della sentenza da parte del creditore, bisogna far gravare sul creditore l'onere di proporre la stessa nei confronti di tutti i litisconsorti, cioè si deve qualificare come inscindibile la controversia avente ad oggetto obbligazioni solidali passive, quale conseguenza della scelta iniziale, del creditore, di evocare più condebitori solidali nello stesso processo. Conseguenza che d'altronde, se non l'avesse fatto comunque, quelli estranei si sarebbero potuti giovare della sentenza favorevole.

Si tratta in sostanza di ripescare una disposizione, e questa in effetti era abbastanza sensata nella disciplina del litisconsorzio nelle fasi di gravame nel codice del 1865, in quella disciplina, era ancora, in qualche misura influenzata dal principio della legalità dell'impugnazione, per cui si prevedeva l'estensione degli effetti di impugnazione in varie ipotesi, anche a parti non impugnanti, sistema che è stato superato nel codice del '42, dove si adotta il principio della personalità dell'impugnazione, per cui l'impugnazione giova solo alle parti che la propongono, e non a quelle che ne rimangono estranee, ma si è mancato di trascinare una regola che invece era un importante portato della trasformazione del passaggio, già allora in corso, dal principio della personalità, cioè la regola per cui, quando la parte impugna nei confronti di più condebitori solidali, deve impugnare nei confronti di tutti, e cioè, in questo caso, tradotto nel sistema normativo del codice vigente, si deve, in realtà applicare l'art. 331 e considerare inscindibili le cause cumulativamente proposte e decise nel precedente grado di giudizio.

·    L'Appello

Il giudizio di appello merita diverse approfondite considerazioni, perché, per diversi aspetti desta a interpretazioni opinabili e controverse anche nell'esperienza giurisprudenziale e possiamo prendere le mosse, a questo proposito, dall'esame del disposto dell'art. 342, nella parte in cui prevede che l'appello richieda l'indicazione degli specifici motivi di gravame, molto ampliamente si dibatte ancora intorno al quesito sul quale sia l'effettiva funzione dei motivi d'appello, su cos si dibatte.

Una prima impostazione, tradizionale se vogliamo, è quella secondo la quale, la funzione dei motivi d'appello consiste essenzialmente, nel determinare quali capi della sentenza siano stati impugnati.

Alla luce di questa impostazione, le eventuali enunciazioni dei morivi di gravame riferiti a questioni di merito, può comportare il fenomeno dell'acquiescenza impropria, nel senso che, se i le doglianze di merito si riferiscono solo ad alcuni tra più capi della decisione, ecco che sugli altri capi, in quanto si tratti di capi autonomi indipendenti, può prodursi il fenomeno dell'acquiescenza impropria, e si aggiungeva tradizionalmente! Allorché la doglianza riguardi una questione di rito, nessun fenomeno di acquiescenza impropria può effettivamente prodursi, e ciò perché, esiste una necessaria pregiudizialità interna tra questioni di rito e questioni di merito tale per cui, l'annullamento della sentenza, la riforma della sentenza, l'accoglimento dell'impugnazione della stessa per un motivo di rito, importa la caducazione per intero, tutta la sentenza risulterebbe invalida, con una precisazione, però, che questa impostazione richiede di essere coordinata per il principio secondo il quale, l'appello svolge la funzione di consentire un nuovo esame sul merito della domanda, è un mezzo d'impugnazione a critica libera e non a critica vincolata, e come tale diretto non soltanto alle eventuali violazione di leggi, ma in generale alla ingiustizia della sentenza.

Con questo discorso, sovente si allude a questa circostanza, che nel giudizio d'appello, allorquando venga accolta l'impugnazione riferita a questioni di rito e sia stata anche richiesta una nuova pronuncia sul merito della causa, il giudice d'Appello provvede a dare pronuncia sul merito della causa previa rinnovazione delle attività istruttorie e della attività processuali eseguite validamente nel corso del primo grado, nel corso del precedente grado di giudizio, con l'ulteriore conseguenza che, se in sede di pratica formulazione dell'atto d'appello, la parte si limita a dedurre la violazione di una norma del processo, senza con ciò chiedere una nuova pronuncia sul merito della causa, quale conseguenza della predeligittimità della sentenza di primo grado per motivi processuali, l'appello stesso è inammissibile, perché in  questa ipotesi, la parte ha proposto un mezzo d'impugnazione che è stato, si rivolto alla Corte d'Appello, ma non è un mezzo d'impugnazione di appello, bensì un mezzo d'impugnazione che è in realtà un ricorso per cassazione, se non si chiede anche una nuova pronuncia sul merito della causa.

Quindi tale appello risulterebbe inammissibile, fatte salve quelle ipotesi in cui il vizio processuale è tale da giustificare la rimessione della causa al primo giudice ai sensi degli artt. 453 e 454, casi eccezionali indicati tassativamente nei quali invece validamente è proposto un appello e si fondi su doglianze di natura esclusivamente processuali, come ricorderete, però, non asottizare in modo estremo, questa ricorrente deformazione giurisprudenziale, perché, in realtà, debbono pur sempre sussistere anche, nei casi in cui, il vizio processuale è motivo valido e sufficiente d'appello, anche se non rientra fra le ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, perché si tratta di un vizio processuale impeditivo di una qualsiasi pronuncia sul merito della causa, un vizio processuale non sanabile e tale per cui, se il giudice d'appello pronunciasse nel merito della causa l'eventuale ricorso per cassazione verrebbe accolto con provvedimento di Cassazione senza rinvio, cioè con una sentenza definitiva di rito di rigetto della domanda.

E in quali casi? Un tema è dato dall'ipotesi in cui si sia prodotta una nullità di citazione riferibile ad un vizio cosiddetto di edictio actionis, cioè i casi in cui non sia stato determinato l'oggetto della domanda, o non siano stati enunciati i fatti costitutivi nella misura in cui ciò sia richiesto ai fini dell'individuazione del diritto fatto valere in giudizio. In questa ipotesi, infatti, si deve ritenere che non sia applicabile la disciplina della rinnovazione in grado d'appello con possibilità di pronuncia sul merito della causa e ciò, non tanto perché operi un generale principio del doppio grado di giurisdizione, quando perché una precisa norma di diritto positivo, cioè l'art. 345, vieta la proposizione di nuove domande in appello, sicché la formulazione della domanda avvenuta soltanto in grado d'appello a seguito dell'integrazione della citazione sin dal primo grado e mai precedentemente sanata, non deve ritenersi ammissibile ai sensi dell'art. 345, e non esiste altra maniera per definire il processo, se non appunto, con sentenza in mero rito assolutoria del convenuto dall'osservanza del giudizio.

Ma c'è di più nella problematica della disciplina dell'Appello, innanzi tutto occorre tener conto del requisito della specificità dei motivi d'appello, che rende come tale inammissibile un atto d'appello che si limiti ad una doglianza di carattere generico, cioè che si limiti a denunciare, per esempio, l'ingiustizia della sentenza senza indicare le ragioni per cui la sentenza è ingiusta e il contenuto della sentenza giusta.

A proposito della distinzione tra illegittimità e ingiustizia, si pone sul presupposto che allorquando il contenuto della decisione cambia perché il giudice ha diversamente valutato rispetto al giudice del precedente grado di giudizio, le risultanze probatorie, si avrebbe una riforma della decisione di primo grado non perché, appunto, illegittima, poiché il giudice di primo grado nel trarre conclusioni diverse dalle risultanze probatorie lo avrebbe fatto esercitando validamente il suo potere discrezionale di apprezzamento delle prove liberamente valutabili, quindi sarebbe ingiusta , ma non illegittima, perché non vi sarebbe stata alcuna violazione di legge.

Questa distinzione muove da un presupposto che la discrezionalità del giudice nell'apprezzamento delle risultanze probatorie, sia una discrezionalità piena e non sia invece, come sembra preferibile e coerente, una discrezionalità fortemente limitata dalla circostanza che il criterio di valutazione delle prove liberamente valutabili è quello del prudente apprezzamento e non quello dell'arbitrario apprezzamento, pertanto, il giudice dell'impugnazione che intende riformare una sentenza di primo grado sulla scorta di un diverso apprezzamento delle risultanze probatorie, con ciò stesso, in realtà ritiene, illegittima, perché violativa della regola del prudente apprezzamento delle risultanze probatorie della sentenza impugnata.

Non va trascurato completamente, soprattutto per i riflessi che ha, allorquando dovremo chiarire quali sono le caratteristiche distintive del controllo di legittimità in sede di Cassazione, sotto il profilo del riesame del fatto e quali siano in particolare le ragioni che limitano i poteri del riesame del fatto della Corte di Cassazione.

Il requisito della specificità, dicevamo, impone anche di indicare da che punto di vista, la sentenza impugnata è ingiusta/illegittima. La vera questione controversa, però, è se la Corte d'Appello, il giudice dall'appello più in generale, possa riformare la sentenza o meglio i capi impugnati della decisione, anche per ragioni diverse da quelle enunciate dalla parte impugnante in sede di indicazione dei motivi di gravame.

Certamente, se si tratta di questioni rilevabili d'ufficio, intorno alle quali non si sia avuta alcuna pronuncia da parte del giudice di primo grado, è chiaro che in questa ipotesi, il giudice di appello, può senz'altro prendere in considerazione la questione salvo che per qualsiasi motivo essa risulti preclusa, come nell'ipotesi della questione di competenza per materia che il risultato è rilevabile soltanto in prima udienza di trattazione, ancorché l'ufficio, evidentemente, non può essere rilevata la prima volta in grado d'appello, sopendosi, tuttalpiù porsi il problema della competenza per l'appello del giudice adito con l'atto d'appello.

In tali casi, però, l'orientamento recente della giurisprudenza è sempre più restrittivo a questo proposito, sulla scorta dell'idea, che anche in vista delle riforme della disciplina positiva dell'appello, questo vada sempre più considerato come una revisio priori istantie, che è come un novum iudicium, è sempre più un mezzo d'impugnazione in senso stretto e sempre meno come un mezzo di gravame, però è vero che in questa evoluzione, in qualche misura si può riscontrare, ma è un evoluzione che incontra numerosi limiti.

Mi sembra illustrativo un esempio! Nella misura in cui, in larga parte, sia ancora il giudizio di appello, una sorta di naturale prosecuzione del giudizio di primo grado, la circostanza che in grado d'appello, non operi quel principio dell'impulso d'ufficio che abbiamo visto operare nel giudizio di cassazione e bensì, sia ancora l'impugnazione, soggetta alla regola dell'impulso di parte. Trattandosi, quindi ancora di fase di merito della causa, abbiamo alcune ipotesi in cui l'inattività delle parti, in particolare della parte impugnante, determina l'estinzione del procedimento d'impugnazione in mero rito nell'ipotesi, di cui abbiamo accennato, di improcedibilità dell'appello, ma ciò non esclude l'applicabilità nella disciplina generale dell'estinzione per inattività delle parti, e di conseguenza la rilevabilità non d'ufficio, ma soltanto su eccezione di parte di gran parte delle potenziali fattispecie estintive del procedimento per inattività, per cui, è vero che la legge prescrive che sia dichiarato improcedibile l'appello laddove l'appellante non si sia costituito in termini, ma questa pronuncia è possibile se e solo se, sia costituito in termini l'appellato, perché, se nessuna delle due parti si è tempestivamente costituita in giudizio in questo grado d'appello, si applica, in vista del rinvio alla disciplina del procedimento in primo grado contenuto nell'art. 359, si applica ancora l'art. 307, e la conseguenza è che in questa ipotesi, si debba disporre la cancellazione della causa dal ruolo e non già dichiarare l'improcedibilità dell'appello, con conseguente acquiescenza attuale del processo e possibilità della sua riattivazione tramite riassunzione, e questi residui, si possono certamente considerare dei residui, ma suggeriscono prudenza nel dedurre dalle riforme del diritto positivo recentemente sopravvenute, la conclusione che anche le norme non toccate dalle riforme devono nuovamente essere interpretate nello spirito della concezione dell'appello come revisio priori istantie, e quindi occorre discutere senza estremismi, la questione della conurazione di due importanti caratteristiche del giudizio d'appello tuttora previste dal diritto positivo e tuttora tali da differenziare in maniera radicale rispetto al ricorso per cassazione, cioè la circostanza che l'appello sia provvisto dell'effetto sostitutivo ed è così dell'effetto devolutivo.

Si tratta di espressioni per le quali si possono intendere diverse cose, però, cominciamo convenzionalmente a trattare dell'effetto sostitutivo, dicendo appunto, che la destinazione naturale dell'appello, è quella di contenere una pronuncia rescissoria, e alludo con ciò quanto appena descritto, cioè alla circostanza che un  atto d'appello che contenga la deduzione di doglianze solo esclusivamente riferite al rito, fuori dai casi dell'art. 353 e 354, è inammissibile, perché non è diretto ad ottenere una nuova pronuncia sul merito della causa.

L'effetto sostitutivo della pronuncia d'appello, in qualche misura, è stato valorizzato dalle riforme, per esempio in quella parte in cui si è prevista l'immediatezza della produzione dell'effetto sostitutivo da parte della sentenza d'appello, e ci si riferisce con ciò alla riforma dell'art. 336, che è norma relativa all'appello in generale, di cui abbiamo visto, il primo comma, cioè quello che regola l'effetto espansivo interno, tale per cui, appunto, l'accoglimento di doglianza riferita al rito, implica necessariamente la caducazione di tutte le statuizioni di merito rese dal giudice di primo grado, e la necessità della loro sostituzione con statuizioni sul merito da parte del giudice di secondo grado, previa rinnovazione delle attività dell'istruzione probatoria in precedenza compiute.

Nel secondo comma, che è quello riformato dell'art. 336, si prevede che la riforma della sentenza estenda i suoi effetti anche agli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza impugnata. Si parla in questo caso di effetto espansivo esterno, contrapposto all'effetto espansivo interno che è quello regolato dal 1° comma e che regola i rapporti fra i vari capi della stessa sentenza.

Per spiegare le ragioni di questa riforma, con le ragioni e gli effetti di questa riforma, occorre prendere le mosse dall'impianto originario del codice del '42, che non prevedeva l'immediata impugnabilità delle sentenze non definitive e la conseguente possibilità di raddoppiamento del giudizio di impugnazione riferito alla stessa causa, per effetto della moltiplicazione delle sentenze sulla stessa causa nel corso del procedimento di primo grado.

Nel 1950, però, venne reintrodotta l'impugnabilità immediata della sentenza non definitiva, contestualmente alla facoltà di formulare riserva all'impugnazione della stessa sentenza definitiva e si pose il problema di coordinare le vicende del procedimento nel cui ambito venissero rese sentenze non definitive con le vicende dei procedimenti di impugnazione immediatamente promossi contro le stesse, e in particolare, si modificò, proprio l'art. 336, per prevedere che l'effetto caducatorio degli atti dipendenti derivanti dalla riforma della sentenza impugnata, si producesse soltanto a seguito del passaggio in giudicato della stessa, per evitare che per esempio, le attività di istruzione probatoria successiva alla pronuncia di una sentenza di condanna generica, fossero soggetti a continui andirivieni per effetto dell'eventuale riforma, o cassazione della sentenza di riforma, e così via, della sentenza di condanna generica, sentenza non definitiva, che non è prvvista degli effetti di titolo esecutivo, ma comunque utile al creditore, in quanto, costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale, per esempio,e produce comunque gli effetti secondari della sentenza riformata.

Tra queste disposizioni, merita ricordare le soprattutto dell'art. 129 bis delle disposizioni di attuazione, nella parte in cui prevede che laddove la pronuncia di riforma della sentenza non definitiva a sua volta sia investita di ricorso per cassazione, il procedimento di primo grado, al cui prosecuzione trova fondamento nella validità della sentenza non definitiva, ormai riformata, quindi caducata, a sua volta, però è una sentenza impugnata essa pure per ricorso per cassazione, si diceva, l'attività di istruzione probatoria non si è affatto automaticamente sospesa, bensì possa essere sospesa su istanza di parte, e conseguentemente anche, in mancanza di istanza di parte, non possa essere sospesa affatto, cioè debba naturalmente proseguire, benché trovi il suo titolo in una sentenza oramai caducata.

La riforma compiuta nel '90 dell'art. 336, che ha ripristinato la regola della immediatezza dell'effetto sostitutivo della sentenza di riforma, cioè la regola, per cui la caducazione della sentenza di primo grado impugnata in appello è immediata, a seguito della pronuncia d'appello e opera a prescindere dalla circostanza che la pronuncia d'appello, sia a sua volta investita di ricorso per cassazione, deve però essere coordinata con la sopravvivenza di norme quali l'art. 129 bis delle disp. di att., che qualcuno ha immaginato essere stato abrogato implicitamente per effetto della riforma dell'art. 336, però, bisogna dire che la riforma del '90 con cui si è modificato l'art. 336, è una riforma molto specifica nell'indicare gli articoli abrogati, e che conurare un'abrogazione implicita in questo caso, costituisce una forzatura, sicché, deve preferirsi l'opinione secondo la quale l'art. 129 bis è ancora in vigore e quindi a questi fini, senz'altro, non si produce in realtà l'effetto caducatorio della sentenza d'appello, anche perché, poi, le motivazioni che hanno animato la riforma dell'art. 336, hanno poco a che vedere con la questione della prosecuzione dell'istruzione a seguito della riforma della sentenza definitiva di condanna generica, perché questa norma è stata modificata soprattutto per tenere conto di un problema completamente diverso, cioè il problema della stabilità degli effetti esecutivi della sentenza di primo grado riformata.

Infatti, sulla scorta del vecchio testo dell'art. 336, in un sistema in cui, prima della riforma del '90 soltanto in casi particolari la sentenza di primo grado era esecutiva, in questi casi particolari, l'esecutività della sentenza di primo grado, eccezionalmente prevista, era talmente forte e stabile da sopravvivere anche alla riforma della sentenza stessa di primo grado, poiché l'effetto caducatorio si produceva solo col passaggio in giudicato della sentenza di riforma, il che, per un verso, ovviamente, incentivava la proposizione di ricorsi per cassazione contro le sentenze di riforma della sentenza di primo grado allo scopo di procrastinare nel tempo la produzione dell'effetto caducatorio della decisione impugnata, e delle attività esecutive compiute in base ad esse, e per altro verso, faceva gravare su quei soggetti che erano tipicamente destinatari di sentenze di primo grado immediatamente esecutive, in combinazione con certi aspetti del diritto sostanziale, faceva gravare importanti costi derivanti da una soccombenza in primo grado di giudizio, perché in realtà, il terreno privilegiato d'azione della sentenza di condanna immediatamente esecutiva, era quella della condanna alle retribuzioni del lavoratore subordinato illegittimamente licenziato, e se anche questa sentenza veniva riformata in grado d'appello, e persino nell'ipotesi in cui, la stessa sentenza d'appello di riforma che dichiarava la legittimità del licenziamento venisse confermata in Cassazione, le retribuzioni dovute e corrisposte per tutto il periodo intercorrente, tra l'esecuzione della sentenza di primo grado e l'effettiva caducazione degli effetti esecutivi, restavano irripetibili,  perché, la vicenda processuale aveva istituito come un rapporto di lavoro di fatto, perché in pendenza del giudizio di impugnazione, il lavoratore aveva comunque messo le sue energie a disposizione del datore di lavoro, e quindi, le retribuzioni spettandogli per effetto di quella sua messa a disposizione della propria opera, gli restavano comunque dovute.

Questo indusse il legislatore a premere perché venisse ripristinata l'immediatezza dell'effetto sostitutivo, immediatezza, la quale implica che l'esecuzione non possa essere ne iniziata, ne proseguita l'esecuzione della sentenza di primo grado a seguito della pronuncia della sentenza di riforma in appello, e ciò, ancorché la sentenza di riforma in appello venga a sua volta investita per ricorso in cassazione, il che, peraltro non esclude, che in larga misura almeno alcuni atti dell'esecuzione forzata producano effetti, che sono da questo punto di vista irreversibili, che stanno in piedi da soli, e non possono, nonostante la dipendenza dell'atto esecutivo, dalla validità del suo titolo, ove esserne caducate per effetto della caducazione del titolo stesso.

Si tratta di quegli atti di esecuzione forzata produttivi di effetti in capo a soggetti che nulla hanno a che vedere con la validità del titolo esecutivo, quindi si parla delle vendite forzate.

Coerentemente alla regola per cui la vendita forzata soffre le nullità del suo stesso procedimento, ma non risente delle nullità del titolo su cui si fonda l'esecuzione durante la quale si è compiuta la vendita forzata stessa, deve ritenersi certamente, che non possa risultare pregiudicata dalla riforma dichiarata in grado d'appello, o anche con sentenza passata in giudicato di quella sentenza che aveva svolto le funzioni di titolo esecutivo, e questo perché, altrimenti, i terzi acquirenti del bene soggetto a vendita forzata sarebbero disposti a are ancor meno e ancor meno si realizzerebbe dalla vendita forzata se dovessero farsi carico non solo del vizio del rischio occulto, ma anche del rischio di vedersi sottratto il bene per effetto di vicende caducatorie del titolo intorno alle quali, non hanno potere nemmeno di interloquire.

Più complessa è questione dell'effetto devolutivo del giudizio di appello. In qualche misura può parlarsi di effetto devolutivo con riferimento a disposizioni specifiche del codice e in particolare il disposto dell'art. 346, e cioè la circostanza che possono formare oggetto del giudizio d'appello domande ed eccezioni che non siano oggetto di un'impugnazione , ma solo oggetto di una mera riproposizione da parte della parte interessata, se, parlando di effetto devolutivo, ci si riferisce a questo fenomeno, non si dice nulla di trascendentale, ma quando si parla di effetto devolutivo, si vuol dire anche altro, in realtà, cioè che la presunzione di rinuncia delle domande ed eccezioni non riproposte, ed è una tesi questa che a volte si ritrova anche in giurisprudenza, si produce se e soltanto se, vi è stata costituzione della parte appellata in giudizio, ma se la parte appellata nel giudizio d'appello rimane contumace, allora mancherebbe quella implicita manifestazione di volontà abdicativi, consistente nella mancata riproposizione, giustificativa della regola per cui il giudice d'appello di quell'eccezione, di quella domanda non possa conoscere, sicché, la contumacia, dell'appellato, comporterebbe l'automatica devoluzione al giudice d'appello del potere di conoscere di tutte le domande e le eccezioni non accolte nel precedente grado di giudizio.

In realtà, questa interpretazione prima comporta sul piano pratico strategie e conseguenze abbastanza paradossali, cioè che possa essere conveniente non costituirsi che costituirsi, come modalità di esercizio dell'attività difensiva, il che è cosa che in linea di massima bisogna combattere, perché non si può consentire che un'attività difensiva possa essere più efficace se svolta attraverso il non compimento degli atti processuali, sicché attraverso il compimento degli stessi, e poi, perché, si fonda su un'interpretazione discorsiva del diritto positivo, in quanto la parte che non si costituisce è parte che non ripropone, e in nessun luogo nell'art. 46, si prevede che l'effetto rinunciatario si produca solo per la causa della mancata riproposizione della parte costituita, pertanto si tratta di una interpretazione fortemente discorsiva del dettato positivo che si basa sulla petizione di principio per cui l'appello abbia un effetto devolutivo tale da comportare l'automatica trasmissione in grado d'appello salvo abdicazioni risultanti da fatti concludenti della parte appellata. Quindi questa interpretazione deve essere respinta, ancorché, nella giurisprudenza recente se ne trovi eco anche ripetutamente.

La contumacia dell'appellato implica, inevitabilmente, decadenza o rinuncia, inammissibilità da parte del giudice d'appello di domande ed eccezion i che non siano state accolte nel precedente grado di giudizio.

Il peso, inteso in questi termini, l'effetto devolutivo però, non così automaticamente si passa alla conclusione secondo la quale, una volta individuati da parte dell'attore i capi della decisione impugnata attraverso l'individuazione di motivi specifici, accomnati, ovviamente, dalla richiesta di nuova pronuncia sul merito della domanda, non è necessario inferire che impedisca al giudice d'appello di riformare i capi della decisione anche per ragioni diverse da quelle indicate dall'attore, in particolare, allorquando, si tratti di applicare norme giuridiche diverse da quelle indicate dalle parti impugnanti. Tuttalpiù, ponendosi qualche dubbio, allorquando si tratti di prendere in considerazione fatti diversi posti alla base di motivi di gravame da parte dell'appellante. Così è fallace sostenere che sull'effetto devolutivo debba ritenersi necessario, indispensabile in applicazione del principio del doppio grado di giudizio. Perché non ci basta dire che il doppio grado di giudizio non è oggetto di garanzia costituzionale, salva l'ipotesi del processo amministrativo, sicché la Costituzione garantisce si, il controllo di legittimità in Cassazione, ma non garantisce il diritto ad un doppio esame del merito della domanda.

Occorre aggiungere che il doppio grado di giudizio, inteso come diritto ad un doppio esame del merito della domanda, non è assicurato nemmeno dal diritto positivo e lo si evince già dalla circostanza secondo cui, fatti salvi i casi degli artt. 353 e 354, la sentenza di rigetto della domanda in mero rito, sentenza come tale definitiva di un giudizio in cui non si è avuto alcun esame del merito della domanda, può essere sostituita da una diretta pronuncia sul merito da parte del giudice d'appello previa rinnovazione degli atti processuali validamente compiuti nel primo grado di giudizio. In questo caso, l'unica pronuncia sul merito della domanda, è quella del giudice d'appello, quindi anche nella legislazione ordinaria il primo grado di giudizio non è oggetto di una garanzia generalizzata, tanté che appunto, soltanto in quei casi tassativamente indicati dagli artt. 353 e 354, si può dire che trovi concretizzazione la dimensione positiva del doppio grado di giudizio, cioè, ciò che è garantito nel diritto positivo, è soltanto questo; che in tali particolari occasioni, abbia luogo la rimessione della causa al giudice di primo grado, affinché egli, di nuovo, esamini la domanda ed eventualmente pronunci sul merito se non sussistono ulteriori condizioni ostative all'esame del merito della domanda, e fermo restando che, se a seguito del rinvio nel successivo ed ulteriore giudizio d'appello, il giudice d'appello potrà direttamente pronunciare nuova sentenza sul merito.

Pertanto, l'art. 345 nella parte in cui vieta la proposizione delle nuove domande in appello, va intesa come regola che vieta la proposizione di nuove domande in Appello e non come regola che ribadisce la necessità di un doppio grado di giudizio e quindi propone il doppio esame del merito della domanda, di conseguenza sono fortemente discutibili quelle interpretazioni, fra l'altro dominanti in giurisprudenza, secondo le quali, le droghe al divieto di nuove domande previsto dall'art. 345, debbono essere interpretate coerentemente con la regola del doppio grado del giudizio.

A cosa mi riferisco? L'art. 345, vietando la proposizione di nuove domande, prevedendo che le proposte siano dichiarate inammissibili anche d'ufficio, salva la loro riproponibilità in quanto compatibile con le decadenze sostanziali, magari nel frattempo maturate in un diverso giudizio di primo grado, trova eccezione in alcune ipotesi esplicitamente previste con riferimento alle domande relative a interessi, frutti, spese e danni, maturati successivamente alla sentenza impugnata.

Qui il dato di diritto positivo sembra essere chiaro, come avviene generalmente accomnato da osservazioni che travalicano facilmente dal descrittivo al prescrittivi, cioè si tende a dire, con tono magari descrittivo, a queste domande, sono domande legate da un fortissimo nesso di accessorietà rispetto alla domanda principale, sono domande consequenziali rispetto alla domanda principale stessa, sono domande il cui avviamento in grado d'appello non è propriamente innovativo dell'oggetto del giudizio. Qui si è già passati dal descrittivo al prescrittivo! Perché, si evince da questa classificazione secondo la giurisprudenza, che la parte possa ,  si, chiedere gli interessi maturati successivamente alla sentenza impugnata in grado d'appello per la prima volta, ma se e solo se in primo grado ha già domandato gli interessi maturati fino alla sentenza, sicché, la domanda degli interessi successivi, appunto ed effettivamente costituisca il normale sviluppo di domanda proposta già in primo grado. Perciò, se per esempio,   io ho chiesto in primo grado gli interessi maturati fino alla sentenza pronunciata nel 2003, in secondo grado potrò chiedere gli interessi maturati dal 2003 fino a quando verrà pronunciata la sentenza d'Appello, ma se in primo grado, io ho chiesto esclusivamente il capitale, allora, non potrò in Appello proporre come nuova domanda quella riferita agli. interessi maturati successivamente alla pronuncia della sentenza di appello.

Ebbene, in realtà, questa interpretazione, che possa non piacere l'idea di una parte che domanda gli interessi solo dopo la sentenza e non prima, e possa non piacere perché ci si pone il problema che: poi questi interessi possano essere domandati in un successivo giudizio? O dobbiamo ritenerli preclusi? Naturalmente possiamo rispondere di si o di no a sec onda della concezione che adottiamo in tema di limiti oggettivi del giudicato e di frazionabilià della domanda giudiziale, ma l'una e l'altra soluzione certamente, qualche problema lo provoca, il problema per cui o questa parte degli interessi è irrimediabilmente perduta per non averla proposta tempestivamente in primo grado, ovvero anche l'idea che si promuova un autonomo giudizio soltanto per il prezzo degli interessi prodotti nel corso del tempo. Però, è un'espressione discorsiva di un dettato che è molto chiaro, sulla base di considerazioni sistematiche che  un preciso fondamento in diritto positivo non ce l'hanno, perché non esiste questa regola del doppio grado di giudizio così come la si vorrebbe intendere, se non nella misura in cui essa trova fondamento nelle specifiche disposizioni del giudizio d'Appello, e quindi se ci dice esiste una regola in secondo grado di giudizio nella misura in cui l'art. 345 , in linea di massima vieta la proposizione di nuove domande, siamo tutti d'accordo! Ma non c'è da qualche altra parte una norma che ci faccia leggere l'art. 345 in senso più restrittivo ancora di quanto esso è già formulato.

 In merito alle nuove domande proponibili in Appello, va anche ricordato che vi sono ulteriori possibilità di proposizione di nuove domande rispetto a quelle espressamente previste dall'art. 345 e che sono individuabili attraverso l'interpretazione sistematica tuttaltro che contrastante col diritto positivo. Un caso lampante è quello dell'art. 344, che consente al soggetto legittimato a proporre opposizione di terzo di intervenire in grado d'Appello, e tradizionalmente si ritiene che il terzo legittimato all'opposizione di terzo semplice sia quel terzo che vanta un diritto autonomo incompatibile a quello di tutte le altre parti, cioè colui che avrebbe potuto spiegare in primo grado l'intervento principale e che interviene proponendo una domanda che rispetto a quel processo è nuova. È assolutamente ragionevole che questa domanda possa essere proposta già in grado d'Appello, perché, stante la proponibilità dell'opposizione di terzo, se non fosse consentito l'intervento del terzo direttamente in Appello, si pronuncerebbe una sentenza d'Appello instabile perché fortemente esposta alla proposizione dell'opposizione di terzo da parte del preteso affermato titolare del diritto autonomo incompatibile, quindi tanto vale farlo intervenire in Appello, ma questa è certamente una nuova domanda direttamente proponibile nel giudizio d'Appello.

E c'è un altro caso ancora, legato alla circostanza che sia stata introdotta nel '90 la regola dell'esecutività immediata generalizzata delle sentenze di primo grado. Nell'impianto originale del codice, muovendosi dalla premessa che siano immediatamente esecutive le sentenze di primo grado, solo quando ci siano ottime ragioni per la loro immediata esecutività, trae anche l'implicazione, che le domande di restituzione, ripetizione dell'indebito e rimessione in pristino di quanto ottenuto in esecuzione della sentenza impugnata, possano essere proposte direttamente al giudice di rinvio a seguito della cassazione, ai sensi dell'art. 389, perché la Cassazione segue a una pronuncia d'Appello, in quel regime la generalità delle pronunce d'appello comunque, e lo è tuttora, immediatamente esecutiva, e quindi è conseguenza normale dell'esecutività immediata della sentenza d'appello, e possa eseguirsi anche in casi in cui non ci siano eccezionali ragioni di urgenza, perciò sia ragionevole, consentire alla parte che ha subito quell'esecuzione a seguito della cassazione di quella sentenza così eseguita con rinvio di proporre la domanda di ripetizione direttamente al giudice del rinvio, in questo caso, ovviamente saltando un grado di giudizio.

Orbene! Nel momento in cui si è introdotta la generalizzata esecutività di tutte le sentenze di primo grado, allora è sembrato normale alla giurisprudenza di ritenere ammissibile, a questo punto direttamente in grado d'appello, delle domande di restituzione e rimessione in pristino, perché, ormai, non appartiene più al blocco delle ipotesi decisionali, il caso della sentenza di primo grado eseguita già ancor prima della definizione del giudizio d'appello, così come, nel giudizio di rinvio, si ritengono applicabili le deroghe al divieto di nuove domande applicabili ai criteri esplicitamente previsti per il giudizio d'appello dell'art. 345, sicché anche in sede di rinvio, sebbene la legge non lo dica espressamente, sono senz'altro proponibili le domande relative a frutti, interessi, spese e danni maturati successivamente alla sentenza d'Appello impugnata per ricorso in Cassazione accolto in giudizio di rinvio, del pari in grado d'Appello, si ritengono applicabili le deroghe al divieto di nuove domande previste dal giudizio di rinvio, ottenute nella norma che autorizza la proposizione a quel giudice delle domande di restituzione o di rimessione in pristino di quanto ottenuto in esecuzione della sentenza riformanda, a questo punto, della sentenza di cui si chiede la riforma.

L'art. 345 prevede inoltre un divieto di nuove eccezioni che non siano rilevabili d'ufficio, ovviamente per quel che riguarda le eccezioni rilevabili d'ufficio, ovviamente sono ammissibili quando siano nuove, perché è chiaro che se la questione è rilevabile d'ufficio ha formato oggetto di pronuncia da parte del giudice di primo grado e il giudice d'appello può conoscerne solo ove questa sia oggetto di impugnazione o di riproposizione, a seconda se si tratti di questione di eccezione risolta da una sentenza favorevole al convenuto o meno, si pone naturalmente il problema, che abbiamo già affrontato, di stabilire quando un'eccezione sia o meno rilevabile d'ufficio, cioè di stabilire, allorché la legge non lo dica espressamente, che l'eccezione sia o meno rilevabile d'ufficio, e qui vi ricordo il discorso sull'automatismo della produzione degli effetti estintivi e modificativi, automatismo, cioè sulla circostanza che tali effetti si producano senza bisogno di una specifica manifestazione di volontà della parte al di fuori del processo, sicché non si rende necessario ai fini della pronuncia intorno a tale effetto che tale manifestazione venga reiterata nel processo dalla parte interessata, e si pone poi ancora l'ulteriore problema, che è problema comune a quello della disciplina delle nuove domande dell'applicazione di questo divieto dei nova, teso come divieto di mutamento delle richieste di pronuncia sugli effetti giuridici, al divieto dei nova inteso come divieto di introduzione di nuovi fatti nel processo, intendendosi di nuovi fatti principali, perché al deduzione di nuovi fatti secondari va esaminata sotto il profilo delle eventuali preclusioni alle deduzioni istruttorie, essendo i fatti secondari strumenti per l'accertamento dei fatti principali, ma dal punto di vista del potere di dedurre nuovi fatti principali, cioè nuovi fatti determinativi dell'effetto giuridico, si pone il problema delicatissimo che da origine a fiumi di giurisprudenza.

Secondo un'interpretazione, il  divieto di nuove richieste implica necessariamente anche il divieto di deduzione di nuovi fatti produttivi degli effetti giuridici, anche quando si tratti di fatti produttivi di quegli stessi effetti giuridici che si sono invocati.

Però per un verso è molto diffusa l'idea che l'onere dell'indicazione di fatti gravante sulle parti in sede di introduzione della causa del giudizio in primo grado, l'indicazione dei fatti costitutivi in particolare, va coordinato con l'idea secondo cui quest'onere non è tanto funzionale da assicurare il diritto di difesa della controparte e quando ad assicurare l'individuazione dell'oggetto del giudizio, sicché, nell'ipotesi in cui l'oggetto del giudizio risulti comunque determinato a prescindere dalla specifica indicazione dei fatti costitutivi e della pretesa azionata, cioè la pretesa introdotta nel giudizio stesso, il mutamento di questi fatti, comporti modificazione della domanda e possa essere autorizzato in quanto modificazione e secondo alcune visioni estreme, quindi potrebbe essere possibile persino in particolare riferimento a quelle ipotesi di accertamento del diritto di proprietà su di un bene, per il quale si invochi titoli di acquisto diversi.

Un discorso analogo potrebbe farsi anche per le eccezioni, dicendosi che fermo restando l'effetto giuridico invocato, allorché, non sia necessario per l'individuazione della situazione sostanziale di vantaggio, in questo caso esercitata in funzione solamente difensiva, l'enunciazione specifica dei suoi fatti costitutivi, mi sembrerebbe che questi fatti possano cambiare. Naturalmente, qui ci sono delle opzioni di valore a guidare la scelta. Prendiamo il caso dell'art. 1453! Si prevede esplicitamente, in questa norma, che l'attore promossa l'azione di adempimento del contratto possa, nel corso del giudizio, trasformare la sua domanda mutandola in domanda di risoluzione del contratto. In questa parte, chiaramente, la domanda è diversa! In che misura possiamo ritenerlo possibile? Nella misura in cui è ammesso il mutamento della domanda al ricorso del processo civile in via generale? Per lo più si ritiene di no, perché si dice che cosa ci sta a fare una disposizione specifica nella legge sostanziale, evidentemente questa deve consentire il mutamento della domanda anche quando non sarebbe consentita in base alla regole generali, e si aggiunge, vale osservare, che qui il mutamento della domanda implica la deduzione di fatti diversi; perché ai fini della domanda di adempimento è sufficiente che non ci sia stato adempimento, mentre per la risoluzione è necessario che vi sia stato un grave inadempimento e la gravità dell'inadempimento è un fatto in più e può rientrare anche nella logica del principio di trattazione.

Nella dottrina tedesca quello che noi enunciamo come principio dispositivo, viene enunciato come principio di trattazione, con il che si allude anche alla circostanza, che il processo civile sia in qualche modo anche una trattativa. Una forma di trattativa tra le parti in conflitto che deve cercare di risolvere il conflitto anche eventualmente con forme di accordo.

Nell'ambito della concezione del processo come strumento di negoziato, può essere sensato, dicono alcuni, che l'attore inizialmente non calchi troppo la mano sulla gravità dell'inadempimento del convenuto per non pregiudicare eccessivamente i rapporti nell'ipotesi di una loro continuazione a seguito della composizione del conflitto e che solo quando questo si sia aggravato in guisa tale da non poter essere più ricomposto attraverso una prosecuzione dei rapporti commerciali, la domanda si trasforma in domanda di risoluzione e allora si tira fuori tutte le lamentele. E allora per forza devono entrare dei nuovi fatti! Per non parlare poi della questione probatoria, perché, lo abbiamo accennato parlando in materia di onere della prova, l'interpretazione rigorosa del diritto positivo prevede che, se si agisce per l'adempimento, l'attore abbia l'onere di provare il contratto, ma non di provare l'inadempimento, gravando caso mai sul convenuto ai fini del rigetto della domanda ha l'onere di provare l'adempimento, mentre se l'attore agisce per la risoluzione del contratto egli ha senz'altro l'onere della prova del grave inadempimento in capo a lui, e quindi, in questo caso l'orientamento prevalente sembra essere nel senso che tale norma debba anche implicare l'ammissibilità dell'introduzione di nuovi fatti, pur quando questa introduzione possa risultare preclusa ai sensi delle disposizioni generali del codice di rito e addirittura, potrebbe anche essere intesa come norma suggestiva della più generale soluzione secondo cui, il divieto di nuove richieste di pronuncia sugli effetti giuridici non si traduca nel divieto di allegare nuovi fatti se non nella misura in cui l'allegazione di nuovi fatti implichi necessariamente la richiesta di pronuncia su un nuovo effetto giuridico, perché se il fatto costitutivo è anche individuativo della situazione sostanziale azionata, è chiaro che se io cambio il fatto costitutivo, a quel punto necessariamente propongo una nuova domanda la cui proposizione, appunto, è vietata.

Per quanto riguarda invece l'attività probatoria, l'art. 345 prevede una disposizione che secondo l'interpretazione prevalente non è nemmeno dettata, come si potrebbe pensare, dall'esigenza di garantire ordine nello svolgimento del processo al fine di non rendere eccessivamente gravosa l'attività difensiva dell'avversario che si trovi prodotte a sorpresa nuove prove. Secondo l'interpretazione prevalente, la disciplina del divieto di nuove prove nel giudizio dell'Appello, ha come ratio quella di favorire la concentrazione del giudizio d'Appello, e cioè, il suo svolgimento nel minor numero possibile di udienze, possibilmente, tendenzialmente in una unica udienza, e pertanto, va letteralmente restrittivamente intesa come divieto di ammissibilità di nuovi mezzi di prova, ma non come divieto di ingresso di nuove prove. E si allude alla circostanza che vi siano prove che non richiedono mezzi di prova per essere acquisite al processo, e cioè le prove precostituite; tutte le prove documentali la cui acquisizione la processo e poi compiuta attraverso il deposito in cancelleria e non richiede un'attività di acquisizione delle prove attraverso la fissazione di udienza, non siano quindi prove costituende, siano prove che liberamente trovare ingresso per la prima volta nel giudizio dell'appello.

Solo le prove costituende, come il giuramento l'interrogatorio formale, il giuramento in realtà poi è sempre ammissibile, l'interrogatorio formale, la prova testimoniale fondamentalmente, sono prove il cui ingresso in grado d'appello è possibile solo alle restrittive condizioni poste dall'art. 345, e cioè nel caso del giuramento decisorio, che può essere deferito addirittura nel corso del giudizio di rinvio, il caso di quelle prove che il giudice ritenga indispensabili, cioè non semplicemente irrilevanti come in generale devono essere le prove ai fini della loro acquisizione nel processo come prove costituende, ma che siano prove decisive tali da attaccare drasticamente il contenuto della decisione trasformando l'accoglimento in rigetto e viceversa, e ancora, in applicazione dei principi generali in materia di rimessione in termini, tutte quelle prove che la parte dimostri di non aver potuto produrre in precedenza per causa non imputabile.

Possiamo notare che nella legislazione vigente, si riscontra una tendenza a ritornare alla regola che impedisce la coltivazione di procedimenti le cui menzioni si riferiscono alla stessa causa, uniti dalla moltiplicazione di procedimenti di impugnazione riferiti alla stessa causa, restando possibili, alla luce dell'interpretazione giurisprudenziale di cui abbiamo parlato, e restando possibile, comunque il moltiplicarsi persino dei procedimenti riferiti alla stessa sentenza in virtù della lettura che la giurisprudenza da della disciplina delle impugnazioni incidentali. Per esempio nelle disposizioni del nuovo rito societario che lo si prevede esplicitamente nelle ipotesi in cui le parti abbiano fatto istanza congiunta di fissazione di udienza e quindi, in un certo senso, abbiano entrambe manifestato l'aspirazione ad ottenere celermente una decisione sul merito della causa, è indubbia l'applicabilità della nuova disciplina in mancanza di questa condizione, cioè nell'ipotesi in cui l'istanza di fissazione dell'udienza sia stata compiuta da una parte sola, prevede che in quei casi in cui il giudice nelle cause soggette al rito ordinario pronuncerebbe sentenza non definitiva, cioè una sentenza di rigetto dell'eccezione non accomnata dall'accoglimento della domanda, il giudice debba invece pronunciare ordinanza, dovendosi la stessa qualificare come provvedimento non autonomamente impugnabile e quindi sendo l'istituto della sentenza non definitiva, salva l'ipotesi dell'impugnabilità, che non può comunque escludersi, di quel provvedimento di rigetto dell'eccezione senza accoglimento della domanda, che costituisca però pronuncia sull'eccezione di competenza, perché in questo caso, il provvedimento anche in vista della giurisprudenza dominante in proposito, sembrava di potersi negare la qualifica di provvedimento decisorio sulla competenza necessariamente soggetto a regolamento di competenza e che è  impugnazione a sua volta non riservabile, ma proponibile immediatamente, e per altro, rispetto alla quale, in effetti, non si pone il problema della moltiplicazione dei procedimenti d'appello nei confronti della stessa decisione, trattandosi appunto di decisione impugnabile soltanto direttamente in Cassazione.

Questa impostazione, piace molto, questa di prevedere che la questione sia risolta con ordinanza, anziché, come era nel codice del '42, comunque con sentenza però non immediatamente impugnabile, ma solo impugnabile alla pronuncia della sentenza definitiva, cerca di suggerire anche l'idea che la pronuncia su mere questioni sia pronuncia inidonea la giudicato! Invito a ricordarvi la questione del problema che abbiamo visto nelle prime lezioni della formazione del giudicato sulle sentenze  non definitive di merito o di rito.

Ci sono supposizioni teorico generali come quelle riferibili al principio dell'effetto sostitutivo e dell'effetto devolutivo dell'appello e del principio del doppio grado di giudizio, sia suggestivo ai fini dell'interpretazione delle norme di diritto positivo relative al giudizio d'appello, più nel contesto della pressi giurisprudenziale che facilmente prende sul serio questo tipo di argomentazioni, che in sede propriamente scientifica, ove in realtà, qualche perplessità nei confronti di applicazioni così automatiche di principi generali di difficile individuazione in termini specifici di diritto positivo, possa destare delle perplessità.

Vediamo altri tre casi illustrativi di questo tipo di problema, che tipicamente si pone nella disciplina dell'appello!

1)  Uno è quello riferibile alla differenza di disciplina riscontrabile fra l'Appello e ricorso per Cassazione dal punto di vista del termine per l'impugnazione incidentale. Quando abbiamo parlato dei termini per l'impugnazione incidentale, per semplicità ci si è limitati ad accennare la circostanza dell'impugnazione incidentale in appello tardiva o tempestiva che sia si compie con la sa di risposta in sede di costituzione tempestiva nel giudizio di appello, però occorre rimarcare che, mentre nella disciplina del ricorso per Cassazione sembra potersi evincere che il termine per la impugnazione incidentale sia comune a tutte le parti dovendosi compiere il ricorso incidentale nel controricorso, il quale a sua volta va depositato entro un termine di 40 giorni dall'ultima notificazione, in Appello, l'art. 343, che esprime su che linea generale il termine sia quello per la tempestiva costituzione in giudizio dell'appellato alla sa di risposta, ma prevede anche al 2° comma, finché sia ancora ammissibile, qualificandosi come tardivo o tempestivo a seconda se sia decorso il termine per l'impugnazione principale, l'appello incidentale proposto nell'udienza successiva alla proposizione di altro appello incidentale da quella parte il cui interesse ad appellare sia sorto soltanto per effetto della proposizione di altro appello incidentale, con riferimento alle controversie con pluralità di parti. In realtà si può arrivare ad un'interpretazione che consente di giungere alla stessa soluzione con riferimento al giudizio di Cassazione, ma più in generale, io direi, che l'eventualità che si attribuisca un termine unico per l'impugnazione incidentale comune a tutte le parti ai fini del ricorso per Cassazione, un termine potenzialmente differenziato ai fini del giudizio di Appello, potrebbe non essere motivo di particolare scandalo, dovendosi ricollegare alla particolare disciplina dell'Appello rispetto a quello della Cassazione, alla circostanza che l'appello continui comunque ad essere ancora un giudizio nel merito diretto ad una funzione naturalmente di proseguire la pronuncia anche rescissoria in quello stesso giudizio e d'altronde il giudizio di Cassazione conserva ancora, seppure in questa caratteristica sia andata, come vedremo, attenuando progressivamente nel corso degli anni, la natura di un giudizio con una funzione che per natura normalmente rescindente, non diretta quindi ad ottenere un nuovo esame del merito della decisione impugnata.

2)  Altro tema è quello della possibilità di rinvenire nella disciplina dell'appello, un divieto di reformatio in peius, e cioè una regola per cui la sentenza non potrebbe essere riformata in pregiudizio della parte impugnate l'opinione più plausibile da dare per la soluzione di questo problema di chi ritiene che al dispetto di quanto affermava parte della dottrina, anche della dottrina che ha scritto il codice del '42 (Piero Calamandrei), un fondamento di diritto positivo in tema di reformatio in peius non esiste, e si deve ritenere che tanto in Appello quanto in Cassazione non si possa negare la possibilità per il giudice di rilevare d'ufficio questioni sulle quali non si è formata preclusione e non sia ancora pervenuta ad una pronuncia nei precedenti gradi del processo, nella possibilità di rilevare d'ufficio nuove questioni, conduce all'eventualità che l'attore che si sia visto parzialmente respingere la domanda di condanna e sia unico impugnante la sentenza, si ritrovi a conseguire in grado d'Appello una pronuncia di rigetto totale del merito della domanda stessa, in tutte quelle ipotesi in cui, ad esempio non sia stato individuato l'oggetto del giudizio nella citazione, questa, pertanto, sia affetta da nullità radicale sotto il profilo dell'edictio actionis, sia siasi avuta comunque una pronuncia di parziale accoglimento della domanda da parte del giudice di primo grado senza provvedere alla sanatoria della nullità di citazione, il giudice di appello che dispone di tale nullità, deve necessariamente definire il giudizio in rito con rigetto totale della domanda, e questa imparità non può essere esclusa sicché, possiamo immaginare un divieto di reformatio in peius soltanto nella misura in cui siano disposti ad affermare che in realtà, che questa riforma non è una riforma peggiorativa sulla base che l'attore potrebbe, in questa ipotesi riproporre la domanda e in tal caso anche ottenere una pronuncia di integrare essa in un successivo procedimento, ma si tratta di un modo per arrampicarsi sugli specchi per sostenere che questa pronuncia non è una pronuncia peggiorativa per l'attore, rispetto al contenuto della pronuncia da lui stesso impugnata, e da questo punto di vista non rinvengono elementi che consentano di distinguere fra procedimento d'Appello e procedimento di Cassazione.

3)  Infine, ultima questione, che invocando il principio del doppio grado di giudizio si possano trovare argomenti per prendere posizioni in merito all'ambito d'applicazione dell'istituto della rimessione al primo giudice. È inequivoco il dettato legislativo che prevede  che la rimessione della causa al primo giudice possa aver luogo soltanto nei casi espressivamente, tassativamente indicati dagli artt. 353 e 354, e ricordiamone i casi che sono sei: (a) - l'ipotesi in cui il giudice d'appello riformi la sentenza con cui il giudice di primo grado ha negato la propria giurisdizione, sbagliano tutti quelli che cominciano in sede d'esame, dicendo "quando venga riformata la sentenza sulla giurisdizione", no! Solo quando venga riformata la sentenza che nega la giurisdizione, sul presupposto che in quest'ipotesi soltanto la parte sia meritevole di ottenere un nuovo esame del merito della domanda del giudice di primo grado, e non nell'ipotesi in cui invece venga riformata la sentenza che afferma la giurisdizione, perché se il giudice d'appello nega la sentenza della giurisdizione, non vi è ragione per rimettere la causa al giudice di primo grado essendo affermata l'insussistenza della giurisdizione.

Un tempo l'art. 353 contemplava anche l'ipotesi della riforma in Appello della sentenza con cui il giudice avesse negato la propria competenza, norma applicabile soltanto agli appelli contro quelle sentenze, prima del conciliatore poi del giudice di pace, sentenze declinatorie della competenza, non soggette a regolamento di competenza per il disposto dell'art. 46, che esclude la proponibilità del regolamento contro le sentenze di competenza del giudice di pace e del conciliatore. Il legislatore del '90 aveva abrogato il 2° comma dell'art. 353, nella parte che prevedeva questa possibilità, in connessione con l'introduzione della generale regola dell'inappellabilità delle sentenze del giudice di pace, risultavano sempre e soltanto ricorribili per Cassazione e sicché non aveva senso immaginare a quel punto che priva di ambito d'applicazione l'ipotesi dell'appello  nei confronti di sentenza declinatoria della competenza, poiché la stessa era soggetta a regolamento di competenza o in mancanza al ricorso per Cassazione. Successivamente, però è stata ripristinata l'appellabilità delle sentenze del giudice laico, quando non siano pronunciate secondo equità, pertanto, quando si tratti di sentenze declinatorie della competenza, il mezzo d'impugnazione a disposizione delle parti, in questo caso è, l'appello. Il giudice di pace che, erroneamente abbia declinato la propria competenza, è un giudice che ha emanato una sentenza erronea e viziata per motivi di rito, ma non si vede perché non debba accadere, come accade nella generalità delle ipotesi di pronunce viziate di rito, che possano essere sostituite dalla sentenza nel merito del giudice d'Appello, senza bisogno di far ricominciare la causa dal grado precedente del giudizio, visto che, tralaltro, questo errore del giudice di pace non si è tradotto nello svolgimento del processo dinanzi ad un giudice diverso da quello competente, perché effettivamente era lui il giudice competente, il che implica che si abbia il diritto che venga riformata la sentenza con cui il giudice di pace ha erroneamente confermato la propria competenza, ma in questo caso, non si viola la tassatività della rimessione al primo giudice, di cui agli artt. 353 e 354, perché, questa è una rimessione in primo grado ad altro giudice non al primo giudice, e questo può suggerire che il regolamento di competenza è utile nei confronti delle erronee pronunce affermative della competenza nei confronti delle erronee pronunce denegatorie della competenza del tutto meno utile, perché tutto sommato il giudizio d'appello potrebbe ben svolgere la sua funzione di controllo in maniera efficiente ed esauriente rispetto a questo tipo di pronunce. L'accelerazione dei tempi che deriva dalla circostanza che non sia possibile un ulteriore impugnazione della sentenza che riforma l'erronea pronuncia affermativa della competenza, forse poterebbe non essere così rilevante da giustificare, come oggi giustifica, la possibilità di raddoppiare l'accesso alla Corte di Cassazione perché è valido il riferimento alla stessa causa che è invece la conseguenza dell'applicabilità del regolamento di competenza.

(b) - il caso della pretermissione del litisconsorte necessario e qui è sufficiente richiamare quanto più volte detto, e accanto a questo caso vi è quello speculare, cioè;

(c) - il caso dell'erronea estromissione di una parte, entrambe sono ipotesi il cui procedimento di primo grado si è svolto senza l'evocazione in giudizio di una parte necessaria, per converso, non è motivo di rimessione al primo grado la circostanza che abbia invece partecipato al giudizio una parte che doveva essere estromessa, quindi, non tutte le volte che si riformino le pronunce in tema di estromissione, bensì solo quando da tale riforma si evinca che avrebbe dovuto partecipare una parte in più, se invece ha partecipato una parte in più, non dico che non valga la regola utile per inutile non vitiatur, però, la circostanza che una parte purtroppo sia stata evocata nel giudizio di primo grado, può certamente giustificare la riforma della sentenza impugnata, ma non la rimessione della causa al primo giudice.

(d) - ipotesi della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, cioè quella sentenza a cui si attribuisce l'inidoneità del passaggio in giudicato, giusto l'art. 161 comma 2, nella parte in cui esclude l'applicazione a tale sentenza della regola della necessaria conversione delle nullità per motivi di gravame, talché la nullità della stessa può essere, si dice, fatta valere anche oltre il suo passaggio in giudicato formale. La circostanza che, sia l'ipotesi di pretermissione del litisconsorte necessario, sia l'ipotesi di omissione della sottoscrizione al giudice, siano qualificati come casi di rimessione al primo giudice, non deve però, necessariamente suggerire che debba equipararsi il trattamento delle due ipotesi nei casi di passaggio in giudicato formale della sentenza, e cioè che si debba addivenire alla conclusione che la sentenza resa in assenza del litisconsorte necessario sia inuliter data o inesistente, e quindi, il vizio possa essere fatto valere anche oltre al passaggio del giudicato formale, persino da quanti abbiano partecipato a quale giudizio oltre, ovviamente, alla parte del litisconsorte pretermesso. Preferibile è la conclusione per cui, le parti che hanno partecipato al giudizio sono private della possibilità di far valere tale pretermissione come motivo di nullità, anche successivamente al passaggio in giudicato formale della sentenza.

(e) - ipotesi in cui venga riformata la sentenza dichiarativa dell'estinzione del processo resa a seguito di reclamo, perché intorno alla questione dell'estinzione del processo, la legge prevede una particolare modalità di pronuncia nell'ipotesi in cui la causa sia soggetta a riserva di collegialità. Questa disciplina non è applicabile ai casi di composizione monocratica dell'organo giudicante. Nei casi di composizione collegiale si prevede che l'estinzione possa essere dichiarata ai sensi dell'art. 308, con ordinanza dal giudice istruttore e che tale provvedimento, non possa essere oggetto di reclamo al collegio. Reclamo a seguito dell'esperimento del quale soltanto, il collegio pronuncia una vera e propria sentenza sulla questione, risultando prevista l'impugnabilità con appello, solo della sentenza che dichiara l'estinzione, e non già dell'ordinanza non reclamata. Si tratta dell'unica ipotesi in cui è sopravvissuto un istituto di larghissima applicazione, in epoca precedente alla riforma del '90, cioè dell'istituto del reclamo al collegio che trovava applicazione in precedenza, con riferimento anche a tutte le ordinanze in materia di ammissione dei mezzi di prova. Eliminata questa reclamabilità, anche alle ipotesi in cui sussista riserva di collegialità, è residua ancora l'ipotesi della reclamabilità dell'ordinanza dichiarativa dell'estinzione del processo, ebbene, l'art. 354, prevede altresì, che laddove la sentenza dell'estinzione del processo così dichiarata, venga riformata in Appello, venga anche disposta la rimessione della causa al primo giudice, sul presupposto che anche in questo caso, la parte sia meritevole di ottenere un nuovo, più approfondito esame della propria domanda da parte del giudice di primo grado, peraltro, ovviamente, non può aversi nessuna rimessione ne, nelle ipotesi in cui la declaratoria di estinzione sia avvenuta prettamente con sentenza da parte del collegio, in quei casi in cui soltanto in quella fase si è prodotta la fattispecie estintiva, si sia prodotta quando questa già si è giunti alla fase decisoria della causa, e anche, applicabile questa soluzione, in tutti i casi in cui l'estinzione sia stata dichiarata da un giudice monocratico, perché il giudice monocratico, sull'eccezione di estinzione pronuncia invece, direttamente con sentenza, senza quella che sarebbe un'inutile superfetazione, della pronuncia di ordinanza con reclamo a se stesso, ma dal punto di vista della parte, e cioè del pregiudizio che subisce la parte, se un pregiudizio vi è, meritevole di conseguire la rimessione al giudice di primo grado, nell'ipotesi in cui l'estinzione sia dichiarata con sentenza a seguito di reclamo contro l'ordinanza, tale pregiudizio consiste nella circostanza che l'estinzione sia stata dichiarata prima di avere esaurito la trattazione dell'esame del merito della causa e l'acquisizione delle risultanze probatorie in proposito, ma se la causa si è svolta dinanzi al giudice monocratico, la pronuncia di sentenza, direttamente da parte del giudice monocratico, si può avere in quelle stesse ipotesi, in cui può avvenire  la pronuncia con sentenza a seguito di reclamo contro l'ordinanza da parte del giudice collegiale. E perché mai viene disposta la rimessione al primo giudice? Perché in un caso e non nell'altro? Si potrebbe dire, perché il legislatore del '42 nello scrivere questa norma, aveva in mente come ipotesi generale quella della collegialità, e come caso eccezionale quello della monocraticità, perché in generale era competenza del tribunale, mentre i giudici monocratici svolgevano una giustizia minore e meno importante, quindi, meno garantita perché minore, dovendosi garantire meglio, invece, la giustizia innanzi al tribunale in ipotesi dedicate alle cause più importanti. Però, al di la degli intendimenti del legislatore storico, se noi analizziamo le risultanze del diritto positivo oggi vigente, dobbiamo giungere alla conclusione  che l'individuazione dei casi di rimessione al primo giudice, è totalmente arbitrario, non ha nessun carattere di sistematicità, e quindi, non costituisce affatto un argomento per affermare sul piano sistematico la vigenza del doppio grado di giudizio, e men che meno passibile di interpretazione correttiva alla luce dell'affermazione del principio del doppio grado di giudizio, che nemmeno trova riscontro in altre disposizioni del diritto positivo come principio generale. Queste considerazioni ci introducono l'esame del problema più delicato posto dalla tassatività dei casi di rimessione al primo giudice, cioè;

(f) - ipotesi della nullità della notificazione della citazione, perché il caso è problematico? Soprattutto alla luce del diritto vigente, nella parte in cui almeno le nullità di citazione riferibili alla cosiddetta voctio in ius, sono soggette ad un regime analogo a quello delle nullità di notificazione. Lo spirito che informa la disciplina delle nullità di citazione a seguito della riforma del '90, è uno spirito molto diverso da quello che informava la disciplina previgente, perché, la disciplina previgente tendeva a seguire l'idea di fondo, e cioè che, le nullità di notificazione, in linea di massima, fossero imputabili all'ufficiale giudiziario, e quindi per quello dovevano perdonarsi più facilmente, per quello doveva ammettersi la retroattività dell'effetto sanante della rinnovazione, mentre le nullità di citazione, erano imputabili alla parte, però, l'applicazione pratica , per un verso, ha messo in luce come in realtà, le nullità di notificazione possano trovare causa anche nel comportamento della parte, che indica all'ufficiale giudiziario un luogo di notificazione diverso da quello giusto, e per altro verso, si è osservato! Alcune nullità di citazione, ma non proprio di citazione e si spiega il perché, non dipende dalla parte, perché, si era diffuso sempre di più, l'utilizzazione del modello di introduzione della causa tramite ricorso, in luogo del sistema della citazione ad udienza fissa, e il meccanismo dell'istruzione della causa tramite ricorso, determina un'inversione dell'ordine dei soggetti destinatari dell'atto, cioè, la citazione si notifica alla parte e poi si deposita in giudizio, e dato che si notifica alla parte prima ancora di accedere al giudice dato che quando si notifica alla parte bisogna anche dire all'avversario quando ci si vede, è l'attore ad indicare la data dell'udienza, la indica provvisoriamente poi in caso si sposta in avanti, e deve lasciare dei termini a ire, il termine a ire è un termine acceleratorio per la notifica della citazione rispetto alla data dell'udienza scelta dalla parte, cioè se l'udienza è il giorno "x", devo notificare la citazione al convenuto un bel po' di giorni prima del giorno "x" affinché possa prepararsi, altrimenti sono violati i termini di difesa, e la disciplina generale classica della citazione, quella del codice del '42, la violazione di questo termine si qualificava come nullità della citazione, ed era inequivocabilmente imputabile alla parte che si è mossa tardivamente nel promuovere la notificazione, ovvero aveva scelto una data d'udienza troppo ravvicinata. Se però la causa si introduce per ricorso, prima il ricorso si deposita in cancelleria, e il giudice indica la data dell'udienza e a quel punto, l'attore notifica al convenuto ricorso unitamente al decreto che fissa la data d'udienza. Questo modello di introduzione della causa, era apprezzato per la sua funzione acceleratoria, sulla base dell'idea che se invece l'attore cita udienza fissa, è lui stesso a scegliere la data d'udienza, e potrebbe avvalersi di questa opportunità ai fini dilatori, potrebbe anche l'attore avere motivi dilatori e può succedere che l'attore voglia perdere tempo, e quindi, si dice col sistema ad un udienza fissa, ma niente gli impedisce di fissare l'udienza da qui a quattro anni! Oggi, quando sento dire da parte dei settori maggiormente orientati a difendere i comportamenti e le prassi dell'avvocatura, e sento dire: "questa è una panzana!.. ma quando mai , l'attore ha sempre fretta!", ma non sanno che la giurisdizione italiana è nota per l'effetto torpedine? Poi, non dobbiamo neanche esaltare il meccanismo del ricorso, perché, non era completamente insensato l'idea di affidare al giudice la determinazione della data della prima udienza. Poi il sistema del ricorso ha anche altri problemi, come accennato a suo tempo, all'utilizzabilità del sistema del ricorso ai fini della scelta del magistrato designato alla trattazione della causa.

Qui il giudice fissa l'udienza e naturalmente l'attore notificare ricorso e decreto rispettando i termini a ire, ma ben può darsi che il giudice fissi l'udienza in una data in cui l'attore non ha materialmente modo a rispettare i termini a ire, perché l'udienza è talmente ravvicinata che non è possibile notificare il decreto tempestivamente, e quindi avremmo una nullità qualificata come nullità di citazione che però non è imputabile alla parte, e si cominciò a dire che forse era meglio ricondurre la disciplina della nullità degli atti introduttivi del giudizio, e in particolare la disciplina della retroattività delle sanatorie delle nullità degli atti in giudizio, ad una diversa ratio cioè non quella della distinzione fra errori imputabili alla parte ed errori imputabili all'ufficiale giudiziario o al giudice, bensì alla distinzione fra errori impeditivi della determinazione dell'oggetto del giudizio ed altri errori, sul presupposto che quelli impeditivi della determinazione dell'oggetto del giudizio siano talmente gravi da non meritare sanatoria retroattiva, non potendo essere sanati per raggiungimento dello scopo, poiché, la costituzione tempestiva del convenuto non comporta comunque raggiungimento dello scopo dell'atto, perché non è sufficiente acconsentire, comunque l'individuazione dell'oggetto della domanda, mentre per gli atri errori, si può ragionevolmente concludere; quegli errori che consistano nell'individuazione della parte, quelli dell'individuazione del giudice adito, e così via, una sanatoria per il raggiungimento dello scopo per effetto della costituzione del convenuto, fissando eventualmente il nuovo termine per il compimento delle attività previste a pena di preclusione in favore del convenuto costituitosi magari per caso conoscendo il giorno prima della causa, però, con la costituzione del convenuto, senz'altro, si evince all'individuazione del giudice adito, all'individuazione che era lui l'avversario c'è arrivato, lo ha capito lo stesso anche se ci eravamo sbagliati a scrivere! E quindi lo scopo è raggiunto, e in questi casi, indipendentemente che l'errore sia imputabile alla parte piuttosto che all'ufficiale giudiziario, si possa ammettere l'efficacia retroattiva della sanatoria per raggiungimento dello scopo consistente nella costituzione del convenuto, e quindi, analogamente anche, l'efficacia retroattiva della sanatoria per rinnovazione dell'atto, retroattiva, cioè tale da risultare compatibile con la produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda dal momento della sua originaria, seppure viziata proposizione, anziché, dal momento della sanatoria per rinnovazione della nullità stessa. Gli effetti sostanziali della domanda sono l'interruzione e la sospensione della prescrizione, nel senso che non solo si produce l'effetto interruttivo, ma il nuovo periodo comincia a decorrere dal giudicato ed è sospeso il ricorso della prescrizione per tuta la durata dello svolgimento del processo a meno che, si estingua. (effetti sostanziali della domanda: provvedimenti ultrattivi, caducazione generale altrimenti degli atti, sopravvivenza dell'effetto forse impeditivo della decadenza, senz'altro del mero effetto interruttivo della prescrizione, caducazione dell'effetto interruttivo sospensivo, impedimento della decadenza, l'obbligo di restituzione dei frutti del possessore di buona fede) questi un po' di effetti sostanziali della domanda, tutte manifestazioni del principio per cui, la durata del processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione. Cosiccome la disciplina della probatio iurisdictionis, alienazione della res letigiosa, tutte norme convergenti nell'attuare questo principio generale.

Si discute molto, allorquando la causa introdotta mediante ricorso, su quale sia il momento esatto di proposizione della domanda ai fini della produzione dei suoi effetti sostanziali processuali, perché, quale causa introdotta con citazione in base alle regole generali, si ritiene ormai acquisito che tali effetti si producano dal momento della notificazione della citazione, a seguito, soprattutto, della teorizzazione di Chiovenda, perché un tempo, molti ritenevano che si producessero soltanto quando si fosse perfezionato il rapporto giuridico processuale attraverso il contatto fra tutte le parti di quel rapporto, cioè allorquando l'attore avesse contattato sia il giudice, sia il convenuto. Invece nel codice del '42, notificazione alla citazione quello è il momento, ma in caso del ricorso, almeno alcuni effetti si producono al momento del deposito, per altri occorre anche attendere la notificazione del ricorso del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, e cioè con riferimento all'effetto interruttivo della prescrizione, per il quadro della disciplina sostanziale del codice civile, fa riferimento alla notificazione della domanda, e alla luce della ratio della disciplina della prescrizione, disciplina che tende a proteggere il diritto della parte, a disfarsi delle prove a se favorevoli dopo un certo periodo di tempo, e che quindi deve operare con riferimento alla conoscenza del contenzioso da parte della parte interessata. Casomai, potendosi, in riferimento della decadenza come disciplina diretta, invece, a far gravare sulla parte interessata un onere di tempestiva attivazione che si può ricollegare al deposito del ricorso, potendosi lo stesso, qualificarsi appunto come iniziativa sufficiente a manifestare la volontà di attivarsi a difesa della posizione sostanziale da parte dell'attore. La prescrizione protegge soprattutto il convenuto, e quindi l'interruzione opera dal momento della notifica, la decadenza, soprattutto è un onere fatto gravare sull'attore che si definirebbe dal deposito. In questo tema molte posizioni si battono, e molta diffusa è l'idea che nei casi di ricorso gli effetti sostanziali si producano con la notificazione e gli effetti processuali, come perpetuatio iurisdictionis, litispendenza, cioè per la proposizione della domanda innanzi ad altro giudice ex art. 39, si producano dal momento del deposito del ricorso stesso, però questa distinzione è troppo meccanica e convince poco, e quindi questo riferimento alla distinzione tra effetti sostanziali e processuali non è molto convincente sul piano dell'analisi della rationes della disciplina più forte, preferisco quella a secondo dell'effetto distingue alla luce della ratio di quella norma che produce quell'effetto stesso.

Ma torniamo alla riforma dell'art. 164, cioè della riforma tra vizi sanabili per il raggiungimento il fine dello scopo a seguito della costituzione del convenuto e vizi rispetto ai quali la costituzione del convenuto non può comportare sanatoria per il raggiungimento dello scopo.

Così riformulata la disciplina dei vizi degli atti introduttivi del processo, dobbiamo ritenere che debba reintegrarsi coerentemente anche la disciplina dell'ipotesi di rimessione al primo giudice? E che quindi, tale rimessione debba disporsi, oltre che nei casi di nullità della notificazione della citazione, anche nei casi di nullità della citazione, perlomeno in quelle ipotesi in cui i vizi afferiscano alla vocatio in ius? E possano essere quindi sanati retroattivamente come suggerisce la soluzione al primo giudice che consente quanto meno la conservazione degli effetti della domanda proposta nel giudizio di primo grado? Alcuni l'hanno sostenuto, però, anche qui potremmo dire che la riforma del '90 avrebbe potuto prevedere anche la modifica dell'art. 354 e non lo ha fatto.

In altre ipotesi abbiamo visto ora parlando del problema della riforma delle sentenze dichiarative dell'estinzione, capita che dinanzi a pregiudizi analoghi per la parte soccombente impugnante, in alcuni casi sia rivisto la rimessione al primo giudice e in altri no, senza che sia possibile individuare una reale ragione della distinzione, sicché, pare automatico concludere, che appunto, l'individuazione dei casi di rimessione è assolutamente arbitraria, e proprio per questo, non suscettibile di alcuna applicazione ne analogica ne estensiva, e quindi che soluzione dobbiamo adottare nell'ipotesi di nullità di citazione? Se si tratta di nullità riferibile alla vocatio in ius, a questo punto sembra naturale ammettere che la rinnovazione possa essere disposta direttamente dal giudice d'Appello e possa condurre quindi, alla pronuncia anche di una sentenza di accoglimento della domanda nel merito da parte del giudice d'Appello, previa rinnovazione dell'attività d'istruzione probatoria validamente compiuta in primo grado, anche quando ovviamente, il convenuto siasi costituito soltanto nel giudizio d'appello, o addirittura, ancora, se è rimasto contumace nel giudizio d'appello, in quanto, in questi casi, il diritto positivo non attribuisce alla parte il diritto a conseguire un nuovo esame della controversia da parte del giudice di primo grado, e dato che il diritto positivo non lo prevede non ci sono ragioni per introdurlo  in via interpretativa.

Diverso è il discorso da farsi nell'ipotesi in cui il vizio concerna l'edictio actionis, perché qui la possibilità di sanarla tramite attività da compiersi direttamente in grado d'appello, appare esclusa dall'interpretazione, non già dall'invocazione di un generico principio del doppio grado del giudizio, ma dall'invocazione specifica della norma contemplata dall'art., che appunto, inequivocabilmente esclude la proposizione di nuove domande in grado d'appello, dovendosi qualificare chiaramente la domanda che per la prima volta venga effettuata e individuata in tale sede, come tale domanda in tale sede nuova, e quindi inammissibile, sicché, in questa ipotesi il giudizio deve concludersi necessariamente con sentenza assolutoria dell'osservanza del giudizio del convenuto.

·    La Cassazione

Per molto tempo, l'umanità ha pensato che per due punti passasse una e una sola retta, però non è così, esistono anche geometrie non euclidee, per cui per due punti di retta non ne passa neanche una o magari ne passano più d'una, dico questo come ad una domanda che dovremmo porci parlando della Cassazione. Per un caso esiste una e una sola soluzione giusta o almeno una e una sola soluzione conforme alla legge? È un bel quesito, perché, compito della Corte di Cassazione è quello previsto dall'art. 65 ord. giud., che assicurare l'esatta uniforme applicazione della legge, e sovente si contrappone il ricorso per Cassazione ai mezzi di gravame dicendo che quello è proposto ad assicurare la legalità delle decisioni e questi ad assicurarne la giustizia.

Proviamo a capire cosa si cerca di intendere con queste formulazioni, prendendo le mosse da una questione abbastanza sottile! Come ricorderete le pronunce del giudice di pace, pronunciate secondo equità sono ricorribili per Cassazione, e quando il giudice di pace pronuncia secondo equità, si tratta di un'equità sostitutiva e non meramente integrativa, sicché, il giudice di pace nell'applicare l'equità, ben può disapplicare norme di legge, anzi, è normale che ciò accada, perché si dice, la giustizia di equità è giustizia del caso concreto, mentre l'applicazione della legge prescinde dal tener conto dei dettagli della fattispecie, ed invece una sensibilità emendativa che tende all'esigenze del caso concreto si considera irrilevante. E allora perché consentire il ricorso in Cassazione? Per verificare che la decisione presa secondo equità non applica direttamente le norme di diritto? Appunto è ciò che deve fare! In realtà esiste una maniera per giustificare il ricorso per Cassazione nei confronti di queste pronunce concludendo che il controllo della Cassazione da soltanto su particolari aspetti, per esempio; la norma che autorizza il giudice di pace a decidere secondo equità è norma di legge, e quindi, la sua applicazione è controllabile in Cassazione, sicché la parte soccombente è in tempo a ricorrere sostenendo che il caso deciso secondo equità non rientrava fra quelli che secondo la legge potevano essere decisi in quella maniera; e poi ancora! Il giudice autorizzato a decidere secondo equità, ma non a procedere secondo equità, sicché per eventuali violazioni di norme processuali compiute nel giudizio dinnanzi al giudice di pace, sono denunciabili in Cassazione senza che frustri il potere attribuito al giudice di pace di decidere secondo equità. E poi ancora! La norma che conferisce al giudice il potere di decidere secondo equità, è norma di legge ordinaria, pertanto, vuol giustificare la disapplicazione di norme di legge ordinarie, ma giammai la disapplicazione di norme costituzionali, sicché, anche l'eventuale violazione di queste può essere denunciata in Cassazione.

Più problematica è l'ipotesi, che alcuni conurano, secondo cui la Cassazione potrebbe controllare se la decisione equitativa del giudice è stata abbastanza equa, perché è problematico questo? Perché, è appunto, la regola di equità, la regola di un caso concreto, di un caso particolare, che tiene conto di dettagli, mentre il controllo della Cassazione dovrebbe essere un controllo passibile di generalizzazione, e prescindere dal dettaglio, che assicura un'interpretazione della legge e che abbia caratteristiche di esattezza e anche di uniformità di generalizzabilità della decisione, sicché se si concedesse alla Cassazione di elaborare una giurisprudenza equitativa la cui applicazione possa invocarsi ai fini dell'annullamento delle pronunce del giudice di pace, allora si, frustreremmo l'intento che si voleva perseguire attribuendo al giudice di pace poteri di decisione negativa.

Consideriamo un altro aspetto! Quello che riguarda il rapporto tra il riesame dell'applicazione delle norme giuridiche e il riesame del fatto, talché si dice che la capacità dell'appello di porre rimedio alle ingiustizie delle decisioni, dipende dalla circostanza che il giudice d'Appello possiede un proprio potere di libero apprezzamento, quindi di nuova, libera, seppure prudente, comunque portando un certo grado di libertà alla capacità di apprezzamento delle risultanze probatorie che sarebbe invece sottratta alla Cassazione, il cui apprezzamento delle risultanze probatorie deve essere compiuto su base esclusivamente documentale.

Alle opposte valutazioni delle risultanze probatorie, non è sufficiente dire che una delle due è ingiusta, occorre dire anche che una delle due sia illegittima e più in generale la contrapposizione tra questioni di rito e questioni di fatto, e soprattutto se la si osserva in chiave atistica, rivela avere sul piano ontologico scarsa tenuta a prescindere dai dubbi che si possono porre su delle ricostruzioni filosofiche e che ancora hanno per gara questa distinzione, la classica analisi di Sall sulla distinzione fra fatti bruti e fatti istituzionali, comunque, ci accorgiamo che la distinzione tra fatto e diritto ricorre in vari ordinamenti, ma non è sempre uguale, perché, per esempio negli ordinamenti di common law tende a ricalcare la ripartizione dei poteri fra il giudice e al giuria, sicché si dice, che la giuria è il giudice del fatto, ma ciò che la giuria compie è un giudizio che comprende anche aspetti di connotazione giuridica, perché la giuria non si limita a dire che Tizio ha sparato a Caio, ma Tizio è colpevole di omicidio. Su questo c'è un episodio storico volendo abbastanza simpatico da ricordare e consente di spiegare cosa ci sia dietro all'idea di costruire un organo di vertice dell'autorità giudiziaria preposto al controllo di mera legittimità delle decisioni.

Ci sono due aspetti informatori di questo tipo di istituto! Un aspetto è schiettamente organizzativo. Dal momento in cui si prevede che gli organi preposti all'amministrazione della giustizia siano organizzati secondo un modello gerarchico piramidale, reclutati per una carriera burocratica sin da giovane età, una carriera che si svolge attraverso una progressione lungo i gradini della gerarchia dell'amministrazione della giustizia, succede che ovviamente siano molto numerosi, i soggetti preposti a difendere una prima decisione impugnabile, ma man mano che si sale i gradini della gerarchia i magistrati diventano sempre meno numerosi al vertice della piramide, però, devono riesaminare tutte le decisioni e se un gruppo ristretto deve riesaminare tutte le decisioni di un gruppo di persone molto più ampio, ha una sola possibilità per non affogare e per tenere il passo del loro lavoro, e questa possibilità è compiere l'attività di controllo nella maniera più possibile standardizzata, nel creare il più possibile una routine, e questo sistema, si rafforza, per cui, coloro che sono posti ai gradini più bassi e che magari, per fare carriera, si adeguano al sistema e fanno in modo di rendere le loro decisioni, anche loro in maniera più possibile standardizzata per facilitare il riesame nel senso di renderlo più veloce e naturalmente questo implica, poi che la standardizzazione serva anche a loro a conservare dei margini di discrezionalità non controllabili, sicché alla fine l'esperienza detta che è più utile al soldato l'amicizia del maresciallo che quella del generale, attraverso le tecniche di qualificazione e inquadramento della fattispecie che molto, in realtà, riesce per sfuggire alla possibilità di legittimità , e a sua volta, l'esame di legittimità investe tutte le decisioni, ma in modo standardizzato e in questo senso si capisce perché nell'analisi dell'esperienza storica, gli studiosi italiani del processo civile che, in particolare Piero Calamandrei, costruirono il modello di Cassazione, riuscirono ad estrapolare l'idea, che la Cassazione svolgesse non solo il compito di assicurare un'interpretazione esatta della legge , ma anche un'interpretazione uniforme, cioè generalizzata standardizzata, non legata alle peculiarità del caso concreto, ma a quelle peculiarità che non siano destinate a ripetersi, a ripresentarsi nella generalità delle fattispecie ripetibili.

L'idea nella fase di applicazione esatta della legge, risponde in larga misura ad un'ideologia illuminista, all'idea che la generalizzabilità della soluzione dell'interpretazione giuridica assicuri l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sul presupposto che l'analisi seria si rivela infondato e fallace a cui si è a lungo creduto, che l'attività dell'applicazione della legge possa avere caratteri di meccanicità, il giudice possa essere una bocca della legge che applica meccanicamente, attraverso la tecnica della sussunzione, cioè che riporta una determinata fattispecie nel caso generale previsto da una norma di legge, una norma chiara a fatti ben identificati.

Quindi siamo più scettici nei confronti dell'idea che l'interpretazione della legge possa essere esatta e una e una sola possa essere l'interpretazione esatta, e quindi, ancor più scettici dell'idea che l'interpretazione della legge possa essere contemporaneamente esatta ed uniforme addirittura.

Tuttavia, questo non ci deve indurre a sottovalutare  che l'esercizio della funzione nomofilattica della Cassazione può svolgere nel rendere conoscibili e relativamente più prevedibile l'interpretazione della legge da parte di singoli tribunali, in tanto in quanto, dovrebbe questa, risultare conforme agli orientamenti della Corte di Cassazione e anche, può svolgere utilmente una funzione evolutiva dell'interpretazione, che pure può essere utile quando guidata da magistrati esperti. Questa riflessione ci fa capire perché, questo modello incontri molte difficoltà e in questi anni, si sia andato in misura crescente annacquando, sicché, oggi, lo svolgimento di funzioni nomofilattiche da parte della Cassazione è in larga misura inadeguato, e questo accade non soltanto perché il modello cosiddetto puro di Cassazione è stato in larga misura snaturato, perché, probabilmente, più di tanto un certo modello non può dare, per cui, l'esperienza dell'informazione autoritativa dell'orientamento giurisprudenziale attraverso la redazione delle "massime", finisce per suggerire un'idea di una Cassazione animata da molti più contrasti di quanti ve ne siano effettivamente, per paradosso, e vediamo un pochino perché!

Un modello puro di Cassazione dovrebbe prevedere, non soltanto che dinnanzi alla Corte di Cassazione non si svolga istruzione probatoria, e la Cassazione non pronunci mai comunque sul merito della causa, che la Cassazione non rivaluti i fatti di causa sulla base di diverso apprezzamento delle risultanze probatorie, ma a monte, addirittura, richiederebbe che il ricorso alla Cassazione sia possibile solo per violazione di leggi, intendendosi solo la violazione della legge sostanziale, cioè quel tipo di ricorso che rinveniamo nel n. 3 dell'art. 360, dovrebbe essere l'unico, modello puro di Cassazione a poter essere utilizzato.

Già, la circostanza che si possano far valere oltre ai cosiddetti errores in iudicando, anche gli errores in procedendo, è chiaro che sul piano teorico si può giustificare, che c'è comunque sempre un error in iudicando de iure procedendo, eppure già comporta che il modello puro sia un po' snaturato e ancor più, questo modello estremo lo è diventato a seguito dell'affermazione della giurisprudenza sulle cosiddette sentenze in senso sostanziale, su provvedimenti a contenuto decisorio aventi forme diverse da quella della sentenza, che ha finito per trasformare la garanzia del ricorso per Cassazione un effetto della previsione dell'art. 111 della Costituzione della garanzia del diritto al controllo di legittimità sulle decisioni, la garanzia del controllo in Cassazione è diventata da una garanzia dell'ordinamento, a una garanzia soggettiva spettante alle parti, tale da far si che, il numero dei ricorsi, sia divenuto enorme ativamente rispetto a quanto accade nelle corti supreme degli ordinamenti simili al nostro, in cui può capitare che vengano rese anche centinaia di sentenze all'anno. Ma da nessuna parte si arriva alla situazione italiana, in cui è fisiologico, che la Cassazione civile renda più di 10000 sentenze, ed è più facile che abbiano la forma dell'ordinanza anziché della sentenza, o meglio, possiamo dire più di 10000 provvedimenti all'anno vengono definiti dalla Cassazione.

Questo naturalmente ha reso necessario riforme legati ai pubblici organici, forte incremento degli organici l'articolazione della Cassazione in numerose sezioni, che ha favorito la diffusione di contrasti di giurisprudenza diacronici e persino sincronici, cioè di interpretazione di diritto diametralmente opposti e resi, magari, nello stesso giorno da diverse sezioni della cassazione e addirittura dalla stessa sezione composta da magistrati diversi.

Questi contrasti poi, addirittura compaiono essere persino più di quelli che sono realmente, perché, seguendo l'ideologia, più che l'ideologia del giudice che invoca la legge interna che è automatico e meccanico della stessa, si è affermata la prassi della giurisprudenza per massime, cioè del dire a secondo cui il teso di legge interpretato dalla giurisprudenza, altro è che un testo di legge più dettagliato, e quindi si risolve nella formulazione di una massima, ma, in realtà, la Cassazione è diventata un organo per fare giustizia in ogni controversia, per conferire giustizia ad ogni cittadino interessato, la Cassazione finisce per cercare, e lo fa volentieri, di fare giustizia del caso concreto.

In questa giustizia del caso concreto, viene poi riassunta in queste massime, a volte in modo ancor più contraddittorio di quanto sia realmente, nel senso in cui le decisioni appaiono in contrasto, non sono realmente in contrasto se si va ad esaminare la concreta fattispecie decisa, la fattispecie concreta è stata definita diversamente perché c'era una rilevante particolarità che giustificava una decisione diversa, ma per spiegare questa particolarità non è sufficiente una massima, è necessario scrivere una inetta! Ed ecco che, appunto, la capacità di sintetizzazione generalizzante nelle regole giuridiche applicate in sede di interpretazione si forma ampliato ai margine del suo potere di controllo, persino al di la di quanto gli consentisse la legge per estendere le sue funzioni di organo della giustizia nel caso concreto, per esempio attraverso la qualificazione dei fatti come fatti processuali anziché sostanziali. Si dice tradizionalmente che la Cassazione non riesamina il fatto, intendendosi con ciò il fatto che ha dato origine alla controversia, e questo divieto del riesame del fatto, è coerente con l'impossibilità di svolgere istruzione probatoria, ma finisce per essere anche delimitato da questo limite, per cui, si dice che questa regola non vale per i fatti processuali, perché i fatti processuali sono documentati dal verbale del fascicolo di causa e su di essi non ha senso svolgere istruzione probatoria e quindi di tali fatti la Cassazione conosce direttamente.

Ma se ricordate di quando abbiamo parlato di azioni in senso astratto e azioni in senso concreto, succede che una questione come quella della legittimazione passiva, a seconda se si segua una concezione dell'azione in senso astratto e in senso concreto, può essere qualificata come una questione di rito, o come una questione di merito nel senso che il difetto di titolarità passiva dell'obbligazione si traduce in un difetto di legittimazione passiva come condizione dell'azione in senso concreto, questione senz'altro di merito. Si qualificherebbe come questione di rito soltanto se questo difetto di illegittimazione passiva emergesse dalla stessa prospettazione attoria, difettando in questo caso una condizione dell'azione in senso astratto.

Ebbene! Può capitare, che la Cassazione profittando della circostanza che il difetto di legittimazione passiva si possa conurare come condizione dell'azione in senso astratto, e quindi come questione di rito, venga dichiarato anche quando si tratti di difetto di titolarità passiva, emanando una sentenza che formalmente è sentenza di rito di Cassazione senza rinvio, ma in reasltà, è decisa su presupposti, che sono presupposti della sentenza di merito.

Ancora più eclatante è il fenomeno della cosiddetta cessazione della materia del contendere, perché questa può trovare origine in fatti quali ad esempio, la morte della parte in un giudizio di divorzio ovvero, dice sovente la giurisprudenza, in atti abdicativi della parte attrice, sicché, si tende a dire per esempio che sopravvenuta una transazione fra le parti, nelle more del procedimento di legittimità successivamente alla proposizione del ricorso, il documento attestante il l'intervenuto accordo delle parti, può comunque essere acquisito a giudizio in quanto, inciderebbe su un fatto processuale e cioè sulla sussistenza dell'interesse ad agire della parte ricorrente e la Cassazione poterebbe, ben appunto, tenerne conto per pronunciare di nuovo la sentenza di Cassazione senza rinvio della decisione impugnata, sul presupposto che, se la cassazione non tenesse conto di questa vicenda transativa, pronuncerebbe una decisione nata morta, perché, l'efficacia dell'accordo transativo in tanto in quanto non deducibile nel giudizio, prevarrebbe sul risultato del giudizio stesso per essere dal punto di vista giuridico cronologicamente successivo allo stesso, in applicazione dei principi dei limiti cronologici dell'efficacia del giudicato. Strano! Ma anche in questo caso, la Cassazione rende una decisione che si basa su di un fatto che in realtà è una forzatura, considerare processuale, dal momento in cui si è introdotta una distinzione fra fatti processuali e fatti sostanziali che è giustificata dalla circostanza che i fatti processuali siano conosciuti a verbale, perché quella transazione non è conosciuta a verbale, e in realtà quella transazione, è un fatto sostanziale non processuale, che di fatto, più corretto sarebbe giungere ad una decisione che abbia esplicitamente le caratteristiche di una pronuncia sul merito della causa, e quindi sia idoneo a produrre gli effetti di un giudicato sostanziale, eventualmente recependo il contenuto dell'accordo transativo, in tanto in quanto si ritenga di poterne conoscere.

La Cassazione estende i suoi poteri di riesame attraverso la teoria, affermatasi recentemente, secondo cui è questione di diritto quella relativa all'applicazione delle cosiddette clausole generali, come la regola della buona fede, sicché, rientrerebbe nei poteri della Cassazione accertare se un certo comportamento, qualificato come un comportamento di buona fede dal giudice di merito, ossa essere ritenuto di buona fede, e anche qui, si dice chiaramente, ai giudici di Cassazione a fare più giustizia di quanto la legge richieda da loro, in quest'ottica si deve anche capire, che finiamo ad non avere più, n realtà, un'efficace guida interpretativa, talché, lo stesso legislatore in qualche modo, è convito di questa trasformazione. Si pensava alla questione dell'interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di lavoro del pubblico impiego. Tradizionalmente si dice, si può denunciare per violazione la falsa applicazione di norme di rito la sentenza che disapplichi norme provenienti da fonti del diritto e non solo le leggi, ma anche le norme consuetudinarie, le norme di diritto straniero sul presupposto che in particolare, a seguito dell'espressa introduzione del potere ufficioso di disporre l'acquisizione di pareri per l'accertamento del contenuto del diritto straniero da applicare alla fattispecie, si debba, il diritto straniero applicabile in forza delle norme di diritto internazionale privato, non già come fatto ma come diritto, però, per quel che riguarda le norme dei contratti, può denunciarsi in Cassazione tuttalpiù,  la libazione delle norme che regolano l'interpretazione del contratto, trattandosi, in questo caso certamente di norme di diritto, ma non la diretta violazione delle norme contrattuali, posto che l'accertamento del loro contenuto, e questione di fatto e con la cui risoluzione  è riservata al giudice di merito, e però, con l'eccezione, che c'è sempre stata per contratti collettivi, che si soleva recepire in DPR, cioè contratti collettivi del pubblico impiego, che in quanto recepiti, appunto, in DPR, assumevano caratteristiche di norme di predilezione della giurisprudenza della Cassazione.

Ancora! In quella direzione è la riforma che ha introdotto la possibilità per la Cassazione di pronunciare sul merito della causa in particolari occasioni, cioè quando la sentenza sia viziata soltanto da un errore in iudicando e non occorrano ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell'art. 384 novellato.

Nelle riforme della Cassazione civile, poco è stato fatto in realtà, per ripristinare la funzione puramente nomofilattica, tutto sembra andare nella direzione della trasformazione del giudizio di Cassazione in un giudizio di revisione, restando alla fine, fermo, soltanto il divieto di procedere ad istruzione probatoria e qualche implicazione di questo divieto. Lo si è visto, anche nel delicato dibattito in tema di controllo sulla motivazione della sentenza, perché il controllo della motivazione, si riduce, fortemente a compiere surrettiziamente un riesame di fatto. Un esempio lo abbiamo visto quando abbiamo parlato del grado di certezza della presunzione necessario per giustificare l'accertamento del fatto. Le oscillazioni giurisprudenziali nell'interpretazione del requisito della certezza, cioè la circostanza che a volte la Cassazione ritenga sufficiente una buona probabilità e a volte richieda la certezza assoluta, sembrano essere, in realtà, strumento attraverso i quali la Cassazione decide sulla base del riesame del fatto, senza dirlo! Il controllo sulla motivazione è quello che più si presta, perché, poi ricordiamo, il controllo sulla motivazione in Cassazione riguarda esclusivamente gli aspetti attinenti all'accertamento del fatto. La circostanza che la motivazione della sentenza sia folle e delirante, sul piano del diritto è completamente irrilevante, cioè non è motivo della cassazione della sentenza, lo si desume dalle disposizioni che prevedono, che laddove il dispositivo sia conforme al diritto, la Cassazione si limiti a correggere la motivazione, norma questa che può applicarsi, soltanto alle ipotesi in cui la motivazione non tiene dal punto di vista delle considerazioni giuridiche, perché, se non tiene dal punto di vista del ragionamento giuridico, ma tiene dal punto di vista dell'accertamento del fatto, allora e solo allora, si può verificare che almeno il dispositivo sia conforme al diritto, e naturalmente, se il dispositivo non è conforme al diritto, la Cassazione cassa a prescindere dall'illogicità della motivazione, perché è già sufficiente la circostanza che si ha contrario al diritto dispositivo.

Se il dispositivo è conforme al diritto, ma la motivazione è sballata sul piano giuridico la Cassazione può correggere la motivazione, ma se la motivazione è insufficiente o contraddittoria sul piano dell'accertamento del fatto, la Cassazione non è in grado di stabilire se il dispositivo sia, o meno, conforme al diritto, ed allora in questo solo caso che la Cassazione cassa esclusivamente per vizio di motivazione.

In varie occasioni, soprattutto una decina di anni orsono, si pensò di limitare il controllo della Cassazione sulla motivazione e sul presupposto che in realtà, la mera illogicità della motivazione in tema di accertamento del fatto di per se non comportasse nullità della sentenza, sicché, il controllo doveva ritenersi eccessivo rispetto alle esigenze di assicurare un controllo di legittimità della decisione, e tale orientamento, è stato in qualche modo recepito dalla giurisprudenza della Cassazione, laddove, essa afferma che ai fini del ricorso straordinario per Cassazione, ex art. 111 della Costituzione, cioè di quel ricorso che si può promuovere esclusivamente per violazione di legge, possa denunciarsi soltanto l'omissione della motivazione direttamente determinativa della nullità della sentenza, ma non anche la sua mera illogicità.

Tale conclusione, però, qualche perplessità la desta, a meno per chi ritenga, come me, che l'accertamento del fatto non sia arbitraria, ossia del tutto liberante, e quindi, sia riesaminante, sia pure senza provvedere a nuova istruzione probatoria appunto attraverso il controllo sulla motivazione. Il n. 5 dell'art. 360, non è stato abrogato anzi è rimasto in vigore, nonostante che su una diffusa ancorché infondata opinione, esso contribuisse allo snaturamento delle funzioni propriamente nomofilassiche nel giudizio di Cassazione.

Vorrei far seguire un'analisi esegetica delle disposizioni in materia, cioè quali elementi sono impugnabili per Cassazione? Sono le sentenze pronunciate in grado d'Appello in un unico grado, ove si aggiunge eventualmente l'ipotesi del ricorso omissio medio, come si dice, ed è un ipotesi priva di applicazione pratica in cui le parti siano d'accordo per omettere l'Appello, una cosa che no succede mai! E poi i provvedimenti a contenuto decisorio, ex art . 111 Costituzione, e quindi i provvedimenti che incidono sui diritti soggettivi che sono ne revocabili, ne modificabili e nemmeno impugnabili, e quindi, dobbiamo escludere tutti quei provvedimenti di carattere ordinatorio che incidono esclusivamente su situazioni soggettive a contenuto processuale, i provvedimenti cautelari perché sono revocabili e modificabili,  i provvedimenti sommari strutturati sul modello della tutela monitoria come il decreto ingiuntivo, perché, sono altrimenti impugnabili, cioè impugnabili tramite opposizione, e ogni provvedimento di volontaria giurisdizione sul duplice presupposto che del verso non incida su diritti soggettivi, quindi con i dubbi che si pongono quando, invece incidano, e che siano revocabili, con i relativi dubbi, quando risulti che siano revocabili solo per fatti sopravvenuti o che la loro revocabilità di fatto lasci sprovvisto di tutela il titolare della pretesa.

Quali sono i motivi di ricorso per Cassazione? Motivi aderenti alla giurisdizione, salvo che si sia formato un giudicato all'interno, anche implicito sulla questione, che può formarsi tutte le volte che si sia formato un giudicato parziale sul merito, e aggiungiamo che questo è l'unico motivo di ricorso proponibile contro le sentenze del Consiglio di Stato della Corte dei Conti; poi ci sono motivi alla competenza salvo che sia necessario il regolamento di competenza, cioè salvo che la sentenza abbia pronunciato solo sulla competenza, sempre purché, non si sostenga che la pronuncia sulla competenza era avvenuta in violazione del sistema delle preclusioni a rilievo della questione di competenza, nel qual caso non è necessario il regolamento di competenza, anzi la sentenza è impugnabile solo nei modi ordinari ancorché abbia pronunciato soltanto sulla competenza; poi c'è la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto che comprende anche la violazione di norme di diritto straniero intanto in quanto, applicabile alla fattispecie, i regolamenti amministrativi con efficacia interna, mentre per i contratti occorre fare il discorso sui limiti alla denunciabilità della violazione di norme dei contratti fatta eccezione peri i contratti collettivi del pubblico impiego. Si può denunciare la violazione di norme di diritto sopravvenute? Si! Perché non si è ancora formato il giudicato! Ricordate il discorso sulla questione se il giudicato possa formarsi, laddove il legislatore lo voglia, anche in pendenza del termine per ricorso in Cassazione? Il legislatore potrebbe scegliere questa soluzione, ma non lo ha fatto! La proponibilità del ricorso per in Cassazione per il rinvio del passaggio in giudicato della sentenza, e quindi, è senz'altro applicabile in Cassazione lo ius superveniens. Se così non fosse, sarebbe applicabile solo quello di un superveniens che consiste in declaratoria di illegittimità costituzionale, mentre ci dovremmo porre seriamente il dubbio per un superveniens di altra natura. Ovviamente questo non è possibile deporre lo ius superveniens, se per dedurlo occorre introdurre in Cassazione questioni nuove, poiché questioni nuove in Cassazione possono introdursi se, e solo se, sono rilevabili d'ufficio, quindi se si tratti di questioni inerenti al rito rilevabili d'ufficio, certamente si può introdurre lo ius superveniens, anche se la questione non è mai stata posta in precedenza, anzi, perché se posta in precedenza, o c'è l'impugnazione o si forma un giudicato preclusivo della deduzione della questione in Cassazione, se non è mai stata posta ecco che possiamo dedurlo e, naturalmente possiamo dedurlo se è stata decisa e impugnata tempestivamente.

Poi, la nullità della sentenza, tipico errore in procedendo, la norme allude alla nullità della sentenza o del procedimento, naturalmente la nullità del procedimento possono dedursi in Cassazione in tanto in quanto, si riflettano sulla sentenza che non le dichiari. Si discute se queste nullità debbano qualificarsi come nullità per derivazione della sentenza, ovvero, considerando la sentenza come un atto che trova in se stesso la fattispecie costitutiva dei propri effetti, e quindi, non patisce la nullità per derivazione, qualificandole, piuttosto, come errori in iudicando de iure procedendo, dal punto di vista teorico, in realtà, probabilmente questa seconda qualificazione è più attendibile, per vizio della motivazione su di un punto decisivo della controversia, ovviamente deve trattarsi di un punto attinente la ricostruzione del fatto, inoltre, più discutibilmente, si dice di solito, relativamente ad un fatto principale. A dire il vero, che il fatto sia principale, cioè di un fatto direttamente produttivo di effetti giuridici, in quanto strumento per la ricostruzione dell'accertamento della sussistenza di un fato principale, non vuol dire che solo esso sia un fatto decisivo, in realtà, anche la ricostruzione di un fatto secondario più risultare decisivo per la causa, e quindi anche l'accertamento di un atto secondario, cioè di un fatto in base al quale si accerti la sussistenza o meno di un fatto principale, potrebbe avere carattere decisivo e anche la motivazione su di esso dovrebbe poter essere controllata, almeno così dice la dottrina più attenta.

Il carattere decisivo è proprio, più che latro, del fatto, non in quanto principale o secondario, ma in quanto un suo diverso accertamento possa implicare con certezza o con ragionevole probabilità, una diversa risoluzione della controversia viziata la motivazione che sia, anzitutto omessa, è chiaro che nell'applicazione è raro che la motivazione sia completamente omessa. I problemi pratici si possono porre rispetto al caso della motivazione per relationem e della motivazione implicita, va detto che la giurisprudenza è molto lassista nell'ammettere motivazioni d carattere implicito come anche pronunce di carattere implicito, rispetto alla motivazione per relationem, si è più consolidato il principio nel senso che occorre che il giudice d'Appello per far fronte alla motivazione già redatta dal giudice di primo grado dimostri di aver tenuto conto delle critiche rivolte alla sentenza dalle parti con l'impugnazione, lasciandolo però libero di fare largamente riferimento alla motivazione già redatta in primo grado.

Viziata, poi la motivazione insufficiente e tale si qualifica quella che si ha ambigua perché generica, e ancora, la motivazione contraddittoria, il cui esempio più eclatante è quello della contraddittorietà con il dispositivo che a volte si presenta, soprattutto nel diritto del lavoro.

Le proposte di abrogare il controllo sulla motivazione hanno avuto scarso successo anche ritenendosi che avrebbero avuto una scarsa portata deflativa perché sono molto poco numerosi i ricorsi che si basino esclusivamente sul vizio della motivazione, si è seguita una strategia diversa e cioè quella di alleggerire gli oneri di motivazione della sentenza, sul presupposto che in particolare, nel settore della giustizia civile, la difficoltà di relazione della motivazione sia causa di dilazione, perché i requisiti sono requisiti di completezza della motivazione richiedono notevole dispendio di tempo, sicché,  una disposizione come l'art. 184 bis trova il suo senso esclusivamente nella circostanza che alleggerisce l'onere della motivazione in capo al giudice, perché l'art. 184 bis consente all'apertura dell'istruzione di ottenere l'accoglimento della domanda con ordinanza, con un provvedimento quindi, che può essere motivato succintamente, e si tratta di pronuncia di una sentenza vera e propria e di impugnare direttamente l'ordinanza. Entrambe le parti, in questa logica, l'una esplicitamente, l'altra implicitamente, e cioè l'attore nel formulare l'istanza diretta a conseguire il provvedimento anticipatorio, rinuncino ad ottenere un provvedimento compiutamente motivato. Sembra  che non c'è più problema per nessuno, ma qualche perplessità si può conservare, perché non è detto che la motivazione si redatta esclusivamente nell'interesse delle parti, c'è anche il loro interesse, perché per lungo tempo si è considerato, la motivazione, come uno strumento diretto a favorire l'impugnazione in un contesto come il nostro, di ordinamento giudiziario fortemente gerarchizzato, per cui, appartiene alla formalità delle ipotesi che la sentenza venga soggetta a riesame dinnanzi all'autorità giudiziaria gerarchicamente sovraordinata, è la motivazione è strumentale soprattutto al riesame per via documentale della decisione, e infatti l'onere della motivazione è previsto dalla Costituzione tipicamente in questo tipo di ordinamento.

Negli ordinamenti anglosassoni, cui la matrice gerarchica è molto più attenuata, in cui, addirittura, la decisione sul fatto è compiuta da una giuria di laici, non professionisti del diritto, la motivazione sul fatto della giuria, non è motivata e non si rinviene una garanzia costituzionale della motivazione, però esiste anche e si ritrova ancora, sin dai tempi della Rivoluzione Francese.

Gli elementi del ricorso; è fondamentale la questione della sottoscrizione del difensore abilitato al patrocinio presso le giurisdizioni superiori e munito di procura speciale, requisiti entrambi, ricordiamo che incidentalmente non sono invece richieste ai fini della proposizione del regolamento di competenza sul presupposto che questo, poi costituisca un mero incidente nell'ambito del procedimento di primo grado e quindi possa essere proposto dal difensore anche sulla base della procura conferita unicamente per il giudizio di primo grado. La procura speciale, invece, è richiesta, nella generalità delle ipotesi quanto, speciale deve essere per un verso, quando abbiamo parlato delle nullità, anteriore alla notificazione del ricorso, non essendo applicabile il disposto dell'art. 125 nella parte in cui consente di conferire la procura dopo la notifica della citazione, poiché in questa procura speciale tale norma non è applicabile, inoltre, posteriore alla sentenza impugnata difettando,  altrimenti questa dei caratteri della specialità, cioè del suo conferimento appositamente per il ricorso per Cassazione.

Se la procura è conferita con atto separato, ovviamente è richiesta l'indicazione della sentenza impugnata e della data, se invece conferita nel ricorso, lo stesso difensore agisce come pubblico ufficiale nell'attestare la genuinità della firma, ma non la data di apposizione della stessa, sicché, l'escamotage è stato a lungo utilizzato, quello del conferimento della procura nel ricorso per legittimare la proposizione di ricorso sulla base di procure, che in realtà sono conferite fuori dallo spazio di tempo in cui la legge lo prevede. Resta qualche perplessità nei confronti della riforma che ha voluto legittimare l'escamotage qualificando le procure apposte in calce al ricorso quelle che siano semplicemente spillate allo stesso o unite materialmente allo stesso, che non dà come darebbe invece l'apposizione in calce al ricorso prova della loro posteriorità della redazione dello stesso, anziché, come forse sarebbe stato più semplice consentire il conferimento della procura in uno spazio di tempo più ampio, se si riteneva, come pure si potrebbe ritenere, che l'accesso alla Corte d Cassazione non debba essere ostacolato dall'onere di conferire la procura in uno spazio di tempo ristretto.

Dopo la notificazione, l'avversario ha tempo 40 giorni dalla data dell'ultima notificazione, e cioè 20 giorni dalla scadenza di questo termine per costituirsi a sua volta, notificando controricorso, in mancanza non è possibile di contribuire con memorie al procedimento di Cassazione, però può ugualmente partecipare alla discussione, se non si è tempestivamente costituita.

Esclusivamente nel controricorso deve essere contenuto il ricorso incidentale, che può essere tardivo rispetto alla notificazione della sentenza, ma non rispetto alla notificazione del ricorso principale , ricorso incidentale che può essere condizionato nel senso in cui abbiamo già parlato, laddove verta su questioni pregiudiziali o preliminari sorte sfavorevolmente alla parte che sia però vittoriosa nel merito.

Non abbiamo l'omissione! Lo si è detto! L'istruzione probatoria in Cassazione! Ma questo, non vuol dire che non siano ammesse in Cassazione nuove prove, e quali sono? Esclusivamente i nuovi documenti di cui fa parola l'art. 372, cioè nuovi documenti riguardanti l'ammissibilità o l'inammissibilità del ricorso o la nullità della sentenza impugnata. Qui, il nuovo materiale probatorio ammissibile, risulta avere contemporaneamente la caratteristica di riguardare i fatti processuali, (l'ammissibilità del ricorso o del controricorso e nullità della sentenza), e di consistere in documenti che evidentemente non avrebbero potuto depositarsi, introdursi al processo in precedenza, in quanto, relativi a fatti processuali successivi alla definizione del procedimento impugnato, tuttavia, date le propensioni della Cassazione, è facile intuire che la norma viene interpretata con grande larghezza, al punto da includervi, e questa è l'ipotesi più importante, il documento che comprovi la sopravvenuta transazione tra le parti, sul presupposto che, la prova incida sull'ammissibilità del ricorso, secondo certi orientamenti, con risultato che dovrebbe essere quello a rigetto del ricorso, sul presupposto che per effetto della transazione sia cessato l'interesse ad agire della parte, salvo che poi la Cassazione quando tiene conto di queste transazioni tra le parti, in realtà, coglie il ricorso cassando la sentenza per eliminare ogni pericolo che questa sentenza sia considerata come la sentenza risolutiva della controversia, quando invece a risolvere la controversia è stata la transazione. Questa è un'interpretazione che lasci molto perplessi, anche perché, la Cassazione viene a conoscere di un nuovo fatto, che non è un fatto processuale, ma un fatto sostanziale negoziale, conosce di manifestazioni di volontà delle parti per la ricostruzione del cui contenuto dovrebbe essere ammissibile anche la deduzione di prove costituende, per la ricostruzione della volontà delle parti manifestata dal suo accordo transativo, e quindi, se ne tenga conto così facilmente lascia un po' perplessi.

Quali sono i casi in cui la Cassazione pronuncia a Sezioni Unite? Essi sono la giurisdizione, questioni di massima di particolare importanza, contrasti di giurisprudenza sono state respinte sulle legittimità costituzionali in proposito sulla parte in cui  non può consentire alle parti di replicare oralmente le conclusioni orali del pubblico ministero.

In Camera di Consiglio, invece non si tiene pubblica udienza, va invece notificati alle parti le conclusioni del pubblico ministero prima dell'adunanza in Camera di consiglio della corte, e viene fissato un termine per le memorie di replica delle parti stesse. È importante l'ambito di applicazione, perché, è stato oggetto di una recente riforma e tradizionalmente in Camera di Consiglio, un procedimento che tra l'altro è compatibile  con la composizione a Sezioni Unite della Corte e può anche capitare che la corte giudichi a Sezioni unite in Camera di consiglio; tradizionalmente prevedeva solo, oltre al caso di regolamento di competenza, solo ipotesi molto semplici da decidere, quelle di rinuncia la ricorso, l'inammissibilità dello stesso, le ordinanze di integrazione del contraddittorio e il rigetto del ricorso per mancanza assoluta dei motivi.

Ultimamente si è steso molto il procedimento in Camera di consiglio in particolare per includere oltre al regolamento di giurisdizione, soprattutto, le ipotesi di manifesta infondatezza e manifesta fondatezza del ricorso, cioè in casi in cui, si suppone esista già una buona serie di precedenti conformi sulla risoluzione della questione di diritto e quindi la Corte possa semplicemente applicare precedenti già formatisi e senza particolari problemi cercare di accogliere anche il ricorso stesso.

Particolarmente rilevante è infine la tipologia dei provvedimenti. Appunto per chiarire che si sono comprese le implicazioni sistematiche della distinzione, è importante che si distingua i casi di cassazione senza rinvio in senso stretto dai casi di cassazione senza rinvio con pronuncia del merito, perché i casi di cassazione senza rinvio  con pronuncia nel merito, ossia quando la Cassazione accoglie ricorso per applicazione o falsa applicazione di norme di diritto, non occorrono accertamenti di fatto, comporta che la Cassazione renda una pronuncia di contenuto rescissorio come tale idonea al giudicato sostanziale. I casi tradizionali della Cassazione senza rinvio, sono casi in cui almeno in linea teorica, la pronuncia della Cassazione non idonea a produrre gli effetti del giudicato sostanziale, e anzi, nessuna pronuncia della Cassazione sarebbe idonea la giudicato sostanziale, se non appunto nel caso della pronuncia del merito, ex art. 384, talché, la impugnabilità con revocazione ordinaria della sentenza di Cassazione, possibilità introdotta dalla Corte Costituzionale poi recepita dal legislatore del '90, sicché la sentenza della Cassazione che una volta si poteva tranquillamente definire non più interiormente impugnabile, può oggi essere impugnata con revocazione nell'ipotesi di errore di fatto, ossia quando la sentenza si fondi sull'esistenza di un fatto la cui inesistenza è dovuta incontrastabilmente dagli dati di causa e viceversa, e si diceva, la impugnabilità per la revocazione della sentenza di Cassazione, ha posto un problema sistematico, perché, questo motivo di Cassazione è un motivo di revocazione ordinaria. Quindi seguendo l'impostazione sistematica di Chiovenda la sua proponibilità è impeditiva della formazione del giudicato sostanziale. Però, il legislatore del '90 ha scelto di non seguire l'impostazione sistematica chiovendiana! Di rifarsi a una distinzione tra impugnazioni ordinarie e straordinarie e che non si ricolleghi in realtà ne alla reperibilità del vizio all'esame della sentenza, ne all'idoneità dell'impugnazione a produrre un effetto naturalmente costitutivo della decisione impugnata, come veniva nel pensiero di Calamandrei, ma sembra avere seguito un criterio diverso ed in alcune legislazioni pure si rinviene, e cioè di qualificare come straordinario le impugnazioni inusuali, straordinarie perché, capitano di rado, e quindi di qualificare questa impugnazione come straordinaria, pur scrivendo esplicitamente, che la proponibilità della revocazione contro la sentenza di Cassazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata per ricorso in Cassazione respinto. Perciò, se la sentenza di Cassazione è di rigetto del ricorso il giudicato si forma, ma si forma sulla sentenza d'Appello, perché è quella la sentenza che passa in giudicato e la proponibilità della revocazione nei confronti della sentenza di Cassazione che ha rigettato il ricorso,  non impedisce la formazione di questo giudicato da parte della sentenza d'Appello.

Se la sentenza di Cassazione e sentenza con rinvio  non si ha nessun passaggio in giudicato, perché la sentenza impugnata è stata cassata, e si forma, tuttalpiù, giudicato sulla fattispecie, che è giudicato del tutto sui generis costituito dal principio di diritto, ma non è un vero e proprio giudicato.

 Ma se la sentenza di Cassazione senza rinvio pronuncia sul merito, questo caso la norma non la contempla e dovremo propendere per l'ipotesi che la proponibilità della revocazione ordinaria non impedisca il passaggio in giudicato della sentenza, questa volta di Cassazione, dato che non impedisce la formazione del giudicato nell'ipotesi in cui invece sia stato rigettato il ricorso nei confronti della sentenza d'Appello, quindi la revocazione contro le sentenze di Cassazione debba anomalmente qualificarsi come impugnazione straordinaria ancorché, si fonda su vizi desumibili dalla lettura della sentenza.

Ritengo importante che si distinguano i casi di cassazione senza rinvio con pronuncia del merito, dai casi di cassazione senza rinvio tradizionali, in cui la decisione non dovrebbe essere idonea al giudicato sostanziale, salvo che i casi di cassazione senza rinvio tradizionali si possono raggruppare in tre categorie:

1.  Ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione ipotesi a cui dobbiamo ricondurre  i casi in cui si affermi la giurisdizione straniera, la sussistenza della giurisdizione del giudice straniero, e forse i casi di difetto assoluto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione, che secondo la interpretazione prevalente, sembrerebbero sussistere ancora, a dispetto dell'entrata in vigore della Costituzione, e che questo tipo di intervento di giurisdizione non abbia più cittadinanza nell'ordinamento giuridico italiano a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione.

2. Ipotesi in cui la domanda non poteva essere proposta sono quei casi in cui si produce una carenza delle condizioni dell'azione, di difetto di legittimazione ad agire o di interesse ad agire, o i casi in cui siano violate le disposizioni sull'onere del patrocinio, o in cui vi siano più vari tipi di difetto in presupposti processuali. Qui però, dobbiamo ricordarci per quanto riguarda la sentenza sulla giurisdizione che si dice spesso che non produce giudicato sostanziale, ma si ammette che produca giudicato panprocessuale, e cioè che sia invocabile in diversi giudizi, sia pure solo come sentenza risolutiva della questione di rito e quindi senza, parrebbe, vincolare la pronuncia per esempio sulle controversie dipendenti, tuttavia, è molto esiguo il margine di estendibilità degli effetti di questo giudicato dagli effetti di un giudicato sostanziale. Se io la domanda non la posso proporre perché manca la giurisdizione e nessuno potrà più contestare che manchi la giurisdizione, si ha un bel dire che questa pronuncia soltanto di rito, di fatto questa pronuncia mi impedisce la riproposizione della domanda nel modo più assoluto, mi impedisce di far prevalere la pretesa sostanziale nel modo più assoluto, e quindi su tratta di quelle sentenze che alcuni dicono "a cavallo" tra rito e merito, è uno di quei casi in cui, in realtà il controllo sulle questioni di rito è esercitato dalla Cassazione anche largheggiando nell'esercizio dei suoi poteri e finisce per tradursi su una pronuncia sul merito. Per non confondersi cassazione giudice del fatto e cassazione giudice del merito. In prima battuta vale questa regola: la Cassazione è giudice del merito se e solo se non è giudice del fatto, cioè se non occorrono accertamenti di fatto e nuove valutazioni dei fatti, per converso, a rigore, la Cassazione è giudice del fatto se e solo se non è giudice del merito, perché gli unici fatti di cui dovrebbe poter conoscere direttamente come giudice, sono i fatti attinenti al processo, attinenti al rito e quindi fatti non attinenti al merito. Ma occorre aggiungere che le questioni qualificate come questioni di rito e che si fondano su fatti che sono considerati dalla giurisprudenza come fatti attinenti al processo, in realtà sono decisioni che si fondano su fatti che non sono propriamente processuali, non sono fatti di cui si abbia prova attraverso il fascicolo di causa, ma di cui si ha prova in modi diversi, che certamente vogliono produrre effetti sul processo, però, in via secondaria, subordinata, derivata, perché principalmente producono effetti sulla situazione sostanziale delle parti.

3.  Ipotesi in cui il processo non poteva essere proseguito qui possiamo avere ipotesi come quelle in cui sia omessa la declaratoria di estinzione del processo e in questa categoria rientrano anche le ipotesi in cui il giudice d'Appello può aver dovuto dichiarare l'inammissibilità o la improcedibilità dell'Appello. Possiamo notare che in queste ultime ipotesi la cassazione senza rinvio è compatibile con la formazione del giudicato sostanziale di merito tutte le volte in cui la sentenza di primo grado è la sentenza sul merito, perché in questo caso la Cassazione cassa senza rinvio esclusivamente la sentenza d'Appello che ha pronunciato su un'impugnazione inammissibile o improcedibile, ma questa cassazione della sentenza d'Appello, comporta una caducazione dell'effetto caducatorio della pronuncia di primo grado computo dalla sentenza d'Appello stessa e quindi anche la riviviscenza della sentenza di primo grado riformata invalidamente dal giudice d'Appello, quindi in  questo caso la cassazione senza rinvio è incompatibile con la formazione del giudicato sostanziale sul merito, da parte non però della sentenza di Cassazione in questo caso, bensì, da parte della sentenza del giudice di primo grado. In tutti gli altri casi la Cassazione se cassa, cassa con rinvio.

Tipici sono i casi di cassazione senza rinvio in senso stretto e in senso lato, nella generalità delle ipotesi la Cassazione cassa con rinvio, ma anche ai fine della Cassazione con rinvio, bisogna compiere una distinzione fondamentale, cioè, i casi di rinvio prosecutorio o proprio, dai casi di rinvio restitutorio o come si dice improprio. Qui spesso i manuali non sono tanto chiari e allora diciamolo direttamente!

Abbiamo rinvio proprio se e solo se, la Cassazione cassa per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e /o vizio di motivazione, cioè se cassa per un errore in iudicando o per vizio di motivazione. In tutti gli altri casi il rinvio è improprio restitutorio.

Questa distinzione si compie perché, le regole dettate dal codice per il giudizio di rinvio si applicano integralmente esclusivamente alle ipotesi di rinvio proprio e quindi è solo in questi casi che si applicano tutte le regole per cui la Cassazione enuncia un principio di diritto la cui efficacia sopravviva all'eventuale estinzione del procedimento di rinvio; la causa è rinviata al giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza impugnata e si applica il regime di preclusioni proprio del giudizio di rinvio. In tutti gli altri casi, e cioè la Cassazione cassa per un errore in procedendo, il rinvio è improprio, in quanto, per effetto dell'accertamento dell'errore in procedendo il processo regredisce a quello stadio in cui si possa compiere la rinnovazione delle attività processuali invalidamente compiute indispensabile al fine di un valido raggiungimento di una pronuncia sul merito della causa.

In quei casi particolari in cui la Cassazione cassa la sentenza del giudice d'Appello, perché questi ha omesso di rimettere la causa al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354, la Cassazione stessa rinvia al primo giudice direttamente, ma anche in tutti gli altri casi in cui la Cassazione rinvia per errore in procedendo, il rinvio è sempre improprio e quindi in tutti gli altri casi di nullità processuali, la Cassazione, anche se la nullità processuale si  verificata sin dal primo grado, rinvia  al giudice d'Appello, perché sono casi in cui il giudice d'Appello avrebbe potuto sanare la nullità provvedendo alla rinnovazione delle attività innanzi a se e pronunciando lui sesso sentenza sul merito.

In tutti questi casi il rinvio è improprio e il regime di preclusioni che si applica è quello delle preclusioni formatesi al momento in cui si è verificata la nullità processuale determinativa della nullità della sentenza, sicché, se questa nullità è nullità di cui agli artt. 353 e 354 verificatasi in primo grado,si rinvia al primo giudice affinché dinnanzi a lui si provveda per esempio all'integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario pretermesso. In tutti i casi di nullità che non rientrino in questo elenco tassativo, e quindi, per esempio nei casi di nullità della citazione per difetto della vocatio in ius, che sono sanabili tramite rinnovazione dinnanzi al giudice d'Appello con successiva pronuncia del merito da parte di quest'ultimo, la causa è rinviata al giudice d'Appello e si applica il regime delle preclusioni così previsto per il giudizio d'Appello, e nemmeno si fa luogo all'applicazione della regola per cui la causa è rimessa ad altro giudice di pari grado a quello che abbia pronunciato la sentenza impugnata, perché nei casi di rinvio improprio è invece naturale che la causa venga rimessa o allo stesso primo giudice o a quello stesso giudice d'Appello dinanzi al quale avrebbero dovuto svolgersi le attività processuali sananti che egli ha invece omesso di far svolgere prima di rendere la sua pronuncia sul merito. Ha carattere atipico il rinvio improprio.

Sulla questione della competenza del giudice per il rinvio, si può osservare che la competenza indicata dalla Corte di Cassazione nel cassare con rinvio la sentenza, non è ulteriormente contestabile, ma in passato si riteneva che questo non implicasse l'inammissibilità del regolamento di competenza contro quella sentenza del giudice di rinvio che comunque avesse pronunciato sulla questione. Si diceva in questo caso, che se la sentenza pronuncia sulla sola competenza, questa è comunque impugnabile con regolamento e la Cassazione si limita a reiterare la propria precedente statuizione, ma col mutamento recente di giurisprudenza, secondo cui i casi di questa sorta non è più ammissibile il regolamento necessario di competenza, dobbiamo concludere che la sentenza del giudice di rinvio che si dichiara incompetente vada impugnata con i modi ordinari, e quindi con ricorso ordinario se è sentenza al giudice d'Appello con Appello se è sentenza del primo giudice.

Le preclusioni nel giudizio di rinvio proprio sono particolarmente intense, anzitutto in forza della necessità di applicare il principio di diritto che comporta anche, accertati davanti a quei termini, la decisione debba avere quel contenuto, ma non solo, l'enunciazione del principio di diritto comporta anche, lo abbiamo accennato parlando del ricorso incidentale condizionato, un giudicato implicito di rigetto di tute le eccezioni di diritto riferibili alle pregresse fasi del procedimento, sul presupposto che la Cassazione casi per errore in procedendo, i tanto in quanto non vi siano errori in iudicando che hanno carattere di pregiudizialità logica interna.

Inoltre, se la cassazione è avvenuta esclusivamente per errore di diritto e non anche per vizio della motivazione, è altresì escluso il riesame del fatto o meglio il riesame delle risultanze probatorie introdotte nei precedenti gradi del giudizio.

Inoltre, più in generale non possono prendersi, dice l'art. 394, nuove conclusioni, termine vastissimo, salvo che siano rese necessarie dalla sentenza di cassazione, pertanto dobbiamo ritenere ammissibili nuove domande in sede di rinvio solo in alcune particolari ipotesi; per esempio possiamo ammettere quelle giustificate dallo ius superveniens, non però quelle giustificate solo da mutamenti di giurisprudenza; possiamo ammettere le modifiche delle conclusioni giustificate da fatti sopravvenuti rispetto al momento in cui potevano allegarsi nelle precedenti fasi di merito, in particolare quando si tratti di fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere e cioè, in sede di rinvio, certamente senza problemi si può conoscere la sopravvenuta transazione tra le parti al fine di emanare una sentenza di merito recettiva dell'avvenuto accordo transativo; poi possono ammettersi appunto, in applicazione dell'esplicito dettato della norma quelle nuove conclusioni che derivino dalla modificazione della materia del contendere e dall'eventuale ridefinizione del rapporto sostanziale compiuto dalla Cassazione per esempio qualificando diversamente la fattispecie giustifichi una modificazione delle domande; poi, possono ammettersi le domande relative alla rivalutazione monetaria da compiersi d'ufficio, in casi come quello di cui all'art. 429 in materia di lavoro, e anche possono ammettersi senz'altro le domande relative a interessi, spese, frutti e danni maturati successivamente alla pronuncia della sentenza d'Appello, ma alla luce dell'interpretazione giurisprudenziale del problema di cui abbiamo parlato in precedenza, è plausibile che si possano ammettere solo se analoghe domande sono state coltivate nelle pregresse fasi del giudizio con riferimento al periodo di tempo intercorrente fino alla pronuncia della sentenza d'appello; e poi, ancora, quelle domande di restituzione e riduzione in pristino, restituzione di quanto conseguito in forza della sentenza cassata e riduzione in pristino in forza dell'esplicito disposto di cui all'art. 389.

Inoltre non sono ammesse nuove prove, salvo il giuramento decisorio, che è esplicitamente previsto dalla legge, da poi, e ciò in forza della garanzia al diritto alla prova rinvenibile all'art. 24 della Costituzione, e tutte quelle prove che siano relative agli aspetti fatturali delle nuove deduzioni che si ritengano ammissibili in forza di quanto dicevamo prima, quelle giustificate dalla qualificazione giuridica della fattispecie compiuta dalla Cassazione, dallo ius superveniens che si ritenga applicabile, e così via.

Inoltre sono ammesse, e ciò vale anche per l'Appello, quelle relative alle questioni assorbite in forza  della sentenza cassata, e poi ancora, è qui in applicazione di una clausola generale in materia di rimessione in termini, tutte quelle che la parte dimostri di non aver potuto produrre prima per causa non imputabile e non solo, come tradizionalmente si diceva, allorquando potrebbero giustificare la revocazione della sentenza, che sembrerebbe non sensato non ammettere quelle prove che dovrebbero giustificare l'impugnazione straordinaria della sentenza stessa, ma più in generale, quelle per le quali sia giustificabile la rimessione in termini secondo i principi generali, ancora, può aversi istruzione probatoria, in corso di rinvio, per effetto dell'iniziativa ufficiosa del giudice in tutti quei casi in cui questa è generale ammessa, e quindi lo svolgimento dell'interrogatorio libero, dell'ispezione, possono essere previste nuove consulenze tecniche d'ufficio.

Più problematica è l'ipotesi che si applichi anche al giudizio di rinvio quella deroga, che secondo una giurisprudenza non incontrastata, risulta applicabile al procedimento d'appello, cioè possono ammettersi in generale le nuove prove precostituite. In appello si tende dire ciò, anche se recentemente la giurisprudenza sembra far marcia indietro sul presupposto, però che, il divieto di nuove prove nel giudizio d'appello si spieghi soltanto alla luce dell'esigenza di favorire la concentrazione del processo, cioè il suo svolgimento nel numero più ridotto possibile di udienze concentrate nel tempo. La ratio delle preclusioni del giudizio di rinvio, probabilmente comprende anche le esigenze ulteriori, anche perché, la chiusura del giudizio di rinvio proprio si giustifica anche per dar modo alle parti di ottenere una risoluzione del conflitto senza approfondire ulteriormente l'indagine sul fatto, bisogna ad un certo punto arrivare ad una conclusione e quindi è da respingere l'idea che possa, in generale, prodursi qualsiasi tipo di nuova prova precostituita in Appello, consideriamo, d'altronde, che già in Cassazione solo alcune particolari prove precostituite sono ammesse, perciò sarebbe incomodo che si aprisse la finestra a ogni prova precostituita nel corso del giudizio di rinvio.

·    La Revocazione o petizione di terzi

Sulla revocazione si va dicendo che rappresenti caratteristiche comuni in parte con l'appello e in parte con ricorso in Cassazione, e il ricorso per Cassazione è a critica vincolata per cui sono tipici e predeterminati motivi per ricorso per revocazione, e tuttavia incorre in Appello la circostanza di essere anch'esso un mezzo di rimediare all'ingiustizia della decisione, ha in comune la caratteristica di poter avere, in tanto in quanto, sia riconosciuta la sussistenza del vizio, quindi successivamente a una pronuncia di carattere rescindente anche a una pronuncia a contenuto rescissorio e di poter quindi produrre anche un effetto devolutivo, anche se ovvio subordinatamente all'accertamento della sussistenza del vizio denunciato, ed ecco che investe anche il giudizio di fatto e non necessariamente in base a una denuncia di errore in procedendo o in iudicando, cioè per una specifica violazione di legge.

Esaminiamo quali provvedimenti possano essere impugnati per revocazione.

Innanzi tutto le sentenze pronunciate in grado di appello in unico grado, cioè le sentenze che sarebbero soggette a ricorso per Cassazione, per quel riguarda la revocazione nel suo complesso, però per abitudine, la revocazione, è possibile impugnare anche ulteriori provvedimenti; in particolare il decreto ingiuntivo e lodo arbitrale, quando non siano più soggette a rispettive impugnazioni ordinarie, proposizioni o impugnazioni per nullità, sono tuttavia soggette alle impugnazioni straordinarie, inoltre la Corte Costituzionale ha introdotto, a seguito di declaratoria di legittimità costituzionale per le norme di riferimento, l'impugnabilità, tramite revocazione ai sensi del n. 1 e quindi con riferimento ad un caso di revocazione straordinaria, come art. 395, ma anche, perché questi sono i casi in cui si è imbattuta il problema della legittimità costituzionale, ai sensi del n. 4 con riferimento ad un caso di revocazione ordinaria, anche contro i provvedimenti di convalida di sfratto, che sono anch'essi provvedimenti di carattere sommario dove la soprattività sopravvive all'eventuale istruzione del giudizio in cui vengano resi a contenuto anticipatorio del diritto fatto valere dall'attore, in caso in ispecie, il diritto alla riconsegna dell'immobile locato a seguito della cessazione della locazione, vi possono essere anche dei provvedimenti fra i la mancata previsione di tali provvedimenti impugnabili tramite locazione, è stata superata dalla giurisprudenza della Consulta in queste due occasioni, lasciando emergere l'idea che per superare qualsiasi motivo di revocazione anche diverso da quelli nei quali è espressamente intervenuta la Consulta, si possa ragionevolmente portare ove sussistano i presupposti della legittimità costituzionale che esprima il rimedio. Naturalmente i casi previsti per gli altri numeri bisognerà sempre passare attraverso la sollevazione della questione in attività costituzionale.

Importante è che la Consulta abbia esplicitamente previsto l'impugnabilità tramite revocazione ai sensi del n. 4 sempre con riferimento ad un caso di revocazione, che teoricamente sarebbe di revocazione ordinaria, nelle sentenze della Corte di Cassazione con riferimento ai soli ricorsi per Cassazione ai sensi del n. 4 dell'art. 360, cioè ricorsi per Cassazione per errori in procedendo in quelle ipotesi in cui si poteva riscontrare un esame per il fatto da parte della Cassazione e quindi, nell'accertamento del fatto rispetto alla lettura degli atti interni al procedimento in cui il legislatore ha poi introdotto una norma di recensione di questa giurisprudenza della Corte costituzionale, prevedendo nell'art. 391/bis l'esperibilità della revocazione nei confronti delle sentenze della Corte di Cassazione, sempre solo per il motivo di cui al n. 4 dell'art. 395 cioè sempre solo per errore di fatto,  che però, indipendentemente dal motivo di ricorso per Cassazione utilizzato dalla parte ai fini dell'esperimento del rimedium, sicché, possono essere impugnate per revocazione e per errore di fatto anche sentenze che la Cassazione abbia reso su ricorsi fondati, invece sul numero 3 dell'art. 360, anche sui ricorsi che si erano fondati su errori in iudicando, fermo restando, però, che il controllo sulla decisione resa dalla Corte di Cassazione, dovendo vertere comunque sugli errori da questa compiuti nell'accertamento del fatto, l'errore revocatorio potrà sussistere con riferimento ad un errore in procedendo, anche se nel ricorso è stato esperito per un motivo riferito ad un errore in iudicando, sul presupposto che possa sempre, anche in occasione della promozione di questo tipo di ricorsi, prospettarsi ufficiosamente dinanzi alla Cassazione un errore in procedendo in tutte le occasioni in cui si sia avuta violazione di norma processuale rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio e su cui, ovviamente, non siasi formato in precedenza un giudicato interno per effetto di pronuncia non impugnata da parte di alcuno dei giudici di merito precedentemente all'intervento della Cassazione.

Ci ricordiamo, che rispetto a queste ipotesi abbiamo la rottura del sistema rispetto alla distinzione tra impugnazione ordinaria e straordinaria, perché il legislatore ha voluto dire che l'esperibilità della revocazione nei confronti della sentenza di cassazione, non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con il ricorso per Cassazione respinto, sicché questo motivo di ricorso che curerebbe il motivo di revocazione ordinaria quando si fonda su di un vizio deducibile già dall'esame della sentenza, tuttavia, è un motivo di ricorso la cui proponibilità non impedisce la già avvenuta formazione del giudicato da parte, non della sentenza di Cassazione, ma della sentenza d'Appello, nell'ipotesi in cui la sentenza di Cassazione che si voglia impugnare, sia sentenza di rigetto del ricorso.

Quindi l'impugnazione può concorrere con il ricorso per Cassazione, non può invece concorrere con l'Appello, sono infatti impugnabili per revocazione anche le sentenze pronunciate in primo grado, ma se e solo se, siano passate in giudicato nel qual caso sono impugnabili per revocazione, ovviamente solo per motivi di revocazione straordinaria, cioè per quei motivi che non sono desumibili dall'esame della sentenza. E qui potremo porci un problema. E se io scopro il motivo di revocazione straordinaria! Scopro i documenti decisivi nascosti per fatto dell'avversario il giorno prima della scadenza per appellare! Non posso proporre revocazione, perché la sentenza è ancora appellabile. Si è vero, ma ho solo un giorno per introdurre anche questo fra i miei motivi d'appello. Sono messo un po' in difficoltà., e il legislatore quindi mi viene incontro prorogando il termine per l'Appello, che riprende a decorrere dando prova del momento in cui si è venuti a conoscenza del motivo di revocazione.

Un tempo il procedimento per revocazione aveva sempre la precedenza rispetto al procedimento per il ricorso per cassazione, prioritava la revocazione perché, il controllo di legittimità presuppone che l'accertamento del fatto siasi svolto correttamente, pertanto, è prioritario verificare che il fatto si sia svolto correttamente e quindi prevedeva l'effetto sospensivo automatico del procedimento di Cassazione o del termine per proporre ricorso per Cassazione, per effetto della proposizione del ricorso per revocazione. Però alcuni sollevarono il problema che l'eventuale utilizzazione del ricorso per revocazione, al solo scopo di procrastinare il passaggio in giudicato della sentenza, sul presupposto che potesse esservi un interesse a procrastinare il mero passaggio in giudicato della decisione. Questo interesse, a dire il vero non è fortissimo, cioè non è forte come l'interesse a procrastinare la pronuncia o l'esecutività della decisione, ritardare il passaggio in giudicato può avere qualche utilità ma non è poi così importante e in effetti, non è che nella pratica fosse sentito in modo particolarmente grave il problema dell'abuso del ricorso per revocazione, tuttavia, non si può lamentare l'intervento del legislatore del '90 perché ha deciso di eliminare questo automatismo, e in realtà è buona cosa che si eliminino in via generale gli effetti sospensivi automatici, subordinando esplicitamente in base al nuovo dettato dell'art. 398, la sospensione del procedimento per cassazione o del termine, a uno specifico provvedimento giudiziale da chiedersi e si ottiene dal giudice adito per l'istanza di revocazione, provvedimento di sospensione basato su una delibazione di una non manifesta infondatezza dell'istanza di revocazione, quindi il provvedimento è dato da quello stesso giudice che dovrebbe pronunciare sull'istanza di revocazione, diversamente dal meccanismo che si opera nel regolamento di giurisdizione in cui la delibazione sull'esistenza di fondatezza non è data dal giudice che deve decidere sul regolamento.

Il punto è che l'allocazione del potere discrezionale di valutazione dell'apparenza di fondatezza del ricorso, deve necessariamente essere affidata ad un giudice del merito perché richiede una discrezionalità valutativa che è incongrua affidare alla Corte di Cassazione, cosiccome i provvedimenti di sospensione dell'esecutività della sentenza impugnata si chiedono al giudice d'Appello quando la sentenza impugnata sia sentenza di primo grado, cioè al giudice a cui si rivolge l'impugnazione, ma laddove invece, la sentenza di cui si chiede di sospendere l'esecutività sia sentenza d'appello e la sospensione dell'esecutività sia richiesta in pendenza della proposizione di ricorso per Cassazione, l'istanza di sospensione (cosiddetta inibitoria) dell'esecutività della sentenza si richiede di nuovo al giudice d'Appello, ancorché sembra paradossale chiedere ad un giudice di sospendere l'esecutività di una sentenza che lui stesso ha reso, ma questo accade perché sarebbe incongruo affidare l'esercizio di potere discrezionale di questa fatta alla Corte di Cassazione.

Congruamente i criteri per stabilire se sospendere o no l'esecutività della sentenza quando si tratti di sentenza di primo grado impugnata con l'appello, ricomprendono sia una valutazione se vogliamo, in senso molto lato l'esercizio di un potere cautelare, quindi come accade in via generale, i presupposti per la concessione della tutela urgente provvisoria cautelare, cioè apparenza del buon diritto e pericolo del ritardo rispetto all'inibitoria si trasforma, perché si richiede un contemperamento del pregiudizio del ritardo che soffre l'attore nel vedere procrastinata l'esecuzione della sentenza, con il pericolo definibili da anticipazione e cioè il pregiudizio che soffre il convenuto per effetto di un eventuale anticipazione o meno dell'esecutività della sentenza, sicché, messa in questi termini, se raffrontiamo i criteri per la sospensione dell'esecutività della sentenza di primo grado con quelli per la sospensione dell'esecutività della sentenza d'Appello, vediamo che, se si tratta di sentenza di primo grado il giudice può tener conto sia il periculum in mora latamente inteso, sia dell'apparenza di fondatezza della impugnazione, laddove si prevede che la sospensione dell'esecutività possa essere concessa sulla base di gravi motivi individuandosi l'effetto di chi ponga opposizione generica e ne ha comprendere sia motivi attinenti all'apparenza di fondatezza dell'impugnazione, sia motivi attinenti alla azione di pregiudizi che le parti rispettivamente soffrono per effetto dell'anticipazione o del differimento dell'esecuzione della sentenza.

Laddove invece, si tratta di sospendere l'esecutività di una sentenza d'Appello, il criterio per concedere la sospensione è quello del danno grave irreparabile che si prevede si debba subire al fine dell'esecuzione, cioè quello che definirei come pericolo da anticipazione, intendendosi la locuzione riferita al danno grave irreparabile che si soffrirebbe per effetto dell'anticipazione dell'esecutorietà del provvedimento, e passerebbe valutabile andolo con il pregiudizio che invece riceverebbe l'attore dal differimento dell'esecuzione della sentenza che gli ha dato ragione, però in questa sede si valutano solo i rispettivi pericula et mora, ma il giudice di appello non ha alcun potere di valutare l'apparenza di fondatezza dell'impugnazione proposta contro la sua stessa sentenza, ancorché proposta ad un giudice diverso, in quanto questo è compito riservato alla Cassazione e si lascia al giudice d'Appello solo la valutazione sui pregiudizi da esecuzione.

Nel caso della sospensione del procedimento di Cassazione in pendenza di revocazione, abbiamo un giudice che valuta l'apparenza di fondatezza dell'istanza proposta, però, davanti a se e quindi non sospende nei casi di manifesta infondatezza dell'istanza di revocazione.

Questa sospensione, diversamente dalla sospensione per pregiudizialità tra controversie di cui all'art. 295, non opera fino al passaggio in giudicato della sentenza sulla revocazione, bensì soltanto fino alla sua comunicazione, ovvero in mancanza di costituzione delle parti, cioè rispetto alle parti non costituite, alla sua pubblicazione, sicché, potrà proporsi poi il ricorso per Cassazione, sia contro la sentenza che ha pronunciato sulla revocazione, sia contro la sentenza revocando nell'ipotesi in cui l'istanza di revocazione sia stata rigettata, e quindi la sentenza revocata non sia stata cassata a seguito della fase rescindente del procedimento di revocazione.

La sentenza sulla revocazione è soggetta per l'art. 403, agli stessi mezzi d'impugnazione che sarebbero stati proponibili contro la sentenza revocando, e in quei ricorsi eventualmente proposti contemporaneamente contro entrambe le decisioni, potranno essere eluditi, secondo la giurisprudenza della Cassazione, che secondo alcune decisioni è anche possibile in questo caso, proporre un unico ricorso ancorché diretto nei confronti di due provvedimenti diversi.

Se non viene disposta la sospensione del procedimento per Cassazione, e quindi i due procedimenti proseguono contemporaneamente, si propone il problema del loro coordinamento, e qui c'è da osservare che secondo alcuni, l'eventuale cassazione della sentenza revocando farebbe cessare la materia del contendere del procedimento di revocazione. La soluzione qualche perplessità la desta, perché sembra non tenere conto della circostanza che il procedimento di cassazione è procedimento che oggi può anche concludersi con una pronuncia sul merito che si aggiunge alla pronuncia rescissoria, il procedimento di cassazione che ben potrebbe essere stato instaurato, infatti sebbene contestualmente al procedimento di revocazione, per denunciare un mero errore in iudicando e potrebbe quindi sfociare con la pronuncia sul merito della causa, pronuncia, però,  che presuppone che si sia avuto un corretto accertamento del fatto, sicché, la circostanza che l'accertamento del fatto sia posto in dubbio attraverso la tempestiva proposizione di un procedimento per revocazione, mi sembra tale da non permettere di giungere così facilmente alla conclusione. Se la sentenza è cassata, si! Ma è cassata con rinvio proprio o con diretta pronuncia del merito, cioè sostanzialmente non è cassata senza rinvio o con rinvio improprio, mi sembra che dovrebbero essere conservate le chance della parte che ha proposto la revocazione, di ottenere una declaratoria invalidante dell'accertamento del fatto su cui si fonda una sentenza di cassazione che avrebbe altrimenti un effetto preclusivo alle coltivazioni delle contestazioni sollevate dalla parte tutte le volte in cui si tratti appunto, di sentenza di Cassazione con pronuncia nel merito o cassazione con rinvio proprio e quindi con fase rescissoria chiusa e non passibile di avere per oggetto ulteriori contestazioni intorno all'esame del fatto, in particolare, del fatto processuale.

Al contrario, invece è plausibile, la conclusione più generale secondo cui l'accoglimento della domanda di revocazione comporti la cessazione della materia del contendere rispetto al ricorso per revocazione che sia stato proposto, sospeso o non sospeso che sia stato il procedimento stesso, perché fa venir meno il presupposto del ricorso per Cassazione stesso, ossia quella sentenza che per ricorso per Cassazione era stata impugnata, e quindi, il caso inverso è invece plausibile e accettabile la soluzione dell'interferenza del procedimento tale da determinare la cessazione della materia del contendere, cessazione di cui, la Cassazione potrebbe tenere conto trattandosi di fatto sopravvenuto di contenuto processuale senza con questo travalicare i limiti del proprio potere cognitorio e decisorio.

Tutto ciò premesso, vediamo a questo punto quali sono i motivi di revocazione.

I motivi di revocazione straordinaria emergono dall'esame della sentenza, sicché, il loro termine è mobile e sono proponibili anche contro sentenze di primo grado che siano passate in giudicato e non siano più soggette ad appello. Il giudice, sul presupposto che sia stato accertato con sentenza passata in giudicato pertanto non è possibile farlo accertare dallo stesso giudice della revocazione e d'altronde si propone a quello stesso ufficio giudiziario che aveva pronunciato la sentenza revocanda, quindi sia opportuno che il dolo sia stato previamente accertato, è motivo di revocazione il dolo di una parte ai danni dell'altra, e il dolo di entrambe le parti rileva per l'opposizione di terzo revocatorio della parte, e il dolo della parte si ravvisa allorquando vi siano stati veri e propri raggiri, come l'usi di documenti falsi. Se la parte impugnante non può provare la consapevolezza dell'uso di documenti falsi da parte dell'avversario, la mera falsità dei documenti stessi o di altri mezzi di prova, può fondare la revocazione ma solo a condizioni più restrittive, e qui occorre che la falsità del documento sia stata o dichiarata con sentenza passata in giudicato nei confronti dell'avversario, quindi non passata in giudicato con un giudizio fra altre parti in un giudizio civile in cui l'avversario sia rimasto estraneo, ovvero riconosciuta dall'avversario prima della domanda di revocazione e dopo la pronuncia della sentenza revocanda, perché se la falsità è stata accertata prima, la parte impugnante aveva l'onere di far valere questa falsità nel procedimento conclusosi con la sentenza revocata, si fa eccezione per il caso in cui la parte possa essere rimessa in termini dimostrando di essere venuta a conoscenza della dichiarazione della falsità successivamente alla sentenza revocata, quantunque queste si siano verificate prima della pronuncia.

Poi abbiamo la scoperta di documenti decisivi cui è equiparabile la scoperta dell'effettivo contenuto dei documenti decisivi della cui esistenza si era a conoscenza, credendo che il loro contenuto fesse diverso, che però, può costituire motivo di revocazione soltanto in tanto in quanto, non sia conurabile negligenza della parte nella mancata produzione del documento. Da questo punto di vista è opportuno ricordare che secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza, il divieto di produzione in Appello di nuovi mezzi di prova è divieto che si applica solo alle prove costituende, cioè ai mezzi di prova in senso proprio, sicché, sono metodi, essendo preordinato a favorire la concentrazione del giudizio d'appello in un'unica udienza o in minor numero di udienze, sul presupposto che siano le prove costituende e soltanto esse a determinare il rallentamento dei tempi della decisione rendendo necessaria la fissazione di una pluralità di udienze, così, di solito la norma viene interpretata nel senso che sia ammessa senza limiti la produzione di nuovi documenti e di nuove prove precostituite in grado d'Appello, attraverso il loro deposito in cancelleria, pertanto la parte che avesse avuto l'opportunità di depositare in cancelleria il documento decisivo in grado d'Appello, non potrebbe poi avvalersi di tale documento ai fini della promozione di un procedimento per revocazione della sentenza.

( accertamento giudiziale della falsità della prova  Nella falsità delle prove fa eccezione a questo regime, in particolare,  il problema della falsità del giuramento decisorio. Trattandosi di uno strumento in parte probatorio ma anche in parte dispositivo che riesce per assumere una rilevanza particolarmente tenue, la sua falsità, perché l'eventuale declaratoria giudiziale della falsità del giuramento, non costituisce motivo della revocazione della sentenza, anche quando questa declaratoria avvenga dopo la pronuncia della sentenza revocanda e prima della proposizione dell'istanza di revocazione, perché rispetto a questa particolare ipotesi di falsità l'unica sanzione a carico dello spergiuro, è una responsabilità penale con l'eventuale responsabilità risarcitoria conseguente all'illecito penale, ma la definizione della causa conseguita attraverso il mendacio resiste all'accertamento dello spergiuro stesso).

Si riprende il discorso sulla scoperta di documenti decisivi, perché qui vi è un punto più sottile da osservare è quello che concerne il problema dell'esibizione di documenti. Abbiamo visto che la disciplina soffre di forti carenze di effettività, perché se il documento decisivo non è in mano alla parte che ha interesse a produrlo, questa parte può farlo acquisire al processo per effetto di un ordine di esibizione ottenuto dal giudice in presenza di presupposti particolarmente restrittivi, ma anche quando si riesce ad ottenere quest'ordine di esibizione, tuttavia, la parte interessata non ha i mezzi per eseguirlo coattivamente, per cui l'ottemperanza all'ordine stesso è di fatto rimessa alla buona volontà della parte a cui sia diretto, poiché trattandosi di un terzo si può forse immaginare, ma la cosa è dubbia e in ogni caso sul piano pratico è irrilevante, comunque si può immaginare che sia condannato ad una pena pecuniaria dall'ammontare modesto e si allude alla diretta coercibilità dell'ordine si espone persino che si possa fare acquisire il documento attraverso il sequestro giudiziario della prova stessa.

La parte che ha ottenuto l'ordine di esibizione del documento ma non è riuscita a farla acquisire al processo, potrebbe poi proporre domanda di revocazione una volta che scopra che questo documento contiene la prova che gli da ragione? La giurisprudenza ha finito per adottare una soluzione compromissoria, per cui, se la mancata esibizione del documento consegue ad un fatto dell'avversario, cioè il documento è in possesso dell'avversario cui ha rifiutato di esibirlo, e di conseguenza è andato incontro alla conseguenze probatorie sfavorevoli di cui all'art. 116 2° comma, ebbene non è ammessa la revocazione, secondo la giurisprudenza in questo caso prevede che il meccanismo probatorio ha operato nella maniera in cui il legislatore voleva che operasse e quindi la parte non si è potuta avvalere di quel documento, ma si è potuta avvalere delle conseguenze probatorie derivanti dalla omissione della produzione del documento. Invece, se, il documento era nelle mani di un terzo e quindi è stato il terzo a rifiutarsi di esibirlo, a seguito della pronuncia dell'ordine stesso, allora si riconosce la sussistenza di una causa di forza maggiore tale da giustificare l'esperimento della revocazione allorquando la parte scopra l'effettivo contenuto del documento. È una soluzione un po' di compromesso, se vogliamo, perché, in realtà, si potrebbe giustificare tanto la soluzione che effettua la revocazione in entrambe i casi, quanto quella che entrambe i casi la rifiuta.

Ancora a carattere straordinario con collegamento non banale perché viene da una lettura immediata del sistema codicistico, altri casi di revocazione straordinaria sono quelli che può far valere il PM ai sensi dell'art. 397, e cioè nelle ipotesi di revocazione proponibili al PM, la collusione della parti per frodare la legge, o la sua pretermissione in motivi che il PM può far valere entro termini decorrenti dal momento in cui ha avuto effettivamente conoscenza della sentenza, da cui arguiamo che la nullità ex art. 158 da pretermissione del PM, nullità assoluta e insanabile però, come tutte le nullità, soggetta al regime della conversione ex art. 161 e quindi sanabile per effetto della formazione di un giudicato parziale sul merito all'interno dello stesso processo, comunque sanato dalla formazione del giudicato, e sanata rispetto alle parti, ma non è sanata rispetto al PM che sia rimasto estraneo al processo e che conserva quindi la facoltà di farla valere e la logica, che dovrebbe appunto ispirare, l'interpretazione della disciplina delle conseguenze della pretermissione del litisconsorte necessario, che secondo una lezione tramandata, la sentenza resa a contraddittorio non integro è inuliter data, giuridicamente inesistente e improduttiva degli effetti persino tra le parti, ma in realtà si capiva che si prospettassero conseguenze così drastiche e drammatiche, allorquando sotto il vigore del codice previgente non si prevedeva il potere del giudice di ordinare l'integrazione del contraddittorio, ove si voleva giustificare l'esercizio di questo potere ufficioso del giudice prospettando appunto, che se non lo si esercita conseguenze terribili, oggi che il potere di ordinare l'integrazione del contraddittorio da parte del giudice è espressamente prevista dalla legge, non abbiamo più bisogno di evocare questi scenari catastrofici per potere giustificare questa deroga al principio dispositivo, ed è accettabile, invece, che si applichi quel tipo di disciplina che vediamo applicata nel caso della pretermissione del PM, e cioè quindi che, la sentenza tra coloro che hanno partecipato al giudizio produca i suoi effetti a seguito del suo passaggio in giudicato, e coloro che abbiano partecipato al giudizio non abbiano la possibilità di dedurre essi stessi la pretermissione del litisconsorte necessario. Il vizio della sentenza potrà essere fatto valere in ogni tempo, ma dal litisconsorte necessario pretermesso e non  da coloro che avrebbero avuto l'opportunità di far valere questo vizio nell'arco di tre gradi di giudizio, non l'abbiano fatto per poi magari tenersi di riserva la carta per giocarla a partita chiusa per consentirla di ricominciare daccapo. Quindi anche questi, appunto del PM vanno quindi qualificati come motivi di revocazione straordinaria.

Motivi di revocazione ordinaria, invece, emergono appunto dalla stessa sentenza. Abbiamo in parte visto il motivo di allocazione consistente nella contrarietà della sentenza di un precedente giudicato fra le stesse parti. Il presupposto dell'accoglibilità di questo motivo di revocazione è che non se ne sia avuta pronuncia alcuna sull'eccezione di giudicato, e da queste disposizioni si evince di solito che nel contrasto tra due sentenze passate in giudicato entrambe, prevalga la seconda. Secondo la giurisprudenza prevalente rileva in questo motivo di ricorso la violazione del solo giudicato esterno, cioè il giudicato formatosi in un diverso processo, perché si tende a dire tradizionalmente, il giudicato interno, quello formatosi nell'ambito dello stesso processo che ha carattere largamente di preclusione processuale, mentre il giudicato interno è rilevabile d'ufficio, si dice quindi, si ha sempre una pronuncia sull'eccezione di giudicato. Il passaggio è forzato e discutibile, in particolare occorre dire che secondo la dottrina dominante e ormai anche secondo la giurisprudenza, perché la Cassazione si è orientata in questo senso, anche il giudicato esterno è revocabile d'ufficio. Dove nasce il problema? Dalla circostanza che nel giudicato interno il giudice ha conoscenza perché la fattispecie che lo produce trova riscontro nel fascicolo di causa, e il giudicato esterno è prodotto da una fattispecie che il giudice non potrebbe non sapere nulla, perché se nessuno provvede ad integrare gli atti il giudice non verrà a conoscenza della fattispecie e non può pronunciarsi, quindi vale anche per fasi come quello della formazione del giudicato la regola per cui il giudice soffre del privilegio di scienza privata, "ciò che non è agli atti non può essere conosciuto", e non potrebbe neanche giuridicamente andare lui in cerca delle altre eventuali sentenze sopravvenute tra le stesse parti, ma altro è il problema del divieto di scienza privata e quindi il problema per cui il giudice non può conoscere gli effetti di un giudicato prodotto da una sentenza che non risulta nel suo fascicolo. Altro è che le parti possano disporre dell'effetto di questo giudicato una volta che, in un modo o nell'altro, per iniziativa dell'una o dell'altra delle parti, tale sentenza sia stata ritualmente introdotta nel giudizio attraverso il deposito del fascicolo, sul presupposto che ciò siasi verificato, deve ritenersi che il giudicato esterno sia rilevabile d'ufficio e quindi che gli effetti di tale giudicato il giudice debba tenere conto anche se nessuna delle parti pronuncia le magiche parole evocative dell'effetto stesso e chiede al giudice di pronunciarsi intorno a quell'effetto. In ipotesi può accadere che una parte produce una sentenza pensando che le giovi, e scopre poi che invece la sentenza le nuoce, e però il giudice, giustamente in questo caso, tiene conto dell'effetto giuridico sfavorevole alla parte che improvvidamente ha depositato la sentenza, in quanto tale effetto non è disponibile si produce automaticamente una volta che siano ritualmente acquisite a giudizio gli elementi costitutivi della fattispecie.

Quindi, una volta raggiunta la conclusione che anche il giudicato esterno è rilevabile d'ufficio come il giudicato interno è chiaro che non possiamo più accontentarci dell'interpretazione che dice: "non è esperibile la revocazione tutte le volte che si fondi su un contrasto di giudicati rilevabile d'ufficio", perché in questo caso si è sempre avuta la relativa eccezione, ciò implicherebbe che non sia mai possibile la revocazione per contrasto di giudicati, si deve dunque riferire che se la circostanza che il giudicato sia rilevabile d'ufficio non è minimamente ostativa all'esperimento di un'impugnazione per revocazione nei confronti della sentenza che lo disattenda.

Dovendosi riferire invece ad un elemento ostativo alla proposizione dell'istanza di revocazione solo nella circostanza in cui vi sia stata esplicita pronuncia del giudice sull'eccezione di giudicato. Se ci è stata una pronuncia esplicita allora certamente non abbiamo modo di esperire l'impugnazione per revocazione e l'unico rimedio a disposizione delle parti resta la proposizione di un ricorso per cassazione fondato sulla violazione dell'art. 2909 del c.c., cioè sulla violazione di giudicato. Se invece non c'è stata alcuna pronuncia esplicita sull'eccezione di giudicato, dovrebbe ammettersi l'esperimento della revocazione sia nell'ipotesi di violazione di giudicato esterno, sia nell'ipotesi di violazione di giudicato interno, perché non vi è motivo di differenziare le due ipotesi.

Infine, per quanto riguarda la revocazione, è particolarmente importante sul piano applicativo il motivo, proprio perché esperibile anche nei confronti delle sentenze di cassazione, consistente nel cosiddetto errore di fatto, cioè quando la sentenza si fonda sull'esistenza di un fatto la cui inesistenza risulta incontrastabilmente dagli atti di causa e viceversa, quando si fonda sull'inesistenza di un fatto di cui risulta incontrastabilmente l'esistenza, abbiamo cioè un contrasto tra gli atti causa e la sentenza intorno all'esistenza di un fatto.

Presupposti, anche qui sono innanzi tutto che non vi sia stato un giudizio esplicito sul fatto da parte del giudice della sentenza evocata, perché si dice che se il giudice esplicitamente ha detto che il fatto risulta in questo senso, sulla base di questi atti di causa che pure elidano il contrario, ma in realtà vanno interpretati in modo da suggerire questa conclusione, qui non c'è la revocazione. La revocazione si fonda sul presupposto che il giudice si sia distratto! Non si sia accorto che dai documenti doveva concludersi il contrario di quel che ha concluso, non quando si sia sbagliato accorgendosene e così pure l'altro presupposto che non vi sia stata contestazione tra le parti sul fatto, poiché se vi è stata contestazione sul fatto automaticamente anche il giudice non può essersi distratto, ma nel valutare il fatto in quel modo lo ha necessariamente fatto criticamente tenendo conto delle diverse possibili prospettazione e quindi in questo caso ancora, l'unico rimedio resta quello del ricorso per Cassazione e del controllo sulle modalità con cui si è accertato il fatto che può svolgersi anche eventualmente attraverso il controllo sulla motivazione, per cui quella sentenza con la quale il giudice dirà che è vero che i documenti puntano tutti in questa direzione, ma ritengo che si possa, in realtà, lo stesso concludere che il fatto esista o non esista contrariamente a quanto significa, abbiamo cassato per vizio di motivazione da cui emerge un travisamento di fatti, perché la motivazione stessa denuncia che queste risultanze di causa le ha valutate in modo incongruo non ragionevole, in una maniera nella quale non poteva ragionevolmente giungersi a quella conclusione.

Ulteriore presupposto, infine, è che tale fatto abbia carattere appunto tale da determinare l'esito della causa.

L'ipotesi quindi va tenuta distinta sia dalla insufficienza di motivazione, dal travisamento dei fatti, che ha luogo invece nel diverso caso che abbiamo descritto poc'anzi, va naturalmente tenuta distinta anche dall'ipotesi in cui vi sia stato errore di diritto, cioè quando il giudice abbia applicato una norma travisandone completamente il contenuto e in questo caso è chiaro che c'è solo il ricorso per Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, e ancora va distinto, e qui spesso nella pratica la distinzione può risultare problematica, dal cosiddetto errore materiale o di calcolo, il cui rimedio secondo la legge, non è la revocazione della sentenza, bensì la sua correzione che è oggetto di un procedimento non a carattere impugnatorio proponibile in ogni tempo. Si dice, in linea di massima, che si ha errore materiale tutte quelle volte in cui sia evidente che il giudice ha scritto una cosa intendendo dirne un'altra, mentre avremo errore quando il giudice è lui incorso in un errore cognitivo e non espressivo. Si! In astratto i conti tornano, poi in concreto, stabilire se l'errore in cui è incorso il giudice sia nato in sede cognitiva o in sede espressiva è tutt'altro che facile, perché è chiaro che se il giudice nel fare i conti dice che il convenuto deve 1000 a questo titolo e poi 1000 ad altro titolo e totale 200, questo è un errore di calcolo passibile di correzione, ma quando il giudice fa il nome di una parte al posto di un'altra, sarà un errore materiale o un errore revocatorio? Effettivamente sul piano pratico è molto difficile distinguere, e quindi, il legislatore in riferimento al problema della revocazione nei confronti delle sentenze di Cassazione, ha pensato di prevedere un unico procedimento per i casi sia di correzione, sia revocazione. Entrambi sono disciplinati dall'art. 391bis quando siano riferiti a sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione, sicché la parte sembra essere sgravata del compito di distinguere fra l'una e l'altra ipotesi, salvo che resta un problema che è quello del termine. Il motivo di revocazione di cui al n. 4 dell'art. 395 palesemente motivo di revocazione ordinaria, deducibili entro termini decorrenti dalla pubblicazione o notificazione della sentenza, ma se si trattasse di un vizio passibile di mera correzione dovremo prevedere un termine lo stesso? Il legislatore del '90 nell'art. 391bis, aveva previsto un termine pure all'ipotesi dell'istanza di correzione, ma in argomento è intervenuta la Corte Costituzionale, perché se una sentenza è passibile di correzione in ogni tempo quando si è resa in grado d'Appello, appare incongruo che sia passibile di correzione solo entro un tempo ristretto e limitato quando sia resa dalla Corte di Cassazione, pare non essere ragionevole la distinzione fra le due ipotesi, e quindi la Corte di Cassazione l'ha cancellata dichiarando costituzionalmente illegittimo l'art. 391bis nella parte in cui non prevede di esperire in ogni tempo il procedimento di correzione tutte le volte che l'errore denunciato possa qualificarsi come mero errore materiale e quindi come un errore in fase espressiva anziché in fase cognitiva.

·    L'opposizione di terzo

Non moltissime sono le cose importanti da dire da dire a proposito dell'opposizione di terzo perché si tratta di uno strumento di non grandissima applicazione, e tra l'altro non è molto ricca l'esperienza giurisprudenziale in materia.

Possiamo distinguere, già dalla lettura dell'art. 404 due grandi categorie di ipotesi, cioè per un verso quella dell'opposizione di terzo semplice o ordinaria, come alcuni dicono di cui al comma 1°, che pur essendo a volte nominata ordinaria è ovviamente un'impugnazione straordinaria anzi l'unica per la quale non sia previsto termine alcuno, e al 2° comma la opposizione di terzo revocatoria.

Di questa, già dal titolo si capisce di cosa si tratta, perché evoca immediatamente l'azione revocatoria, il pregiudizio alla garanzia patrimoniale che l'azione revocatoria ordinaria è diretta a prevenire e che l'azione revocatoria fallimentare, nell'ipotesi del fallimento rimedia in maniera ancora più incisiva. Nel caso di opposizione di terzo revocatoria, anzitutto abbiamo una sentenza che è effetto di dolo o collusione della parti a danno del terzo, e qui è immediato evocare l'azione revocatoria ordinaria dove c'e appunto il consilium in fraudis ai danni del creditore e i soggetti legittimati sono i creditori, appunto, e gli aventi causa, cioè i soggetti che subiscono gli effetti del giudicato intercorso fra le parti, sia soggetti come i creditori che subiscono solo un pregiudizio di fatto e quindi non sono vincolati dall'effetto giuridico pronunciato nella sentenza, sia gli aventi causa che invece subiscono direttamente gli effetti del giudicato. L'unico punto forse non banale che la giurisprudenza ha riconosciuto è che la legittimazione spetta anche a quei soggetti che abbiano acquisito successivamente alla sentenza la qualità di aventi causa.

Più complesso è l'istituto di cui al 1° comma in cui vi sono legittimati all'opposizione i terzi a cui la sentenza risulta pregiudizievole e chiarire la natura di questo pregiudizio non è tanto agevole, dato che si muove dal presupposto, in via generale, i terzi non subiscono gli effetti della sentenza quindi non si capisce come ne possano essere pregiudicati, ovvero se li subiscono in quei casi in cui le subiscono le subiscono legittimamente, quindi non si vede come possano lamentarsi, il fatto sta che in realtà il caso che avevano in mente quegli ordinamenti in cui quest'istituto è sorto, ordinamenti di derivazione francese, è quello dell'intervento principale, che storicamente si identifica nell'ipotesi in cui un terzo affermi di essere il vero titolare del diritto in contesa, sicché al pregiudizio di cui all'art. 404 allude è un pregiudizio di mero fatto che grava sul terzo per effetto dello stato di incertezza attorno alla titolarità del diritto che viene determinato dalla sussistenza di una sentenza attributiva di quel diritto ad un altro soggetto, ancorché non pronunciata nei confronti di quel terzo che afferma di essere il vero titolare.

Col tempo si è arrivati ad individuare ulteriori due fattispecie, una in realtà molto di scuola per l'assai improbabile verificazione che è quella della sentenza resa contro il falso rappresentante, ed è un fenomeno non molto frequente, comunque si immagina che questa ipotesi sia  possibile, al falsamente rappresentato, proporre opposizione di terzo qualificando lo stesso come un soggetto che non subisce gli effetti della sentenza, non essendo possibile nel processo nessuna forma di negotiorum gestio o di rappresentanza senza poteri, per cui vi è l'invalidazione di una rappresentanza compiuta senza poteri neppure per effetto di ratifica posteriori, ritenendosi che l'interesse del falsamente rappresentato a togliere di mezzo dal punto giuridico una sentenza che apparentemente ha per oggetto i suoi diritti, possa essere corretto tramite il rimedio dell'opposizione.

Più rilevante potenzialmente, è invece l'ipotesi dell'applicabilità dell'istituto al caso del litisconsorte necessario pretermesso, nell'ipotesi in cui una sentenza sia produttiva di effetti tra le parti ma non nei confronti del terzo.

Questo tipo di conclusione suggerisce quindi che si debba aderire all'opinione prevalente secondo cui l'accoglimento dell'opposizione elimina la sentenza e gli effetti della sentenza anche tra le parti originarie, cioè rimuove l'efficacia del giudicato non solo rispetto alla posizione giuridica del terzo accertata e riconosciuta dalla sentenza, ma anche nei rapporti fra queste due parti.

L'altro problema non banale che offre la disciplina dell'opposizione di terzo è quello dell'individuazione dei provvedimenti impugnabili, perché, il codice prevede esplicitamente l'opponibilità per opposizione di terzo delle sentenze che siano passate in giudicato o comunque esecutive nonché dei lodi arbitrali ex art. 827 e, ai soli fini dell'opposizione di terzo revocatoria, il decreto ingiuntivo come prevede il 2° comma dell'art. 656 che consente la proposizione oltreché della revocazione straordinaria anche l'opposizione di terzo revocatoria contro il decreto ingiuntivo nei cui confronti siano scaduti i termini per l'opposizione. Sono però tutte sentenze della Corte Costituzionale, che hanno disteso in vario modo l'ambito di applicazione dell'istituto, includendo quelle ordinanze di convalida di sfratto, di cui abbiamo già parlato a proposito del rimedio costituzionale della revocazione, la giurisprudenza anticipando le conclusioni a quelle che sarebbe giunta la Corte Costituzionale, provvedendo direttamente ad un'interpretazione costituzionalmente orientata del diritto positivo, ha previsto l'impugnabilità con opposizione di terzo, alché i provvedimenti come il decreto di repressione della condotta antisindacale previsto dall'art. 28 delle Statuto del Lavoratori. Questo decreto è un provvedimento sommario che viene reso a seguito di una necessaria fase sommaria del procedimento, fase che peraltro prevede l'attivazione del contraddittorio tra le parti che debbono essere sentite prima dell'emanazione dello stesso decreto e questo decreto può essere impugnato tramite opposizione, a seguito della quale il riesame del provvedimento avviene con le modalità della cognizione piena caratteristiche del procedimento speciale a condizione piena per controversie di lavoro, e sfocia in una sentenza che ha le normali caratteristiche della sentenza. Dove, invece, il decreto non venga impugnato tramite tempestiva opposizione, lo stesso acquisisce gli effetti della sentenza e cioè del provvedimento idoneo a produrre gli effetti della cosa giudicata sostanziale ancorché reso in via sommaria sulla base di un'attività di istruzione probatoria sommaria e semplificata, cioè secondo il modello dell'assunzione di sommarie informazioni, e che abbia una forma diversa da quella della sentenza.

Questo provvedimento è stato ritenuto impugnabile con opposizione di terzo nelle fattispecie in cui se ne è trattato, e ciò avveniva sul presupposto che, in realtà, sussistesse un conflitto fra più sindacati, tale per cui la soddisfazione delle pretese di un sindacato nei confronti del datore di lavoro risultasse pregiudizievole per le pretese contrastanti di altri sindacati nei confronti dello stesso datore di lavoro. Qui, quello che è interessante ed efficace ai fini della memorizzazione degli istituti, istituire un parallelismo che individui le differenze tra i presupposti per la impugnabilità con ricorso straordinario per Cassazione e i presupposti delle impugnabilità con opposizione di terzo dei provvedimenti che non abbiano la forma della sentenza, perché quando parliamo di ricorso straordinario per Cassazione ci ricordiamo che la caratteristica del provvedimento per risultare impugnabile deve essere un provvedimento decisorio e definitivo, cioè dal punto di vista sostanziale decisorio e cioè idoneo a incidere su diritti soggettivi vale a dire idoneo a incidere su situazioni sostanziali di vantaggio attributive di un bene della vita estraneo al processo, e può essere inteso come definitivo, quando il provvedimento non sia ne revocabile, ne altrimenti impugnabile, ebbene, però, ai fini dell'opposizione di terzo, possiamo dire in via generale, che il provvedimento acquisisce la natura del provvedimento impugnabile tutte le volte che sia decisorio e tutte le volte che non sia revocabile e tutte le volte che non sia stato impugnato, anche se risulti altrimenti impugnabile, perché se ci dobbiamo mettere nella prospettiva della tutela del terzo, la circostanza che il provvedimento sia altrimenti impugnabile, ma impugnabile su iniziativa delle parti, è di nessuno interesse per il terzo, se poi effettivamente le parti di questa opportunità non si avvalga, e quindi la circostanza che il provvedimento sia altrimenti impugnabile non impedisce la soggezione all'eventuale opposizione di terzo tutte le volte che effettivamente il provvedimento non sia stato impugnato tra le parti.

·    I provvedimenti cautelari

La tipologia dei provvedimenti cautelari, tra cui il tradizionale è il sequestro che si distingue in sequestro giudiziario e sequestro conservativo, il sequestro conservativo è strumento diretto ad assicurare l'integrità della garanzia patrimoniale, sicché colpisce beni del debitore allo scopo di precostituire una posizione poziore, prioritaria del creditore ai fini dell'espropriazione, perciò si dice anche che costituisce una sorta di pignoramento anticipato e a conferma di ciò la legge stessa prevede nel momento in cui venga pronunciata sentenza di condanna a favore del creditore il sequestro conservativo si converta in pignoramento.

Diversa è la natura del sequestro giudiziario che a sua volta si può articolare in due diverse ipotesi una delle quali è quella del sequestro di beni cui sia controversa la proprietà o il possesso e l'altra quella del sequestro di documenti che possono costituire elementi di prova quando sia controverso il diritto all'esibizione, della quale ci limitiamo a ricordare che si è giunti alla conclusione che lo strumento non costituisca un meccanismo efficace per assicurare l'effettività del diritto all'esibizione, in quanto, il sequestro del documento non implica l'acquisizione dello stesso al processo nell'ambito del materiale probatorio, sicché la sua utilizzazione non è stata così significativa da portare un definitivo chiarimento intorno ai dubbi che in realtà possono comunque porsi intorno al suo ambito di applicazione, di dubbi che sono anzitutto se davvero possa riferirsi questo meccanismo, anche ai casi in cui il diritto all'esibizione abbia un fondamento meramente processuale e non anche un fondamento sostanziale, e in secondo luogo se il provvedimento possa concedersi soltanto prima e secondo alcuni soltanto dopo la pronuncia dell'ordine di esibizione ex art. 210, comunque si tratta di uno strumento alla fine, secondario visto che non assicura l'effettiva esibizione del documento.

Caso a parte è quello del cosiddetto sequestro liberatorio che viene conseguito su iniziativa dello stesso debitore quando sia controverso il modo dell'adempimento della prestazione.

La distinzione che rileva fra sequestro giudiziario e sequestro conservativo soprattutto perché sono diverse le modalità di esecuzione, perché il sequestro conservativo si esegue poi nelle forme del pignoramento, il sequestro giudiziario seguirà le forme della esecuzione per consegna o rilascio.

Importante anche distinguere la funzione del sequestro giudiziario di prove da quella dello strumento cautelare che è invece diretto ad assicurare preventivamente l'acquisibilità al processo delle risultanze sul mezzo di prova che è il cosiddetto accertamento tecnico preventivo al quale sono applicabili solo in minima parte le disposizioni sul procedimento cautelare uniforme, sul presupposto che rispetto a questo tipo di provvedimenti l'esigenze garantistiche siano tutto sommato meno sentite, sicché si applica solo la disciplina che assicura il rispetto della garanzia del contraddittorio eventualmente posticipato rispetto all'emanazione del provvedimento ai sensi dell'art. 669sexies.

Questo, diciamo è il sequestro che abbiamo più o meno approssimativamente individuato i confini di applicabilità costituisce il più tradizionale dei provvedimenti cautelari. Anche tradizionali sono i provvedimenti di denuncia di nuova opera e danno temuto, che sono in sostanza provvedimenti cautelari che assistono la tutela del possesso fermo restando che invece i provvedimenti a contenuto propriamente possessorio secondo l'interpretazione che abbiamo a suo tempo parlato, ha invece il contenuto di una tutela piena nel merito, la tutela del possesso, e non di una tutela meramente provvisoria, sicché in realtà, hanno natura propriamente cautelare, sono soggetti alla disciplina dei provvedimenti cautelari, solo questi provvedimenti che assistono la tutela del possesso, appunto la nuova opera e danno temuto, non invece alle domande di reintegrazione, manutenzione, spoglio e così via che sono invece soggette a un accertamento pieno e a seguito di provvedimento interdittale all'automatica trasformazione del procedimento sommario in procedimento pieno, quindi la parte cosiddetta interdittale è soltanto una fase sommaria urgente nell'ambito del più complesso procedimento destinato a sfociare in un accertamento pieno, sia pure di una situazione soggettiva non qualificabile propriamente come diritto soggettivo.

Il più moderno dei provvedimenti cautelari è il cosiddetto provvedimento d'urgenza, l'art. 700 che è quello che lo regola ha finito per diventare la più famosa delle norme del c.p.c., poiché la disciplina è diretta ad assicurare il famoso principio di Chiovenda, quello per cui la durata del processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione. Sulla scorta di questo principio si giunge alla conclusione che non era affatto pacifica nell'ordinamento previgente che qualsiasi tipo di situazione sostanziale di vantaggio sia passibile di tutela sommaria cautelare in tutte le occasioni in cui, come recita l'art. 700, durante il tempo corrente a far valere il diritto in giudizio in via ordinaria, questo corra il pericolo di subire un pregiudizio imminente e irreparabile, fuori dai casi previsti dagli articoli precedenti e cioè, in tutti i casi in cui la tutela cautelare della situazione di vantaggio non possa essere adeguatamente assicurata dai provvedimenti tutelari tipici.

Il provvedimento di urgenza ha invece natura atipica nel senso che è concesso al giudice il potere di disporre della protezione del diritto qualsiasi provvedimento risulti più consono alle circostanze del caso concreto, sicché non è predeterminato il contenuto degli effetti giuridici del provvedimento, fermo restando però, che deve affermarsi il principio per cui non è possibile concedere in via di tutela d'urgenza effetti giuridici che non potrebbero essere concessi anche in sede di merito, talché, rispetto al particolare problema della tipicità delle misure inibitorie, generalmente affermata dalla dottrina, alcuni avevano sostenuto che la misura inibitoria potesse eventualmente concessa in fase cautelare anche quando non poteva essere concessa al termine del procedimento di merito, ma l'opinione che ha prevalso alla fine è stata quella secondo cui il provvedimento può avere anche un contenuto pienamente anticipatorio degli effetti della sentenza di merito, ma non un contenuto più ampio di quanto la sentenza stessa di merito potrebbe prevedere.

Alcuni dubbi si sono ragionevolmente posti, in realtà attorno all'applicabilità del provvedimento d'urgenza alla generalità delle situazioni di vantaggio attributive del bene della vita, in particolare per esempio, si è dubitato della anticipabilità degli effetti giuridici di carattere costitutivo, sul presupposto che per effetto dell'esercizio potestativo la situazione di vantaggio si perfezioni soltanto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di accoglimento della domanda, e pertanto non possa essere protetta interinalmente, però a dire il vero, l'orientamento prevalente è stato diverso, nel senso che non soltanto si è osservato che normalmente la tutela costitutiva viene chiesta, ma anche accomnandola a una tutela di carattere esecutivo riferita ad effetti giuridici conseguenti alla costituzione del rapporto. Per fare un esempio si chiede nella costituzione di una servitù di passaggio e anche la condanna del convenuto a rimuovere gli ostacoli al passaggio stesso. Orbene, in linea di massima anche ai fini dell'esecutività immediata della sentenza di merito si giunge facilmente alla conclusione che possa immediatamente promuoversi l'esecuzione anche di quei capi di condanna che pure dipendano da capi costitutivi, e ancorché i capi costitutivi non siano ancora passati in giudicato e correlativamente, alcuni si sono anche spinti a dire che nell'immediatezza degli effetti esecutivi della sentenza di primo grado discenda in via generale, l'immediatezza della riduzione degli effetti costitutivi. Forse non è necessario spingersi fino a questo punto, e probabilmente questa tesi è un po' troppo forte e converrebbe tenere ferma l'idea per cui l'immediatezza della produzione di effetti esecutivi concerne solo gli effetti esecutivi cioè quelli riferiti ai capi di condanna, anche se s tratta magari di capi di condanna dipendenti da statuizioni non ancora passate in giudicato. Però, ciò non esclude in realtà la tutela in via d'urgenza dei diritti potestativi perché questa deve essere riconosciuta sulla base del principio chiovendiano e cioè sulla base che in tanto in quanto sussistano le ragioni d'urgenza, cioè sussiste il pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile alla situazione attributiva del bene della vita, allora, senza dubbio anche effetti di natura costitutiva debbono poter essere anticipati attraverso il provvedimento d'urgenza.

Limiti all'esecutività immediata dei capi della sentenza alla fine sono riscontrabili in determinati ipotesi di particolare accessorietà, per esempio: secondo la giurisprudenza prevalente si ritiene che il capo di sentenza contenente la condanna alle spese del soccombente, non sia immediatamente eseguibile nelle ipotesi in cui esso acceda a una sentenza di rigetto della domanda e sia immediatamente eseguibile solo quando accede ad una sentenza di accoglimento della domanda sul presupposto della particolarmente intensa accessorietà della condanna alle spese rispetto ad un provvedimento che nell'ipotesi di rigetto della domanda è privo di effetti esecutivi perché consiste in un mero accertamento negativo della sussistenza della pretesa.

Si tratta di una ricostruzione un po' opinabile infatti la dottrina prevalentemente la contesta e ritiene che l'esecutività immediata debba valere anche per il capo contenente la condanna alle spese nell'ipotesi di rigetto della domanda, ma tornado al provvedimento d'urgenza dobbiamo concludere senz'altro in favore dell'anticipabilità degli effetti costitutivi a prescindere dalla sussistenza di effetti esecutivi dipendenti immediatamente eseguibili.

Altro problema, di cui ci siamo già imbattuti, è quello dell'anticipabilità degli effetti di mero accertamento a proposito dell'interesse ad agire, perché è ragionevole porsi il problema se sussista un interesse a conseguire un accertamento mero in via d'urgenza è costituito dalla disponibilità dell'esperimento di soddisfare la situazione di vantaggio fatta valere e posto che l'azione di mero accertamento è diretta a risolvere uno stato di incertezza intorno all'appartenenza del diritto e che questo stato d'incertezza è dissipato solo dal passaggio in giudicato della decisione che pronuncia intorno all'appartenenza del diritto, dato che il provvedimento cautelare è inidoneo a produrre gli effetti della cosa giudicata sostanziale verrebbe automatico dire che non esiste un interesse a conseguire un mero accertamento che non possa essere provvisto di tale autorità, di un'efficacia vincolante intorno all'accertamento stesso, il ragionamento sembra filare salvo che poi, quando si esamina la giurisprudenza,si scopre che il provvedimento d'urgenza di mero accertamento vengono concessi perché se si osserva questa prassi, ci si accorge come questi provvedimenti non siano provvedimenti di mero accertamento, perché tipicamente quelli che vengono concessi non sono provvedimenti che accertano un diritto di proprietà, ma provvedimenti bensì che accertano che un dato comportamento è illecito, ossia si tratta di provvedimenti che tendono ad avere un contenuto inibitorio e la ragione per cui si tende a qualificarli come provvedimenti di mero accertamento, si riconduce a una teoria, che è la teoria della necessaria correlazione tra condanna ed esecuzione forzata, secondo cui si qualificano come provvedimenti di condanna solo quelli che sono passibili di esecuzione forzata nelle forme tipiche previste dalla legge, la teoria in realtà è arbitraria ed è anche ideologicamente orientata a conseguire determinati obiettivi di frustrazione della tutela delle situazioni di vantaggio sostanziali.

Dobbiamo invece riconoscere che questa correlazione necessaria non esiste, che la tutela di condanna ha un ambito di applicazione più vasto di quello di formazione del titolo esecutivo diretto a promuovere l'esecuzione forzata nelle forme previste dalla legge. Il provvedimento inibitorio va anch'esso qualificato come provvedimento di condanna e qui si capisce perché per un verso sia possibile ottenere questo tipo di tutela anche in via d'urgenza, per altro verso questa tutela possa essere conseguita purché si tratti di tutela di condanna soltanto quando sussista una specifica dimostrazione dell'interesse ad agire determinato dallo stato d'incertezza intorno all'illiceità di un comportamento che viene effettivamente tenuto o seriamente minacciato, in cui quindi, si può conseguire un'inibitoria che pur non costituendo titolo per l'esecuzione forzata ha in realtà la natura di provvedimento di condanna.

Più fondato è invece il discorso che individua limiti di applicabilità della tutela d'urgenza per effetto del riferimento della norma alla irreparabilità del pregiudizio, perché qui corre un argomento abbastanza forte e formulabile come segue.

Ai sensi dell'art. 2740, il creditore risponde delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, pertanto l'obbligazione a contenuto pecuniario sembrerebbe non essere passibile di subire un pregiudizio irreparabile l'eventuale pregiudizio che il creditore soffra per effetto dell'inadempimento, sembrerebbe sempre riparabile eventualmente sulla base dell'esecuzione forzata compiuta sui beni di cui il debitore in futuro diverrà proprietario, però anche questo ragionamento conosce alcune eccezioni. In linea di massima crediti a contenuto pecuniario non sono passibili della tutela d'urgenza, però in alcuni casi c'è da osservare che la legge prevede un credito a contenuto pecuniario allo scopo di perseguire un obiettivo ulteriore rispetto a quello della soddisfazione pecuniaria, o meglio il credito pecuniario è strumentale alla soddisfazione di altri valori. Il caso più evidente è quello del credito alimentare, in questo caso il amento è diretto ad assicurare una dignitosa esistenza in vita del titolare, e quindi, rispetto a questo credito la tempestività del amento assume una sua autonoma rilevanza poiché la sua tardività rischia per ledere irreparabilmente, non tanto il diritto e il credito stesso quanto il valore che il redito è diretto a soddisfare cioè può ridurre alla fame la persona che sarebbe titolare del credito alimentare, e questa fame è conurabile come pregiudizio irreparabile, a poco rileva a quel punto, difendersi affermando che resta pur sempre salva la possibilità di conseguire le somme maggiorate degli interessi in un successivo momento.

Un discorso analogo si fa rispetto credito a contenuto pecuniario spettante al lavoratore subordinato, sul presupposto che in forza della norma costituzionale che attribuisce al lavoratore il diritto a un'esistenza libera e dignitosa per se e la propria famiglia sulla base della propria retribuzione, la tardività nel amento delle somme può frustrare questo valore ulteriore la cui soddisfazione è realizzata attraverso il credito retributivo, perciò, anche in questo caso si ammette il ricorso alla tutela di urgenza.

Il procedimento cautelare uniforme, introdotto dal legislatore del '90, disciplina quella materia degli accertamenti tecnici preventivi e di disciplinare, in via generale la materia della tutela cautelare. Qui il legislatore ha compiuto diverse operazione in tema di competenza cautelare, in tema di stabilità del provvedimento, di reclamabilità e così via e vediamo di esaminare in ordine non del tutto sparso, ma con andamento esegetico.

In materia di competenza, qui occorre ricordare che il legislatore rinnovando, rispetto al passato, perché in passato per esempio per i provvedimenti cautelari era prevista competenza funzionale del pretore, sicché era previsto un verticale riparto della competenza, oggi, la regola generale è quella della coincidenza tra la competenza per la cautela e la competenza per il merito, questo vale sia per le ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia richiesto ancor prima dell'inizio della causa di merito, sia nell'ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia richiesto in pendenza della causa di merito. Per il caso in cui il provvedimento cautelare sia richiesto ante causam, come si dice, la competenza è attribuita al giudice che sarebbe competente per il merito, il che vuol dire che esistono fori concorrenti per la tutela cautelare, tutte le volte che esistano fori concorrenti per il merito; per i diritti di obbligazione l'attore ha anche facoltà di scelte in genere tra più giudici alternativamente competenti, questa facoltà di scelta può essere esercitata anche ai fini del provvedimento cautelare.

Non credo che si debba però giungere alla conclusione che l'incardinamento della competenza di un  certo foro attraverso la richiesta a tale foro del provvedimento cautelare vincoli in alcun modo la parte attrice nella scelta del giudice da adire per la causa di merito, laddove per ipotesi sussista una pluralità di fori competenti, nulla escluda che l'attore promuova la causa di merito dinanzi a giudice diverso da quello che avviene sul provvedimento cautelare purché anch'egli competente.

Ci sono alcune eccezioni alla regola della coincidenza competenza cautelare con la competenza per il merito, ossia casi in cui la competenza cautelare viene attribuita ad un giudice che non sarebbe competente per il merito. Anzitutto vi è il caso dei giudici di pace, i quali sono del tutto privi di competenza cautelare così come in materia di competenza esecutiva, sicché la relativa domanda cautelare si pone al tribunale sovraordinato. Poi c'è il caso del compromesso, cioè dell'ipotesi in cui la causa sia soggetto di compromesso per arbitrato. Si nega l'attribuzione agli arbitri dei poteri cautelari e quindi la competenza cautelare è affidata a quel giudice che sarebbe stato competente se non ci fosse stato il compromesso. Problemi particolari desta l'ipotesi del compromesso per arbitrato libero, perché tradizionalmente la giurisprudenza riteneva che il compromesso per arbitrato libero, conurandosi come una sorta di transazione fosse pertanto esclusa, in realtà, la tutela cautelare dalla circostanza che le parti avessero sostanzialmente rinunciato alla giurisdizione come sovente si diceva. Questa ricostruzione giurisprudenziale è fortemente contestata dalla dottrina che ha sempre invece ritenuto ed affermato che la potestà cautelare non può essere esclusa dalla presenza di un compromesso per arbitrato libero, e con varie indicazioni normative recenti e tendenze interpretative anche giurisprudenziali sembrano rendere sempre più vicino l'avveramento dell'idea secondo cui, appunto, anche in presenza di arbitrato libero sarà possibile ottenere il provvedimento cautelare.

Altra eccezione è quella in cui la giurisdizione spetti al giudice straniero, in questo caso, non è esclusa in via di principio la possibilità che possa sussistere la giurisdizione ai fini della tutela cautelare, anzi nell'abito dello spazio giudiziario europeo, è abbastanza frequente la circolazione di provvedimenti cautelari resi da giudici che sarebbero privi della giurisdizione sul merito della causa. L'art. 24 della Convenzione di Bruxelles e il Regolamento 44/2001 n. 35, consente esplicitamente di conseguire provvedimenti cautelari da giurisdizioni che sarebbero prive del potere di giudicare sul merito della causa e normalmente si permette l'esercizio di questo potere di solito ricollegandolo alla competenza del giudice del luogo ove si trovano i beni di cui dovrà eseguirsi il provvedimento. ebbene! Posto quindi che non è escluso in partenza la sussistenza della giurisdizione cautelare anche quando manchi la giurisdizione del merito, poi il legislatore si preoccupa di individuare quale giudice sia competente in questo caso e lo individua, coerentemente con quanto scelgono di fare quasi tutti gli ordinamenti europei, appunto del giudice del luogo di attuazione della misura cautelare, del luogo in cui questa dovrà essere eseguita.

Infine, c'è un altro caso sottile di non coincidenza della tutela cautelare con la coincidenza della tutela del diritto, ed è dato dall'ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia richiesto in pendenza per i termini per l'impugnazione della sentenza, perché qui la legge consente di richiedere il provvedimento cautelare, e sembra un po' paradossale che si richieda un provvedimento cautelare dopo una sentenza, perché si potrebbe dire: "ma ..o la sentenza mi ha riconosciuto il diritto e casomai eseguo questa! ..oppure non me l'ha riconosciuto.e allora come posso chiedere la cautela!!??..". In realtà, è possibile che si abbia diritto a una cautela in pendenza dei termini per l'impugnazione della sentenza, perché non è detto necessariamente che il contenuto della tutela cautelare coincida con il contenuto della sentenza di merito, non può avere un contenuto più ampio, non può avere un contenuto radicalmente diverso, però potrebbe avere un contenuto non completamente coincidente e meritevole di essere anticipato nell'ipotesi in cui non si possa immaginarne l'immediata produzione di effetti della sentenza, e però, nel corso dei termini per la sua impugnazione siano solo allora prodotti i pericula in mora, i pericoli di pregiudizio imminente e irreparabile ad esempio, che non si erano prodotti in precedenza, sicché si ritiene appunto, che il provvedimento contrario fosse richiesto anche quando la causa pende in grado d'Appello e persino quando pendono i termini per l'impugnazione della sentenza di primo grado, dovendosi richiedere il provvedimento al giudice che ha pronunciato la sentenza, e quindi qui manca coincidenza tra competenza per il merito e competenza cautelare, perché il giudice che ha pronunciato la sentenza ormai si è spogliato del potere di pronunciare sul merito della causa, e quindi non è più competente per il merito della causa, tuttavia, conserva questa potestà cautelare.

In tutti gli altri casi in cui il provvedimento cautelare sia chiesto lite pendente, la competenza è attribuita al giudice presso cui pende la causa, ma qui sono possibili due interpretazioni. Secondo alcuni il giudice presso cui penda la causa di merito è competente per la tutela cautelare anche se non è competente per il merito e ciò in quanto, il criterio attributivo della competenza previsto dalla legge, fa riferimento alla mera pendenza presso quel giudice della causa per merito. Ma secondo altri, invece, la norma va interpretata nel senso che la potestà cautelare spetti al giudice presso cui penda la causa per il merito purché, egli sia competente per il merito.

Il punto è abbastanza delicato perché se il criterio di competenza è determinato dalla mera pendenza della causa del merito, indipendentemente dalla circostanza che si appella dinanzi al giudice competente per il merito, giungiamo alla conclusione che di fatto la competenza non costituisce un presupposto della tutela cautelare litependente, perché se è sufficiente l'atto unilaterale dell'attore che proponga la domanda dinanzi al giudice competente per radicare la competenza cautelare di fatto è come dire che non esistono criteri di competenza cautelare, che l'attore si sceglie il giudice che vuole per il provvedimento cautelare che ha un potere/dovere di renderlo indipendentemente dalla sua competenza per il merito. Cosa che di per se non potrebbe neanche essere scandalosa! Consideriamo che nella giurisdizione amministrativa si ritiene che la competenza non sia un presupposto della tutela cautelare, ma ci sono aspetti di irreversibilità del provvedimento cautelare soprattutto nella giurisdizione amministrativa che forse suggerirebbero una maggiore prudenza.

In generale, però, non ci si può accontentare molto facilmente delle interpretazioni che dispensino di fatto dal requisito della competenza ciò indipendentemente dal fatto che le statuizioni sulla competenza cautelare non siano passibili di controllo in Cassazione tramite regolamento di competenza, questo è un aspetto di cui abbiamo parlato trattando del regolamento di competenza. La Cassazione è alla fine giunta ad ammettere che non possa promuoversi regolamento di competenza ne alcuna forma di controllo per Cassazione contro le pronunce sulla competenza cautelare diversamente da quanto accadeva in passato e ciò su una scorta di un ragionamento ben poco sistematico, perché, la Corte ha detto non ammettiamo più il regolamento di competenza perché adesso c'è il reclamo che è cosa incongrua perché ilo vero argomento per negare l'accessibilità alla Cassazione ai fini del controllo su queste pronunce, e quello di osservare che non vi è accesso alla Cassazione ai fini generali del controllo di queste pronunce, e allora se non ci si può arrivare ai fini del generale controllo di legittimità, non si capisce perché ci si debba arrivare soltanto ed esclusivamente ai fini del controllo sulla pronuncia della competenza, ma questo ragionamento che fila, filava anche prima dell'introduzione del reclamo.

Il reclamo conferisce una garanzia in più alle parti, ma non sembra influire sulla struttura sistematica della disciplina positiva, resta il fatto che è bene tenerne conto nell'esperienza pratica, capita spesso che la Cassazione risolva problemi di interpretazione sulla base di argomentazioni non rigorose legate a una sua valutazione di sufficienza o meno delle garanzie offerte alle parti.

Oggi, appunto, la Cassazione nega che possa dedursi con regolamento di competenza la questione della competenza cautelare, ciò non vuol dire che tale competenza non costituisca presupposto per l'emanazione del provvedimento, sia quando si tratti di provvedimento ante causa, sia quanto si tratta di provvedimento reso litependente e non soltanto nel senso che comunque deve sussistere quel criterio di competenza costituito dalla pendenza della lite davanti a quel giudice, sicché, abbiamo incompetenza cautelare allorquando la domanda sia proposta litependente, ma a un giudice diverso da quello presso cui dipenda la causa di merito, ma anche nel senso che il giudice cui penda la causa di merito ma che sia incompetente per quella causa di merito, deve anche rigettare l'istanza cautelare perché sprovvisto della competenza per la stessa.

Alcuni hanno tentato di combattere questa opinione sul presupposto che altrimenti si correrebbe il rischio di veder qualificare la pronuncia di rigetto dell'istanza cautelare per incompetenza come provvedimento decisorio sulla competenza, ovvero la pronuncia in cui il giudice adito litependente per il provvedimento cautelare, dichiari di essere competente per il provvedimento cautelare è appunto, come passibile di impugnazione tramite regolamento di competenza, in quanto contenente attraverso il riferimento alla competenza per il merito, anche una pronuncia oltre sulla competenza cautelare anche sulla competenza per il merito. Però questo rischio si può evitare riaffermando e sottolineando che la valutazione per la competenza per il merito fatta ai fini della valutazione della competenza cautelare conserva il carattere della valutazione cautelare, quindi della valutazione non idonea al giudicato, passibile di diversa decisione nel successivo sviluppo del provvedimento e quindi priva della natura del provvedimento decisorio sulla competenza per il merito impugnabile come tale, salva l'ipotesi in cui il giudice si spinga a dire esplicitamente che si ritiene competente per il merito non soltanto ai fini dell'emanazione del provvedimento cautelare.

Altro discorso è quello della eventuale sopravvivenza del provvedimento cautelare reso litependente alla declaratoria di incompetenza per il merito per il giudice che l'abbia reso per effetto di una diversa valutazione della propria competenza per il merito, resa, appunto, ai fini della pronuncia sulla competenza per il merito anziché soltanto ai fini delle pronuncia sulla competenza cautelare. Al circostanza che il processo a seguito di riassunzione dinnanzi al giudice indicato come competente continui, che la competenza si qualifichi come presupposto della validità della sentenza e non anche degli altri provvedimenti del giudice, che gli effetti caducatori dei provvedimenti giudiziali diversi dalla sentenza si producano solo per effetto della estinzione del provvedimento, e non soltanto nella translatio iudici realizzata attraverso riassunzioni al giudice indicato come competente, consentono di giungere alla conclusione che il provvedimento cautelare conservi i suoi effetti, ancorché reso dal giudice riconosciutosi successivamente non competente per il merito, poiché, è stato reso comunque da giudice che ha esaurito nell'ambito del procedimento cautelare la propria valutazione sulla propria competenza cautelare, cosicché, la stessa, in realtà, non può più essere messa in discussione neanche implicitamente in dipendenza del riconoscimento dell'incompetenza del giudice che ha concesso questo provvedimento cautelare prima di rendersi conto di essere incompetente per il merito.

Questo discorso va fatto in relazione alla problematica della cosiddetta strumentalità strutturale del provvedimento cautelare.

Prima di esaminarla, incidentalmente, approfondiamo un momento la disciplina più strettamente procedimentale contemplata dagli artt. 669bis e segg., in particolare occorre ricordare che l'atto introduttivo della causa ha la forma del ricorso, e che l'attività di istruzione probatoria o meglio di indagine sui fatti nel contesto del procedimento cautelare non va qualificata affatto come un'attività di valutazione ipotetica dei fatti, come un'attività di ricostruzione dei fatti che sostanzialmente consenta l'accoglimento dell'istanza cautelare tutte le volte che risulti verosimile la prospettazione attoria sulla base inquod plerumque accidit, anziché sulla base di riscontri probatori di quanto effettivamente accaduto, cioè non è sufficiente, come alcuni affermavano,  raccontare una storia coerente non inverosimile, occorre che le affermazioni sui fatti siano correlati da riscontro, e non solo, che questi riscontri siano svolti mediante attività di istruzione probatoria, cioè di vera e propria raccolta di prove nel contraddittorio delle parti assicurando la celerità del procedimento attraverso una semplificazione dell'attività di istruzione probatoria, per cui ai sensi dell'art. 669sexies gli atti di istruttoria probatoria si compiono, ma solo quelli che siano necessari e indispensabili in relazione alla natura degli effetti del provvedimento richiesto e quindi non si raccolgono tutte le prove rilevanti, ma soltanto quelle principali, inoltre la raccolta di questi elementi di prova avviene omettendo le formalità che non siano indispensabili al contraddittorio, il che vuol dire che questa attività di istruzione, come si dice sommaria o semplificata, può prevedere per esempio che dalle persone informate sui fatti si raccolgano deposizioni anche senza bisogno previamente di sottoporle a giuramento. Questa è una prassi molto frequente nell'ambito della tutela cautelare e che è compatibile con le esigenze di sommarietà e di celerità che devono caratterizzare il procedimento.

In quelle ipotesi in cui la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento, questo può essere anche concesso, come si dice, inaudita altera parte a contraddittorio posticipato. E quali sono le ragioni? Essenzialmente sono di due ordini, ci sono ragioni di eccezionale celerità e urgenza, per cui la perdita di tempo derivante dall'esigenza della convocazione della controparte a poter pregiudicare l'attuazione del provvedimento, e poi ci sono tutte quelle ipotesi nelle quali il rischio di pregiudizio di attuazione del provvedimento discende dalla circostanza che sia l'avversario a poterlo rendere ineseguibile ove messo preventivamente a conoscenza del timore di subirlo. In particolare ai fini dei sequestri è chiaro che spesso si può ottenere ragionevolmente, che l'esibizione del provvedimento possa essere frustrata dalla sua previa conoscenza da parte dell'avversario che provvede a distruggere o a far sparire il documento che si intende sequestrare, quindi anche in queste ipotesi è ragionevole che si possa concedere il provvedimento inaudita altera parte. In questo caso però, sempre è richiesto che la narrativa di fatto attoria sia corredata da un supporto probatorio, ma l'attività di indagine sui fatti è ulteriormente semplificata dalla circostanza che, appunto, non vi è contraddittorio sicché, il legislatore ricorre a una conclusione che ritroviamo in tanti luoghi del codice, ire quando si fa riferimento all'attività di indagine sui fatti senza contraddittorio, cioè si dice che il giudice assume sommarie informazioni, il che non vuol dire che si tratta meramente allo stato degli atti e soltanto su risultanze precostituite.

Possono acquisirsi risultanze nel corso del procedimento di nuovo, ad esempio, attraverso l'audizione di persone informate sui fatti, di tali ipotesi il provvedimento non è concesso con ordinanza che è la tipica forma del provvedimento inidoneo al giudicato, ma reso in contraddittorio, bensì viene resa con decreto, che è la forma tipica del provvedimento inidoneo al giudicato, ma reso senza contraddittorio delle parti. Decreto, il quale, però, è fortemente instabile poiché è destinato a perdere i suoi effetti se la parte non provveda all'immediatamente successiva attivazione del contraddittorio, attraverso notificazione del decreto all'avversario del decreto che concede il provvedimento, e che fissa l'udienza nella quale nel contraddittorio delle parti si discuterà di nuovo di questa tutela cautelare e si avrà un riesame automatico del provvedimento con facoltà del giudice, ovviamente, di confermarlo o anche di revocarlo o modificarlo, naturalmente con ordinanza avendosi l'attivazione del contraddittorio tra le parti.

Il provvedimento richiesto può, quindi, avere sia quando sia reso immediatamente in contraddittorio sia a seguito di contraddittorio posticipato un contenuto di accoglimento anche solo parziale dell'istanza o di rigetto. Il regime di stabilità del provvedimento cautelare cambia a seconda se il contenuto della pronuncia sia di accoglimento o di rigetto, perché nell'ipotesi di pronuncia di accoglimento si applica, ed è tuttora la regola generale, il principio per cui alla strumentalità funzionale del provvedimento cautelare si accomni una strumentalità strutturale. Cosa si intende dire? Quando parliamo di strumentalità funzionale tendiamo ad alludere alla circostanza che il provvedimento cautelare è diretto ad assistere, a proteggere, ad accomnare una tutela nel merito, e quindi può avere per contenuto l'anticipazione degli effetti della sentenza di merito ovvero, la conservazione della situazione inesistente in attesa della sentenza di merito, ovvero, come dicevamo nel caso dell'accertamento tecnico, l'acquisizione delle risultanze probatorie in attesa del procedimento di merito. Ma a questa strumentalità funzionale, tradizionalmente si accomna una strumentalità strutturale, tale per cui il provvedimento perde i suoi effetti se non viene tempestivamente instaurata se reso antecausa, o comunque regolarmente coltivata anche la causa per il bene. Sicché il provvedimento che accoglie l'istanza cautelare, deve necessariamente contenere, se reso anta causam, per avviare la causa di merito, e se la causa di merito non viene avviata in tempo, ovvero comunque si estingue, ovvero comunque si conclude con una sentenza che dichiara inesistente il diritto cautelato, anche quando si tratti di sentenza non passata in giudicato, ecco che il provvedimento cautelare è caducato, per i suoi effetti diventa inefficace, che consegue tralaltro all'ipotesi in cui venga previsto il versamento di una cauzione già versata e che poi si applichi con adattamenti alle varie ipotesi in cui il procedimento di merito debba essere coltivato dinanzi ad arbitri, e in questo caso deve essere tempestivamente richiesta l'esecutorietà del lodo straniero, oppure si svolga dinnanzi ad una giurisdizione straniera, anche in questo caso si deve, poi, richiedere tempestivamente l'esecuzione del provvedimento straniero e così via!

Il legislatore ha anche previsto un mini procedimento per ottenere una specifica declaratoria della sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare derivante dalla mancata attivazione e coltivazione della causa di merito, perché esiste un interesse della parte che ha subito il provvedimento cautelare a vedere dichiarata inequivocabilmente, la sua sopravvenuta inefficacia e a dar fine il procedimento previsto dall'art. 669novies, che prevede che con ricorso al giudice che ha promanato il provvedimento cautelare sia possibile ottenere questa dichiarazione della sopravvenuta inefficacia con un provvedimento che ha forma diversa a seconda che sussista o meno contestazione della sopravvenuta inefficacia da parte dell'avversario. Se non vi è contestazione alcuna, diviene necessario attivare il contraddittorio e sentirlo, se attivato il contraddittorio la controparte non contesta, la sopravvenuta inefficacia è dichiarata con ordinanza.

Quando si ha contestazione del convenuto, la sopravvenuta inefficacia sulla questione, vi si rende una sentenza a sua volta impugnabile sicché può aver luogo un procedimento a cognizione piena avendo ad oggetto la declaratoria della sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare.

Tale declaratoria, peraltro, è resa d'ufficio con separata ordinanza dal giudice di merito che dichiari l'inesistenza del diritto cautelato, tuttavia laddove il giudice di merito ometta di provvedere a questa ordinanza, la ricostruzione più plausibile sia quella che prevede che anche in queste ipotesi sia possibile chiedere al giudice chi ha emanato un provvedimento che in ipotesi sia diverso da quello che dichiarato l'inesistenza del diritto cautelare a tale declaratoria.

Qui c'è da fare un discorso importante, e cioè, che si tratta di una regola che finirà per essere abbandonata in larga misura e in parte è stata già abbandonata, perché ci si è accorti che in tutte quelle ipotesi in cui il contenuto del provvedimento cautelare è anticipatorio degli effetti della sentenza di merito, può ben darsi che la parte sia soddisfatta degli effetti prodotti dal provvedimento cautelare e che non abbia particolare interesse a vedere consolidati questi effetti dal passaggio in giudicato di una sentenza di merito che li affermi, sicché, se la parte potesse contare la parte attrice sull'ultrattività di questi effetti, cioè sulla stabilità degli effetti del provvedimento cautelare a prescindere dalla coltivazione della causa di merito, probabilmente non la coltiverebbe affatto e si accontenterebbe della risoluzione sommaria del conflitto ancorché sprovvista dell'efficacia vincolante del giudicato, con un effetto deflativo del contenzioso fortemente benefico per un sistema che fa molta fatica stare al passo con la domanda di giustizia proveniente dalla cittadinanza.

A questa conclusione sono arrivati da molto tempo i francesi assicurandosi un'efficienza maggiore della nostra dell'amministrazione della giustizia, in Belgio, in Olanda, e si finirà per arrivarci anche da noi e in qualche misura ciò è già vero per quel che riguarda il cosiddetto contenzioso societario, poiché nella riforma del diritto societario, che parleremo, la riforma avente l'obiettivo di anticipare e sperimentare gli effetti della più generale forma del rito civile, è già esplicitamente previsto che non sussista strumentalità strutturale per i provvedimenti cautelari anticipatori e curiosamente per tutti  provvedimenti di urgenza. quindi la scelta legislativa è forse discutibile indipendentemente dalla circostanza che abbiano un contenuto meramente anticipatorio, di che sembrerebbe ammettere l'ultrattività che i provvedimenti di urgenza di carattere meramente conservativo, che forse è più discutibile, perché rispetto ai provvedimenti di carattere conservativo sembra più congruo richiedere alla parte di coltivare il processo sino alla pronuncia di una sentenza sul merito. Però prendiamo atto della scelta legislativa e diciamo quindi che in queste ipotesi il provvedimento cautelare conserva i suoi effetti anche se non vi è alcuna tempestiva instaurazione della causa di merito e anche se si estingue il procedimento sul merito.

Si verifica senz'altro la caducazione allorché il giudice del merito dichiari l'inesistenza del diritto cautelato, e questo rimane ferma la prevalenza della sentenza sul provvedimento cautelare.

Il vecchio sistema per la stabilità del provvedimento cautelare si distingueva fra l'ipotesi del sequestro che era dotata di una compiuta regolamentazione e le altre in cui la regola, invece, andava trovata sulla base di regolamentazioni sistematiche. Per il sequestro il legislatore prevedeva non soltanto il requisito della tempestiva attivazione della causa per il merito, ma anche l'attivazione di un giudizio a cognizione piena avente ad oggetto la verifica della sussistenza dei presupposti per la stessa emanazione del sequestro, questo procedimento che era denominato procedimento di convalida, si articolava in tutti i suoi tre gradi di giudizio a cognizione piena e la regola attribuiva anche una particolare stabilità al provvedimento di sequestro una volta concesso, poiché quasto perdeva l'effetto soltanto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che dichiarasse inesistente il diritto cautelato.

Il nuovo sistema, invece, per tutti i provvedimenti cautelari prevede la caducazione per effetto della sentenza di rigetto della domanda di merito anche se non passata in giudicato e quindi sin dal momento della sua pronuncia, e anche per tutti, prevede esplicitamente uno strumento di riesame dei presupposti della concessione del provvedimento, che però non è più un intero giudizio di cognizione piena articolato in tre diversi gradi, bensì si qualifica come un mero e più agile reclamo, scché il riesame dei presupposti di legittimità della concessione del provvedimento uò essere innescato attraverso proposizione del reclamo al giudice di volta in volta individuato come competente per lo stesso in relazione alla competenza del giudice che ha emanato il provvedimento in primo grado, implica che sia assicurato il principio per cui il riesame venga compiuto da un giudice diverso da quello anche nella sua composizione personale nella formazione del collegio, diverso da quello che ha reso il provvedimento in prima istanza.

Accanto a questo sistema del reclamo con decisione sul reclamo non passibile di ulteriore impugnazione e di ulteriore forme di riesame come tale, accanto al sistema del reclamo sussiste poi il meccanismo della revoca o modifica del provvedimento cautelare per effetto di mutamenti delle circostanze, sistema che prevede che la relativa istanza vada però proposta al giudice istruttore della causa di merito, talché, la revoca o la modifica del provvedimento cautelare fondata sulla sopravvenienza di nuove circostanze, postulerebbe in base a questo sistema l'attivazione della causa di merito, attivazione che peraltro, pur non essendo sempre necessariamente a disposizione anche della parte che abbia subito il provvedimento cautelare, perché e vero che si è larghi di manica per la legittimazione di accertamento negativo, però sembrerebbero pur sempre sussistere le ipotesi in cui il convenuto in sede cautelare non è legittimato a proporre in proprio la domanda di accertamento negativo della sussistenza della pretesa vantata nei suoi confronti dall'attore, ma in ogni caso, dubbi della ragione del convenuto sono assicurate dalla circostanza che l'accesso al giudice della causa di merito è assicurato dall'iniziativa dell'attore poiché questi ha l'onere di compiere tale iniziativa a pena di inefficacia della misura cautelare, cioè grava sull'attore il compito di attivare la causa di merito altrimenti perde effetto il provvedimento cautelare e con ciò l'attore fornisce al convenuto, anche, un giudice a cui richiedere l'eventuale revoca o modifica del provvedimento. Però restava una lacuna. Poniamo l'ipotesi che il mutamento delle circostanze venga immediatamente dopo la pronuncia del provvedimento, quanto tempo mi tocca aspettare a me convento, prima di poter accedere al meccanismo dell'istanza di revoca? Il legislatore trovò una starna soluzione di compromesso, prevedendo che in pendenza del procedimento di reclamo, si possa chiedere per gravi motivi sopravvenuti la sospensione dell'esecutività del provvedimento cautelare concesso. Si tratta di una stranezza, perché in un certo modo abbiamo qui una cautela contro la cautela, una cautela al quadrato, in cui in via sommarissima il giudice del reclamo valuta se sospendere l'esecutività del provvedimento sommario, che pure è destinato a riesaminare in via sommaria, nel contesto di questo riesame sommario un esame sommarissimo nell'ambito di un sub procedimento interno al procedimento di reclamo dell'opportunità della sospensione dell'esecutività. Solo che, già introducendo questa possibilità, il sistema delle garanzie cominciò ad esplodere. Perché? Perché se noi concediamo al giudice del reclamo di conoscere dei mutamenti di circostanze, ai fini della sospensione dell'esecutività, possiamo poi imporgli di ignorarle ai fini della conferma del provvedimento? Cioè possiamo acchiarare il giudice del reclamo: "confermi il provvedimento perché legittimo pur avendo ritenuto che la sua esecutività vada sospesa per effetto di circostanze sopravvenute". Sembra assurdo e anche disumano chiederlo, appunto che infatti, si è generalizzata l'opinione che in realtà, il mutamento di circostanze possa essere dedotto anche in sede di reclamo, anche ai fini della revoca, modifica o conferma del provvedimento, e quindi si è determinata una parziale sovrapposizione di strumenti di tutela che sembravano essere stati pensati come previsti per situazioni diverse.

 La questione diventa ancora più complessa se abbandoniamo la strumentalità strutturale, perché in questo caso l'attore non ha più l'onere di mettere a disposizione del convenuto il rimedio dell'istanza di revoca per mutamento delle circostanze, perché può contare sulla conservazione degli effetti del provvedimento cautelare a prescindere dall'instaurazione della causa di merito, perciò correlativamente, si prevede nella riforma del rito societario che la revoca per mutamento di circostanze possa essere richiesta anch'essa a prescindere dall'instaurazione del giudizio del procedimento che è stato oggetto del merito della causa.

Ma non è finita con il problema delle sovrapposizioni, perché, il legislatore aveva a sua volta conurato un sistema di contrappesi tra le parti diversificato, per cui, nel disegno del legislatore del '90 era passibile di reclamo esclusivamente il provvedimento di concessione della misura cautelare, e non anche il provvedimento di rigetto dell'istanza. Conseguentemente, però, al provvedimento del rigetto dell'istanza si attribuiva un'efficacia preclusiva alquanto inferiore di quella del provvedimento di accoglimento, perché il provvedimento di accoglimento era passibile di reclamo, e inoltre se ne poteva ottenere la revoca sulla base di mutamento delle circostanze. Il provvedimento di rigetto, invece, può essere ribaltato molto più facilmente, perché si consente la riproposizione dell'istanza cautelare rigettata, anche sulla base della mera allegazione di nuove ragioni di fatto e di diritto ancorché queste, non siano affatto sopravvenute, cioè non siano prodotte successivamente alla pronuncia del provvedimento. Messa in altri termini! Il provvedimento di accoglimento dell'istanza copre anche il deducibile, sicché il provvedimento può essere posto nel nulla tramite la revoca soltanto sulla base di elementi che non erano stati dedotti in precedenza perché non erano deducibili in precedenza, perché non si erano verificati, per converso il procedimento di rigetto può essere ribaltato, cioè sostituito da un provvedimento di accoglimento anche sulla base di elementi di fatto e di diritto che erano già deducibili nel precedente procedimento conclusosi con ordinanza di rigetto dell'istanza cautelare, basti che si tratti di ragioni nuove quindi di ragioni non precedentemente dedotte, anche se già deducibili in quel momento.

Il provvedimento di rigetto, ha quindi una stabilità molto più tenue, non solo, nell'ipotesi in cui il rigetto sia dovuto all'incompetenza del giudice adito, il legislatore prevede che l'istanza sia riproponibile. Si è discusso se tale riproponibilità vada intesa nel senso che sia ammessa persino la riproposizione a quello stesso giudice che ha rigettato l'istanza per incompetenza. Più plausibile, forse se che l'istanza si possa riproporre tale e quale, ma ad un giudice diverso, in ogni caso la rilevanza pratica dell'attribuzione all'attore della possibilità di reiterare la richiesta allo stesso giudice è probabilmente abbastanza tenue, perché è chiaro che è una di quelle iniziative che non facilmente si sceglie di investirci dei soldi sopra!

E se l'istanza è rigettata per altri motivi di rito? Quale regime dobbiamo applicare, quello che consente la riproposizione soltanto sulla base di nuovi elementi, di nuove ragioni di fatto e di diritto, o quello che ammette la libera riproponibilità? Si sono dette cose abbastanza confuse! Se intendiamo nuove ragioni di fatto e di diritto come necessariamente nuove ragioni attinenti al fumus e al periculum ai presupposti di concessione del provvedimento cautelare di imminenza del pregiudizio e apparenza del buon diritto, è condivisibile l'opinione di quanti ritengono che il regime del provvedimento di rigetto per motivi di rito sia equiparabile a quello del rigetto per motivi di competenza, cioè che l'istanza possa essere riproposta tale e quale. È chiaro però, che è necessario che l'istanza venga proposta sanando il vizio procedimentale che aveva portato al rigetto dell'istanza stessa, sicché, se si intende invece la sussistenza di nuove ragioni di fatto come comprensiva dell'ipotesi in cui la nuova istanza sia esente dai vizi che ne abbia impedito l'accoglimento in occasione della sua prima proposizione, allora dobbiamo giungere alla conclusione che invece, il ricorso non è riproponibile tale e quale, è riproponibile, ma soltanto in tanto in quanto, a seguito della sua riproposizione sia sanato quel vizio. Mi sembra discutibile che l'effetto preclusivo si estenda fino a dover ricomprendere anche ciò che è stato esplicitamente deciso in occasione del primo procedimento, cioè altro è dire; è possibile la deduzione di ciò che era deducibile, altro è dire di limitarsi alla nuova deduzione esclusivamente di ciò che è stato già dedotto e insistere nel pretendere, per esempio, che una certa modalità di riproposizione del ricorso sia ritenuta legittima e non invece viziata sul piano procedimentale, ai fini della cognizione cautelare dovrebbe ritenersi precluso, una volta risolta sfavorevolmente una questione e di rito la possibilità di ottenere il riesame di questa stessa decisione di rito nel contesto stesso della tutela cautelare.

A ciò e intervenuta la Corte Costituzionale, la quale ha ritenuto che le garanzia di difesa delle parti, la parità delle armi, l'equilibrio delle loro possibilità difensive, non fosse sufficientemente assicurato dalla libera riproponibilità dell'istanza, perché, questo strumento non assicurava alla parte il riesame della decisione da parte di un giudice diverso nella sua composizione e formazione, pertanto doveva ritenersi costituzionalmente illegittima la disciplina del reclamo nella parte in cui consentiva di proporre a reclamo stesso anche i provvedimenti di rigetto dell'istanza cautelare, però a questo punto, cominciano a prodursi interferenze tra i vari meccanismi protettivi che finirono per incrementarne la ridondanza continuamente, perché a quel punto, se dobbiamo ritenere passibili di reclamo i provvedimenti anche di rigetto dell'istanza, perché su ogni pronuncia cautelare dobbiamo consentire un riesame da parte di un giudice diverso, allora, e qui ci è arrivata rapidamente la giurisprudenza, sono soggetti a reclamo i provvedimenti di rigetto per motivi, diciamo, di merito nel senso non di rito non per incompetenza non per il rito, ma anche i provvedimenti di rigetto per incompetenza e di rigetto per motivi di rito nonostante la maggiore tenuità dei loro effetti preclusivi rispetto ai provvedimenti di rigetto per altri motivi, ma addirittura, dobbiamo consentire il riesame da parte di giudice diverso dei provvedimenti di revoca e modifica, perché anche quelli si basano su una pronuncia cautelare riferita a questioni di fatto e di diritto non precedentemente dedotte e discusse, e perché non dobbiamo avere un riesame tramite reclamo anche di queste.

L'art. 669septies nel trattare del provvedimento negativo, prevede anche una pronuncia sulle spese. Come mai solo nelle ipotesi di provvedimento negativo è previsto una pronuncia sulle spese? In realtà , in passato, non si aveva mai pronuncia sulle spese del procedimento cautelare, ma si è osservato che nelle ipotesi in cui il giudice rigetta il provvedimento, le spese conseguenti normalmente alla soccombenza dovrebbero comunque spettare alla parte vincitrice, e in questo caso al convenuto, ma il convenuto non ha alcun onere e quindi neanche alcun interesse e a volte nemmeno alcuna legittimazione ad attivare il procedimento di merito. Nell'ipotesi in cui, invece, le spese debbano attribuirsi all'attore perché il provvedimento è d'accoglimento, si fa già gravare sull'attore stesso l'onere dell'instaurazione di una causa di merito e quindi ben può differirsi la pronuncia delle spese al momento in cui il giudice pronuncerà sul merito della causa, se invece il provvedimento è di rigetto, non si può immaginare un differimento della pronuncia al successivo sviluppo del contenzioso derivante dal raggiungimento di una decisione sul merito della causa, e quindi si costringerebbe il convenuto che volesse ottenere le spese spettategli per effetto della soccombenza nel procedimento cautelare ad esperire un autonomo giudizio di cognizione al solo ed esclusivo fine di ottenere il amento delle spese. E allora, sembra preferibile, a quel punto, piuttosto che far gravare sul convenuto l'onere di instaurare un giudizio a cognizione piena per le sole spese, consentire che sulle stesse pronunci direttamente il giudice adito per la tutela cautelare, solo che questo provvedimento, provvedimento sulle spese, non è un provvedimento cautelare, questo è certamente un provvedimento a contenuto decisorio riferibile ad una situazione di vantaggio attributiva di un bene della vita e che deve essere idoneo alla produzione degli effetti della cosa giudicata sostanziale, pertanto, il legislatore aggiunge che questo provvedimento non si impugna con reclamo, ma eventualmente si impugna con le forme ad opposizione a decreto ingiuntivo. Così, l'attore che ritenga ad esempio eccessive le spese liquidate a favore del convenuto vincitore, promuove la sua contestazione avviando un giudizio a cognizione piena intorno alla liquidazione delle spese attraverso un'opposizione, ex art. 645, contro quel capo del provvedimento cautelare che contiene la pronuncia sulle spese.

Però succede che tutto questo sistema ha un senso e una coerenza, quando il provvedimento di accoglimento non è soggetto a reclamo, ma se il provvedimento di accoglimento è soggetto a reclamo e per effetto del reclamo si ha quindi un nuovo esame sull'istanza cautelare originariamente proposta è chiaro che la pronuncia sulle spese non può non dipendere dall'esito del reclamo nei confronti del provvedimento. Come andiamo a coordinare allora, questo punto? L'eventuale risultato dell'opposizione contro la pronuncia sulle spese con il risultato del reclamo contro il provvedimento? È certo che la caducazione del capo sulle spese conseguente alla caducazione del capo principale a seguito del reclamo, ha effetto anche sul procedimento a cognizione piena innescato dall'eventuale opposizione contro il provvedimento di liquidazione, contro la pronuncia sulle spese riferibili al provvedimento reclamato, ma poniamo che succeda qualche cosa di più complicato! Ad esempio che il giudice ometta di pronunciare sulle spese. Per esempio che la contestazione del provvedimento cautelare tramite reclamo, sia riferita soltanto sulla pronuncia sulle spese, perché, per esempio sono state poste a carico della parte vincitrice. C'è stato un provvedimento di rigetto dell'istanza e però, accomnato da una condanna alle spese della parte convenuta. Oppure, ancora, possiamo immaginare un accoglimento della domanda cautelare accomnato lo stesso da pronuncia sulle spese, ancorché la legge non la prevedesse, da una condanna sulle spese che nei confronti della parte convenuta, ovvero, ancora magari della parte attrice. Alla fine la linea di tendenza sembra che si vada affermando della giurisprudenza, sia quella di consentire che anche la mera pronuncia sulle spese sia passibile di reclamo. E qui, il provvedimento soggetto a opposizione, è il provvedimento sulle spese contenuto, a questo punto, nella pronuncia sul reclamo, salvo l'eventualità e la possibilità che rimane alla parte di proporre opposizione solo ed esclusivamente nei confronti della pronuncia sulle spese, nella sola ipotesi in cui egli non promuove in alcun modo il reclamo nei confronti del provvedimento, altrimenti si è finito per dare priorità al sistema del reclamo e quindi prevalenza a questo sistema rispetto a quello dell'opposizione che diventa indispensabile soltanto a seguito dell'esperimento del reclamo o del decorso del termine per esperirlo.

Inoltre questa norma richiede un adattamento, come ha previsto la nuova disciplina del diritto societario, con riferimento a quelle ipotesi in cui il provvedimento di accoglimento sia idoneo all'ultrattività, perché in questo caso, se noi vogliamo che l'attore possa accontentarsi della risoluzione cautelare del conflitto, dobbiamo anche congruamente prevedere che possa aver luogo pronuncia sulle spese e anche nel provvedimento di accoglimento dell'istanza cautelare quando si tratti appunto, di accoglimento di istanza cautelare a contenuto anticipatorio riferibile ad un provvedimento d'urgenza la cui stabilità, come tale,  non sia quindi condizionata dall'instaurazione di una causa di merito, perché anche in questo caso, altrimenti, se non concedessimo alla parte la possibilità di conseguire la pronuncia sulle spese nell'ambito del procedimento cautelare la incentiveremmo ad esperire un autonomo giudizio a cognizione piena allo scopo di conseguire lo stesso risultato.

Abbiamo, poi da ricordare, una non meno problematica disciplina dell'attuazione del provvedimento cautelare. Qui la norma di riferimento è costituita dall'art. 669decies, che fa salve le norme relative all'esecuzione dei sequestri, che abbiamo accennato sopra, per cui i sequestri si eseguono nelle modalità dell'espropriazione nell'ipotesi del sequestro conservativo, e dell'esecuzione per consegna o rilascio nell'ipotesi del sequestro giudiziario, si prevede fatte salve queste regole, una formula il cui significato non è del tutto trasparente, cioè si dice, che si eseguono nelle forme di cui agli articoli 491 e seguenti, i provvedimenti cautelari che abbiano per oggetto somme di denaro, in tutti gli altri casi l'attuazione avviene dinanzi al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale risolve con ordinanza, difficoltà e contestazioni ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito. Qui le parole scelte hanno tutte un particolare significato, intanto la scelta di parlare di attuazione anziché di esecuzione è una scelta che vuole evocare l'idea che la tutela cautelare per la sua atipicità, possa anche realizzarsi in forme atipiche in ipotesi differenti da quelle tipiche previste per la vera e propria esecuzione forzata.

Si potrebbe sulla base di questo elemento trarre qualche argomentazione nel senso che sia realizzabile in via cautelare anche una tutela che non sia realizzabile ai fini dell'esecuzione del provvedimento di merito, però in questa interpretazione, sarebbe probabilmente troppo forzata ed eccessiva, comunque residua un'importante differenza tra i meccanismi di esecuzione e i meccanismi di attuazione del provvedimento cautelare, che sta non soltanto nella circostanza che la competenza sia attribuita allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento cautelare anziché secondo le regole per il riparto della competenza per i procedimenti esecutivi, c'è di più, e cioè, c'è la circostanza che di quando si parla di esecuzione, come vedremo, è data alle parti ampia facoltà di innescare nel contesto del procedimento esecutivo delle cosiddette parentesi di cognizione, cioè di avviare procedimenti di cognizione che hanno ad oggetto, a volte la sussistenza del diritto di procedere a esecuzione forzata, a volte, se ricordate ne abbiamo accennato parlando delle nullità e irregolarità avente per oggetto la regolarità dello svolgimento del procedimento esecutivo, ebbene, il riferimento all'attuazione vale soprattutto a suggerire che in tale contesto queste parentesi di cognizione non possano essere aperte e pertanto, non sia possibile contestare il diritto di procedere a esecuzione forzata tramite opposizione all'esecuzione, o contestare la regolarità dello svolgimento delle attività di attuazione promuovendo una opposizione agli atti esecutivi, e questa idea è ulteriormente confermata dalle due scelte lessicali compiute dal legislatore della norma, e cioè per un verso, quella di prevedere ove insorgano difficoltà o contestazioni il giudice le risolva con ordinanza, con ciò alludendo a quelle ipotesi in cui nel contesto di un normale procedimento esecutivo si potrebbero promuovere opposizione agli atti esecutivi, cioè questa locuzione suggerisce l'idea che in tutti quei casi in cui potremmo proporre opposizione agli atti esecutivi se fossimo nel contesto della esecuzione vera e propria del provvedimento giurisdizionale, allorquando siamo invece nel contesto dell'attuazione di un provvedimento cautelare, non possono essere proposte innescando un giudizio a cognizione piena come quello di opposizione agli atti esecutivi, bensì vengono risolti in via breve, ovviamente con ordinanza in contraddittorio, da parte del giudice preposto a presiedere all'attuazione della misura cautelare.

Inoltre, nella parte in cui la norma dice "ogni altra questione va fatta valere in sede di merito", si è dell'idea secondo cui la sussistenza del diritto di procedere a esecuzione, ossia ciò che formerebbe oggetto di proposizione all'esecuzione se ci trovassimo nel contesto di un procedimento esecutivo, in realtà non può in quella sede formare oggetto di opposizione all'esecuzione e deve essere necessariamente dedotta dinanzi al giudice del merito della causa, affinché questi provveda eventualmente alla revoca del provvedimento cautelare ove sussistano i presupposti, ovvero alla pronuncia di un provvedimento di merito caducatorio degli effetti del provvedimento cautelare ai sensi dell'art. 669novies, in quanto sentenza di merito che riconosca l'inesistenza del diritto protetto tramite la misura cautelare.

Tutto ciò sembra abbastanza chiaro, sennonché resta il problema di interpretare che cosa invece voglia intendere e disporre il legislatore per l'ipotesi di provvedimenti cautelari che abbiano ad oggetto somme di denaro, e che naturalmente, di tanto in  quanto, non si tratti di provvedimenti di sequestro, in realtà potremmo porci il dubbio, ma come dicevamo, i provvedimenti d'urgenza non possono avere ad oggetto somme di denaro, però, in qualche caso è possibile che il provvedimento d'urgenza abbia ad oggetto somme di denaro. Ebbene, cosa intendere dire il legislatore quando ci rinvia agli articoli 491 e seguenti. È chiaro per tutti che intende dire che la parte può procedere al pignoramento, all'attività corrispondente al pignoramento delle somme anche senza bisogno di svolgere quelle attività prodromiche al pignoramento che sono previste nella disciplina dell'esecuzione forzata in generale, cioè, la modificazione del titolo esecutivo e del precetto, che come vedremo devono precedere l'inizio della vera e propria esecuzione realizzata attraverso il pignoramento del bene. Ma coso ci dice a proposito del tema che forse più interessa e cioè quello della proponibilità delle opposizioni e magari anche considerato che qui si fa riferimento non più all'ipotesi che in sede esecutiva vedrebbero applicare un meccanismo dell'esecuzione per consegna o rilascio, dell'esecuzione di fare o di non fare, appunto il meccanismo dell'esecuzione per espropriazione, che dire dell'ammissibilità del concorso dei creditori della loro partecipazione alla distribuzione delle somme che si possono eventualmente dalla vendita del bene sottoposto a pignoramento sulla base di un provvedimento cautelare? Questi sono terreni, in cui ancora regna incertezza interpretativa.

In una recente monografia leggo un'argomentazione di questo tipo:".la legge non prevede esplicitamente che possa promuoversi l'opposizione all'esecuzione agli atti esecutivi.." quindi dobbiamo ritenere che questa non sia possibile anche in questi casi, quindi dobbiamo ritenere che la norma sia costituzionalmente illegittima perché non prevede questi strumenti di tutela. È un modo di argomentare ben curioso, perché esiste l'interpretazione costituzionale orientata, allorquando esiste un certo grado di opinabilità almeno fra inerpretazioni concorrenti, e una sola di esse risulti essere coerente con la Costituzione, è chiaro che sarebbe, casomai, quella da preferire, mi sembra difficile dedurre dalla mancata esplicita previsione dell'ammissibilità del ricorso alle opposizioni ineluttabilmente che queste non siano ammissibili così ineluttabilmente da doversi giustificare a quel punto una declaratoria di illegittimià costituzionale. Se il testo è incerto e si ritiene che l'accesso alle opposizioni sia costituzionalmente doveroso, allora il testo deve essere interpretato in modo di ammetterle, ma in realtà, è fortemente opinabile anche la tesi secondo cui sia costituzionalmente doveroso assicurare l'acesso alla opposizioni. In particolare il riferimento che a volte si rinviene alla dimensione costituzionalmente protetta della garanzia della par condicio creditorm e quindi del ditto al concorso dei creditori alla partecipazione dei risultati dell'espropriazione ogni qualvolta questa venga promossa a tutela dei crediti a contenuto pecuniario, mi sembra abbastanza forzata soprattutto se si considera che le ipotesi in cui è èpossibile ottenere un provvedimento cautelare diverso dal sequestro, ma aventa ad oggeto somme di denaro, sono ipotesi in cui il credito pecuniario, in realtà, è diretto alla protezione di valori ulteriori anch'essi di rilevanza costituzionale, e plausibilmente aventi una rilevanza costituzionale poziore rispetto a quella attribuibile attarverso un'interpretazione al principio della par condicio creditorum.

Stiamo parlando di crediti può o meno latamente alimentari, la circostanza che attraverso la tutela cautelare questi possano essere soddisfatti più facilmente degli altri crediti di denaro sembra ragionevole e tuttaltro che inaccettabile, quindi, non debba essere necessariamente respinta a priori l'idea che nonostante il riferimento all'art. 491 e seguenti, e quindi la forte suggestione che siano ricompresi nel rinvio acnhe gli articoli 615 e seguenti, cioè quelli che trattano del sistema delle opposizioni, sembra plausibile che nel contesto di questa modalità di attuazione che rimane attuazione del provvedimento cautelare, tutti questi strumenti non siano esperibili, e il rinvio agli artcoli 491 e seguenti, consista in un mero rinvio alle modalità di esecuzione del pignoramento, come modalità di realizzazione del credito e a una modalità di vendita del bene pignorato, ma non invece all'intero sistema del concorso dei creditori all'espropriazione e al sistema della opposizioni all'esecuzione all'opposizione degli atti esecutivi.

PROCESSO ESECUTIVO

PRINCIPI GENERALI E DINAMICHE DELL'ISTITUTO

In linea di massima il processo esecutivo è diretto strutturalmente a conseguire l'adempimento dell' obbligazione, a prescindere dalla cooperazione dell'obbligato.

Questo tipo di definizione, cioè la circostanza che si prescinda dalla volontà dell' obbligato, rende discutibile la riconduzione alla categoria dei procedimenti esecutivi delle forme di esecuzione indiretta che è l'unica possibile rispetto a quelle obbligazioni di fare di carattere fungibile rispetto alle quali l'interesse del creditore non può essere soddisfatto da un'esecuzione per surroga e per la realizzazione delle quali si rende costituzionalmente doverosa la predisposizione, in un sistema generalizzato di misure coercitive tendenti  a prendere sulla volontà dell'obbligato con scopo di indurlo ad adempiere.

Il diritto positivo vigente, in reatà, le contempla solo in casi particolari, al punto che parte della dottrina si spinge fino a sostenere che le sentenze di condanna a prestazioni di fare di carattere infungibile non sarebbero neppure qualificabili come vere e proprie sentenze di condanna, in quanto, per definizione la pronuncia , non potrebbe costituire titolo esecutivo, in quanto non potrebbe essere utilizzata per promuovere i procedimenti di esecuzione forzata diretta e, quindi, la pronuncia avrebbe un mero carattere di accertamento, secondo alcuni o di accertamento costitutivo secondo altri.

È una tesi che tende a negare la forza propulsiva che si può riconoscere all'art 24 della Costituzione in termini di produzione della tutela, da cui dovrebbe discendere il riscontro di una lacuna del sistema, dove, rispetto alle sentenze che invece vanno qualificate come sentenze di condanna ad obblighi di fare di carattere infungibile non è predisposto un idoneo apparato di strumenti.

Realizzare il principio chiovendiano secondo cui il processo deve consentire all'attore che abbia ragione di conseguire tutto quello e proprio quello che gli spetta in base al diritto sostanziale. Le riserve che molti muovono nei confronti dei sistemi di misure coercitive non vanno sopravvalutate, è chiaro che sarebbe eccessivo e inaccettabile ripristinare l'istituto della prigione per debiti, quindi si tratta di applicare un sistema di sanzioni pecuniarie progressive, commisurate al protrarsi nel tempo dell'inadempimento dell'obbligazione a ciò che queste continuino a premere sulla volontà dell'obbligato; che poi qui si abbia adempimento a prescindere dalla cooperazione dell'obbligato NO, però la cooperazione dell'obbligato è indotta, e coartata, però sembra più sensato ricondurre questi strumenti alla categoria dei metodi di esecuzione dell'obbligazione civile.

Ciò premesso, è chiaro che il diritto positivo si articola in modo tale da prevedere esplicitamente i procedimenti esecutivi, in realtà con riferimento a tutte le altre categorie di obbligazioni.

Qui bisogna distinguere tra PROCEDIMENTI DI ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA e PROCEDIMENTI DI ESECUZIONE PER ESPROPRIAZIONE O IN FORMA GENERICA.

1)  ESECUZIONE IN FORMA  SPECIFICA con riferimento agli obblighi di fare e di non fare, per alcuni dei quali (e cioè gli obblighi di consegna di beni mobili), rilascio di beni immobili è previsto un procedimento particolare. Al di là di queste due ipotesi particolari, per la generalità delle obbligazioni di fare e di non fare è previsto il procedimento che risulta applicabile tanto  in quanto l'obbligazione di fare e di non fare in cui si ottiene l'adempimento, non sia infungibile.

® ai fini dell'esame è da ricordarsi a proposito dell'esecuzione per gli obblighi di fare e di non fare:

·    Il titolo esecutivo deve essere costituito indefettibilmente da una sentenza;

·    Occorre, a seguito della notificazione a titolo esecutivo del precetto, rivolgersi al giudice dell'esecuzione con ricorso.

·    La competenza del giudice dell'esecuzione è determinata dal luogo in cui deve rendere sull'obbligazione.costui con propria ordinanza determina le modalità di adempimento dell'obbligazione.

Il prof ricorda un altro passaggio da ricollegare alla disciplina della individuazione della sentenza nella  parte senso sostanziale perché si dice: delle ipotesi in cui il giudice dell'esecuzione adito per la determinazione dell'obbligo di fare travalichi la disposizione e con provvedimento abnorme modifichi il contenuto sostanziale dell'obbligo non limitandosi a determinare le modalità, ma estendendone il contenuto, il provvedimento va codificato come sentenza in senso sostanziale, resa però non per volontà di legge, ma per errore del giudice con la conseguenza che i rimedi esperibili nei confronti di questa pronuncia abnorme non è il ricorso per cassazione, ma è l'appello, cioè l'impugnazioneè obbligabile perché altrimenti l'errore del giudice priva quella parte di un grado di giudizio.

·    È da ricordare in questa materia che le spese dell' esecuzione dell'obbligo che si trasforma in un fare e in un disfare a seconda se sia stato rilevato un obbligo di fare o di non fare, le spese vanno anticipate dal creditore. A conclusione del procedimento il giudice liquida l'ammontare con provvedimento che a sua volta costituisce pronuncia in senso sostanziale e titolo esecutivo, quella ripetizione della stessa attraverso un procedimento espropriativo.

2)  PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE PER ESPROPRIAZIONE.

In realtà la gran parte delle disposizioni generali in materia di processo esecutivo sono pensate soprattutto con riferimento alla disciplina dell'esecuzione per espropriazione e presentano vari problemi di adattamento quando si tratta di discutere degli altri procedimenti e quindi dell'esecuzione di espropriazione parliamo riferendoci sia alla sua disciplina specifica sia ai principi generali che sono meglio illustrati e soprattutto attraverso l'esame di questo istituto. La legge richiede che l'esecuzione possa promuoversi soltanto in forza di un titolo esecutivo, fatti salvi quei casi con l'istituzione di obblighi do fare e di non fare in cui il titolo esecutivo può essere costituito dalla sentenza, cioè un provvedimento di formazione giudiziale.

La regola generale scelta dal nostro ordinamento è stata quella di non richiedere necessariamente che il titolo esecutivo debba avere formazione giudiziale, cioè si consente alle parti di formare privatamente titoli esecutivi, quindi il titolo esecutivo non contiene in sé necessariamente un accertamento giurisdizionale della sussistenza del diritto di cui si chiede l' esecuzione.

Si discute in che misura possa qualificarsi come accertamento negoziale o accertamento convenzionale quello posto in essere dalle parti, è chiaro però che in realtà comunque lo si denomini altro è il caso in cui le parti effettivamente compongono le liti in via transattivi, altro è il caso in cui formino un titolo esecutivo firmando cambiali o assegni. Qui in realtà non può rinvenirsi alcun limite alla potestà del giudice di valutare la sussistenza effettiva del diritto sottostante.

I titoli esecutivi di formazione stragiudiziale sono i titoli di credito, assegni, cambiali ed altri atti a cui la legge specificamente attribuisce l'efficacia esecutiva e naturalmente questi sono tutti atti che concernono l'esecuzione per espropriazione  e poi ancora gli atti ricevuti da notaio, sempre però limitatamente alle obbligazioni relative a somme di denaro in esse contenute, perché i titoli di formazione stragiudiziale servono a promuovere esecuzione per espropriazione e non le altre forme esecutive.

Molto si discute dell'idoneità a fungere del titolo esecutivo,del VERBALE DI CONCILIAZIONE che ha un contenuto in parte giudiziale e in parte stragiudiziale.

Le ragioni che favoriscono l'attribuzione dell'efficacia esecutiva al verbale di conciliazione e anche ai fini dell'esecuzione in forma specifica, sono ragioni che tendono a sottolineare come questo tipo di strumento deflativo debba essere protetto e favorito in modo tale da consentire alle parti di arrivare ad una risoluzione del conflitto che non sia inutile per la parte che intenda poi avvalersi della procedura esecutiva e quindi ancorché il dato normativo non sia inequivocamente in questo  senso, certamente si propende per lo più ad ammettere questa efficacia per questo particolare titolo, se non altro in considerazione del fatto che la conciliazione giudiziale avviene per sempre sotto il controllo di tipo formale del giudice.

Tra i  titoli  esecutivi di formazione giudiziale il principale è costituito dalla sentenza di condanna fatti salvi quei casi i cui possiamo parlare di sentenza di condanna senza però che questa costituisca titolo esecutivo e non mi riferisco alle condanne di fare e di non fare, bensì alla ipotesi come la condanna generica che costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale, ma non titolo esecutivo,non contenendo la liquidazione delle somme dovute dal debitore.

Come funziona l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale?

Può produrre gli altri effetti della sentenza penale di condanna.Oltre a costituire titolo esecutivo, gli altri effetti secondari sono:

1)  costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale

2)  trasforma l'eventuale prescrizione breve del titolo in prescrizione ordinaria

3)  converte il sequestro in pignoramento

Sull'iscrizione di ipoteca giudiziale qualche domanda legittima da porsi potrebbe essere:

io questo

La risposta è la somma indicata del creditore sotto la sua responsabilità è a suo rischio che dell'eventuale responsabilità dove il suo comportamento è stato imprudente ai sensi dell'art 96  co2, rispetto alle iniziative procedimentali che sono aggressive nei confronti del patrimonio del debitore, come l'esecuzione del pignoramento,l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale, l'attuazione di provvedimenti cautelari e così via.

Oltre a queste ci sono tutti quei titoli esecutivi in forma diversa da quella della sentenza, i così detti provvedimenti anticipatori di condanna costituiscono probabilmente l'esempio più significativo in quanto qui si tratta di provvedimenti speso e volentieri inidonei alla formazione della cosa giudicata sostanziale e tuttavia provvisti dell' efficacia di titolo esecutivo.

(sulle forme della tutela sommaria ci torneremo quando parleremo del rito societario perché è una delle particolarità principali del rito societario, è la previsione di un numero abbastanza ampio di forme di tutela sommaria ispirate in generale all'idea di favorire la formazione del titolo esecutivo ma senza che ciò implichi formazione della cosa giudicata, addirittura sono individuabili almeno cinque forme diverse di tutela sommaria nella disciplina del rito societario).

Non costituiscono propriamente titoli esecutivi i provvedimenti cautelari i quali sono in realtà soggetti ad attuazione, salve le difficoltà di inquadramento che possono presentarsi rispetto al particolare caso del provvedimento cautelare diverso dal sequestro e tuttavia avente ad oggetto somme di denaro per il quale l'art 669 duodecies prescrive di utilizzare il procedimento di esecuzione per espropriazione omettendo le attività preliminari.

Quali sono queste attività preliminari?

- La NOTIFICAZIONE del titolo esecutivo del precetto.

Il precetto è intimazione ad adempiere entro 10 giorni con la minaccia che altrimenti si procederà al pignoramento.La notificazione del titolo esecutivo del precetto deve essere effettuata al debitore e quindi ricordiamoci che la notificazione della sentenza si effettua al procuratore allo scopo di far decorrere il termine breve per la sua impugnazione, si effettua invece alla parte allo scopo di promuovere il procedimento di esecuzione forzata; in mancanza di adempimento nel termine previsto del precetto è possibile procedere al pignoramento.

L'atto di pignoramento è un atto che costituisce un vincolo di indisponibilità relativa ai beni colpiti del patrimonio del debitore.

Su quali beni? Su quelli specificamente indicati.

Il nostro ordinamento è uno dei più estremi, tra gli ordinamenti del mondo, ad essere ispirato al principio del favor rei del debitore , esso protegge il debitore in misura forse eccessiva.

Da questo punto di vista nella ricerca dei beni da pignorare avremmo due aspetti.

®Il primo è quello per cui l'esecuzione civile può comprendere solo beni specificamente indicati e non la generalità del patrimonio del debitore.La generalità del patrimonio del debitore può essere colpita solo da una procedura fallimentare, la procedura concorsuale di tipo fallimentare, quindi può coinvolgere solo quei soggetti che rivestano la qualifica dei creditori che esercitano l'attività imprenditoriale.

Non è così dappertutto, in Germania e in altri paesi si ritiene invece normale procedere al fallimento civile nell'ipotesi dell'insolvenza del debitore civile, promuovere esecuzione nei confronti dell'intero patrimonio del debitore senza assoggettarlo a sanzioni penali pesanti come quelle che possono seguire alla insolvenza dell'imprenditore commerciale.

®Altro aspetto è quello della cooperazione del debitore nella ricerca dei beni da pignorare.

Il nostro ordinamento segue la regola secondo cui il debitore non deve cooperare. È il creditore che deve cercare i beni da pignorare; è lui che deve sapere dove stanno.

Il VINCOLO DI INDISPONIBILITA',effetto del pignoramento, è VINCOLO di IN DISPONIBILITA' RELATIVA con la conseguenza (classica domanda d'esame: il bene può essere venduto?) che il bene può essere venduto, non è opponibile al creditore precedente, sicchè il bene, che è stato oggetto di pignoramento per essere sottoposto a vendita forzata, continua a poter essere sottoposto a vendita forzata anche in pregiudizio del terzo acquirente.

Si può anche sottolineare che questo vincolo di indisponibilità relativa ha una natura processuale e non sostanziale, sicchè la vicenda traslativa è in opponibile al pregiudizio del creditore precedente ai fini della sottoposizione del bene a vendita forzata; tuttavia è comunque valida, sul piano sostanziale , anche nei confronti del creditore precedente, sicchè se la procedura esecutiva per esempio si estingue prima che il bene venga venduto, a questo punto la vicenda traslativa è opponibile al creditore precedente ancorché avvenuta a seguito del pignoramento in pendenza del procedimento esecutivo, sicchè un nuovo pignoramento non potrà più colpire quello stesso bene come se fosse appartenente al debitore originale.

Del pignoramento abbiamo tre forme:

·    PIGNORAMENTO IMMOBILIARE

·    PIGNORAMENTO MOBILIARE

·    PIGNORAMENTO DI CREDITO

Il PIGNORAMENTO MOBILIARE avviene mediante la ricerca delle cose da pignorare da parte dell'ufficiale giudiziario nei luoghi di appartenenza del debitore senza alcun onere di cooperazione del debitore all'individuazione dei luoghi dove i beni possono essere,(qua può essere il caso volendo di memorizzare i beni pignorati).

Il PIGNORAMENTO IMMOBILIARE si esegue attraverso la combinazione di una notificazione allo stesso e trascrizione dell'atto che è iscritto nella conservatoria dei registri immobiliari, soprattutto la trascrizione è rilevante ai fini della disciplina dei conflitti con eventuali acquirenti di terzi del bene stesso, poiché è chiari che ai fini dell'inopponibilità alla procedura delle vicende traslative occorre pur sempre che il pignoramento sia stato trascritto prima della trascrizione della stessa vicenda traslativa.

Il PIGNORAMENTO DI CREDITI è il più importante di tutti perché è l'unico che frutta.

Nel pignoramento di crediti generalmente si incassa tutto, perché tendenzialmente  il problema è che al debitore interessa poco are il proprio creditore originario o a un terzo creditore che abbia pignorato il credito, quindi in questo caso il debitore è cooperativo perché la cooperazione non è del debitore, ma del debitore del debitore, o in altri termini si può dire che l'esecuzione funziona benissimo fondamentalmente nei confronti del lavoratore dipendente perché chi a lo stipendio al lavoratore dipendente non ha nessun problema a arlo ad un terzo e quindi questo è abbastanza efficace nei confronti degli altri tanto in quanto si riesca ad individuare il conto corrente, va detto che in linea di massima le banche sono abbastanza cooperative, a meno che si tratti di enti particolari.

Questa procedura prevede che si notifichi al debitore, ma anche al terzo un atto complesso contenente l'indicazione, non solo del credito per cui si produce, ma anche un'indicazione del credito vantato, oggetto del pignoramento, oltre che l'avvertimento al terzo che per l'effetto dell'attività svolta ne assume l'obbligo il custode sulle cose pignorate che non sarà liberato ando originariamente al proprio debitore originario.Il pignoramento presso terzi comprende anche le ipotesi in cui (ipotesi di maggior importanza pratica) il debitore sia creditore di una somma di denaro, sia l'ipotesi in cui presso il terzo si trovi un bene mobile appartenente al debitore, ma questa fattispecie è di minor rilevanza applicativa, quindi ci interessa meno.

Ci interessa molto invece il pignoramento dei crediti perché ha un atto complesso (?), deve inoltre contenere l'accettazione del terzo a ire all'udienza davanti al giudice dell'esecuzione. In questa fattispecie il giudice competente per l'esecuzione è il giudice del luogo di residenza del terzo.Quindi il terzo deve ire all'udienza per rendere una dichiarazione sulla sussistenza del credito, cioè a dichiarare se egli è effettivamente debitore.

Normalmente posto che il terzo non ha particolare interesse a are uno o l'altro dei propri debitori, il procedimento va a buon fine nel senso che il terzo dichiari se effettivamente esiste un credito vantato  nei suoi confronti dal debitore esecutato.

In mancanza di tale dichiarazione il creditore può accontentarsi e lasciar perdere con quel terzo, oppure insistere per chiedere un accertamento a cognizione piena della sussistenza del diritto o meno  nei confronti del terzo del debitore esecutato, allo scopo di proseguire e conseguire l'adempimento alla sua obbligazione attraverso il amento del terzo.

(il procedimento viene spesso chiesto all'esame perché consente di fare una domanda di ragionamento.Perché?Ma dobbiamo premettere che la legge prescrive esplicitamente che l'esecuzione forzata comincia con il pignoramento .La soglia di inizio dell'esecuzione forzata è rilevante a molti fini,tra l'altro ai fini della competenza per l'opposizione all'esecuzione, di conseguenza in tutti i casi in cui può esserci ambiguità è destinata ad esserci discussione, è chiaro che rispetto al procedimento di esecuzione forzata per obblighi di fare qui non c'è un pignoramento, si può considerare equivalente al pignoramento il ricorso al giudice dell' esecuzione ai fini della determinazione delle modalità dell''adempimento dell'obbligazione, ma qui il problema è , e qui con riferimento all'espropriazione dei crediti, il problema è : il pignoramento si perfeziona al momento della notificazione dell'atto complesso al terzo si perfeziona al momento in cui il terzo rende la dichiarazione in udienza che è un momento successivo?

La cosa è rilevante anche ai fini della risoluzione delle controversie, intorno alle priorità, nell'ipotesi di cessione del credito che si affermi essere precedente al pignoramento.

La strada per arrivare alla soluzione prevalentemente accettata è quella di sottolineare come è vero così che sin dal momento della notificazione dell' atto il terzo debitore non può più liberarsi ando al debitore originario, cioè se lo fa non è liberato dalla sua obbligazione ed è anche vero che assume gli obblighi del custode rispetto al credito, al bene mobile colpito dal pignoramento, però in realtà gli effetti del pignoramento del credito rispetto al terzo sono ulteriori e più ampi  come si evince dalla lettura dell' art 2917 cc, perché quest' articolo ci dice che una volta perfezionato il pignoramento del credito il debitore non può più opporre al creditore precedente alcuna vicenda estintiva della obbligazione, quindi andiamo al di là degli obblighi del custode, perché il custode potrebbe pur sempre liberarsi provando che non vi era modo per impedire il perimento della cosa, che non vi era modo di impedire la impossibilità sopravvenuta.

Nell'ipotesi in cui il pignoramento sia perfezionato, qualsiasi tipo di eccezione non può più essere sollevata dal creditore procedente, quindi per esempio non si potrebbe eccepire la confusione prodotta per effetto, per esempio, del decesso del debitore originario, della confusione del suo patrimonio con il patrimonio del terzo .Tale estinzione dell'obbligazione non pregiudicherebbe il creditore procedente che anche in questo caso avrebbe il diritto a perseguire dal terzo il amento di quanto gli spetta.

VENDITA FORZATA : ci interessa per i beni mobili ed immobili, soprattutto per gli immobili.

La vendita forzata ha una sua autosufficienza, cioè soffre solo le nullità del suo stesso procedimento, ma non viene travolta dall'eventuale declaratoria di nullità(?) del titolo esecutivo sulla cui base è stato promosso il procedimento esecutivo, inoltre questa protezione del terzo opera anche nell'ipotesi in cui il procedimento esecutivo si concluda prima della distribuzione della somma ricavata per effetto di un'eventuale vicenda estintiva derivante da rinuncia o da inattività.

Infine l'acquirente a vendita forzata compra un po' rischiando, perché è una vendita che è un po' meno garantita della vendita originaria, nel senso che non è ad essa applicabile la garanzia per i vizi. Tale garanzia per i vizi è esclusa esplicitamente  dalla legge salvo doversi ricordare che la giurisprudenza ammette che il terzo acquirente possa impugnare la vendita nell'ipotesi del cosiddetto ALIUD PRO ALIO, ipotesi in cui si ha venduto ad esempio il quadro falso, ma si tratta di ipotesi estrema di vizi mentre nel caso di televisore comprato rotto, ci si tiene il televisore rotto.

La verità segue il passaggio dalla fase espropriativa alla fase distributiva della somma, questo passaggio di fase è rilevante soprattutto ai fini della disciplina del concorso dei creditori nell'espropriazione (tema complesso), potremmo seguire varie strade nella disciplina del concorso del creditore nell'espropriazione, per esempio potremmo prevedere che possano partecipare all'espropiazione soltanto quei creditori che siano essi stessi muniti di titolo esecutivo, però non è questa la soluzione scelta dal legislatore perché non si vuole incentivare una corsa al titolo esecutivo nei confronti dei soggetti di cui eventualmente si chiama l'insolvenza.

Si ritiene che conferire la possibilità di intervenire, di partecipare all'espropriazione anche senza essere muniti di titolo abbia un effetto deflativo sul volume del contenzioso perché altrimenti cercherebbero di procurarselo tutti aumentando il carico di lavoro dell'attività giurisdizionale degli organi giurisdizionali, quindi questa soluzione può essere scartata.

Un'altra possibilità sarebbe quella di prevedere comunque un privilegio per colui che si muova per primo, in modo che il creditore precedente sia in qualche modo protetto rispetto ad altri creditori che invece partecipano all' espropriazione,però anche questa è un'ipotesi scartata,  in correlazione alla scelta di escludere il fallimento civile, cioè di escludere che in linea generale l'esecuzione possa coprire tutti i beni del debitore (così dice la relazione al codice di procedura civile, ma al prof il nesso non sembra così forte e ineluttabile).

La scelta compiuta dal legislatore ex art 2741 del cc per cui tutti i creditori hanno pari diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, principio della par condicio creditorum, salvo le cause legittime di prelazione : privilegi , pegni, ipoteche.

Questo vuol dire che la partecipazione dei creditori, debitori nel procedimento esecutivo è in realtà realmente possibile, tra l'altro fino alla fase della vendita è necessario che almeno un creditore munito di titolo esecutivo promuova e coltivi il procedimento esecutivo, successivamente alla vendita invece la distribuzione della somma ricavata può essere coltivata anche senza il bisogno di alcun creditore munito di titolo, coerentemente la disciplina dell'estinzione del procedimento esecutivo richiede il consenso di tutti i creditori muniti di titolo esecutivo prima della vendita, successivamente alla vendita invece il creditore anche non munito di titolo ha in un certo senso, a quel punto, acquisito una posizione protetta tale per cui è richiesto anche il suo consenso ai fini dell'estinzione del procedimento esecutivo.

La possibilità di partecipare all'esecuzione senza essere muniti di titolo pone il problema dell'individuazione dell' eventuale grado di stabilità del risultato attributivo di beni della vita derivante dal procedimento esecutivo; perché?

Alcuni hanno immaginato anche che si possa parlare di una cosa espropriata materiale, ma al di la di questi, che sono degli estremismi, in vario modo si possono giustificare ampi gradi di stabilità del risultato del procedimento esecutivo, in particolare dei amenti avvenuti attraverso il procedimento esecutivo perché si può sostenere che il debitore non è in grado di ripetere le somme ate ai creditori intervenuti nel corso del procedimento esecutivo perché egli ha l'onere di contestare nel ... e tale contestazione non può essere in realtà effettuata nel contesto della fase espropriativa, ma senz'altro invece è concessa al debitore nel contesto della fase distributiva poiché l'art 512 prescrive esplicitamente che nel corso della fase di distribuzione della somma ricavata sia possibile promuovere ogni sorta di contestazione con riferimento alla sussistenza dei diritti vantati dai creditori concorrenti accorti(?) di priorità tra i vari creditori e le contestazioni possono essere mosse tanto da creditori concorrenti quanto dallo stesso debitore, sicchè l'argomento che spesso si formula è nel senso che il debitore che abbia omesso di promuovere una contestazione ex art 512, che tra l'altro idonea a produrre effetti sospensivi della distribuzione della somma ricavata, non potrebbe più ripetere le somme ate al creditore intervenuto nel corso del procedimento.

Gli effetti dell'estinzione del procedimento esecutivo cambiano a seconda se sia o meno avvenuta la vendita, opposto che la caducazione degli atti compiuti ha senso se non si è ancora perfezionata la vendita, ma una volta perfezionatasi il terzo non può essere colpito e quindi la soluzione scelta è quella di versare la somma ricavata al debitore.

Altra possibile vicenda anomala del procedimento esecutivo è la sospensione, perché invece tendenzialmente si ritiene che non sia passibile di interruzione il procedimento esecutivo essendo un procedimento non diretto all'accertamento e quindi non occorre tutelarela garanzia del contraddittorio.

Il ragionamento è forse un po' forzato perché parte della dottrina sostiene che invece si dovrebbero rendere applicabili queste norme anche nel contesto al procedimento esecutivo almeno in parte, ma certamente l'orientamento dominante è nel senso che queste non si applicano.

Può aversi invece sospensione del procedimento esecutivo e la sospensione può essere disposta dal giudice dell'esecuzione o dal giudice dell'impugnazione del titolo.

Il giudice dell'esecuzione può sospender in tutto o in parte la distribuzione della somma entrata quando sia insorta una controversia ex art 512, inoltre può per gravi motivi sospendere il procedimento esecutivo quando si è proposta opposizione all'esecuzione e si ritiene prevalentemente che possa altresì disporre la sospensione in pendenza di opposizione agli atti esecutivi, sul presupposto che tale potere rientri nel più ampio potere di concedere provvedimenti temporanei e indispensabili in presenza del procedimento.

Questo cenno ci consente di avviare l'analisi dei rapporti tra condizione ed esecuzione alla luce dei procedimenti di cognizione che possono innescarsi nel contesto del provvedimento esecutivo e aprire una parentesi di accertamento (parentesi cognitoria).

La descrizione fondamentale è tra l'opposizione all'esecuzione e l'opposizione agli atti esecutivi.

L'opposizione all'esecuzione è un procedimento che ha per oggetto la contestazione del diritto del creditore di procedere a esecuzione forzata.Pertanto che cosa è rilevante soprattutto per individuare quali motivi possono essere posti a fondamento di una opposizione all'esecuzione?

È soprattutto rilevante la formazione del titolo perché se il titolo è di formazione stragiudiziale, tramite opposizione all'esecuzione si può contestare il diritto di procedere ad esecuzione forzata sotto ogni possibile profilo, cioè sia sotto il profilo della mancanza del titolo esecutivo, sia sotto il profilo della insussistenza del diritto rappresentato da quel titolo esecutivo, in altri termini si può contestare di non avere firmato la cambiale, ma si può anche contestare di non essere debitore della somma per cui si è sottoscritta una cambiale.

Se il titolo esecutivo è di formazione giudiziale, le possibilità di promuovere l'opposizione all'esecuzione è molto ridotta perché il potere di cognizione del giudice investito dell'opposizione all'esecuzione devono essere condizionati con i poteri del giudice della convinzione originaria e in particolare con quanto discende dal principio di cui all'art 161 co2 , cioè della regola per cui le nullità della sentenza soggetta ad appello, ricorso per cassazione possono essere fatte valere soltanto con questi mezzi e non quindi ,.giudice,con l'opposizione all'esecuzione , il che non esclude che possa proporsi opposizione all'esecuzione anche quando l'esecuzione stessa sia stata intrapresa sulla base di un titolo di formazione giudiziale, però ciò può condurre all'accoglimento dell'opposizione soltanto nell'ipotesi in cui si facciano valere fattispecie non deducibili in quel processo di cognizione di cui si è formato il titolo; sicchè , ad esempio, l'avvenuto amento di un' obbligazione successivamente alla formazione del titolo esecutivo ben può essere dedotto con via di opposizione all'esecuzione contro una interruzione intrapresa sulla base di una sentenza di condanna, perché si tratta di una fattispecie estintiva sopravvenuta, non coperta né dal giudicato, né dall'onere di far valere la vicenda estintiva con l'impugnazione della sentenza, così come si possono far valere le inesistenze della sentenza, talchè se rientrano nella fattispecie di sentenza priva di sottoscrizione del giudice, tale nullità sfugge alla regola dell'art 161co 1 e quindi può essere posta a fondamento di opposizione dell'esecuzione.

Possono farsi valere i difetti di coincidenza dei soggetti, cioè può contestarsi che il titolo esecutivo fosse pronunciato proprio nei confronti del debitore del soggetto nei cui confronti è promossa l'esecuzione.Naturalmente può darsi che il creditore affermi di eseguire contro questo soggetto in qualità di erede, si ponga a quel punto il problema della contestazione della sua qualità di erede, dell'accertamento della qualità di erede acquisita necessariamente alla formazione del titolo.

Però non si può far valere tutto ciò che può essere posto a fondamento dell'impugnazione della sentenza o che avrebbe potuto essere posto a fondamento dell'impugnazione della sentenza nell'ipotesi in cui per la proposizione dell'impugnazione siano ormai decorsi i termini.

La competenza per l'opposizione all'esecuzione cambia a seconda se sia o meno iniziata l'esecuzione.cosa si intende dire?Una volta avvenuto il pignoramento viene formato un fascicolo che porta alla designazione di un magistrato che assume la qualità di giudice dell'esecuzione preposto alla fissazione dell'udienza di vendita, alla risoluzione delle contestazioni incidentali, etc.

Ne consegue che la competenza per l'opposizione all'esecuzione spetta a questo giudice dell'esecuzione, l'opposizione si promuove con ricorso innanzi a lui però la legge consente anche al depositare di promuovere l'opposizione all'esecuzione già successivamente al precetto e ancora prima che venga effettuato il pignoramento, in realtà allo scopo di prevenire il pignoramento.

In queste ipotesi il giudice dell'esecuzione non è ancora stato individuato perché possiamo immaginare che il debitore possieda beni in tutta Italia e il creditore abbia facoltà di scelta e iniziare la procedura esecutiva presso l'uno o l'altro ufficio giudiziario.

In questo caso la competenza per l'opposizione all'esecuzione è attribuita al giudice che sarebbe competente secondo le regole ordinarie per materia o per valore, talchè se si tratta di crediti derivanti da rapporti di lavoro subordinato avremo la competenza del giudice del lavoro per l'opposizione all'esecuzione in materia.

Questo giudice dell'opposizione all'esecuzione promossa prima dell'inizio dell'esecuzione non è un giudice dell'esecuzione, ma non è neanche un giudice dell'impugnazione del titolo ai sensi dell'art 623, poiché tale deve intendersi, secondo l'interpretazione dominante, il giudice dell'impugnazione del titolo di formazione giudiziale, cioè dell'impugnazione della sentenza.

Nell'ipotesi in cui si promuove opposizione all'esecuzione prima del pignoramento, nei confronti di una esecuzione promossa per esempio sulla base di cambiali di titolo esecutivo di formazione stragiudiziale, il giudice adito dell'opposizione all'esecuzione non è il giudice dell'impugnazione del titolo e quindi non può sospendere l'efficacia esecutiva del titolo stesso, perché la legge non gli ha attribuito questo potere, non può disporre la sospensione dell'esecuzione che anzi non è ancora iniziata, e non può prevenire il pignoramento.

Come si risolve questo problema?

C'è stata un'apertura di una giurisprudenza recente che ha ritenuto ammissibile chiedere al giudice dell'opposizione all'esecuzione, in questo caso, la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo richiedendo appositamente un provvedimento d'urgenza ex art 700.

Si trattava di una fattispecie in cui il creditore utilizzava il suo titolo esecutivo per promuovere la pluralità di procedimenti esecutivi n varie sedi, ciò li utilizzava con finalità vessatorie e con modalità abusive.

Il rimedio prescritto dalla legge in questi casi è in realtà una istanza di riduzione del pignoramento che consente di rimediare, ma allo scopo di prevenire l'ulteriore abuso la giurisprudenza ha ritenuto che in questo caso possano, in presenza dei presupposti di irreparabilità e imminenza del pregiudizio, concedersi la tutela attraverso lo strumento cautelare atipico costituito dal rimedio di cui all'art 700 c.p.c. Si tratta di una soluzione non ad ampio raggio perché ovviamente poi si scontra con il problema di difficile conurabilità dell'irreparabilità di un pregiudizio in materia di somme di denaro.

Qui l'irreparabilità di un giudizio atterrebbe in realtà probabilmente alla reputazione commerciale del contenuto che verrebbe sottoposto a procedimenti esecutivi sovrabbondanti allo scopo di sminuirne la credibilità e il prestigio.

Si tratta di una soluzione limite per un caso estremo che però alla fine ci riafferma l'esistenza in realtà di una lacuna di carattere fondamentale nella disciplina positiva nella parte in cui risulta secondo la giurisprudenza formulata in guisa tale da non concedere in via generalizzata il potere di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo a giudice dell'opposizione alla esecuzione.

L'opposizione agli atti esecutivi, invece è istituto in cui ci siamo già imbattuti perché è più una stranezza, perché tramite opposizione si contesta la irregolarità dell'atto esecutivo.

La legge consente sostanzialmente di far valere qualsiasi deviazione dell'atto rispetto allo schema legale ancorché non determinativa di nullità e quindi anche le ipotesi in cui tale forma non sia qui espressamente prescritta a pena di nullità della legge e anche nella ipotesi in cui il requisito richiesto non sia indispensabile per il raggiungimento dello scopo, anzi la giurisprudenza si spinge oltre perchè ammette persino la proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi per far valere la eventuale inopportunità dell'atto dell'esecuzione, ad esempio per contestare l'opportunità della fissazione di una certa data anziché un'altra della udienza di vendita, affermando ad esempio che i prezzi degli immobili sono in salita e quindi è opportuno rinviare, aspettare un po' per poter liquidare meglio il bene pignorato.

La legittimazione qui è attribuita a qualunque soggetto coinvolto nel procedimento esecutivo e non più soltanto al debitore come accadeva per l'opposizione all'esecuzione, per tanto l'opposizione agli atti esecutivi può essere promossa anche dallo stesso creditore, in ipotesi; ad esempio della data della fissazione della udienza di vendita, può essere benissimo nell'interesse del creditore a insistere per una data diversa.

Qui si tutelano, in realtà, situazioni di vantaggio che non sono propriamente e direttamente attributive di beni della vita, ma hanno un contenuto esclusivamente processuale.

Pertanto, in realtà, era congrua la scelta del legislatore del 1942 consistente nel prevedere che la sentenza che pronuncia sulla opposizione agli atti esecutivi non sia impugnabile, naturalmente a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione del 1948 si pone il problema della ricorribilità per cassazione, un provvedimento che in ogni caso ha quanto meno la forma della sentenza.

L'orientamento prevalente è nel senso di ammettere la ricorribilità per cassazione di questa sentenza anche se si potrebbe obbiettare che qui il provvedimento ha si la forma della sentenza ma sembrerebbe essere privo del contenuto sostanziale della stessa, in quanto pur essendo il provvedimento definitivo non altrimenti impugnabile, sembra tuttavia mancare il suo contenuto decisorio in quanto incide su una situazione di vantaggio che non è direttamente attributiva del bene della vita, ma ha un contenuto esclusivamente processuale.

Per quel che riguarda la competenza, l'opposizione agli atti esecutivi è di competenza del giudice della esecuzione quando questo sia già stato individuato, cioè quando questo sia già stato individuato, cioè quando si è già compiuto il pignoramento, la legge però ammette, anche per l'opposizione agli atti esecutivi.La proposizione ancora prima dell'inizio dell'esecuzione e poiché è consentita anche la deduzione della irregolarità della notificazione del titolo esecutivo del precetto, in questi casi la regola attributava della competenza è più complicata perché non si può fare riferimento a quello che sarebbe competente secondo le regole ordinarie, perché in realtà non c'è qui una causa ordinaria a formare oggetto del processo sulla competenza per la quale si possa riflettere e quindi la legge prescrive un criterio di competenza nell'art 480 che fa riferimento alla residenza dichiarata dal creditore dell'atto di notificazione del precetto o ad altre regole in mancanza di dichiarazione della stessa.

Il panorama della opposizioni esperibili nel contesto del procedimento esecutivo si completa con la ura della OPPOSIZIONE DI TERZO ALLA ESECUZIONE.

La legge attribuisce questo rimedio al terzo affermi essere titolare di un diritto di proprietà o di altro diritto reale sui beni pignorati. Pertanto potremmo avere opposizione di terzo all'esecuzione prima del pignoramento? No, quindi non abbiamo il problema della competenza, la competenza e del giudice della esecuzione, posto che solo dopo il pignoramento è possibile far valere questo rimedio.

Si tratterebbe delle ipotesi i cui per errore dell'ufficiale giudiziario, l'attività di apprensione(?) dei beni vada a cadere in beni appartenenti a soggetti diversi dal debitore.

Naturalmente questo può porre dei problemi di prova, in particolare il terzo potrebbe essere un complice del debitore che cerca di aiutarlo a sottrarre il bene all'esecuzione. Pertanto in linea generale non è ammessa la prova testimoniale (tipicamente è chiaro che saranno i beni mobili ad essere oggetto di questo tipo di contestazione) salva ipotesi  in cui i beni del debitore possano trovarsi n luoghi di appartenenza del terzo, nel senso che se il terzo svolge di mestiere il depositario, e quindi è normale alla luce della sua attività che presso di se detenga cose appartenenti ai terzi, allora è consentito al terzo dare prova testimoniale che il bene in realtà era suo.

Molto si è discusso in giurisprudenza e in dottrina sulla possibilità di estendere l'ambito di applicazione di questo istituto al di là della espressa previsione legislativa, in particolare sotto due profili: il primo è il profilo della qualità delle situazioni soggettive tutelate.

La legge fa esplicitamente riferimento alla proprietà o altro diritto reale, molti sostengono che sia congruo includere tra le situazioni tutelabili anche i diritti personali di godimento riferiti ai beni colpiti dal procedimento.

Diversi hanno sostenuto l'opportunità di ammettere l'utilizzazione dello strumento anche nel contesto dei procedimenti di esecuzione in forma specifica ancorché in questi non sia presente il pignoramento, in particolare nelle ipotesi di conflitti di diritti personali di godimento rispetto rilascio o alla consegna dei beni oggetto dell'esecuzione in forma specifica.

-Approfondimento dei rapporti tra cognizione e esecuzione con riferimento a questi titoli esecutivi per i quali la legge esclude l'idoneità alla formazione della cosa giudicata;

per esempio: ordinanze di amento di somme non contestate, il provvedimento è inidoneo al giudicato successivamente il processo si estingue e viene promossa esecuzione. A questo punto il debitore promuove opposizione all'esecuzione, sostenendo di non dovere alcunché.

Qui non sembra invocabile il disposto dell'art 161, nella parte in cui consente di far valere i vizi del provvedimento giurisdizionale solo in sede di impugnazione ordinaria dello stesso,( posto che si tratta di provvedimento inidoneo al giudicato e per natura non impugnabile e appositamente concepito come tale) ma per converso,  se noi consentiamo al debitore che non ha contestato nel processo di cognizione, di promuovere poi la contestazione di un procedimento esecutivo, allora il creditore lo prendiamo in giro.

Senz'altro c'è una lacuna nella legge perché l'applicazione letterale automatica del diritto positivo porterebbe a questo che è assolutamente inaccettabile.

Il problema ha dimensioni soprattutto teoriche con riferimento all'ordinanza di amento di somme non contestate perché molto infrequente per le ragioni che abbiamo detto una volta che la parte sia costituita contesta tutto e quindi sono rarissime;in realtà non esistono questi provvedimenti però il problema in realtà si ripresenta tale e quale con riferimento a qualsiasi altra sorta di provvedimento sommario di questo tipo, conurato dal legislatore.

Dobbiamo allora immaginare una clausola .. Cioè che il debitore potrà ripetere la somma data se non vi è formazione del giudicato, ma non potrà promuovere opposizione all'esecuzione, questa è l'ipotesi che alcuni hanno prospettato e plausibilmente è forse la soluzione più appropriata per il caso di ordinanza di amento di somme non contestate.

E' un po' una forzatura del dettato normativo imposta da esigenze pratiche quella di non consentire di proporre l'opposizione all'esecuzione, per arrivarci dobbiamo però consentirgli l'azione di ripetizione del debito senza potere addebitare per impedire tale ripetizione al debitore di non avere esperito a suo tempo le relative contestazioni perché riteniamo che non aveva la possibilità di esperirle nel contesto del procedimento esecutivo e quindi appunto in forza di queste contestazioni può esperire l'azione di ripetizione così come può esperirla la parte che subisca una sentenza di primo grado sfavorevole, questa parte non può contestare la sussistenza del credito se non impugnando la sentenza e quindi se nelle more del procedimento di impugnazione nel cui contesto egli non poteva contestare il credito attraverso opposizione all'esecuzione, gli viene portato a esecuzione il credito è incassata la somma, ma successivamente la sentenza viene riformata, ecco che il debitore può esperire l'azione di ripetizione  conseguire la restituzione di quanto ato in questo caso. Più delicato è il problema che si pone rispetto ad altri tipi di provvedimenti  anticipatori come quello conurato dall'art 19 della riforma del rito societario.

Qui si prevede una specie di modello cui il legislatore voleva ispirarsi... cioè si prevede una formazione anticipata del titolo esecutivo per l'ipotesi in cui il giudice ritenga non seria la contestazione del convenuto questo provvedimento è uno strano provvedimento che non ha forma di sentenza però è appellabile, se viene appellato la pronuncia in grado di appello ha contenuto e forma di sentenza e inidoneità al giudicato, se invece la parte che lo subisce non propone appello, il provvedimento ha titolo esecutivo ma non acquista efficacia di giudicato.

Allora qui per le ragioni dette prima, non possiamo ammettere opposizione all'esecuzione perché quel provvedimento è contestabile solo con appello, e vero che non è idoneo al giudicato, ma anche contestabile solo con appello e quindi non con opposizione all'esecuzione, da questo punto di vista l'argomentazione è anche più forte di quella che si ha rispetto alle somme non contestate. Ma qui possiamo porci un altro problema, cioè in questo caso ammettiamo la ripetizione dell'indebito, plausibilmente in questo caso dovremmo negarla cioè dovremmo a spingerci a ritenere che non sia possibile neppure la restituzione dell'indebito posto che la parte che voglia avvalersi di questa possibilità dovrebbe anche coltivare le contestazioni all'interno del procedimento il cui provvedimento si è formato, cioè proporre appello contro lo stesso.

La irripetibilità delle somme conseguite in forza del procedimento sommario, può ritenersi compatibile con la sua inidoneità al giudicato sottolineando che l'idoneità al giudicato comporta effetti preclusivi vincolanti più intensi, ovviamente molto più intensi se si adottano le teorie estensive dei limiti oggettivi del giudicato, ma in realtà anche se non si seguono queste tesi estreme ..quindi si tende a ritenere che il giudicato si formi sulla pretesa decisa e sulle questioni decise e non su quelle implicitamente decise, tuttavia resterebbe per effetto dell'irripetibilità della somma un vincolo limitato esclusivamente alla debenza della somma stessa anche quando abbia esplicitamente formato oggetto del processo lo stesso rapporto fondamentale; sicchè nell'ipotesi in cui si tratti di credito in più rate e nel contesto di quel procedimento sia stata contestata la sussistenza dell'obbligazione principale del rapporto fondamentale, con accoglimento in via sommaria della domanda per il amento della rata, a questo punto sul amento della rata si formerebbe un picco irreversibile tale per cui si potrebbe promuovere esecuzione senza facoltà di dedurre l'insussistenza della obbligazione in sede di opposizione all'esecuzione, non potrebbe promuoversi azione di ripetizione della somma, tuttavia potrebbe ancora contestarsi il rapporto fondamentale sotto il profilo della sussistenza delle altre rate ancorché già dedotto a suo tempo ai fini dell'ottenimento del provvedimento sommario.

Teniamo presente che ci sono tre diversi gradini possibili di efficacia vincolante:

1)Giudicato pieno

2)Irripetibilità

3)Inopponibilità cioè improponibilità intorno al giudicato dell' opposizione all'esecuzione.

Infine quel gradino nullo (che però dobbiamo immaginare che non esista), che immaginano solo alcuni, ma che non si può accettare e secondo alcuni si potrebbe addirittura dedurre con opposizione alla esecuzione quella contestazione che non si è accolta neppure in sede di processo di cognizione, però questa è una ipotesi del titolo esecutivo che è così fragile da poter essere irreversibilmente caducato dall'iniziativa del debitore.

Manca un esplicito disposto legislativo che autorizzi questa interpretazione.

E' un problema che si sente poco perché a monte si è costruita una disciplina della ordinanza di amento di somme non contestate che fa si che queste ordinanze di fatto non compaiono nella parte processuale.

Se issero allora si dovrebbe porre quel problema e si dovrebbe arrivare anche a questa soluzione; anche se in giurisprudenza non c'è.



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