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ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE



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ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

Nel nostro ordinamento ci sono dei provvedimenti che dovrebbero scoraggiare il convenuto dall'assumere determinati atteggiamenti dilatori; si tratta di provvedimenti che determinano un'accelerazione del processo. Nel codice di procedura civile del 1940 questi provvedimenti avevano uno scarso rilievo perché erano previsti per situazioni particolari, non esistevano norme generali. Nel 1973 il legislatore ha introdotto nel processo del lavoro due tipi di ordinanze anticipatorie di condanna disciplinate dall'art.423 c.p.c. Si tratta di provvedimenti che anticipano il contenuto dei provvedimenti definitivi. Quella prevista al 1° comma dell'art.423 c.p.c. è l'ordinanza di condanna al amento di somme di denaro non contestate; quella prevista al 2° comma dell'art.423 c.p.c. è l'ordinanza di condanna al amento di somme relativamente ad una parte della causa per la quale è stata raggiunta la prova. Queste due ordinanze hanno presupposti ed ambiti di applicazione diversi.

L'ordinanza di cui al 1° comma dell'art.423 c.p.c. è un'ordinanza che può essere chiesta:

da tutte le parti (sia l'attore che il convenuto) e la richiesta non necessita di particolari formalità (può essere fatta anche oralmente);



in ogni stato del giudizio (questo significa che ci troviamo nell'ambito del 1° grado ed in quest'ambito in qualsiasi momento, tanto nella fase iniziale quanto in quella finale, può essere chiesta questa ordinanza);

anche durante la sospensione del processo, perché viene considerata un atto urgente.

Questa ordinanza inoltre costituisce titolo esecutivo, cioè la parte che ha ottenuto il provvedimento può procedere all'esecuzione forzata. Nel momento in cui viene pronunciata la sentenza definitiva l'ordinanza viene assorbita dalla sentenza stessa. Per quanto riguarda l'oggetto della non contestazione il legislatore vuole riferirsi non ai fatti bensì al diritto di credito, cioè alle somme di denaro. La non contestazione proprio perché ha ad oggetto le somme di denaro deve essere espressa e non può essere desunta da un comportamento omissivo quale il silenzio (un comportamento incompatibile con la volontà di opporsi). Collegato a questo problema è quello della contumacia e cioè se la contumacia vada intesa come non contestazione; a tal proposito in dottrina vi era: chi riteneva che la contumacia non valeva come non contestazione (era necessaria la non contestazione espressa) e chi riteneva che avendo come oggetto i fatti, la contumacia poteva essere considerata non contestazione. La cassazione ha detto che la non contestazione deve essere espressa e la contumacia del convenuto non va considerata non contestazione; in caso di contumacia del convenuto non si può emettere l'ordinanza del 1° comma dell'art.423 c.p.c. Ci si chiede poi che fine faccia l'ordinanza in questione se il processo si estingue, cioè ci si chiede se sopravvive all'estinzione del processo o no; a tal proposito ci sono sostenitori di entrambe le ipotesi. I problemi di questo tipo di ordinanza si possono risolvere con l'art.186-bis c.p.c.

L'ordinanza di cui al 2° comma dell'art.423 c.p.c. stabilisce che "il giudice, su istanza del lavoratore, può disporre in ogni stato del giudizio con ordinanza il amento di una somma, quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova". Qui il presupposto è diverso perché si tratta di una valutazione che il giudice compie in ordine ai fatti, ritenendo poi che per una parte del diritto sia già stata raggiunta la prova. Mentre l'ordinanza del 1° comma può essere chiesta da tutte le parti del processo, l'ordinanza del 2° comma può essere chiesta solo dal lavoratore. Il datore di lavoro, nel caso in cui sia già raggiunta la prova per una parte del diritto da lui vantato, può chiedere solo una sentenza non definitiva di condanna generica con provvisionale ma non può chiedere questa ordinanza; nel processo ordinario la sentenza non definitiva di condanna con provvisionale è uguale (equivale) all'ordinanza del 2° comma. Questa seconda ordinanza può essere chiesta in ogni stato del giudizio ed anche durante la sospensione, non è revocabile in corso di causa ma viene ad essere revocata solo dopo che si è avuta la sentenza definitiva che l'assorbe, è titolo esecutivo.

Queste ordinanze introdotte nel 1973 non hanno avuto una grande applicazione del processo del lavoro perché per quanto riguarda le somme norme contestate è sempre caduto che la parte abbia contestato le somme per evitare che il giudice che mettesse l'ordinanza del 2° comma. Nel 1990 nel processo ordinario di cognizione sono state introdotte le ordinanze degli artt.186-bis e 186-ter c.p.c. e nel 1995 è stata introdotta un altra ordinanza che viene emessa alla fine del processo al solo scopo di sostituire la sentenza finale. Grazie all'art.186-bis c.p.c. si possono risolvere quei problemi con l'art.423 c.p.c. (effetti della estinzione del processo sull'ordinanza, se è possibile revocarla o modificarla durante il corso del processo, la contumacia del convenuto) perché il legislatore è stato più chiaro.




L'art.186-bis c.p.c. ha ad oggetto l'ordinanza anticipatoria di condanna per il amento di somme non contestate, perciò essa ha lo stesso ambito di applicazione del 1°comma dell'art.423 c.p.c. Il presupposto di questa ordinanza è la non contestazione delle somme (uguale a quello dell'ordinanza di cui al 1° comma dell'art.423 c.p.c.). Anche questa ordinanza richiede l'istanza di parte (può essere sia l'attore che il convenuto in caso di domanda riconvenzionale) e la richiesta non necessita di alcuna formalità. Il giudice che deve emettere l'ordinanza è sempre giudice istruttore anche quando la causa è collegiale. Anche in questo tipo di ordinanza la non contestazione ha ad oggetto un diritto di credito, le somme e non i fatti per questo la non contestazione deve essere espressa. Per quanto riguarda il problema della contumacia, siccome l'art.186-bis c.p.c. dice che la non contestazione deve provenire dalle parti costituite la contumacia non può valere come non contestazione. L'ordinanza costituisce titolo esecutivo è conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo. L'ordinanza sopravvive all'estinzione non questa efficacia di giudicato, essa ha solo efficacia esecutiva e può essere revocata con un autonoma domanda. Il giudice può disporre l'ordinanza fino al momento delle precisazioni delle conclusioni. Questa norma non indica il termine iniziale, che può essere individuato nel giorno in cui la parte si è costituita in giudizio non contestando. L'art.186-bis c.p.c. non dice in ogni stato dal processo, c'è chi ritiene che tale ordinanza non può essere emessa in caso di sospensione. Per il professore questa ordinanza può essere essa anche in caso di sospensione, in ogni stato del processo; quindi se la norma non lo dice è perché vi è stata una semplice dimenticanza del legislatore. Questa ordinanza è revocabili è modificabili in ogni momento del processo (così si risolve il problema sorto con il 1° comma dell'art.423) e viene assorbita dalla sentenza finale. L'art.186-bis c.p.c. lascia irrisolto il problema del controllo e cioè il problema di ciò che la parte può fare se si è vista impugnare il amento di una somma di denaro nonostante l'abbia contestata; c'è stato in questo caso un errore del giudice che valuta come non contestazione un comportamento delle parti. L'ordinanza dell'art.186-bis c.p.c. non è impugnabile, la corte di cassazione ha detto che quest'articolo non viola l'art.24 Cost. perchè è un'ordinanza provvisoria, revocabile e modificabile, destinata tuttavia ad essere assorbita dalla sentenza finale. La cassazione ha sbagliato nel porre da un lato la revoca della modifica e dall'altro l'impugnazione, perché la revoca la modifica vengono fatte dallo stesso giudice mentre l'impugnazione è un controllo fatto da un altro giudice (l'impugnazione offre una garanzia maggiore). Comunque, anche se l'ordinanza non è definitiva, essa è decisoria incide sul diritto. Quindi una parte della dottrina dove della legittimità costituzionale dell'art.186-bis c.p.c. nella parte in cui non prevede l'impugnabilità, cioè una forma di controllo.

L'art.186-ter c.p.c. ha ad oggetto l'ordinanza di condanna al amento di somme nei limiti in cui è stata raggiuntala prova del diritto vantato. L'articolo in questione possa andare affine al 2° comma dell'art.423 c.p.c. ma in realtà l'art.186-ter c.p.c. fa riferimento alle prove in generale. Quindi nel processo del lavoro alla base di questa ordinanza vi può essere anche una testimonianza mentre nel processo ordinario sono richieste le prove documentali e se vi sono attore diverse da quelle documentali si dovrà fare ricorso alla sentenza di condanna generica e non all'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. L'ordinanza in questione ha ad oggetto somme di denaro e richiede prove scritte, quindi vi è un'affinità tra questa ordinanza ed il decreto ingiuntivo (anche quest'ultimo è diretto ad ottenere il amento di una somma di denaro, vi si ha la prova scritta del credito). La differenza rispetto al decreto ingiuntivo è che quest'ultimo è più facile da ottenere rispetto l'ordinanza. Infatti il creditore basta che abbia una prova scritta del suo credito e potrà chiedere il decreto ingiuntivo; il creditore viene ulteriormente agevolato perché vi è un ampliamento del concerto di prova scritta (nel procedimento ingiuntivo: è sufficiente che la scrittura privata sia solo sottoscritta e non anche riconosciuta o autenticata, le scritture contabili dell'imprenditore valgono anche nei confronti di chi non è imprenditore, i liberi professionisti possono ottenere il decreto ingiuntivo sulla base delle proprie fatture). Infine il decreto ingiuntivo si ottiene inaudita altera parte, cioè senza ascoltare la controparte. Il presupposto per ottenere l'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. è più rigoroso rispetto a quello per ottenere il decreto ingiuntivo, infatti tale ordinanza non può essere chiesta a tutela dei crediti dei liberi professionisti, dello stato e dipendenti pubblici che possono invece ottenere il decreto ingiuntivo.

L'ordinanza inoltre viene emessa in contraddittorio. Ci si chiede perché sia stata introdotta questa ordinanza dal momento che c'era già il decreto ingiuntivo. In effetti tale ordinanza è poco utilizzata, può essere utilizzata:

Quando il convenuto risiede all'estero (il decreto ingiuntivo invece non può essere chieste nei confronti di un soggetto residente all'estero).

Quando il debitore promuove una domanda di accertamento negativo, agendo prima del creditore. In questo modo il debitore promovendo un giudizio ordinario preclude al creditore la strada del decreto ingiuntivo perché esiste già un processo ordinario è il creditore nel giudizio può proporre una domanda riconvenzionale per chiedere l'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. se è munito di prova scritta del suo diritto di credito.

Quando la prova scritta non è preesistente, si forma cioè nel corso del processo.

Per questa ordinanza è necessaria l'istanza di parte che non richiede alcuna formalità. Viene indicato il termine finale (fino al momento delle conclusioni) non anche il termine iniziale che può essere individuato nella prima udienza di izione. Non è richiestala costituzione delle parti e perciò essa può essere resa anche in caso di contumacia del convenuto. L'oggetto che il amento o la consegna di somme o di cose mobili (quindi lo stesso oggetto del decreto introduttivo). Competente ad emettere l'ordinanza è il giudice istruttore. È richiestala prova scritta: atto pubblico o scrittura privata sottoscritta e riconosciuta o autenticata. Inoltre l'art.186-ter c.p.c. richiamando l'art.634 c.p.c. riconosce all'imprenditore l'agevolazione di utilizzare le proprie scritta contabili anche nei confronti di chi non è imprenditore. L'ordinanza in questione può essere emessa in ogni stato del processo ed anche durante la sospensione del processo. Tale ordinanza può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva quando:

il credito è fondato su una prova scritta qualificata (cambiale, titolo di credito) o è necessario dimostrare che vi è un pericolo nel ritardo;

il convenuto si è costituito e non porta delle prove scritte a fondamento della sua difesa.

Questa ordinanza viene dichiarata provvisoriamente esecutiva quando si verifica una delle due ipotesi. Se la parte ha disconosciuto la scrittura privata o ha prodotto querela di falso l'ordinanza non ha la sua provvisoria esecutività. Se il convenuto è contumace l'ordinanza gli deve essere notificato personalmente, in tal caso si ingiunge alla parte di costituirsi entro 20 giorni dalla notifica altrimenti l'ordinanza diventa esecutiva ai sensi dell'art.647 c.p.c., cioè essa diventa definitiva e l'attore non avrà più interesse alla prosecuzione del processo. Questa ordinanza dichiarate esecutiva, costituisce titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale, a differenza dell'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. che è solo titolo esecutivo. L'ordinanza ex art.186-ter c.p.c. è revocabile e modificabile come l'ordinanza ex art.186-bis c.p.c., mentre il decreto ingiuntivo non è revocabile e modificabile, può essere solo revocato con una sentenza finale risiede di opposizione. Se il processo si estingue l'ordinanza dell'art.186-ter c.p.c. conserva efficacia non solo esecutiva ma anche definitiva (come il decreto ingiuntivo) è non può più essere messa in discussione a differenza dell'ordinanza dell'art.186-bis c.p.c. che conserva solo efficacia esecutiva.

L'art.186-quater c.p.c. è stato introdotto nel 1995 e la sua funzione era quella di accorciare i tempi del processo. All'epoca il giudice istruttore dopo la fase istruttore rimetti alla causa al collegio per la decisione e normalmente la decisione veniva emessa dopo molto tempo; allora il legislatore penso di introdurre un'ordinanza che il giudice può ammettere al termine dell'istruzione per evitare il passaggio al collegio. L'art.186-quater c.p.c. dice 'esaurita l'istituzione', quindi il giudice ammette questa ordinanza al termine dell'istruzione; è questo termini iniziale. Ma la fase istruttoria può dirsi esaurita al momento delle precisazioni delle conclusioni. Il giudic che competente ad emettere questa ordinanza è il giudice istruttore e proprio per questo tale ordinanza non potrà più essere pronunciata quando la causa è passata nelle mani del collegio per la decisione (dies a quem). È richiesta l'istanza della parte che ha proposto la domanda di condanna e non di una parte qualsiasi. La richiesta non richiede particolari formalità. La parte che ha proposto la condanna può essere sia l'attore che il convenuto mediante una domanda riconvenzionale. L'azione che può dare vita all'ordinanza dell'art.186-quater c.p.c. è solo quella di condanna non anche quelle costitutive o di accertamento. Una volta presentata l'istanza il giudice deve rispondere all'istanza e poi deciderà se ammetterla (nel caso in cui ritiene sia stata raggiuntala prova dell'esistenza del diritto) o rigettarla. Abbiamo un'ordinanza con cui il giudice accoglie o rigetta l'istanza ma questa ordinanza non è definitiva, cioè il processo deve andare avanti per concludersi con sentenza. Questa ordinanza è titolo esecutivo ed è revocabile con la sentenza che definisce il processo, perché non può continuare ad esistere tale ordinanza se viene pronunciata la sentenza. Il legislatore, per evitare la sentenza, ha dato alla parte che ha subito l'ordinanza di condanna e a cui sia stato notificato l'atto di precetto la possibilità di rinunciare alla sentenza è di potersi accontentare dell'ordinanza. L'ordinanza si è trasformata in una sentenza definitiva. Se processo si estingue quell'ordinanza di cui all'art.186-quater c.p.c. acquista l'efficacia di una sentenza impugnabile. Il soccombente intanto rinuncia alla sentenza perché vuole al più presto impugnare quell'ordinanza-sentenza per ottenere dal giudice d'appello la sospensione dell'esecuzione dell'ordinanza che ha l'efficacia di una sentenza. In questo modo si ha un risparmio di tempo perché il giudice non dovrà pronunciare la sentenza (ma questo avviene solo se soccombente rinuncia alla sentenza). Questa ordinanza è pericolosa proprio per colui che la chiede ed infatti quasi mai l'attore chiede questa ordinanza tranne quando la prova è talmente chiara che il giudice non sbagliare. Questa ordinanza dal punto di vista pratico non ha avuto un grosso risultato perché l'attore una volta giunto al momento delle conclusioni, cioè quasi alla fine del processo, attenderà la sentenza non chiederà quasi mai l'ordinanza perché la parte vorrà sapere il ragionamento fatto dal giudice (ricordiamoci che la sentenza è motivata mentre l'ordinanza è succintamente motivata).

L'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. e quella di cui all'art.186-ter c.p.c. sono ordinanze che possono essere emesse fino al momento delle conclusioni (termine ultimo) e che non intendono sostituirsi alla sentenza ma che anticipano quella che sarà la decisione finale del giudice (tali ordinanze verranno assorbite dalla sentenza). L'ordinanza di cui all'art.186-quater c.p.c. è un'ordinanza che avrebbe dovuto sostituire la sentenza, essa può essere emessa alla fine dell'istruttoria, quindi dal momento delle conclusioni in poi (termini iniziale), quando non è possibile chiedere ne l'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. ne quella di cui all'art.186-ter c.p.c.


Estinzione del processo

L'estinzione del processo è un modo di conclusione del processo stesso diverso dalla pronuncia della sentenza di merito definitiva. Questo non è un modo eccezionale perché più del 50% dei processi si conclude per estinzione senza arrivare alla sentenza. L'estinzione è un istituto che è stato introdotto nel processo civile nel 1940, prima infatti esiste un istituto diverso che era la perenzione (se nessuna delle parti poneva in essere un atto processuale in un periodo di tempo di tre anni e processo si estingue della con una sentenza che dichiarava la perenzione del processo (l'efficacia di tale istituto era la stessa di quella dell'estinzione). Le cause dell'estinzione sono due:

la rinuncia agli atti del processo di cui all'art.306 c.p.c.;

l'inattività delle parti di cui all'art.307 c.p.c.

La rinuncia agli atti del processo (art.306 c.p.c.) si ha quando la parte rinuncia esclusivamente all'attività processuale; questa sua dichiarazione non ha nessuna efficacia a livello di diritto perché si può nuovamente riproporre la domanda. Questa ipotesi si ha per esempio quando la parte si accorge di aver proposto male la domanda (di aver sbagliato) e allora rinuncia agli atti del giudizio oppure può aversi un accordo esterno. Se la parte rinuncia diritto non si ha l'estinzione del processo, ma un procedimento (non previsto dal legislatore non ma affermatosi nella pratica), cioè la cessazione della materia del contendere; procedimento questo con il quale il giudice dichiara che non c'è più controversia perché la parte rinuncia al diritto. La rinuncia agli atti deve provenire personalmente dalla parte o da un procuratore speciale. La rinuncia deve essere accettata dalla controparte che ha interesse alla prosecuzione, se non viene accettata da rinuncia non ha effetto, cioè non determina l'estinzione. L'accettazione deve provenire direttamente dalla parte o da un procuratore speciale. Se il convenuto accettala rinuncia il giudice con ordinanza dichiara l'estinzione; mentre se il convenuto non l'accetta il processo va avanti. La rinuncia agli atti del processo è un istituto previsto anche in cassazione (anzi in cassazione non si ha l'estinzione per inattività delle parti), infatti il ricorrente può rinunciare al ricorso male la rinuncia al ricorso ha l'effetto di far passare in giudicato la sentenza d'appello. Gli effetti della rinuncia sono diversi a seconda del grado in cui viene effettuata: se la rinuncia avviene in primo grado del processo si estingue e le cose tornano come prima perché si può riproporre la domanda; se invece la rinuncia avviene in giudizio di impugnazione l'affetto è il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Il giudice dichiara l'estinzione con ordinanza. Le spese processuali sono a carico della parte che ha rinunciato, a meno che non ci sia tra convenuto e attore un accordo. L'inattività delle parti (art.307 c.p.c.) è un istituto che nel 1940 era disciplinata diversamente da oggi. Infatti nel 1940 l'estinzione poteva essere dichiarata d'ufficio dal giudice una volta che si è verificato l'evento estintivo. Per il compimento degli atti del processo ad opera delle parti erano previsti tempi molto ristretti. Nel 1950 si modificarono alcuni aspetti di questo istituto e si ebbe che:

L'estinzione non può più essere rilevata d'ufficio dal giudice ma è necessaria l'eccezione di parte;

Risultano allungati i tempi per il compimento di alcune attività (ad esempio in caso di sospensione o interruzione del processo la riassunzione, se si vuole evitare che il processo si estingua, deve essere fatta entro sei mesi, mentre prima doveva essere fatta entro un mese).

È stato introdotto un istituto nuovo che la cancellazione della causa dal ruolo (cioè in alcuni casi, se si ha l'inattività delle parti il processo non si estingue ma si ha la cancellazione della causa dal ruolo, se poi le parti non riassumono il processo entro un anno solo allora il processo si estingue; ad esempio se nessuna delle parti e all'udienza il giudice rinvia la causa ad altro udienza ma se neanche a questa udienza le parti compaiono il giudice di ordine alla cancellazione della causa dal ruolo dopodiché le parti hanno un anno di tempo per riassumere il processo, se lo riassumono il processo riprende corso altrimenti si estingue).

L'inattività delle parti si ha quando la parte non compie una determinata attività prevista dalla legge nel termine anch'esso previsto dalla legge (ad esempio la parte non riassume il processo sospeso entro se mesi, art.181 c.p.c.) oppure quando la parte non adempie ad un ordine del giudice (ad esempio l'ordine di integrazione del contraddittorio, ipotesi di nullità della citazione e della notificazione in cui il giudice l'ordine la rinnovazione). Con la riforma del 1950 l'estinzione opera di diritto ma è necessaria l'eccezione di parte. Questa disciplina non fa una piega se consideriamo l'ipotesi in cui il termine viene previsto dalla legge (ad esempio la riassunzione del processo sospeso deve avvenire entro sei mesi e se la parte non riassume il processo la controparte eccepire l'estinzione, se lo fa nel primo atto difensivo il giudice dichiara l'estinzione, mentre se non lo fa quel vizio non potrà più essere rilevato ed il processo andrà avanti). Il problema sorge in quelle ipotesi nelle quali l'estinzione consegue al mancato adempimento di un ordine del giudice. In questi casi il giudice ha disposto una certa attività affinché il processo possa avere un corso regolare (perché se è nulla della citazione sarà nulla anche la sentenza finale). Qui vi è il dubbio fra la necessità della eccezione di parte nella possibilità del giudice di dichiarare l'estinzione d'ufficio. Per una parte della dottrina il giudice può dichiarare d'ufficio l'estinzione, si ha qui una forzatura dell'articolo. Per un'altra parte della dottrina il giudice non può dichiarare d'ufficio l'estinzione ma è necessaria l'eccezione di parte ed allora in questi casi il giudice se non può pronunciare una sentenza di estinzione può con un provvedimento di natura processuale chiudere processo perché la parte non ha adempiuto ad un ordine del giudice; qui cambia la forma del provvedimento ma il risultato dello stesso cioè alla chiusura del processo. L'estinzione opera di diritto, cioè si verifica nel momento in cui vi è stato l'evento interruttivo ed il provvedimento del giudice ha solo natura dichiarativa ed è inoltre necessaria l'eccezione di parte. In un solo caso l'estinzione viene dichiarata d'ufficio dal giudice, questo è il caso di cui all'art.412-bis c.p.c. nell'ambito del processo del lavoro. Per quanto riguardala forma del provvedimento (art.308 c.p.c.), l'articolo inerente fa riferimento al tribunale in composizione collegiale e dice che: l'estinzione viene dichiarata dal giudice istruttore con ordinanza, reclamabile al collegio, ed il collegio decide con ordinanza se riforma del provvedimento del giudice, sua casa processo va avanti. Il sistema descritto non funziona più perché il tribunale opera in composizione monocratica; non ha per senza far reclamo allo stesso giudice unico che ha dichiarato l'estinzione; inoltre il giudice dichiara l'estinzione con una sentenza, mentre pronuncia un'ordinanza se rigetta l'eccezione di parte (in quest'ultimo caso il processo prosegue). La sentenza con la quale viene dichiarata l'estinzione è impugnabile. Per quanto riguarda gli effetti dell'estinzione sull'azione (art.310 c.p.c.), bisogna dire che l'estinzione del processo non estingue l'azione, infatti la parte può riproporre la stessa domanda anche se questa possibilità non è assoluta perchè incontra dei limiti: la prescrizione del diritto della decadenza. Abbiamo già detto che la proposizione della domanda interrompe la prescrizione ed impedisce la decadenza (di questo abbiamo già parlato in tema di atto di citazione). Per quanto riguarda la prescrizione tenendo presente l'art.2945 c.c. (che stabilisce che la prescrizione è interrotta da un atto introduttivo del processo e non corre per tutto il tempo in cui dura il processo e quindi il nuovo termine di prescrizione riprende a decorrere dal momento del passaggio in giudicato della sentenza), nel caso dell'estinzione del processo poiché viene meno l'effetto sospensivo e rimane solo quello interruttivo la prescrizione riprende a decorrere dal giorno della domanda introduttiva; questo in ragione del fatto che l'effetto sospensivo richiede che si pervenga ad una sentenza (cosa che non si ha in caso di estinzione). Per quanto riguarda la decadenza, tenendo presente che essa può essere impedita con un unico atto per sempre a seconda che il legislatore richieda un atto giudiziale (disconoscimento) o che sia sufficiente un atto stragiudiziale (impugnazione del licenziamento), nel caso dell'estinzione del processo se per impedire la decadenza bastava un atto stragiudiziale tale estinzione non ha nessun effetto perché l'effetto impeditivo si è comunque verificato; mentre nel caso in cui il legislatore richiedeva un atto giudiziale per impedire la decadenza (questo perché il legislatore vuole che ci sia una sentenza) l'estinzione del processo fa venir meno l'effetto impeditivo della decadenza (appunto perché non c'è stata la sentenza). L'art.310 c.p.c. al 2° comma stabilisce che l'estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo (le sentenze di merito cui ci si riferisce naturalmente sono quelle sentenze non definitive perché il processo o si conclude con una sentenza definitiva o con l'estinzione ed è quest'ultimo caso che stiamo considerando). Inoltre l'estinzione del processo non ha nessun effetto sulle sentenze della cassazione e su tutta una serie di atti che non sono sentenze di merito, cioè le ordinanze anticipatorie di condanna. In sostanza l'estinzione travolge le sentenze che hanno natura processuale, cioè quelle che il giudice di merito pronuncia su questioni di natura processuale (competenza, giurisdizione, questioni preliminari di merito). L'art.310 c.p.c. al 3° comma stabilisce che le prove raccolte di un processo estinto conservano la loro efficacia se sono prove precostituite (prove che valgono al di fuori del processo), mentre se si tratta di prove raccolte nel processo (ad esempio la prova testimoniale) queste con l'estinzione del processo diventano argomenti di prova. L'art.310 c.p.c. all'ultimo comma stabilisce che le spese del processo estinto sono a carico delle parti che le hanno anticipate, tranne quando il processo si è estinto per rinuncia agli atti del processo, infatti in questo caso le spese sono a carico della parte che ha rinunciato.



Impugnazioni

Oggi il nostro sistema delle impugnazioni è in un certo senso indicato nell'art.323 c.p.c. che individua: l'appello, il ricorso per cassazione, il regolamento di competenza, la revocazione e l'opposizione di terzo. Dall'art.323 c.p.c. si può evincere che nei confronti di un'unica sentenza possiamo avere più mezzi di impugnazione, quindi il problema che si pone è quello di capire quale mezzo di impugnazione in tal caso (cioè nel caso in cui nei confronti di una sentenza vengono fatte impugnazioni diverse) va considerato. Per quanto riguarda i rapporti tra revocazione e ricorso per cassazione contro la sentenza di 2° grado, questi sono disciplinati nel segno dell'autonomia dei due giudizi, dal legislatore, che a volte non dice nulla quindi lascia all'interprete il compito di "decidere" sul concorso tra le varie impugnazioni. Il legislatore ha dedicato la prima parte del titolo relativo alle impugnazioni a quelle che sono le impugnazioni generali, cioè quei principi che valgono per tutte le impugnazioni (artt.323 e ss. c.p.c.). Innanzitutto dobbiamo dire che l'oggetto dell'impugnazione è la sentenza, anche se ci sono determinate ipotesi in cui si impugnano anche le ordinanze e precisamente questo avviene quando tali provvedimenti hanno contenuto decisorio e sono definitivi; quindi in questi casi poiché si hanno provvedimenti non modificabili o revocabili, come lo è invece l'ordinanza in generale, dev'essere possibile l'impugnazione. Tutto ciò come conseguenza delle affermazioni della cassazione che ha detto che, indipendentemente da quella che è la forma dell'atto che il giudice utilizza, di fronte ad un provvedimento immodificabile o irrevocabile si può proporre impugnazione in cassazione (ai sensi dell'art.111 Cost.). In sostanza l'oggetto delle impugnazioni normalmente è la sentenza ma può essere impugnata anche l'ordinanza nel caso descritto; inoltre dal 1990 può essere impugnata un'altra ordinanza che è quella che dichiara la sospensione del processo, infatti essa può essere impugnata in cassazione con il regolamento di competenza (art.295 c.p.c.). Per quanto riguarda i soggetti legittimati a proporre l'impugnazione, questi sono le parti tenendo presente che quando si parla di parte ci riferiamo alla parte processuale; tuttavia ci sono casi, quali ad esempio le ipotesi di litisconsorzio necessario, in cui anche la parte sostanziale può impugnare il provvedimento, altri casi in cui lo può fare anche chi non è parte con l'opposizione di terzo ed infine casi in cui il p.m. può fare la revocazione straordinaria (questo avviene quando non è stato chiamato nel processo). Per quanto riguarda poi l'interesse all'impugnazione, questo è determinato dalla maggiore utilità che si può avere, ovvero da un trattamento più favorevole; in funzione di ciò ad impugnare un provvedimento può essere solo la parte soccombente (teniamo presente che la soccombenza deve vedersi con riferimento alle conclusioni che possono essere anche diverse rispetto alla domanda principale; quindi se il giudice accoglie la domanda in parte, il provvedimento non può essere impugnato dall'attore). Possiamo avere una soccombenza pratica quando il giudice accoglie la domanda dell'attore e condanna il convenuto al amento di una somma, mentre si ha una soccombenza teorica (o virtuale) quando il giudice rigetta l'eccezione d'incompetenza o di prescrizione sollevata dal convenuto ma ugualmente non accoglie e rigetta la domanda dell'attore (in quest'ultimo caso il convenuto può avere interesse all'impugnazione solo se l'attore impugna la decisione del giudice che ha rigettato la domanda, in caso contrario il convenuto non ha interesse all'impugnazione in quanto ha vinto nel merito). Quindi la soccombenza pratica è quella sulla domanda o sul merito, mentre la soccombenza teorica è quella sulla domanda. Circa i termini di proposizione delle impugnazioni possiamo avere: un termine breve o un termine lungo. Ciò che determina il tipo di termine è la notificazione della sentenza; infatti se il vincitore notifica la sentenza alla controparte si avrà un termine breve mentre in caso contrario si avrà un termine lungo. Il termine breve per la proposizione dell'appello è di 30 giorni dalla notificazione della sentenza, mentre il termine breve per il ricorso per cassazione è di 6 giorni dalla notificazione della sentenza. Il termine lungo invece è di 1 anno dalla pubblicazione della sentenza (termine che opera indipendentemente dal fatto che la parte sia o meno a conoscenza della pubblicazione); tenuto conto però della sospensione dei termini feriali (dal 1° agosto al 15 settembre) il termine lungo diventa di 1 anno e 45 giorni. La notificazione tardiva della sentenza non può servire a prolungare il termine lungo perché lo scopo della notificazione della sentenza è quello di accelerare il termine per l'impugnazione e non di allungarlo; ovvero lo scopo è quello di accelerare il termine per il passaggio in giudicato della sentenza (se il vincitore notifica la sentenza quando sta scadendo il termine lungo, cioè sono trascorsi 1 anno e 40 giorni, il tempo per impugnarla resterà di 5 giorni e non diventerà di 30 giorni).

Il termine breve ed il termine lungo servono a capire quando la sentenza passa in cosa giudicata formale. L'art.324 c.p.c. richiama le impugnazioni e ciò sta a significare che le impugnazioni nel nostro sistema hanno la funzione di evitare che la sentenza passi in giudicato. Cosa giudicata formale significa che quella sentenza non può più essere messa in discussione. Ora dobbiamo fare delle distinzioni:

tra impugnazioni ordinarie (appello; ricorso per cassazione; revocazione dei nn.3 e 5 dell'art.324 c.p.c.; regolamento di competenza) ed impugnazioni straordinarie (opposizione di terzo; revocazione dei nn.1, 2, 3 e 6 dell'art.324 c.p.c.);

tra impugnazioni rescindenti (dirette solo ad annullare il provvedimento, la cassazione cassa la sentenza viziata) ed impugnazioni rescissorie (diretta alla sostituzione della sentenza annullata con una nuova decisione, la cassazione rimette la causa al giudice di rinvio per una nuova decisione);

tra impugnazioni a critica vincolata (possibile solo per alcuni motivi, ricorso in cassazione per 5 motivi e revocazione per 6 motivi) ed impugnazioni a critica libera (possibile per qualsiasi motivo, appello);

tra impugnazioni proposte dinanzi allo stesso ufficio giudiziario che emana la sentenza impugnata (la revocazione) ed impugnazioni proposte dinanzi uffici giudiziari diversi (l'appello ed il ricorso per cassazione).

L'acquiescenza è la volontà del soccombente di accettare la sentenza. Possiamo avere un'acquiescenza parziale quando una sentenza è divisa in più parti (capi) e viene impugnata limitatamente ad una parte, quindi per l'altra parte si ha l'acquiescenza che fa passare in giudicato tale parte; questo però avviene solo se la parte della sentenza che non viene impugnata è indipendente dalla parte che viene impugnata. Per quanto riguarda i vizi della sentenza, questi possono essere raggruppati in due grandi categorie:

la categoria degli errores in procedendo (vizi di attività: ovvero vizi extraformali quali il difetto di giurisdizione, difetto di competenza ed in sostanza tutti quei vizi attinenti alla mancanza di requisiti di natura formale che stanno prima della decisione; ma anche vizi che attengono alla nullità della sentenza non per motivi preesistenti ad essa ma per motivi strettamente attinenti ad essa stessa come ad esempio la sentenza emessa da un collegio non regolarmente costituito, vizio di costituzione del giudice);

la categoria degli errores in iudicando (vizi di giudizio, ovvero vizi dovuti ad un errore del giudice nell'interpretazione o nell'applicazione di una norma di legge alla fattispecie concreta; in tal caso quindi il giudice sbaglia ad individuare una norma oppure individua la norma esatta ma la applica male).



Le due categorie di vizi della sentenza, i vizi di attività ed i vizi di giudizio, sono soggetti ad una disciplina unitaria, mentre in passato c'erano impugnazioni differenti a seconda del vizio.

Per quanto riguarda le impugnazioni incidentali (impugnazioni proposte all'interno di un'altra impugnazione), bisogna dire che si hanno in tutta una serie di ipotesi:

ipotesi di pluralità delle parti (litisconsorzio necessario e litisconsorzio facoltativo);

ipotesi di chiamata delle parti da un terzo;

ipotesi di causa che diventi pluralità di parti per interpello volontario.

L'impugnazione incidentale è consentita non soltanto quando non sia scaduto il termine per impugnare, ma anche quando il termine sia scaduto; in questo caso si ha quella che viene definita impugnazione incidentale tardiva Poiché l'impugnazione incidentale tardiva si giustifica solo quando è ammissibile l'impugnazione principale, se quest'ultima viene dichiarata inammissibile, l'altra (impugnazione incidentale tardiva) perde ogni efficacia.


(VEDI MEGLIO LE IMPUGNAZIONI INCIDENTALI)

In un passato lontano le impugnazioni investivano tutta la sentenza indipendentemente dalla parte della sentenza oggetto dell'impugnazione; successivamente il discorso cambia perché il giudizio d'appello si svolge su quella parte della sentenza oggetto dell'impugnazione (effetto devolutivo dell'appello). In caso di soccombenza reciproca l'attore ed il convenuto portano nel processo d'appello le rispettive parti della sentenza per le quali risultano soccombenti; in tal caso si ha che dalla combinazione delle due impugnazioni tutto il processo viene portato in grado d'appello (perché ciò accada è necessario che sia l'attore che il convenuto propongano l'impugnazione). Per capire meglio il rapporto tra impugnazione principale ed impugnazione incidentale, dobbiamo innanzitutto precisare che il legislatore ha come obiettivo quello di ripetere in grado d'appello ciò che è avvenuto in 1° grado, cioè il legislatore mira ad un processo-fotocopia dal punto di vista dei soggetti e dell'oggetto. Circa la relazione tra l'impugnazione principale e l'impugnazione incidentale bisogna dire che questa è una relazione meramente cronologica, infatti chi propone per primo l'impugnazione ha proposto un'impugnazione principale che quindi si ha non in ragione del soggetto o dell'oggetto m semplicemente perché viene proposta per prima. Le impugnazioni incidentali si definiscono così perché devono essere proposte nell'ambito di un'impugnazione principale perché si abbia un unico processo in grado d'appello. L'impugnazione incidentale deve proporsi nello stesso termine previsto per l'impugnazione principale (30 giorni dalla notificazione o 1 anno, se ci troviamo in cassazione i termini saranno di 60 giorni dalla notifica oppure di 1 anno); questa è l'impugnazione incidentale tempestiva, ma abbiamo anche l'impugnazione incidentale tardiva che si può proporre anche oltre il termine di scadenza. L'impugnazione incidentale tardiva va proposta in appello, a pena di decadenza, 20 giorni prima dell'udienza che è stata fissata (udienza di prima trattazione davanti alla corte d'appello); questo per evitare che l'impugnazione principale tardiva dell'attore proposta quando sta per scadere il termine (un giorno prima) impedisca al convenuto (al quale all'inizio poteva andar bene la sentenza di 1° grado) di proporre l'impugnazione incidentale tardiva, infatti il termini per l'impugnazione incidentale è uguale a quello per l'impugnazione principale. La cassazione aveva ritenuto che ci fossero limiti oggettivi e limiti soggettivi per l'impugnazione incidentale, nel senso che essa poteva proporsi limitatamente allo stesso oggetto ed alla stessa parte dell'impugnazione principale. La dottrina ha sempre contestato questi limiti affermando che l'art.334 c.p.c. non dice nulla a riguardo. Successivamente la cassazione ha cambiato opinione. Ciò che è importante dire è che non si può portare nel grado d'appello più di quello che è accaduto nel 1° grado (cioè non si può ampliare l'oggetto del giudizio). Un altro punto importante da analizzare attiene alla pluralità delle parti nel processo di 1° grado, qui possiamo anche parlare di inscindibilità delle cause. Precisamente possiamo avere una pluralità di parti nell'ipotesi di litisconsorzio necessario (qui si tratta di un rapporto unitario più che di inscindibilità delle cause), ad esempio in una causa che ha ad oggetto una divisione ereditaria, oppure possiamo avere più cause tra loro dipendenti (ad esempio in una delle ipotesi che riguardano una garanzia propria e non in quelle che riguardano una garanzia impropria per le quali non si ha la dipendenza). L'art.331 c.p.c. stabilisce che nel processo d'appello deve ripetersi la stessa situazione, sotto il profilo soggettivo, che si è avuta nel processo di 1° grado. Se al momento dell'impugnazione non vi sono tutte le parti, il giudice ordina che l'impugnazione venga notificata anche alle altre parti (integrazione del contraddittorio), in un termine perentorio. Se non avviene la notifica non si ha l'estinzione come nell'art.102 c.p.c. ma si ha l'inammissibilità dell'impugnazione. Quando invece abbiamo cause scindibili ma riunite nel processo di 1° grado e non si verifica la stessa situazione in appello, il processo può tranquillamente andare avanti solo tra le parti che hanno impugnato la sentenza.

Il legislatore vuole evitare che nei confronti di una stessa sentenza vi siano più processi (perché per esempio può accadere che chi in quel momento non ha ancora impugnato la sentenza lo faccia successivamente), quindi ha stabilito che il processo che è nato per primo non deve andare avanti finché non sono scaduti i termini (brevi o lunghi che siano) che anche le altre parti hanno per impugnare. Quindi il processo d'appello è sospeso fino a che i termini per impugnare non sono scaduti (si tratta dell'art.332 c.p.c. che è un tipo di sospensione legale, più breve che lunga, di differimento); dopo tale scadenza è possibile proseguire tranquillamente. Un altro problema attiene all'esecuzione della sentenza. Oggi la sentenza di 1° grado è esecutiva e l'appello non ha un effetto sospensivo automatico di tale esecuzione; mentre la sentenza di 2° grado esecutiva già lo era. In grado d'appello può chiedersi al giudice di sospendere l'esecuzione della sentenza di 1° grado ma occorre un elemento che è la presenza di gravi motivi oltre all'impugnazione che naturalmente è condizione essenziale per poter chiedere appunto la sospensione dell'esecuzione. Nel processo del lavoro la situazione cambia perché se è il datore di lavoro soccombente ed impugna la sentenza, per ottenere la sospensione dell'esecuzione deve dimostrare il gravissimo danno (qualcosa di molto più serio rispetto ai gravi motivi). Al contrario se è il lavoratore che impugna la sentenza e vuole ottenere la sospensione dell'esecuzione deve dimostrare soltanto l'esistenza dei gravi motivi. La regola è che sulla provvisoria esecuzione si decide con ordinanza non impugnabile, ma il presidente del tribunale può disporne la sospensione con decreto se ricorrono "giusti motivi di urgenza" (art.351 c.p.c.). Per quanto la sentenza di 2° grado, essa è esecutiva ed il ricorso per cassazione non sospende l'esecuzione della sentenza di 2° grado. Qui vi è una particolarità, infatti quando la sentenza di 2° grado può determinare un grave ed irreparabile danno si dispone la sospensione dell'esecuzione di tale sentenza; tuttavia la particolarità sta nel fatto che sulla sospensione non decide la cassazione ma lo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento (la sentenza di 2° grado) a condizione però chela parte abbia già proposto ricorso per cassazione (in sostanza emessa la sentenza di 2° grado la parte soccombente promuove il ricorso per cassazione dopodiché chiede al giudice di 2° grado di disporre la sospensione dell'esecuzione della stessa sentenza perché vi è un danno grave ed irreparabile (man mano che si sale nei gradi di giudizio per ottenere la sospensione è richiesto qualcosa in più, infatti la sospensione dell'esecuzione della sentenza di 2° grado è abbastanza rara). Nell'esame dell'appello facciamo sempre riferimento ad un mezzo di impugnazione a critica libera, cioè un mezzo con il quale si può impugnare tutto ciò che si ritiene opportuno impugnare. L'appello si propone normalmente nei confronti delle sentenze di 1° grado, ma ci sono delle sentenze che non sono appellabili (art.339 c.p.c.) perché pronunciate secondo equità (ad esempio le sentenze pronunciate dal giudice di pace, sotto i due milioni). Se una sentenze è inappellabile non vuol dire che non può essere sottoposta a nessun controllo, ma vuol dire che non è possibile l'appello tuttavia è possibile proporre il ricorso per cassazione.

Giudice di appello è: la corte d'appello (rispetto alle decisioni del tribunale) oppure il tribunale (rispetto alle decisioni del giudice di pace). Per quanto riguarda la forma in cui si propone l'appello, essa è la citazione (nei giudizi che iniziano in 1° grado con citazione) oppure il ricorso (nei giudizi che iniziano in 1° grado con ricorso). Il rispetto dei termini di cui abbiamo detto, poniamo i 30 giorni, si ha con l'atto processuale (la citazione o il ricorso); ad esempio è irrilevante che il ricorso venga notificato oltre i 30 giorni. In grado d'appello è possibile intervenire ma poiché l'intervento presuppone una nuova domanda, esso è previsto in via del tutto eccezionale e come regola generale in appello non è ammesso l'intervento. In sostanza è ammesso solo l'intervento di quei soggetti che potrebbero proporre l'opposizione di terzo.

Importante è il modo in cui si svolge l'appello. Innanzitutto bisogna dire che sia nella fase della decisione che in quella della trattazione il giudice è sempre collegiale, la corte d'appello opera sempre in funzione collegiale. Per quanto riguarda l'appello proposto nei confronti delle sentenze del giudice di pace le cose cambiano, infatti in questo caso è il tribunale a decidere ma si tratta del tribunale in composizione monocratica. Fino al 1990 nel processo ordinario di cognizione vigeva una regola e cioè che nel processo di appello era possibile proporre nuove eccezioni, nuovi mezzi di prova e nuovi documenti, le parti però non potevano proporre nuove domande. Nel processo del lavoro era stato stabilito nel 1973 che non era possibile proporre neanche nuove eccezioni (ovviamente quelle riservate alla parte) e quindi il processo del lavoro in grado d'appello può essere definito come un giudizio ad istruzione chiusa. Quindi secondo una distinzione in due diversi modelli di appello, quello "remissivo priore istantia" (nel quale ci si limita a rivedere ciò che è successo in 1° grado senza introdurre novità) e quello "novum iudicium" (nel quale si può avere tranquillamente un'istruzione nuova e non completamente corrispondente a quella del 1° grado), fino al 1990 il grado d'appello del processo ordinario era un novum iudicium mentre dal 1973 in poi il grado d'appello del processo del lavoro è definibile come appello del tipo remissivo priore istantia. Con la riforma del 1990 anche per il grado d'appello del processo ordinario vengono introdotti forti limiti e quindi viene introdotto un sistema basato sul modello remissivo priore istantia. L'art.345 c.p.c. disciplina in maniera distinta domande, eccezioni e prove e nel confermare che le domande nuove non sono ammissibili introduce una novità che consiste nella conseguenza derivante dalla proposizione di una nuova domanda. Infatti mentre prima la proposizione di una nuova domanda aveva come conseguenza il rigetto della stessa, dal 1990 il legislatore stabilisce che la proposizione di una nuova domanda porta alla dichiarazione di inammissibilità. Tuttavia ci sono dei casi in cui la domanda non è nuova come ad esempio la domanda che ha per oggetto gli interessi o il risarcimento dei danni maturati dopo la sentenza di 1° grado. Sempre l'art.345 c.p.c. tratta poi delle eccezioni e a tal proposito è importante ricordare sempre la distinzione tra eccezioni proponibili d'ufficio dal giudice ed eccezioni proponibili dalla parte perché queste ultime non possono essere proposte in appello se non sono state già sollevate in 1° grado; quindi in grado di appello può proporsi un'eccezione solo perché il giudice può rilevarla d'ufficio (ad esempio l'eccezione di amento). Per quanto riguarda le prove, il divieto di introdurre nuove prove non è assoluto perché abbiamo due eccezioni: una nell'ipotesi in cui il collegio ritenga quelle prove indispensabili a fini della decisione e l'altra nell'ipotesi di prove relativamente alle quali la parte riesce a dimostrare di non averle potute chiedere in 1° grado per un fatto ad essa non imputabile. In ogni caso è sempre ammesso in appello il giuramento decisorio. Ora dobbiamo trattare della questione dell'impugnazione delle sentenze non definitive. A riguardo sappiamo che l'art.279 c.p.c. definisce anche i casi in cui il giudice decide con sentenza non definitiva e cioè i casi in cui abbiamo una questione di giurisdizione, una questione di competenza o un'altra questione pregiudiziale o preliminare di merito o anche il merito senza però definire il giudizio. Non sorgono grossi problemi quando ci troviamo di fronte ad una questione, il contrario invece avviene nel caso in cui ci troviamo di fronte al merito come avviene per la sentenza di cui all'art.278 c.p.c. (sentenza di condanna generica) che è sicuramente una sentenza di merito non definitiva. Il problema di definire una sentenza come definitiva o come non definitiva è importante per capire quale tipo di impugnazione è possibile fare. La disciplina dell'impugnazione delle sentenze non definitive fino al 1865 prevedeva la possibilità di impugnare tali sentenze, dette interlocutorie, subito autonomamente.


Nel 1940 le sentenze non definitive vengono chiamate parziali e si stabilisce che possono essere impugnate solo alla fine insieme con la sentenza definitiva previa riserva (cioè la parte doveva dichiarare di riservarsi di impugnare la sentenza). Nel 1950 poi le sentenze in questione vengono chiamate non definitive e la loro nuova disciplina prevede una scelta per la parte che può o impugnare subito la sentenza non definitiva o può fare riserva ed impugnarla alla fine quando verrà emessa la sentenza conclusiva. Oggi la situazione è la stessa del 1950 solo che in alcuni casi, come il caso della sentenza non definitiva sul divorzio (che dev'essere seguita da quella sull'assegno), l'impugnazione va fatta immediatamente e non è riservabile. Per quanto riguarda la riserva d'appello, è necessario dire che essa va fatta nello stesso termine che si ha per proporre l'impugnazione ordinaria, ma con tale termine ne concorre un altro che è quello rappresentato dalla data dell'udienza successiva (in sostanza poiché a seguito della sentenza non definitiva il giudice deve continuare il processo viene fissata un'altra udienza per la prosecuzione del processo, allora la parte potrà impugnare la sentenza non definitiva entro il termine di 30 giorni, se vi è stata la notifica della sentenza, a meno che non venga prima la data dell'udienza fissata per la prosecuzione del processo, in quest'ultimo caso infatti il termine ultimo per l'impugnazione o per la riserva d'impugnazione è dato dalla data dell'udienza). Un problema che si pone attiene all'ipotesi in cui il processo nel corso del quale è stata proposta la riserva si estingue; a riguardo l'art.129 disp.di attuaz. Stabilisce che se il processo si estingue in 1° grado, la sentenza di merito contro la quale si è fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile l'ordinanza o passa ingiudicato la sentenza che pronuncia l'estinzione. In sostanza se la sentenza non definitiva contro la quale si è fatta la riserva è di merito, essa acquista efficacia e può essere impugnata; mentre se la sentenza non definitiva contro la quale si è fatta la riserva non è di merito, essa diventa inefficace con l'estinzione del processo e non si può impugnare ciò che è inefficace. Per quanto riguarda l'impugnazione immediata, quando la parte propone subito l'impugnazione, il giudizio di 1° grado ed il giudizio d'appello vanno avanti autonomamente (ai sensi dell'art.279 c.p.c.), ma le parti possono anche essere d'accordo nel sospendere il giudizio di 1° grado sempre se il giudice lo ritiene opportuno. Se il giudizio di 1° grado viene sospeso, esso verrà influenzato dalla sentenza del giudizio d'appello; ma anche se il giudizio di 1° grado non viene sospeso, esso sarà comunque condizionato dal giudizio d'impugnazione, soprattutto nel caso in cui il giudizio di 1° grado si concluda prima e con una sentenza incompatibile con quella a cui perverrà il giudizio d'impugnazione (qualora quest'ultimo abbia ad oggetto una questione preliminare di merito). Sulla problematica del coordinamento tra il giudizio di 1° grado ed il giudizio d'impugnazione, dobbiamo quindi concludere che il giudizio di 1° grado inevitabilmente dipende dal giudizio d'impugnazione su una questione preliminare. Per quanto riguarda l'impugnazione in cassazione, essa nel 1940 era un'impugnazione ordinaria ed un'impugnazione a critica vincolata. Innanzitutto l'art.360 c.p.c. dice che sono impugnabili in cassazione le sentenze emesse in grado d'appello o in unico grado (ad esempio le sentenze emesse dal giudice di pace in unico grado, sotto i due milioni); l'articolo in questione dice anche che è possibile una specie di ricorso omissio medio quando le parti sono d'accordo e decidono di omettere l'appello, ma ciò non si verifica mai perché nessuno è disposto a perdere un grado di giudizio. In base all'art.111 Cost. Possiamo ritenere suscettibili di ricorso in cassazione anche le ordinanze che pongono termine ad un procedimento (cioè quelle che hanno natura decisoria e definitività nel senso che non sono altrimenti impugnabili). L'impugnazione in cassazione è a critica vincolata perché può aversi solo in alcune ipotesi.


Si può ricorrere per cassazione per:

motivi attinenti alla giurisdizione, tenendo presente oltre alla questione di giurisdizione attinente ai tre limiti alla giurisdizione civile anche le ipotesi di conflitto negativo (quando più giudici negano la loro giurisdizione a colui che propone presso di loro una domanda), di conflitto positivo (quando più giudici si dichiarano forniti di giurisdizione circa una questione) e di ultra petita (quando il giudice va oltre la domanda delle parti, cosa che non si può fare);

motivi attinenti alla competenza, quando non è "prescritto" il regolamento di competenza (cioè quando non è previsto il regolamento di competenza necessario), in sostanza quando c'è una sentenza sia sulla competenza che sul merito è possibile impugnare la questione di competenza ricorrendo per cassazione anche con il ricorso ordinario (e non solo con il regolamento di competenza facoltativo);

motivi di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in sostanza errores in iudicando cioè vizi di giudizio (mentre tutti i motivi precedenti e quelli successivi sono errores in procedendo cioè vizi di attività);

motivi di nullità della sentenza o del procedimento, cioè tutte quelle ipotesi di nullità che non sono state sanate nel corso del processo (mancato intervento del p.m., nullità dell'atto di citazione ecc.), quindi le ipotesi di nullità della sentenza possono essere fatte valere con il ricorso per cassazione;

motivi di mancanza (omissione), insufficienza o contraddittorietà della motivazione, in questi casi spetta alla cassazione stabilire se la motivazione è contraddittoria o insufficiente anche in riferimento al dispositivo.

Circa la forma dell'atto tramite il quale si propone l'impugnazioni in cassazione, questa è quella del ricorso; è importante dire però che non si tratta di un ricorso come quello del processo del lavoro; infatti in questo caso il ricorso viene prima notificato e poi depositato nella cancelleria, abbiamo cioè un mezzo di proposizione della domanda molto più vicino alla citazione. Quando il ricorso viene notificato il ricorrente ha 20 giorni di tempo per il deposito dello stesso nella cancelleria della corte d'appello, poi 20 giorni dopo dal deposito quindi 40 giorni dopo dalla notifica il controricorrente può costituirsi depositando un controricorso (se intende proporre impugnazione incidentale deve farlo nel controricorso che quindi sarà un controricorso incidentale). Per quanto riguarda la decisione della corte d'appello, essa in alcuni ipotesi (integrazione del contraddittorio, estinzione del processo) decide in camera di consiglio e può farlo sia nel caso di sezioni unite che nel caso di sezioni semplici. Quando non ricorre un'ipotesi di decisione in camera di consiglio, il ricorso viene discusso in pubblica udienza ed è il primo presidente che poi deve assegnare il ricorso o alle sezioni unite o alle sezioni semplici. Nel civile abbiamo le sezioni unite e tre sezioni semplici. Si hanno le sezioni unite quando si decide sulla giurisdizione, sui contrasti di giurisprudenza tra le sezioni unite. Ciò che dicono le sezioni unite è un'indicazione che non vincola i giudici per le questioni più o meno analoghe a quelle decise da tali sezioni, ma costituisce ugualmente un precedente importante. Le sezioni unite decidono anche nel caso di questioni di particolare complessità se il presidente decide di trasmettere la questione. Negli altri casi decidono le sezioni semplici. Quando la decisione non è in camera di consiglio ma in pubblica udienza, 5 giorni prima dell'udienza fissata le parti che si sono costituite almeno con il controricorso possono depositare delle memorie; dopo c'è la discussione, la relazione che fa il giudice relatore, parlano gli avvocati e poi il p.m. ed infine la cassazione decide con sentenza. La cassazione in caso di decisione negativa per quanto riguarda la giurisdizione, "cassa" la sentenza impugnata ed il processo si chiude là (questa è l'ipotesi di cassazione senza rinvio).

Quando invece la decisione della cassazione è negativa ma sulla competenza, allora essa effettua anche un rinvio trasmettendo gli atti del processo al giudice competente (questa è l'ipotesi di cassazione con rinvio). Per quanto riguarda le altre ipotesi in cui si può ricorrere per cassazione, nel caso in cui viene rilevato il vizio denunciato la cassazione annulla la sentenza impugnata e rinvia ad un giudice di pari grado a quello che ha emesso la sentenza impugnata (non allo stesso giudice ma ad uno di pari grado). Si può avere il rinvio proprio se si rispetta il grado di chi ha emesso il provvedimento impugnato, mentre si può avere il rinvio improprio se si va dal giudice di 1° grado (come avviene ad esempio nel caso di nullità della notificazione della citazione). Infine se l'impugnazione viene rigettata dalla cassazione, la sentenza passa in giudicato. Nel caso di cassazione con rinvio c'è una doppia fase (rescindente e rescissoria); a riguardo la cassazione, quando cassava la sentenza, enunciava poi il principio di diritto e rinviava la causa. Il principio di diritto aveva efficacia vincolante anche nel caso di estinzione del processo (l'efficacia vincolante non sussiste se il giudice ricostituisce i fatti in modo diverso). Dobbiamo ricordare inoltre che le parti hanno un anno per riassumere il giudizio di rinvio dinanzi al giudice indicato dalla cassazione. La norma che ha enunciato il principio di diritto viene abrogata e la cassazione nel 1990 ha un'alternativa poiché il legislatore prevede la possibilità di non operare il rinvio e di decidere subito la causa nel merito, ma questo solo se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto; infatti il giudizio dinanzi alla cassazione non presenta una fase istruttoria. Quando è la cassazione a decidere per ultima si pone il problema di capire se è possibile proporre le impugnazioni straordinarie contro tale decisione.


Revocazione

La revocazione è un'impugnazione particolare perché in parte è ordinaria ed in parte è straordinaria. Essa infatti è ordinaria limitatamente alle ipotesi di cui all'art.395 c.p.c. ai nn.4 e 5, mentre è straordinaria nelle ipotesi ai nn.1, 2, 3 e 6. La differenza tra i due tipi di impugnazione sta nel fatto che quella straordinaria può essere proposta anche nei confronti delle sentenze passate in giudicato. Oggetto della revocazione possono essere le sentenze rese in 2° grado (appello) e quelle rese in unico grado. La revocazione può concorrere con l'impugnazione in cassazione (ricorso per cassazione) e, cosa importante, è che può essere proposta nei confronti delle sentenze per le quali è scaduto il termine per l'impugnazione (sentenze di 1° grado e di 2° grado passate in giudicato) e nei confronti delle sentenze della Corte di cassazione ma, secondo la riforma del 1990, solo in riferimento all'errore di fatto (cioè quando si è considerato esistente un fatto che risulta inesistente dagli atti di causa o viceversa). La revocazione è un messo di impugnazione a critica vincolata in quanto può essere proposta solo per alcuni motivi. La revocazione non può mai concorrere con l'appello. Per quanto riguarda i motivi per la proposizione della revocazione straordinaria, questi sono:

N.1: il dolo della parte, per il quale è necessaria una collusione della parte in danno dell'altra parte.

N.2: il riconoscimento (proveniente dalla parte) o la dichiarazione (proveniente dal giudice) della falsità di prove sulle quali si è fondata la decisione, qui è necessaria una sentenza passata in giudicato che dichiari la falsità della prova (la norma riguarda tutte le prove ad eccezione del giuramento la cui falsità può solo far ottenere il risarcimento dei danni e non la revocazione).

N.3: l'emergere di documenti decisivi e che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per colpa dell'avversario, qui le due tesi sono: l'assoluta ignoranza dell'esistenza di questi documenti e la conoscenza del documento accomnata dall'impossibilità di esibirlo in giudizio per fatto dell'avversario (per la giurisprudenza questa norma opera solo nel caso di assoluta ignoranza).

N.6: il dolo del giudice, ipotesi rarissima.

È previsto che se si viene a conoscenza di questi motivi durante il termine per proporre l'appello, dal momento della conoscenza scatta un nuovo termine di 30 giorni per l'impugnazione della sentenza con l'appello.

Per quanto riguarda i motivi per la proposizione della revocazione ordinaria, questi sono:

N.4: l'errore di fatto, a riguardo la giurisprudenza parla di mera svista da parte del giudice (questo motivo è l'unico per il quale è possibile la revocazione delle sentenze della cassazione).

N.5: la contrarietà della sentenza ad un'altra sentenza già passata in giudicato, a riguardo la giurisprudenza dice che non vi deve essere mai stata l'eccezione della parte ed il giudice non deve aver deciso su tale eccezione (infatti se la parte ha eccepito la sentenza passata in giudicato ed il giudice non provveduto si può proporre ricorso per cassazione, mentre se la questione non è stata proprio trattata si può ricorrere per la revocazione). In riferimento a quest'ultima ipotesi se la revocazione non viene proposta prevale, la seconda sentenza che non ha tenuto conto della prima sentenza contraria; il legislatore in sostanza ha previsto la revocazione come strumento di impugnazione della seconda sentenza, quindi se tale sentenza non viene eliminata deve prevalere sulla prima anche se già passata in giudicato.

Il legislatore ha previsto un termine per la proposizione della revocazione; questo termine è di 30 giorni dalla notificazione della sentenza, ma vi è un altro termine che è quello di 30 giorni dalla conoscenza dei motivi di cui all'art.395 c.p.c., quando cioè si ha conoscenza dei motivi in questione dopo il passaggio in giudicato della sentenza (qui si tratta di un termine mobile).

Accanto alla revocazione delle parti vi è quella del pubblico ministero (art.397 c.p.c.) che può aversi nel caso di mancato intervento del p.m. anche se era previsto il suo intervento obbligatorio (in tale ipotesi in quanto il p.m. non può essere equiparato in tutto e per tutto alla parte non si ha la rimessione della causa al primo giudice come avviene nell'ipotesi di litisconsorzio necessario) e nel caso di collusione fra le parti a danno della legge (accordo tra le parti al fine di perseguire uno scopo vietato dalla legge). Per quanto riguarda il giudice competente a pronunciarsi sulla revocazione, questo è lo stesso che ha pronunciato la sentenza oggetto della revocazione; naturalmente si parla di ufficio giudiziario e non di giudice persona fisica (anche se la giurisprudenza ritiene che questa disposizione non si possa applicare quando si tratta di revocazione per dolo del giudice). La domanda di revocazione va proposta con citazione, ma nel caso di controversie di lavoro o locazione è richiesto il ricorso. L'atto di citazione deve contenere:

i motivi della revocazione,

le prove utili a dimostrare i fatti previsti dei nn.1, 2, 3 e 6 dell'art.395 c.p.c.,

la data della scoperta (ovvero della conoscenza) dei motivi di revocazione (perché da tale data decorrono i 30 giorni).

Questi elementi sono richiesti a pena di inammissibilità per la revocazione. La parte che ha proposto la revocazione deve costituirsi entro 20 giorni dalla notificazione a pena di improcedibilità (conseguenza diversa dall'inammissibilità che opera dopo la costituzione del giudizio) per il mancato deposito. La decisione del giudice della revocazione può essere:

di improcedibilità,

di inammissibilità,

di accoglimento della revocazione,

di rigetto della revocazione.

In sostanza possiamo avere due ipotesi:

il giudice revoca la precedente sentenza e ne emana una nuova;

il giudice, se sono necessari nuovi mezzi di prova, revoca la sentenza e con ordinanza fissa i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio che terminerà con la sentenza di merito (che potrà anche coincidere con quella impugnata).


Contro la sentenza emessa dal giudice della revocazione sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali originariamente era assoggettata la sentenza (quindi solo il ricorso per cassazione o l'opposizione di terzo e mai l'appello). È possibile poi che contro una stessa sentenza siano ammissibili impugnazioni differenti; per esempio ricorso per cassazione per determinati motivi e revocazione per altri motivi. Se la sentenza presenta più vizi la parte può contemporaneamente proporre due impugnazioni, quindi si avrà un concorso di impugnazioni. Prima del 1990 il ricorso per revocazione prevaleva sul ricorso per cassazione per il quale si aveva la sospensione automatica o del giudizio se già era incorso o dei termini per proporre tale ricorso. Questa situazione è stata modificata nel 1990 quando il legislatore ha stabilito che i due giudizi proseguono autonomamente l'uno dall'altro, a meno che su istanza di parte il giudice della revocazione sospenda o il giudizio in cassazione o i termini per proporlo (questo fino alla sentenza di revocazione); la particolarità è che la sospensione viene disposta da un giudice diverso da quello del giudizio che viene sospeso 8cioè dal giudice della revocazione). In sostanza si ha che l'interesse non viene meno se l'impugnazione per revocazione viene rigettata, perché con l'impugnazione in cassazione si può ancora ottenere l'annullamento della sentenza impugnata. La sentenza della cassazione può essere impugnata con la revocazione solo per motivi attinenti ad errori di fatto; tuttavia poiché dal 1990 la cassazione può anche decidere nel merito quando non sono necessari ulteriori accertamenti dei fatti, la sentenza della cassazione potrebbe essere basata sul dolo della parte o su prove riconosciute false o ancora dopo la sentenza potrebbe esserci il rinvenimento di documenti decisivi ai fini della decisione della causa, quindi dopo la riforma l'art.391 c.p.c. non è più sufficiente perché deve essere possibile la revocazione della sentenza della cassazione per tutti i motivi.

Opposizione di terzi

Abbiamo due tipi di opposizione di terzi:

- al 1° comma dell'art.404 c.p.c. abbiamo l'opposizione di terzo ordinaria;

- al 2° comma dell'art.404 c.p.c. abbiamo l'opposizione revocatoria.

L'opposizione di terzo ordinaria può essere fatta da un terzo contro una sentenza passata in giudicato o esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti. Questa disposizione sembra in contraddizione con l'art.2909 c.c. che prevede che la sentenza ha efficacia solo nei confronti delle parti, degli eredi e degli aventi causa; in dottrina ci sono state varie tesi a riguardo per ovviare a tale contraddizione. I terzi non sono ne le parti, ne gli eredi, ne gli aventi causa (ad esempio i successori si a titolo universale che particolare potendo impugnare la sentenza in appello non devono essere considerati terzi), ne i creditori; tuttavia agli aventi causa ed ai creditori è data la possibilità di proporre l'opposizione revocatoria di cui al 2° comma dell'art.404 c.p.c. I terzi non sono neppure i soggetti chiamati in causa e non costituitisi. I terzi che sono legittimati a proporre l'opposizione di terzi ordinaria sono:

quelli che potrebbero proporre l'intervento principale;

i litisconsorti necessari pretermessi;

il falso rappresentato (anche se la giurisprudenza ritiene che questo soggetto ha a disposizione l'impugnazione ordinaria, ovviamente solo se è soccombente).



Il terzo titolare di una situazione giuridica dipendente (intervento adesivo dipendente) può invece proporre l'opposizione revocatoria. È necessario il pregiudizio affinché il terzo possa proporre l'opposizione di terzo, quindi la sentenza che è intervenuta tra due parti deve determinare una lesione ad un diritto del terzo (pregiudizio di natura sostanziale). L'ambito dell'oggetto dell'opposizione di terzo dal 1990 è stato ampliato poiché anche le sentenze di 1° grado, in quanto provvisoriamente esecutive, possono essere oggetto di tale impugnazione. La Corte costituzionale ha detto che è possibile proporre l'opposizione di terzo anche nei confronti dell'ordinanza di convalida di sfratto, del decreto ingiuntivo, dell'arbitrato e del lodo arbitrale.

Il termine per la proposizione dell'opposizione di terzo non esiste in quanto il terzo può farlo in qualsiasi momento, tranne quando il diritto sia stato acquisito per usucapione. Per la giurisprudenza il terzo può anche promuovere un'autonoma azione per far valere l'inesistenza del diritto altrui e l'esistenza del proprio; tuttavia ci si chiede se l'opposizione di terzo sia necessaria, ma a ciò si risponde dicendo che il problema è capire qual è l'interesse del terzo che sicuramente è maggiormente tutelato dall'opposizione di terzo perché in tal caso può chiedere la sospensione dell'esecuzione della sentenza, cosa che non potrebbe fare a seguito di un'azione autonoma. Per quanto riguarda l'azione revocatoria, questa azione può essere proposta da tutti i creditori, senza preferenza alcuna, e dagli aventi causa; la differenza consiste nel fatto che per il creditore il pregiudizio è quello della diminuzione della garanzia patrimoniale, mentre per l'avente causa il pregiudizio deriva dalla soccombenza del suo dante causa. Per proporre l'opposizione revocatoria la sentenza deve essere il risultato di un dolo (atteggiamento unilaterale diretto a pregiudicare i diritti del terzo creditore o avente causa) o di una collusione (atteggiamento bilaterale, cioè un accordo tra le parti in causa per danneggiare un terzo). Affinché possa essere proposta l'opposizione revocatoria è necessario il nesso di causalità tra il dolo o la collusione e la decisione del giudice. Il termine per la proposizione dell'opposizione revocatoria è un termine mobile di 30 giorni che inizia a decorrere dal momento in cui il terzo viene a conoscenza del dolo o della collusione. La domanda si può proporre o con ricorso o con citazione (a seconda dei casi). Il giudice competente è lo stesso che ha emesso la sentenza impugnata e questi può assumere una decisione di improcedibilità, di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento.

Quando il giudice accoglie l'opposizione, secondo la tesi più recente, annulla la sentenza e ne emette un'altra che disciplinerà i rapporti non solo tra le parti ma anche tra le parti ed il terzo. Nel caso di litisconsorte necessario pretermesso, se questi fa l'opposizione di terzo nei confronti di una sentenza di 2° grado, il giudice annulla la sentenza e la rinvia per la decisione al giudice di 1° grado che dovrà reintegrare il contraddittorio. Il legislatore non ha previsto ipotesi di concorso tra l'opposizione di terzo ed altre impugnazioni (che possono essere il ricorso in cassazione e l'appello) e a riguardo ci sono varie tesi:

quella che prevede la sospensione dell'opposizione di terzo;

quella che prevede la sospensione dell'appello o della cassazione;

quella che prevede la riunione dei due processi;

quella che prevede la prosecuzione autonoma dei processi.

La tesi preferibile è quella della prosecuzione autonoma dei processi così come avviene per la revocazione quando concorre con il ricorso per cassazione. Ci si che poi se è ammessa l'opposizione di terzo nei confronti della sentenza della cassazione, tale problema è sorto nel 1990 quando è stato stabilito che la cassazione può decidere anche nel merito; in realtà non essendoci la fase istruttoria non è sempre utile proporre l'opposizione di terzo, quindi il sistema è incompatibile con l'art.24 Cost. (diritto di difesa, in questo caso del terzo) e sarebbe auspicabile un intervento legislativo per ovviare a tale situazione.










Processo esecutivo

Innanzitutto dobbiamo ricordare alcuni aspetti in parte già trattati. Oggi la sentenza di condanna è provvisoriamente esecutiva già in 1° grado e abbiamo già detto che la parte, quando impugna in appello la sentenza, può chiedere con istanza la sospensione dell'esecuzione della sentenza se vi sono gravi motivi; in tal caso sarà il giudice a decidere con ordinanza se sospendere l'esecuzione della sentenza. Anche la sentenza di 2° grado è esecutiva ed in tal caso la sospensione dell'esecuzione può essere chiesta se la parte impugna la sentenza in cassazione ma a condizione che sussista un grave ed irreparabile danno. In quest'ultimo caso non è il giudice presso il quale si impugna la sentenza a disporne la sospensione dell'esecuzione ma è lo stesso giudice che l'ha pronunciata (infatti la sospensione dell'esecuzione della sentenza di 1° grado viene disposta dal giudice di 2° grado, mentre la sospensione dell'esecuzione della sentenza di 2° grado viene disposta dallo stesso giudice di 2° grado dinanzi al quale si propone l'istanza per la sospensione dell'esecuzione provando di aver proposto il ricorso per cassazione). Inoltre abbiamo anche visto la differente disciplina del processo del lavoro e, premettendo che fino al 1990 solo le sentenze in favore del lavoratore erano esecutive, abbiamo detto che se la sospensione dell'esecuzione viene richiesta dal datore di lavoro deve ricorrere il gravissimo danno, mentre se viene richiesta dal lavoratore è sufficiente che ricorrano gravi motivi. Una differenza importante consiste nel fatto che quando si dice che la sentenza di condanna a favore del lavoratore è esecutiva ci si riferisce al dispositivo che viene letto in udienza, quindi il lavoratore già sulla base del dispositivo può procedere all'esecuzione forzata; diversamente quando si dice che la sentenza di condanna a favore del datore di lavoro è provvisoriamente esecutiva si intende dire che non è esecutivo il dispositivo, quindi per poter procedere all'esecuzione della sentenza occorre attendere la sentenza stessa. Per quanto riguarda poi le controversie in materia di locazione è stabilito che la sentenza di 1° grado è esecutiva, che è esecutivo perfino il dispositivo ed in caso di impugnazione è possibile chiedere al giudice dell'impugnazione la sospensione dell'esecuzione ma in questo caso è necessario che ricorra il gravissimo danno (presupposto identico a quello che si ha nel processo del lavoro). Il processo esecutivo si dice che normalmente inizia con il pignoramento. Gli atti precedenti al pignoramento sono: il titolo esecutivo ed il precetto. Il titolo esecutivo è quel titolo sul quale si fonda tutta l'esecuzione. L'art.474 c.p.c. individua 3 gruppi di titoli esecutivi:

gli atti giudiziari (sentenze e provvedimenti) ai quali la legge attribuisce efficacia esecutiva;

gli atti di natura stragiudiziale (titoli di credito quali la cambiale e l'assegno);

gli atti ricevuti dal notaio che ha il potere di attribuire efficacia esecutiva se tali atti sono relativi a obbligazioni di somme di denaro.

Il titolo esecutivo più importante è la sentenza di condanna, infatti le sentenze di accertamento e le sentenze costitutive non hanno efficacia di titolo esecutivo. Il titolo esecutivo può essere sia di natura giudiziale (come la sentenza; l'ordinanze di condanna al amento di somme di denaro, cioè l'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c.; l'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c.; il decreto ingiuntivo; il decreto di repressione della condotta antisindacale ecc.) che di natura stragiudiziale. Per quanto riguarda il precetto, questo è un atto con il quale un soggetto, che ha diritto ad una determinata prestazione e che possiamo chiamare creditore, notifica alla controparte e la intima ad adempiere la prestazione in questione (ad esempio: amento di una somma di denaro, consegna di un bene o rilascio di un bene immobile, ecc.). Il precetto è un atto di parte (il soggetto titolare dell'obbligazione) che ha un contenuto particolare, infatti in esso si deve indicare: il nome delle parti e la prestazione dovuta. Inoltre il precetto deve essere notificato alla parte al pari del titolo esecutivo, con la differenza che quest'ultimo è costituito da una sentenza. Il precetto è un atto preliminare perché l'esecuzione inizia con l'atto successivo.



Il pignoramento è caratterizzato da un doppio termine:

un termine dilatorio di 10 giorni, nel senso che non si può promuovere l'esecuzione (quindi non si può chiedere il pignoramento) prima della scadenza dei 10 giorni dalla notificazione (questo per consentire alla parte di avere un termine per poter adempiere spontaneamente);

un termine di efficacia di 90 giorni, nel senso che il creditore entro 90 giorni deve promuovere l'esecuzione forzata altrimenti il precetto diventa inefficace (questo significa che il creditore se vorrà promuovere l'esecuzione dovrà notificare nuovamente il precetto, a differenza del titolo esecutivo che è sufficiente sia stato notificato una volta).

Le due grosse esecuzioni previste nel nostro ordinamento sono: l'esecuzione per espropriazione e l'esecuzione in forma specifica. L'esecuzione per espropriazione va distinta in tre forme: l'espropriazione mobiliare, l'espropriazione immobiliare e l'espropriazione presso terzi. Per queste tre forme di espropriazione vi sono regole comuni ma anche specificità individuali. Innanzitutto dobbiamo dire che il pignoramento è un atto (che richiede la parte ma viene compiuto dall'ufficiale giudiziario) col quale si ingiunge al debitore (o al terzo nell'ipotesi in cui è coinvolto) di non disporre dei beni che sono bloccati a garanzia delle obbligazioni vantate dal creditore. Quindi il debitore, ad esempio, non può alienare i beni e se lo fa il suo atto è colpito da un'inefficacia relativa ma non assoluta, infatti quell'atto di alienazione è valido ma inefficace nei confronti del creditore procedente e dei creditori intervenuti (è evidente che la relazione tra pignoramento ed atti di disposizione è più rassicurante per il creditore quando si tratta di beni immobili perché per la presenza della trascrizione e perché non vale la regola possesso vale titolo che invece vale per i beni mobili). Il pignoramento si esegue in diversi modi:

se si tratta di beni mobili sarà l'ufficiale giudiziario che si reca sul posto per individuare materialmente ed indicare in un verbale i beni pignorati (di solito è il debitore stesso il custode dei beni, ma il creditore può chiedere che venga nominato un soggetto diverso se teme che vengano meno delle garanzie);

se si tratta di beni immobili il pignoramento è diverso perché viene trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari un atto predisposto dal creditore e notificato all'ufficiale giudiziario (dalla trascrizione nel registro immobiliare il pignoramento viene a costituirsi perché è da quel momento che i terzi ne vengono a conoscenza;

se si tratta di crediti il pignoramento è più complesso e lo esaminiamo poi.

Una volta eseguito il pignoramento dobbiamo tener presente i termini di cui sopra, infatti dopo 10 giorni dal pignoramento bisogna presentare istanza di vendita entro 80 giorni (90 giorni dal pignoramento) altrimenti il pignoramento diventa inefficace e gli eventuali atti di disposizione dei beni fatti dal debitore sono efficaci. È possibile chiedere la riduzione del pignoramento (dei beni sottoposti a pignoramento) ed il giudice può concederla o meno; il giudice potrà anche procedere alla vendita per lotti, in modo tale che se dalla vendita del primo lotto si riesce a coprire tutta quanta l'esposizione non è più necessario vendere gli altri lotti. Il debitore può evitare il pignoramento in due modi: o offendo subito all'ufficiale giudiziario (sopraggiunto per effettuare il pignoramento) una somma di denaro sufficiente a coprire non solo il capitale di interessi ma anche le spese oppure chiede al giudice di convertire il bene oggetto del pignoramento già effettuato in una somma di denaro (che deve avere ad oggetto sia il capitale di interessi che le spese), in tale caso il pignoramento si trasferisce dal bene alla somma di denaro. Nel processo esecutivo l'inizio dell'espropriazione si ha proprio con il pignoramento col quale si viene a formare un fascicolo sull'esecuzione.

Una volta proposto il pignoramento nella procedura esecutiva possono intervenire i creditori; il loro intervento nel processo esecutivo si attua attraverso un atto nel quale il creditore deve dichiarare il proprio credito. ½ è un diverso trattamento dei creditori chirografari o muniti di privilegio e creditori pignoratizi.


Il creditore per partecipare in posizione di parità con gli altri ed anche con il creditore procedente deve intervenire entro l'udienza che viene fissata per la izione delle parti per la vendita, se interviene successivamente concorre alla distribuzione della parte della somma ricavata dopo che sono stati soddisfatti il creditore pignorante ed i creditori intervenuti in precedenza. L'esecuzione presso terzi ha la particolarità che del debito di un soggetto risponde un'altra persona (ad esempio nel caso di terzo datore di ipoteca o di terzo acquirente di immobile gravato da ipoteca). Mentre il precetto ed il titolo esecutivo vengono notificati al debitore e solo per conoscenza al terzo proprietario, tutta l'esecuzione immobiliare si svolge nei confronti del terzo proprietario in quanto il legislatore ritiene che se questi ha acquistato un bene gravato da ipoteca o ha concesso ipoteca sui beni è consapevole di quelle che sono le conseguenze. Nelle ipotesi di esecuzione per espropriazione la caratteristica è che il creditore agisce, individua dei beni, li fa vendere e soddisfa il proprio credito sul ricavato. L'esecuzione in forma specifica è differente perché in essa vi è una individuazione specifica del bene che deve essere oggetto dell'esecuzione, cioè l'obbligo non è generico ma specifico. L'esecuzione in forma specifica va distinta in due forme: l'esecuzione per consegna o per rilascio e l'esecuzione di obblighi di fare o non fare. L'esecuzione per consegna o per rilascio attiene alla consegna di beni mobili ed al rilascio di beni immobili ed in questo caso il titolo esecutivo contiene un'obbligazione di consegna o di rilascio. Il precetto deve contenere l'obbligazione di consegna e l'indicazione del bene mobile che deve essere consegnato, una volta notificato il precetto e scaduti i 15 giorni, all'ufficiale giudiziario. Per quanto riguarda i beni immobili, l'ufficiale giudiziario dopo la notifica del titolo esecutivo e del precetto deve notificare al detentore dell'immobile un ulteriore avviso nel quale indicherà la data in cui si recherà sul posto per ottenere il rilascio dell'immobile. Questo tipo di esecuzione si svolge fuori dal controllo del giudice che interviene solo se sorgono delle contestazioni in ordine all'esecuzione per rilascio o per consegna; nell'espropriazione invece la presenza del giudice è indispensabile perché vi deve essere l'udienza per al vendita e per l'assegnazione dei beni. L'esecuzione dei provvedimenti di rilascio dei beni immobili oggetto di locazione è disciplinata da una legge ad hoc (dove è previsto l'intervento della forza pubblica se non si ha il rilascio spontaneo). Per l'esecuzione di obblighi di fare o non fare è stabilito che il titolo esecutivo deve essere una sentenza, contenente ovviamente l'obbligo di fare o non fare (ad esempio l'obbligo di distruggere un muro innalzato in violazione delle distanze). In questo tipo di esecuzione ci si trova spesso davanti ad obbligazioni di natura infungibile e tranne in alcune ipotesi (come ad esempio quella prevista dall'art.28 Stat.lav.) il nostro sistema non prevede per esse misure coercitive per assicurare l'effettività delle tutela. Per gli obblighi di natura infungibile il creditore, dopo la notificazione del precetto, si rivolge con ricorso al giudice dell'esecuzione (che in questo caso è sempre il tribunale) per chiedere che siano determinate le modalità dell'esecuzione e che sia nominato l'ufficiale giudiziario. In questo caso, a differenza dell'esecuzione per consegna o rilascio, il giudice interviene subito. Per ciò che riguarda l'opposizione bisogna distinguere l'opposizione all'esecuzione dall'opposizione agli atti esecutivi. Infatti con l'opposizione all'esecuzione si contesta il diritto di procedere all'esecuzione forzata (l'an), mentre con l'opposizione agli atti esecutivi si contesta la regolarità formale dei singoli atti dell'esecuzione. Con l'opposizione all'esecuzione è possibile contestare in qualsiasi momento il diritto del creditore di procedere all'esecuzione (non vi è un termine di decadenza). L'opposizione all'esecuzione si conura diversamente a seconda che il titolo esecutivo sia un atto giudiziale o un atto stragiudiziale. Se il titolo esecutivo è un atto giudiziale con l'opposizione non si può addurre alcun motivo che poteva essere oggetto di discussione nell'ambito del giudizio nel corso del quale è stato emesso il provvedimento giudiziale; quindi se vi è un provvedimento giudiziale, l'opposizione all'esecuzione può essere utilizzata dal debitore solo per far valere situazioni che si sono verificate dopo la formazione del titolo giudiziale.


Nel caso in cui il titolo esecutivo è di formazione stragiudiziale (titoli di credito quali cambiali, assegni oppure atti ricevuti dai notai, mutui) è evidente che con l'opposizione all'esecuzione si può contestare tutto quel titolo esecutivo (la regolarità formale, la falsità delle firme, la prescrizione del diritto) perché quel titolo non è coperto da un'autorità di decisione passata o meno ingiudicato. L'opposizione all'esecuzione si propone in modo diverso a seconda che venga fatta prima del pignoramento o dopo. Se l'opposizione all'esecuzione viene proposta prima del pignoramento, essa diventa sostanzialmente un'opposizione al titolo esecutivo o al precetto e si propone con citazione al giudice che sarebbe competente per l'esecuzione (tribunale o giudice di pace per somme fino a 5.ooo.ooo £). Se invece l'esecuzione è già stata promossa (quindi c'è stato il pignoramento), l'opposizione all'esecuzione deve essere fatta con ricorso al giudice dell'esecuzione (che in questo caso sarà sicuramente il tribunale). L'opposizione agli atti esecutivi invece non mette in discussione l'an, ma la regolarità formale del singolo atto (ad esempio pignoramento eseguito non correttamente o istanza di vendita proposta prima dei 10 giorni ecc.). Il debitore in questo caso deve subito contestare l'atto infatti è possibile proporre l'opposizione all'atto esecutivo solo se lo si fa entro 5 giorni dall'atto stesso. Anche qui se l'opposizione all'atto esecutivo viene proposta prima del pignoramento si propone con citazione, altrimenti la si fa con ricorso. La particolarità è che il giudizio si conclude con sentenza non impugnabile, nel senso che quella sentenza non può essere appellata e quindi è una sentenza pronunciata in unico grado che sicuramente può essere oggetto del ricorso per cassazione. Oltre a questi due tipi di opposizione vi è anche l'opposizione di terzo che può essere promossa da un terzo che afferma di essere titolare di un diritto di proprietà o di un altro diritto reale sui beni che sono stati pignorati (questo è uno strumento che viene dato non al terzo proprietario nei confronti del quale c'è un'ipoteca che garantisce il creditore ma al terzo in generale come nel caso dell'esecuzione mobiliare presso terzi quando può avvenire che tra i beni pignorati vi siano beni del terzo).

Il processo esecutivo al pari del processo di cognizione può essere sospeso o chiudersi in via anticipata per estinzione. La sospensione del processo esecutivo si ha con un provvedimento del giudice dell'esecuzione ma su tale processo esecutivo può influire la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo disposta da un altro giudice; ad esempio se la sentenza esecutiva di 1° grado viene impugnata dinanzi al giudice di 2° grado che poi sospende l'efficacia del titolo esecutivo, tale sospensione influenza il processo esecutivo che non può andare avanti. La proposizione dell'opposizione all'esecuzione non determina automaticamente la sospensione nel processo esecutivo in quanto è sempre necessaria l'istanza di parte ed è sempre necessario che il giudice verifichi l'esistenza dei gravi motivi. L'estinzione del processo esecutivo si ha più frequentemente nell'ipotesi di rinuncia agli atti del processo esecutivo da parte del creditore procedente perchè ad esempio nel frattempo il debitore ha provveduto al amento o c'è stato un accordo tra creditore e debitore. Per analogia con la sospensione del processo di cognizione la rinuncia agli atti nel processo esecutivo deve essere accettata dal convenuto (che potrebbe avere un interesse contrario); mentre per quanto riguarda gli altri creditori intervenuti che, non avendo fatto ad esempio nessun accordo con il debitore, possono avere interesse a che il processo esecutivo continui, il legislatore prevede che il consenso alla rinuncia venga dato solo da parte dei creditori muniti di titolo esecutivo. Inoltre i creditori intervenuti che siano muniti di titolo esecutivo possono sostituirsi al creditore procedente che sia rimasto inattivo. Nel caso poi di estinzione del processo esecutivo per inattività delle parti è previsto che quando le parti non proseguono o non riassumono il processo nel termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice o ancora quando le parti non compaiono in udienza l'estinzione opera di diritto ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa ed è inoltre dichiarata con ordinanza del giudice dell'esecuzione; contro tale ordinanza è ammesso il reclamo al collegio (anche se il tribunale pure nell'esecuzione è monocratico). Nel caso in cui l'estinzione si verifica prima della vendita dovranno essere restituiti al debitore i beni sottoposti al pignoramento, in caso contrario dovrà essere data al debitore la somma ricavata dalla vendita ed infine l'estinzione del processo esecutivo rende nuovamente efficaci gli eventuali atti di alienazione compiuti in pendenza del processo esecutivo.



Procedimenti a cognizione sommaria

La cognizione sommaria è non caratterizzata da un esame completo ed esauriente del giudice (come avviene nella cognizione piena ed esauriente), ma da una cognizione che a volte è superficiale o parziale (infatti il giudice si basa solo su quello che dice una sola parte). La cognizione sommaria (così come altri istituti quali ad esempio i titoli esecutivi di formazione stragiudiziale: cambiale, atto ricevuto dal notaio ecc.) assolve ad una funzione importante che è quella di neutralizzare il c.d. danno da durata del processo (danno che può derivare dalla lunga durata del processo ordinario). La tutela sommaria, anche se la funzione è unica (neutralizzare il c.d. danno da durata), non è un istituto unitario, infatti nel nostro ordinamento ci sono due ure di tutela sommaria:

La tutela sommaria non cautelare (ovvero pura e semplice) è caratterizzata dal fatto che il provvedimento che viene emesso dal giudice è suscettibile di vivere di vita propria, nel senso che potrebbe disciplinare per sempre quel determinato rapporto giuridico senza la necessità di promuovere un processo a cognizione piena ed esauriente (che potrebbe aversi su iniziativa della parte soccombente rispetto al processo a cognizione sommaria non cautelare). I procedimenti sommari non cautelari che analizzeremo sono: il decreto ingiuntivo, il procedimento per convalida di sfratto ed il procedimento per la condotta antisindacale. In conclusione il procedimento sommario non cautelare, anche se porta ad un provvedimento conclusivo che è emesso non nella forme della sentenza ma nella forma dell'ordinanza e del decreto, è idoneo a vivere di vita propria (la conseguenza è che nell'eventualità in cui dovesse essere promosso il giudizio a cognizione piena e poi tale giudizio dovesse estinguersi, il giudizio a cognizione sommaria non cautelare acquisterebbe piena efficacia e non sarebbe travolto dall'estinzione dell'altro giudizio in quanto il processo a cognizione piena ed esauriente è appunto eventuale).

La tutela sommaria cautelare è caratterizzata dal fatto che il provvedimento che viene emesso dal giudice non può vivere di vita propria, nel senso che tale provvedimento non può disciplinare all'infinito la situazione ma richiede di essere sostituito da una sentenza che sarà emessa al termine di una cognizione piena ed esauriente, in questo modo si ha la c.d. necessità del processo a cognizione piena ed esauriente che deve essere instaurato dal soggetto che ha ottenuto il provvedimento sommario cautelare pena la sua inefficacia. Quindi possiamo definire i processi sommari cautelari come processi: strumentali e provvisori (anche per quanto riguarda gli effetti). In sostanza il provvedimento sommario cautelare è destinato ad essere sostituito dalla sentenza che verrà emessa nel processo a cognizione piena. I processi sommari cautelari richiedono due elementi essenziali, fumus boni iuris e periculum in mora, affinché possano essere concessi (di tali elementi solo il primo è richiesto anche nel processo sommario non cautelare). Il fumus boni iuris è l'apparenza del diritto, nel senso che il giudice deve concedere il provvedimento se giunge ad un certo grado di probabilità in ordine all'esistenza del diritto (non è necessaria la certezza del diritto, ma è sufficiente la probabilità, l'apparenza dell'esistenza del diritto). Il periculum in mora è il pregiudizio che la parte subirebbe nel promuovere il giudizio in via ordinaria (questo elemento manca nei procedimenti sommari non cautelari). Il requisito del periculum in mora si presenta in misura diversa a seconda dei casi, infatti ci sono varie ipotesi:

L'ipotesi in cui il periculum in mora viene valutato dal legislatore in via generale lasciando al giudice il potere di verificare volta per volta se vi è il pregiudizio per il soggetto;

L'ipotesi in cui il legislatore richiede un pregiudizio di tipo particolare, ovvero un pregiudizio irreparabile (molto più serio);

L'ipotesi in cui il legislatore presuppone che una determinata situazione abbia in se un pregiudizio, quindi non è richiesta la valutazione del giudice (pregiudizio in re ipsa).

Bisogna ricordare poi che dal 1990 per le misure sommarie cautelari esiste un unico procedimento, mentre per le misure sommarie non cautelari ognuna di esse ha una struttura propria.

Decreto ingiuntivo

Il diritto che si vuole tutelare con il decreto ingiuntivo è il diritto sostanziale rappresentato dal diritto di credito (ad una somma di denaro, alla consegna di un bene mobile determinato o alla consegna di una quantità determinata di cose fungibili). Dall'art.633 c.p.c. si possono individuare le condizioni per poter chiedere il decreto ingiuntivi che sono:

Che venga fornita la prova scritta del proprio credito attraverso atto pubblico, scrittura privata, ma anche attraverso i libri contabili che di regola possono essere utilizzati come prova solo dagli imprenditori nei confronti di altri imprenditori, tuttavia in questo procedimento si assiste ad un ampliamento della nozione di prova scritta (nel senso che sono considerate prove scritte anche quei documenti non ritenuti tali dal codice). Bisogna evidenziare la possibilità di alcuni soggetti di conseguire il decreto ingiuntivo sulla base di una documentazione di provenienza propria (questo è un privilegio concesso ai professionisti nei confronti dei propri clienti). L'ampliamento della nozione di prova scritta nel momento in cui il debitore si oppone, cioè viene instaurato un processo a cognizione piena, non opera più ed anche il creditore che rimane attore dovrà fornire la prova piena.

Che non vi sia una controprestazione o una condizione e nel caso in cui siano previste il ricorrente deve provare che quella controprestazione è stata eseguita o che la condizione si sia avverata.

Che il decreto ingiuntivo venga notificato in Italia perché il decreto ingiuntivo non può essere dato se il debitore (straniero o società estera) non ha residenza o sede in Italia. Su quest'ultima previsione sono state attivate la Corte di giustizia europea e la Corte costituzionale per cercare di eliminare questa disposizione, entrambe l'hanno ritenuto legittima prendendo in considerazione l'ordinanza dell'art.186-ter c.p.c.; tuttavia con un recente decreto legislativo è stato abrogato l'ultimo comma dell'art.633 c.p.c. che prevedeva questa condizione, quindi oggi è possibile chiedere il decreto ingiuntivo anche nei confronti di chi risiede all'estero.

Per il procedimento in questione il giudice competente è il giudice di pace fino a 5.ooo.ooo £ ed il tribunale oltre tale cifra. La domanda viene proposta con il ricorso che deve contenere tutti i requisiti della domanda ed in più la prova scritta (che dovrà essere poi depositata nella cancelleria del giudice). La particolarità di questo procedimento è che il provvedimento viene concesso in audita altera parte, cioè senza contraddittorio (senza che il debitore venga convocato in giudizio). Quindi si ha che il creditore presenta il ricorso ed il fascicolo contenente tutte le prove scritte ed il giudice poi, sempre con decreto pronunciato in audita altera parte può:

accogliere il ricorso, se ritiene che le prove scritte siano sufficienti;

chiedere un'integrazione, se ritiene che i documenti prodotti non forniscano del tutto la prova scritta;

rigettare il ricorso, se ritiene che sia infondato.

Alla luce della nuova formulazione dell'art.111 Cost. sono stati sollevati problemi di costituzionalità del procedimento in questione, questo in ragione del fatto che esso si svolge in assenza di contraddittorio fra le parti.

Dopo la concessione del decreto ingiuntivo il creditore ha 60 giorni di tempo per notificarlo al debitore, quando ciò avviene si realizza il contraddittorio differito ma decisivo; infatti il decreto ingiuntivo diventa inefficace se non viene notificato entro 60 giorni. Il debitore, avvenuta la notifica, può are oppure non are ed in quest'ultimo caso il decreto ingiuntivo diventa definitivo e se il giudice non gli aveva dato la provvisoria esecuzione diventa esecutivo.

Al momento dell'emanazione del decreto il giudice può dare la provvisoria esecutività del decreto quando il decreto è fondato su un titolo di credito (cambiale, assegno) o quando vi è pericolo nel ritardo (ad esempio il debitore sta vendendo i suoi beni). Se il debitore non fa nulla la provvisoria esecuzione diventa automatica.

Il debitore può proporre opposizione ma lo deve fare nei 40 giorni successivi alla notifica e davanti allo stesso giudice che ha concesso il decreto (anche se dovesse essere incompetente). Con l'opposizione del debitore si apre un giudizio a cognizione piena ed esauriente e questo giudizio può terminare con l'estinzione o con una sentenza che può essere:

una sentenza che rigetta l'opposizione e che quindi non sostituisce il decreto ingiuntivo che conserva la sua efficacia (il decreto rimane come riconoscimento del credito e la sentenza può valere per le spese);

una sentenza che accoglie l'opposizione e quindi dichiara inesistente il diritto vantato dal creditore;

una sentenza che accoglie l'opposizione ma solo in parte, in tal caso la sentenza si sostituirà al decreto ingiuntivo che dovrà essere revocato dal giudice.

Quindi nel caso di accoglimento dell'opposizione si ha la revoca, mentre nel caso di rigetto il titolo rimane il decreto, inoltre poiché la sentenza di 1° grado è esecutiva se al momento del rigetto dell'opposizione il decreto non era stato dichiarato provvisoriamente esecutivo lo diventa con la sentenza (di rigetto). È possibile in corso di causa chiedere: o l'esecuzione del decreto ingiuntivo se l'eccezione del convenuto non si fonda su prova scritta o la sospensione della sua esecuzione (qualora questa sia stata concessa). La sentenza che viene emessa è in ogni caso impugnabile con i mezzi di impugnazione normali. È possibile per il debitore proporre l'opposizione tardiva, cioè oltre i 40 giorni, ma solo se prova di non aver avuto conoscenza del decreto ingiuntivo o di non aver potuto proporre opposizione per causa a lui non imputabile. In ogni caso l'opposizione tardiva deve essere promossa entro 10 giorni dal primo atto dell'esecuzione iniziata dal creditore.


Procedimento per convalida di sfratto

Il procedimento per convalida di sfratto è previsto nella situazione giuridica sostanziale del contratto di locazione o del contratto di affitto a coltivatore diretto, a mezzadro o a colono (in queste situazioni giuridiche si ha la consegna di un bene immobile con la previsione della riconsegna dello stesso alla scadenza pattuita). Il procedimento per convalida di sfratto può essere chiesto in quattro ipotesi:



quando il contratto non è ancora venuto a scadenza ed il locatore ritiene di chiedere un provvedimento che disponga il rilascio (ipotesi di condanna in futuro perché non c'è ancora l'inadempimento);

quando il contratto è già venuto a scadenza ed il conduttore non ha rilasciato l'immobile (vi è un inadempimento attuale);

quando il conduttore è in morosità nei amenti dei canoni;

quando è previsto come corrispettivo di una prestazione di lavoro il godimento di un immobile e quindi alla scadenza del contratto di lavoro si potrà chiedere il rilascio dell'immobile.

Il giudice competente ad emanare questo provvedimento è il tribunale (indipendentemente dal valore non può essere mai il giudice di pace). La domanda si propone con citazione, ma tale citazione al suo interno contiene:

l'intimazione (atto con cui si esprime la volontà di non proseguire il rapporto di locazione);

l'invito a ire dinanzi al giudice (atto di natura processuale e non sostanziale come il primo).

Una volta notificata la citazione al conduttore, questi avrà un termine minimo a ire ridotto, che prima del 1990 era di 3 giorni e successivamente è stato elevato a 20 giorni tra la notifica e l'udienza (anziché i 60 giorni di cui all'art.163-bis c.p.c.). In questa fase del procedimento non si seguono le regole proprie del processo a cognizione piena ed esauriente infatti nel 1995 è stato stabilito nel 5° comma dell'art.660 c.p.c. che le parti possono costituirsi o prima dell'udienza o all'udienza fissata. Inoltre il convenuto si può presentare all'udienza anche personalmente, cioè senza l'assistenza dell'avvocato, ma al solo fine di fare opposizione all'iniziativa dell'attore. Dobbiamo precisare cosa accade nelle varie ipotesi:

Se l'intimante (il locatore) non e all'udienza, il suo atto di citazione (atto processuale) se pur notificato perde efficacia, mentre non perde efficacia l'intimazione (atto sostanziale) ai fini della disdetta del contratto (tenuto conto che può essere data disdetta del contratto di locazione in via stragiudiziale ma anche in via giudiziale, purché essa venga fatta almeno 6 mesi prima della scadenza del contratto). In tal caso secondo il prof. Liuzzi il convenuto facendo la sua opposizione potrà ugualmente andare avanti nel processo che sarà un processo a cognizione piena ed esauriente.

Se l'intimato (il conduttore) non e all'udienza, il giudice deve verificare se la notificazione è stata fatta in maniera regolare e se è così deve convalidare la licenza per finita locazione (quando il contratto non è ancora scaduto), lo sfratto per finita locazione (quando la scadenza si è verificata) o lo sfratto per morosità (quando il conduttore non ha ato il canone). Tutti questi provvedimenti vengono emessi dal giudice con ordinanza che pone termine al processo.

Se l'intimato (il conduttore) e all'udienza ma non si oppone, il giudice si comporta come nel caso in cui l'intimato non si fosse presentato solo che nell'ipotesi di sfratto per morosità è necessario che il locatore dichiari che la morosità persiste. Tuttavia il conduttore può chiedere il "termine di grazia", cioè un termine per sanare la morosità; in tal caso il giudice dovrà darglielo e se neanche in quel termine non viene sanata la morosità lo sfratto per morosità verrà convalidato.

Se l'intimato (il conduttore) e all'udienza e si oppone, possiamo avere due ipotesi:

se l'opposizione non è fondata su prova scritta il giudice potrà disporre l'ordinanza di rilascio dell'immobile che è un ordinanza con riserva dell'eccezioni (un provvedimento in via anticipata e di natura provvisoria ma che in quanto è un provvedimento sommario non cautelare probabilmente sopravvive all'estinzione del processo a cognizione piena);

se l'opposizione è fondata su prova scritta il giudice deve necessariamente trasformare il processo speciale in un processo a cognizione piena.

La sentenza del processo a cognizione piena ed esauriente prende il posto dell'ordinanza.

Quando il processo da cognizione sommaria si trasforma a cognizione piena ed esauriente è necessaria un'ordinanza di mutamento di rito che farà scattare gli oneri collegati alla costituzione in giudizio (esposizione delle ragioni da parte dell'attore, indicazione dei mezzi di prova e dei documenti, nomina dell'avvocato del convenuto se inizialmente si è costituito personalmente e proposizione di tutte le eccezioni, dei mezzi di prova e dei documenti). Anche nel caso di ordinanza di convalida è possibile l'opposizione tardiva in due casi:

se il conduttore dimostra che vi è stata irregolarità della notificazione;

se vi è stata per il conduttore l'impossibilità di partecipazione per caso fortuito o forza maggiore.

Anche nel caso di opposizione tardiva all'ordinanza di convalida il termine per proporla è di 10 giorni dall'esecuzione.


Nel nostro sistema la tutela cautelare è di due tipi, infatti abbiamo la tutela cautelare tipica in tutti quei casi in cui il legislatore tipizza le situazioni sostanziali a tutela delle quali vengono previste particolari misure cautelari (quali ad esempio il sequestro giudiziale, il sequestro conservativo, il procedimento di denuncia di nuova opera o di danno temuto ed il procedimento di istruzione preventiva) e poi abbiamo la tutela cautelare atipica che sostanzialmente è costituita dall'art.700 c.p.c., ovvero dai procedimenti d'urgenza per i quali il legislatore non tipizza ne il tipo di situazione giuridica da tutelare ne il tipo di provvedimento che assumerà il giudice (quindi spetterà al giudice valutare se ricorrono le condizioni per emanare il provvedimento e quale deve essere il contenuto dello stesso).


Sequestro giudiziale

Il sequestro giudiziale (art.670 c.p.c.) a tutela dei diritti di proprietà, che è caratterizzato dal periculum in mora (cioè dal rischio che se non si provvede alla custodia un determinato bene, questo venga distrutto, deteriorato ecc.), può essere dato:

in funzione della fruttuosità dell'esecuzione, quando in attesa che venga accertato un diritto è necessario provvedere alla custodia di un bene perché c'è il rischio che questo venga venduto, distrutto, deteriorato o gestito male (se il bene è immobile il sequestro va trascritto nei pubblici registri);

in funzione dell'esibizione, quando l'oggetto sono libri, registri, documenti, modelli, campioni ecc. e si controverte in ordine all'esibizione, in sostanza in questo caso vi è la necessità di assicurarsi che gli elementi che devono essere esibiti non vadano distrutti o modificati e ciò lo si può fare disponendo la custodia in funzione della cognizione futura.


Sequestro conservativo

Il sequestro conservativo (art.671 c.p.c.) a tutela dei diritti di credito viene chiesto dal creditore che vuole assicurarsi che durante il tempo necessario a far valere il suo diritto il debitore non diminuisca la garanzia patrimoniale. Tale misura come il decreto ingiuntivo viene chiesta dal creditore, ma la scelta di una o dell'altra dipende dalle prove del proprio diritto che il creditore è riuscito a procurarsi (infatti il decreto ingiuntivo necessita della prova scritta ed è sicuramente più efficace anche perché è titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale). Il sequestro tende ad evitare che, agevolato dalla durata del processo, il debitore faccia venir meno la garanzia patrimoniale.


Denuncia di nuova opera o di danno temuto

La denuncia di nuova opera si ha quando il proprietario di un bene teme di poter subire un danno da una nuova costruzione, mentre la denuncia di danno temuto si ha quando il proprietario di un bene teme di poter subire un danno da qualcosa che già esiste; in questi casi viene chiesto al giudice di prendere i provvedimenti idonei ad evitare il danno in questione.


Procedimenti di istruzione preventiva

I procedimenti di istruzione preventiva possono aversi con riferimento alla prova testimoniale (quando si ritiene di non poter utilizzare una prova testimoniale in futuro ed allora si chiede di sentire prima il testimone per poi utilizzare il verbale di accertamento di istruzione preventiva al momento in cui ci sarà la fase istruttoria; qui sarà sempre il giudice di merito ad effettuare il giudizio di rilevanza e di ammissibilità della prova) oppure con riferimento all'accertamento dello stato dei luoghi o della condizione delle persone (quando ad esempio il proprietario di un bene vuole "fotografarlo" prima che gli venga restituito perché vuole evitare che eventuali danni vengano imputati al lui; qui vi è la necessità che l'accertamento venga fatto in maniera imparziale ed oggettiva e quindi si chiede al giudice la nomina di un perito o di un tecnico che faccia tale accertamento). Il procedimento di istruzione preventiva non può essere chiesto per altre prove quali il giuramento e l'interrogatorio formale.


Provvedimenti d'urgenza

I provvedimenti d'urgenza sono quelli previsti nell'art.700 c.p.c., cioè quelle misure che definiamo cautelari atipiche (nell'articolo in questione infatti si dice "fuori dai casi previsti"). In sostanza la caratteristica dell'art.700 c.p.c. è quella della sussidiarietà anche in funzione di ciò la giurisprudenza ritiene che non si possa chiedere un provvedimento urgente se è possibile una delle misure cautelari tipiche. Anche in questo caso i requisiti per ricorrere a tale articolo sono il fumus boni iuris ed il periculum in mora, ma quest'ultimo deve riguardare un pregiudizio imminente ed irreparabile. L'irreparabilità va intesa nel senso di impossibilità a conseguire una riparazione del danno subito sia pure dell'equivalente monetario. Inoltre l'irreparabilità non è riferita solo ai diritti assoluti reali (la proprietà) ma anche ai diritti della persona (diritto all'immagine). L'art.700 c.p.c. entra in gioco quando il risarcimento del danno non sarebbe mai idoneo a far conseguire al soggetto la stessa tutela che potrebbe conseguire con un intervento immediato. L'ambito di operatività dell'art.700 c.p.c. è stato ampliato (dalla dottrina e dalla giurisprudenza) facendo rientrare nella nozione di irreparabilità prima quelle situazioni a contenuto patrimoniale ma senza una funzione patrimoniale e poi quelle situazioni patrimoniali a contenuto patrimoniale se con una funzione patrimoniale (ad esempio negli ambiti societari). Si è finito col ritenere che era possibile applicare l'art.700 c.p.c. quando lo scarto che si veniva a creare tra l'adempimento spontaneo dell'obbligazione (da parte del debitore) ed il risultato conseguibile con la sentenza finale era molto ampio. In conclusione è possibile applicare l'art.700 c.p.c. quando oltre all'apparenza del diritto (fumus boni iuris) vi è un possibile pregiudizio immediato ed irreparabile (periculum in mora) e tale irreparabilità può aversi non solo quando la situazione giuridica sostanziale ha un contenuto ed una funzione non patrimoniale o un contenuto patrimoniale ma una funzione non patrimoniale, ma anche quando la situazione giuridica è patrimoniale sia nel contenuto che nella funzione, ciò che è necessario è che ci sia uno eccessivo scarto tra il momento dell'adempimento spontaneo o anche dell'esecuzione del provvedimento d'urgenza ed il momento della sentenza finale.


Procedimento cautelare

Con la riforma del 1990 c'è stata l'introduzione di un unico procedimento per tutte le misure cautelari; tale procedimento risponde a principi base che sono:

il principio (sottoposto ad eccezioni) secondo il quale a conoscere la misura cautelare deve essere sempre il giudice della causa di merito;

il principio (sottoposto ad eccezioni) secondo il quale il giudice che concede la misura cautelare deve essere un solo giudice (quindi in sostanza un giudice monocratico) anche in quei casi in cui a conoscere la causa di merito deve essere il collegio;

il principio secondo il quale il provvedimento conclusivo è sempre l'ordinanza che potrà essere non solo revocabile e modificabile ma anche reclamabile.

L'art.669-quaterdecies c.p.c. disciplina l'ambito di applicazione del procedimento cautelare che abbiamo esaminato stabilendo che esso si applica:

ai provvedimenti cautelari previsti dal codice di procedura civile (ai sequestri, alle denunce di nuova opera o di danno temuto, ai provvedimenti di urgenza ma non ai provvedimenti di istruzione preventiva);

agli altri provvedimenti cautelari previsti dalle leggi speciali purché compatibili con la disciplina del procedimento cautelare (per alcuni a compatibilità va intesa in senso assoluto mentre per altri va intesa in senso relativo).


L'art.669-bis c.p.c. fissa la forma della domanda dicendo appunto che la domanda si propone con ricorso, ma tale articolo non dice nulla sul contenuto quindi l'interprete deve far riferimento all'art.125 c.p.c. (che fissa il contenuto: indicazione del giudice e delle parti, del petitum e della causa pretendi). La giurisprudenza e la dottrina hanno affermato che la domanda cautelare deve indicare quella che è la domanda che si intende proporre nel giudizio di merito (questo per il nesso di strumentalità della prima rispetto alla seconda).

La misura cautelare può essere chiesta antecausam (prima di iniziare un giudizio di merito) o in corso di causa (durante il giudizio di merito).

L'art.669-ter c.p.c. disciplina la competenza antecausam, cioè l'ipotesi in cui la misura cautelare venga chiesta prima di iniziare un giudizio di merito, e stabilisce che la domanda deve essere proposta al giudice competente a conoscere del merito; tuttavia ci sono delle eccezioni, infatti:

il giudice di pace non può dare la misura cautelare;

il giudice straniero (competente per la causa di merito) non può dare la misura cautelare, in tal caso la domanda cautelare si deve proporre al giudice competente per materia e per valore del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare.

(Vedi anche il caso di deferimento della soluzione della controversia ad arbitri)

Quando viene chiesta la misura cautelare antecausam il ricorso viene depositato nella cancelleria del tribunale, poi il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio e lo trasmette al presidente del tribunale che designa il magistrato che deve decidere la questione, cioè la controversia cautelare.

L'art.669-quater c.p.c. disciplina la competenza in corso di causa, cioè l'ipotesi in cui già pende la causa dinanzi ad un giudice al quale si chiede la misura cautelare (qui il ricorso deve essere depositato nella cancelleria del giudice della causa o può essere depositato direttamente in udienza); in tal caso sarà il giudice della causa ad essere competente a concedere la misura cautelare, tuttavia anche qui ci sono delle eccezioni:

se il giudice della causa è un giudice di pace non potrà concedere la misura cautelare;

se il giudice della causa è un giudice straniero non potrà concedere la misura cautelare;

se la causa pende dinanzi ad un arbitro non potrà concedere la misura cautelare;

se è stata esercitata l'azione civile in sede penale il giudice penale non potrà concedere la misura cautelare.

In questi casi si dovrà chiedere al presidente del tribunale di nominare un magistrato per la concessione della misura cautelare.

L'art.669-quinquies c.p.c. disciplina il caso in cui le parti hanno deciso di deferire la controversia ad arbitri, in tal caso la misura cautelare non potrà essere concessa dall'arbitro ma la relativa domanda dovrà essere proposta al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.


Un'eccezione alla regola secondo la quale il giudice che concede la misura cautelare deve essere un giudice monocratico è che nel caso in cui la causa pende dinanzi ad un giudice che opera in funzione collegiale (tribunale sezioni specializzate agrarie, per minorenni o corte d'appello) non essendoci all'interno di questi organi un istruttore (cioè un giudice unico) la misura cautelare sarà concessa o negata dal collegio stesso.





L'art.669-sexies c.p.c. nel disciplinare il procedimento tramite il quale si concede la misura cautelare prevede due sviluppi del processo:

secondo lo sviluppo normale del processo è previsto che il magistrato designato deve fissare con decreto l'udienza per la izione delle parti (omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio) e deve chiudere il procedimento con ordinanza resa in contraddittorio;

secondo lo sviluppo eccezionale del processo è previsto che quando la convocazione della controparte può pregiudicare l'attuazione del provvedimento il giudice può con decreto (inaudita altera parte) non solo fissare la data dell'udienza ma anche concedere la misura cautelare.

L'articolo in questione prevede anche due termini: quello perentorio non superiore ad 8 giorni entro i quali il ricorrente deve notificare il ricorso ed il decreto alla controparte e quello non superiore a 15 giorni entro i quali per la data dell'udienza di izione delle parti (fissata nel decreto). I termini in questione sono triplicati nel caso in cui la notifica deve essere effettuata all'estero. Il giudice poi con l'ordinanza confermerà, modificherà o revocherà i provvedimenti emanati col decreto inaudita altera parte.

L'art.669-septies c.p.c. disciplina il provvedimento negativo cioè l'ordinanza di rigetto (o anche quella di incompetenza), provvedimento con il quale il giudice non concede la misura cautelare. La domanda cautelare può essere rigettata per motivi di giurisdizione, di competenza (in tal caso il giudice non deve indicare il giudice competente), di mancanza del periculum in mora o anche del fumus boni iuris. Tutto ciò sempre con ordinanza con la quale il giudice provvede definitivamente anche sulle spese che saranno a carico del soccombente. Prima contro il provvedimento negativo non era previsto il reclamo al collegio ed era solo possibile riproporre la domanda cautelare, tuttavia grazie ad un intervento della Corte costituzionale nel 1994 è possibile oggi reclamare il provvedimento negativo ma rimane possibile anche riproporre una nuova domanda a condizione che la parte deduca una nuova circostanza di fatto (comunque potrebbe sempre essere proposto un autonomo giudizio a cognizione piena); se vengono fatte entrambe le cose i due processi vanno avanti autonomamente salvo poi vedere di conciliare i risultati finali. Ricordiamo che non è ammesso il reclamo contro il decreto ma esso va fatto sempre contro l'ordinanza.

L'art.669-opties c.p.c. disciplina il provvedimento di accoglimento dell'istanza cautelare (quello che possiamo definire il provvedimento positivo) stabilendo che con l'ordinanza antecausam che concede la misura cautelare il giudice deve fissare un termine perentorio (legale) non superiore a 30 giorni per l'inizio del procedimento di merito; il termine in questione decorre dalla pronuncia dell'ordinanza se avvenuta in udienza o dalla sua comunicazione.

L'ordinanza con la quale si chiude il procedimento cautelare fino al 1990 era immodificabile e sicuramente non impugnabile ma con la riforma del procedimento cautelare sono stati introdotti due rimedi: da un lato la modifica e la revoca e dall'altro il reclamo.

L'art.669-decies c.p.c. disciplina la modifica e la revoca che riguardano solo l'ordinanza di accoglimento e non anche quella di rigetto dell'istanza cautelare; inoltre bisogna dire che è sempre possibile fare istanza di modifica o di revoca dell'ordinanza di accoglimento a condizione che si siano verificati mutamenti di circostanze. Il giudice competente per la revoca e per la modifica è sempre quello della causa di merito tranne nei casi in cui questo è un giudice straniero, un arbitro o un giudice penale (ma si che ritiene neanche il giudice di pace possa revocare o modificare l'ordinanza in questione); in sostanza il giudice competente per la modifica e per la revoca è quello che ha pronunciato l'ordinanza.



L'art.669-terdecies c.p.c. disciplina il reclamo al collegio che (grazie all'intervento della Corte costituzionale) riguarda non solo l'ordinanza di accoglimento ma anche l'ordinanza di rigetto; inoltre il reclamo al collegio è proponibile nei confronti dell'ordinanza che accoglie l'istanza di modifica o di revoca della misura cautelare ma non è proponibile nei confronti dell'ordinanza che rigetta l'istanza di modifica o di revoca della misura cautelare. Il reclamo al collegio ha dei presupposti diversi dall'istanza di modifica e di revoca, infatti può essere proposto solo se vi è stato un errore che può aver caratterizzato l'attività o la decisione del giudice. In sostanza il reclamo può essere proposto per errori in procedendo o per errori in iudicando. Importante è che il reclamo al collegio può essere proposto non in qualunque momento ma solo nel termine perentorio di 10 giorni dalla notificazione dell'ordinanza che ha concesso o che ha negato la misura cautelare (o da quella che ha accolto l'istanza di modifica o di revoca). Il reclamo non può essere proposto nei confronti del decreto (anche se ha concesso inaudita altera parte la misura cautelare) ma può essere proposto solo nei confronti dell'ordinanza. Il reclamo si propone al collegio del tribunale ma di tale collegio non può far parte il giudice che ha deciso sulla misura cautelare; nelle ipotesi in cui sia stato un collegio (quale la corte d'appello) a decidere sulla misura cautelare il reclamo va proposto ad un'altra sezione della stessa corte o alla corte d'appello più vicina. Il provvedimento che viene reso in sede di reclamo non è ricorribile in cassazione ed il collegio si pronuncia sul reclamo con ordinanza non impugnabile. Il reclamo di regola non sospende l'esecuzione del provvedimento (tranne in alcuni casi quando il provvedimento può essere sospeso o subordinato ad una cauzione).

L'art.669-nonies c.p.c. disciplina l'inefficacia della misura cautelare che può aversi in tre casi:

se il procedimento di merito non è iniziato nel termine previsto di 30 giorni dalla pronuncia dell'ordinanza;

se il processo di merito si estingue;

se la sentenza di merito accerta che il diritto (su cui si fonda la misura cautelare) non esiste.

Di regola nell'ultimo caso il giudice nella stessa sentenza che accerta che il diritto non esiste dispone anche l'inefficacia della misura cautelare e da i provvedimenti relativi. Negli altri casi la parte interessata deve presentare un'istanza al giudice che ha concesso la misura cautelare e chiedere che venga ad essere dichiarata l'inefficacia della misura stessa. A questo punto il giudice deve convocare con ordinanza le parti per verificare se c'è l'inefficacia e chiudere il procedimento con un ordinanza che dichiara l'inefficacia della misura cautelare (se la parte che ha ottenuto la misura si presenta e non contesta la richiesta dell'altra parte) oppure instaurare un processo a cognizione piena ed esauriente per dichiarare con sentenza se vi è o meno l'inefficacia della misura cautelare (se la parte che ha ottenuto la misura si presenta e contesta la richiesta dell'altra parte). Tuttavia il giudice può revocare la misura cautelare nell'ipotesi in cui debba dar vita al giudizio a cognizione piena ed esauriente a seguito dell'opposizione.

L'art.669-duodecies c.p.c. disciplina l'attuazione delle misure cautelari stabilendo che tale attuazione è affidata non al giudice dell'esecuzione ma al giudice della cautela che ha l'onere di fissarne le modalità. La norma in questione distingue a seconda che si tratti di misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro (in tal caso si seguono le forme del pignoramento) o di misure aventi ad oggetto obblighi di rilascio, di consegna, di fare o di non fare (in tal caso sarà il giudice a fissare volta per volta le modalità per il raggiungimento dello scopo. Si ritiene che si possa proporre reclamo contro i provvedimenti di attuazione se si concretano in un diniego di esecuzione del provvedimento cautelare.









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