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WILLIAM WILSON di EDGAR ALLAN POE

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WILLIAM WILSON di EDGAR ALLAN POE


Che dir di ciò? che dir della COSCIENZA austera,

Spettro sulla mia strada?

Chamberlaine, Pharronida


Lasciate che io mi chiami, pel momento, William Wilson. La ina che mi s'apre bianca dinanzi non dev'essere insudiciata dal mio vero nome il quale è stato troppo spesso oggetto dispregio, d'orrore e d'abbominio per la mia famiglia. Non ne hanno forse divulgata l'inabile infamia i venti sdegnati, fin nelle più remote contrade del mondo? Ahimè, il più abbandonato fra tutti i proscritti! Non sei tu dunque morto per sempre a questo mondo? Ai suoi onori, ai suoi fiori, alle sue aurate ambizioni? E non s'è forse frapposta per l'eternità, tra le tue speranze e il cielo, una sinistra e spessa nube della quale non è consentito scorgere dove finisca?

Non vorrei, quand'anche fosse in mio potere, affidare a queste ine le memorie dei miei ultimi anni di innominabile miseria, di imperdonabili delitti. Quest'ultimo periodo della mia vita m'ha condotto a un'altezza di turpitudine della quale non voglio che determinare l'origine. Questo e nessun altro è, nella presente occasione, il mio scopo. Gli uomini, di solito, diventano vili poco alla volta: quanto a me, ho perduta tutt'intera la mia virtù, in uno stesso istante, d'un sol colpo, al modo stesso che si perde un mantello. Da una perversità relativamente comune, sono pervenuto, con un solo passo da gigante, a tali enormità che nemmeno Ellogabalo ne sarebbe stato degno. Consentite così che vi narri minuziosamente qual caso, quale unico accidente m'abbia addotto a tanta maledizione. Si sta avvicinando la Morte e l'ombra che la precede ha reso più mite il mio cuore. Così, passando per la triste valle, io ricerco la compassione e la pietà - stavo per dire - dei miei simili, elevando un fiotto di sospiri. Vorrei che si persuadessero com'io non sono stato se non lo strumento di circostanze indipendenti da ogni umano controllo. Vorrei che discoprissero, fra mezzo al Sahara di errori che si contempla in ciò che imprendo a narrare, una qualche oasi di fatalità. E che riconoscessero, infine, quanto non potranno rifiutarsi di riconoscere e che cioè non esistette mai uomo - quantunque questo mondo conosca le più grandi tentazioni - che ne subisse di tal sorta né, tanto meno, che per quelle dovesse tanto abbassarsi. Sarebbe forse proprio a causa di questo che nessuno ebbe a soffrire ciò che io invece soffersi? Ovvero io avrei abitato, finora, dentro a un sogno e mi trovo, ora, a morir vittima dell'orrore e del mistero della più stravagante fra tutte le visioni sublunari? Io discendo da una stirpe che s'è distinta, nei tempi, per l'indole fantasiosa e proclive all'eccitazione. I miei primi anni provarono che avevo ereditato, dai miei avi, quel carattere in pieno. Col passar del tempo, nondimeno, questo carattere si fece in me più spiccato e per numerosi motivi fu causa d'inquietudine tra i miei amici e un fornite di positivo pregiudizio per me. Mi abbandonai, così, ai più selvaggi capricci, alle più irrefrenabili passioni. I miei genitori, deboli nello spirito, e anch'essi torturati dai miei stessi difetti, poco fecero - come poco avrebbero potuto fare - per reprimere le mie riprovevoli tendenze. Tentarono - è vero - qualcosa, ma assai fiaccamente e del tutto fuor di proposito. Così che non approdarono a nulla, mentre io trionfavo assoluto. Da quel tempo la mia parola fu legge in famiglia, per modo che, a un'età in cui la maggior parte dei fanciulli vengono riguardati, io venni affidato al mio più assoluto arbitrio e mi trovai padrone, eccetto che nel nome, di tutte le mie azioni.



Le mie prime impressioni di scolaro fan tutt'uno col ricordo d'una vasta e bizzarra costruzione in stile elisabettiano in un lugubre villaggio inglese, pieno di alberi giganteschi e nodosi, e dove tutti gli edifici erano contraddistinti da una secolare antichità. Quella veneranda cittadina era, per la verità, un luogo di sogno, fatto apposta per affascinare lo spirito. E persino, al ripensarvi ora, mi sovviene della fresca sensazione delle fonde ombre dei suoi viali, mi par di respirare l'odore dei suoi mille tigli e trasalisco, compreso d'infinito piacere, al momento in cui mi par d'udire il rintocco sordo e grave della campana che rompeva sinistramente, d'ora in ora, l'atmosfera quieta e oscura nella quale era immerso, addormentato in tutti i suoi pinnacoli, il campanile gotico.

Questi minuti ricordi della scuola e, comunque, delle fantasticherie che accomnarono quel tempo, son tutto quello che resta a testimoniare e a convogliarmi seco, talvolta, di quei piaceri andati. Preda qual io mi sono, ahimè, della sciagura - la quale è soltanto anche troppo reale - mi si perdoni s'io cerco un lieve ed effimero conforto nel riandare quei teneri svaghi infantili. Minimi e ridevoli di per se stessi, essi acquistano, d'altro canto, una loro importanza nella mia fantasia per l'intima connessione che hanno coi luoghi e con l'epoca nei quali sono costretto a rinvenire le prime ambigue avvisaglie del Destino che proiettò, sul mio cammino, la sua ombra intensa e devastatrice fin da quel tempo beato. Consentite, dunque, che io ricordi.

La casa, secondo ho già detto, era antica e di costruzione irregolare. Le terre attorno erano ampie e un alto e saldo muraglione di mattoni, incoronato da uno strato di malta con suvvi incastrati frammenti di bottiglie e di altri oggetti di vetro, lo recingeva d'ogni banda. Tale cinta - la quale era

invero degna d'un carcere - segnava i confini del nostro dominio. Noi non portavamo il nostro

sguardo oltre di essa se non tre volte per settimana. Una volta, al pomeriggio del sabato, allorché ci

era consentito di fare delle brevi passeggiate collettive per la camna circostante, in custodia dei

prefetti, e due volte alla domenica, allorché venivamo condotti, incolonnati come soldati, ad

assistere agli uffizi della mattina e della sera nell'unica chiesa del villaggio. Il direttore della nostra

scuola era, nel contempo, pastore di quella chiesa. Con quali profondi sensi di timore e di reverenza

io non lo contemplavo dai nostri banchi relegati su in alto, nelle tribune, quando egli saliva sul

pulpito a passi lenti e solenni! Mi chiedevo come quel personaggio venerabile, dall'aspetto tanto

umile e benevolo, dall'abito così ben spazzolato e ondeggiante alla maniera degli ecclesiastici e

dalla parrucca tanto finemente intrecciata e incipriata, potesse essere il medesimo uomo il quale,

con espressione acida, e tutta sudicia la persona di tabacco, faceva dianzi eseguire, ferula alla mano,

le draconiane leggi della scuola. Bizzarro e smisurato paradosso la cui mostruosità impediva

qualsiasi soluzione.

Da un angolo della murata che recingeva la scuola, guardava una porta ancor più massiccia

dello stesso muro, la quale era saldamente sbarrata, fornita d'un chiavistello e sormontata da una

corona di punte acuminate di ferro. Essa ci ispirava i più profondi terrori. Non accadeva giammai

che si aprisse se non per le tre sortite, con le relative rientrate, di ogni settimana e nello stridere che

allora faceva sui cardini, noi ci trovammo sopraffatti da una profondità di mistero che schiudeva,

alle nostre vergini menti, un intero mondo di solenni meditazioni.

Il lungo recingimento era irregolare, per la forma, e diviso in più parti delle quali le tre o

quattro più vaste fungevano da corte di ricreazione. Quest'ultima era spianata e coperta d'uno strato

di ghiaia fine e scricchiolante. Rammento bene che essa era nuda al tutto, senza che vi si potessero

scorgere né alberi, né panche, né altro oggetto simile. Si apriva, naturalmente, sul retro dell'edificio

mentre davanti alla facciata vegetava una sorta di piccolo giardino coltivato a bossi od altra sorta di

arbusti, il quale costituiva una sacra e vergine oasi che ci era dato di attraversare assai raramente, e

soltanto, cioè, in occasioni come quella del nostro arrivo a scuola e della nostra definitiva partenza

da essa, ovvero in quell'altra nella quale, affidati a un amico o a un parente che era venuto a

prenderne, ci avviavamo, pieni di gioia, alla volta della casa paterna, durante le vacanze natalizie o

in quelle estive.

Ma la casa! Qual vecchio e bizzarro edificio non era la casa! E qual, per me, palazzo di

magia! Dove potesse aver fine l'inestricabile labirinto dei suoi anditi, e delle sue suddivisioni, era

impossibile comprendere, ed in qualsivoglia momento era difficile stabilire con sicurezza dove ci si

trovasse, se al primo, ovvero al secondo piano, dal momento che si era sempre sicuri di trovare due,

tre e finanche quattro gradini da salire o da scendere in ciascun passaggio da una stanza all'altra. Gli

stimenti laterali, poi, erano innumerevoli: giravano e rigiravano e finivano poi così bene con

l'incontrarsi l'uno nell'altro che le idee che potevamo avere, relativamente all'edificio nel suo

insieme, non erano molto diverse da quelle altre in virtù delle quali studiamo di farci informati

dell'infinito. Per tutti i cinque anni che vi passai dentro, non fui mai buono a determinare, infatti, in

quale punto fosse precisamente l'angusto dormitorio che mi era stato assegnato assieme a una

ventina di altri scolari.

L'aula destinata allo studio era la più vasta di tutto l'edificio e di tutto il mondo: tale, almeno,

mi sembrava. Più lunga che larga e sinistramente bassa, riceveva luce da finestre ogivali e

possedeva un soffitto di quercia. In un suo remoto cantuccio - oggetto di terrore, per noi - era

riservato un recinto quadro, largo da otto a dieci piedi, il quale rappresentava il sanctum del

direttore, reverendo dottor Bransby, nelle ore in cui eravamo riuniti a studiare. Era una solida

costruzione, dalla porta massiccia, ma noi, pur quando il maestro di scuola era assente, avremmo

preferito morire della peine forte et dure anziché arrischiarci ad aprirla. In altri due angoli della sala

sorgevano altre due tribune eguali che, seppure incutevano una venerazione men profonda, era pur

tuttavia enorme il terrore che ne emanava: la cattedra, l'una, del professore di discipline classiche,

del professore di quelle matematiche e d'inglese, l'altra. Sparsi dappertutto per la sala erano

innumeri banchi e leggii gravi per il peso di antichissimi libri sudici di ditate; essi erano disposti

con tale disordine ed erano così logorati dal tempo e tatuati d'iniziali, di nomi, d'immagini

grottesche e d'altre consimili mirifiche invenzioni del temperino, che avevano del tutto smessa la

forma d'origine conferita ad essi, un tempo, dall'immemorabile passato. Una enorme secchia colma

d'acqua era, inoltre, a un capo dell'aula e all'altro s'ergeva un orologio d'incredibili proporzioni.

Fra le massicce pareti di questo venerando istituto, io passai, senza che potessi, nondimeno,

provare alcuna noia e alcun disagio, gli anni che occuparono il terzo lustro della mia vita. La mente

dei fanciulli, feconda d'immaginazione, non ha bisogno degli incidenti esteriori per occuparsi e

divertirsi, e la sinistra monotonia della scuola fu popolata, per me, di più intensi eccitamenti che

non quelli richiesti, in seguito, dalla mia giovinezza alla voluttà, e dalla mia virilità al delitto. E

tuttavia sono portato a credere che la mia intelligenza si sviluppò, in principio, in modo tutt'affatto

anormale e sregolato. Una volta ch'egli è pervenuto alla maturità, gli avvenimenti dell'infanzia non

lasciano solitamente, nell'uomo, un'impressione ben conformata. Ogni cosa s'ingrigia simile a

un'ombra e gli intrighi confusi di tenui piaceri e fantasiose angosce s'annebulano in un vago e

irregolare ricordo. Occorre che io abbia inteso, nella mia infanzia, con l'energia dell'uomo adulto,

tutto quel che trovo ancora segnato nella mia memoria a tinte vive, profonde e durature, com'è

l'esergo delle monete cartaginesi.

E nondimeno, per quel che era il fatto in sé e per sé - dal punto di vista, almeno, dal quale la

gente giudica d'usato simili accidenti - v'era assai poco da serbarne memoria. La sveglia al mattino,

l'ordine d'andare a coricarsi la sera, le lezioni, le rappresentazioni, i brevi periodi di vacanza, le

passeggiate, le contese durante la ricreazione nella corte, i giuochi, gli intrighi e i complotti, tutte

queste cose, insomma, per lo smagamento dell'anima, disperso di poi, portavano seco una folla di

sensazioni, un universo ricco e variegato d'avventure e delle più svariate emozioni, come pure degli

eccitamenti più ebbri e passionati. «Oh, le bon temps, que ce siècle de fer!».

La mia focosa, altera, entusiasta natura non tardò, per la verità, a farmi eccellere tra i miei

comni, e mi diede, man mano, un notevole ascendente su coloro almeno che non erano più

grandi di me: su tutti, tranne uno. Era costui un allievo che, senz'essermi tuttavia legato da alcuna

parentela più o meno lontana, portava oltre il mio nome di battesimo, anche il mio stesso nome di

famiglia. Tale circostanza, per la verità, non deve meravigliare troppo, dal momento che il mio,

nonostante la nobile origine, era uno di quel nomi del tutto comuni che, per una sorta di

prescrizione, sembrano essere stati, fin dai tempi dei tempi, di dominio pubblico. Ho così assunto,

nell'odierno racconto, il nome di William Wilson, il quale è nome fittizio ma non per questo troppo

discosto dal vero. Tra coloro i quali, per usare un'espressione della scuola, facevano parte della

nostra classe, il mio omonimo soltanto osava gareggiar meco negli studi come anche nei giuochi e

nelle competizioni delle ore di svago. Egli era il solo che si rifiutasse di credere alle mie asserzioni

con quell'assoluta cecità con cui gli altri solevano, che non soffrisse di sottomettersi alla mia

volontà, che contrastasse, insomma, in tutti i possibili modi e casi, alla mia dittatura. E notate che

non v'è sulla terra dispotismo assoluto quanto quello d'un fanciullo di genio sui suoi comni di

più modeste risorse.

La ribellione di Wilson era fonte, per me, di grave imbarazzo: soprattutto per la ragione che

- nonostante la millanteria con la quale lo trattavo in pubblico, a motivo di tutte le sue pretese -

sentivo, nel fondo, di temerlo e, d'altra parte, non potevo impedirmi di considerare come una

dimostrazione di superiorità - dal momento che ero costretto a uno sforzo continuato per evitarne la

supremazia - proprio quello stato di eguaglianza ch'egli si studiava di mantenere nei miei riguardi.

Questa superiorità, o comunque emulazione, non era avvertita che da me soltanto, e per una

inspiegabile cecità, sembrava che i nostri comni non ne serbassero il più lontano sospetto. E

difatto la sua resistenza, la sua rivalità e il suo malizioso e impertinente attraversarmi ogni disegno,

non andavano oltre i limiti d'una intenzione strettamente personale. Egli sembrava del tutto esente

dall'ambizione che mi spingeva a dominare, come anche dalla passione vivificatrice che me ne dava

la forza: nell'esercizio di tale rivalità, si sarebbe potuto dire che egli agisse da null'altro sospinto che

da un energico sprone a contraddirmi, a sbalordirmi e a mortificarmi, quantunque io non potessi far

di meno che accorgermi, alle volte - non senza stupirmene e adirarmene insieme - ch'egli

accomnava i suoi oltraggi, le sue impertinenze, le sue contraddizioni con una cert'aria di

affettuosità affatto inopportuna.

È probabile che tale ultimo tratto del comportamento di Wilson, come pure la nostra

omonimia e l'essere entrati nel collegio lo stesso giorno, contribuissero a far credere, al nostri

condiscepoli delle classi superiori, che noi fossimo fratelli. Costoro, infatti, non erano usi

d'informarsi, con esattezza, di ciò che riguardava i più giovani. Ho già detto che Wilson non era in

alcun modo imparentato con la mia famiglia. Pure, non v'è dubbio che, ove fossimo stati fratelli,

saremmo stati gemelli dal momento che, secondo appresi casualmente quando lasciai l'istituto del

dottor Bransby, il mio omonimo era nato anch'egli - né questa coincidenza mancherà

d'impressionare! - il 19 gennaio 1813, e cioè nel medesimo giorno in cui ero nato io.

Potrà sembrare curioso che, nonostante la continua apprensione nella quale vivevo a causa

della sua rivalità e del suo insoffribile spirito di contraddizione, io non fossi portato, in definitiva, a

detestarlo del tutto. Una nuova contesa sorgeva tra noi due ogni giorno, ed egli pur

accordandomene, in pubblico, la palma, si studiava, in privato, di farmi in qualche modo edotto che

il merito doveva attribuirsene a lui soltanto. E nondimeno, l'orgoglio dalla mia parte e la dignità

dalla sua impedivano che varcassimo i limiti d'una stretta convenienza, quantunque i nostri caratteri

fossero talmente simili in talune particolarità da risvegliare, in me, un sentimento che soltanto i

nostri rapporti di tensione impedivano di maturare in amicizia. Tentare una definizione o una

descrizione soltanto del mio verace atteggiamento verso di lui m'è del tutto difficile: esso costituiva,

difatti, un eterogeneo amalgama e multicolore in cui avevano parte una ostinata animosità non

ancora pervenuta a trasformarsi in odio, la stima, e, più ancora che la stima, il rispetto, alquanto

timore, e una grandissima, impaziente curiosità. Per il moralista non sarà mestiere aggiungere - egli

l'ha già compreso! - che, fra tutti i nostri camerati, Wilson ed io eravamo, di gran lunga, i più

inseparabili.

La stravaganza e l'ambiguità dei nostri rapporti fu essa soltanto - non può esservi dubbio! - a

fare in modo che tutti i miei assalti contro di lui, i quali, nascosti o dichiarati che fossero, erano ben

numerosi, si disfogassero nell'ironia e nella caricatura anziché in una seria e determinata ostilità.

Non è forse il sarcasmo a produrre le ferite più profonde? Ciò nondimeno, per quanto ingegno

impiegassi nell'ordire i miei piani, i miei sforzi, anche con quel mezzo, non erano sempre vittoriosi,

giacché il mio omonimo possedeva un'indole austera e contegnosa, la quale, pur pervenendo a

godere gli effetti delle proprie punture, riusciva, tuttavia, a non esporre il tallone d'Achille e a

sottrarsi a ogni specie di ridicolo. Io non ero capace di sorprendere in lui alcuna zona vulnerabile se

non una, la quale consisteva in una imperfezione fisica derivata da una infermità costituzionale:

qualunque antagonista, meno accanito di quanto io non fossi, l'avrebbe risparmiata. Il mio rivale era

afflitto da una imperfezione della laringe che non gli consentiva di elevare la voce più alto d'un

sommesso mormorio. Da tale imperfezione non mi facevo scrupolo di trarre ogni possibile

vantaggio.

Per contro, le rappresaglie di Wilson erano della specie più svariata, e una, sopra tutte,

riusciva a turbarmi fuor di misura. In qual modo egli abbia avuto, fin dal principio, la sagacia

d'indovinare che una tale inezia potesse tanto inquietarmi, è questione che ancora non ho saputo

risolvere. È indubitato, comunque, che non appena egli se ne rese conto, praticò quella tortura con

sistematica ostinazione. Io avevo sempre provata dell'avversione per il mio sciagurato nome di

famiglia, tanto inelegante, come anche per il mio nome di battesimo ch'io consideravo del tutto

ordinario, se non addirittura plebeo. Il suono delle sue sillabe era veleno al mio orecchio, e come il

medesimo giorno del mio arrivo udii un altro William Wilson rispondere all'appello, non dubitai di

volergli male per quella sola ragione, e fui doppiamente disgustato del mio nome, e perché era

portato da un estraneo, e perché sarei stato obbligato a sentirlo pronunciare, in ogni occasione, una

volta di più. L'irritazione che stimolò in me un tale avvenimento diveniva più viva man mano che le

circostanze mettevano in luce, ogni giorno di più, la somiglianza fisica tra me e il mio rivale. A

quell'epoca io non avevo ancora fatta la scoperta che eravamo nati lo stesso giorno, eppure non

potevo fare a meno di vedere che avevamo la medesima statura, e che anche i nostri lineamenti

erano contraddistinti da una totale sorprendente rassomiglianza. Ero inoltre esasperato dalle voci

che correvano attorno alla nostra parentela e che erano credute nelle classi superiori. Non v'era

nulla, in altre parole, ch'io non soffrissi - sebbene tentassi ogni maniera per non darlo a vedere -

quanto le allusioni a una qualsiasi nostra somiglianza, così morale che fisica e, soprattutto, a causa

della nascita. E tuttavia non avevo alcuna ragione di ritenere che tale rassomiglianza - tranne che

per la parentela e per tutto ciò che riusciva a notare il medesimo Wilson - fosse stata mai l'oggetto

di commenti e d'osservazioni dei nostri condiscepoli. Che lui studiasse quella relazione sotto ogni

aspetto di essa, e che non vi mettesse meno attenzione di me, era del tutto indubitabile, ma che egli

poi avesse saputo discoprire, in essa, un'occasione per i numerosi e perfidi dispetti che architettava,

non ho da attribuirlo a nulla che non fosse la sua straordinaria sagacia.

Egli era uso, coi gesti e con le parole, mediante un eccezionale potere d'imitazione, a

contraffare ogni mio modo d'agire. Copiò così la foggia dei miei abiti, la mia andatura, il mio

generale portamento e, nonostante la difficoltà di quella sua minorazione costituzionale, persino la

voce. È chiaro, tuttavia, che, quanto alla voce, egli non tentava i toni elevati ma ne aveva afferrato,

comunque, quale che fosse, il segreto e, a patto di parlar basso, egli riusciva ad ottenere che il suo

bisbiglio fosse l'eco perfetto della mia voce

Quale alto grado di tormentosa angoscia non provocasse in me questo ritratto singolare

ch'egli mi era uso porgere - e che io non potrei chiamare, onestamente, una caricatura - non arrivo a

esprimere. Non avevo che una consolazione soltanto: e cioè che quella contraffazione, per quanto

almeno mi riuscì di sapere, ero io soltanto ad avvertirla, per modo che non ne dovevo sopportare

nulla all'infuori dei misteriosi sorrisi del mio omonimo, i quali non erano mai disgiunti da alcun

sarcasmo. Pago d'aver prodotto l'effetto da lui voluto sul mio cuore, egli pareva soddisfatto di gioire

segretamente della tortura medesima che m'infliggeva e sdegnava gli applausi che pure il successo

per la sua bravura gli avrebbe procurato. Perché mai i nostri condiscepoli non indovinassero i suoi

piani e non ne osservassero l'esecuzione, come pure non dividessero, assieme a lui, il piacere di

quella turlupinatura, io non riuscii mai a discoprire, nonostante quel lunghi mesi d'inquietudine. È

probabile che rendesse problematica l'osservazione dei suoi modi, l'estrema e graduale lentezza

onde egli era uso portare innanzi la sua contraffazione. Ovvero io ero debitore della mia salvezza

soltanto all'abilità del copista, il quale scartava ciò che suol dirsi la lettera - e questa è, pure, tutto

ciò che le menti ottuse san riconoscere - badando a rendere solo lo spirito dell'originale,

combinando assieme, così, la mia smisurata ammirazione e il mio cocente dispetto?

Ho già ripetutamente accennato all'aria - tanto fastidiosa per me - di protezione che egli

aveva assunta nel miei riguardi, come pure al suo frequente e ufficioso interferire coi miei propositi.

Tale interferenza assumeva sovente lo sgradito carattere d'un ammonimento, il quale, seppur non

era apertamente dichiarato, nondimeno era sottilmente suggerito, perfidamente insinuato. Ed io

dovevo ridurmi ad accoglierlo con una ripugnanza la quale si faceva sempre più gremita col

proceder del tempo. E tuttavia, ora che quell'epoca è del tutto trascorsa, desidero rendergli la

doverosa giustizia di riconoscere che non m'è possibile rammentare soltanto un caso in cui quei suoi

ammonimenti si rivelassero partecipi dell'errore e della stravaganza che pure sarebbe stata del tutto

giustificabile alla sua età, immatura, per solito, ed inesperta; e ancora che il suo senso morale, come

la sua avvedutezza e il suo talento erano molto più esercitati dei miei e, infine, che io sarei adesso

un uomo assai migliore, e per conseguenza più felice, ove meno avessi sdegnati i suggerimenti di

quel suo mormorio così pieno di significato, che pure allora m'ispirava un odio tanto tenace, un

tanto amaro dispregio.

Così ch'io, col tempo, divenni del tutto insofferente della sua ostinata e odiosa sorveglianza,

e cominciai a detestare apertamente ciò che consideravo un'insoffribile soperchieria. Ho detto che

durante i primi tempi della nostra vita in comune, i miei sentimenti a suo riguardo avrebbero potuto

anche volgere in amicizia; ma negli ultimi mesi del mio soggiorno nella scuola, sebbene il fastidio

di quella sua persecuzione fosse - e non dico poco - diminuito, i miei sentimenti, per contro, avevan

preso, quasi con la stessa progressione, l'avvio ad un odio aperto e pronto a incrudelire. Ho la

presunzione, infatti, ch'egli dovette accorgersene, in una certa circostanza, e ne è la riprova il suo

venir meno alle assiduità della mia persona o, se non altro, l'atteggiarvisi.

Attorno a quel tempo, se la memoria mi soccorre, durante un violento alterco nel quale egli

sembrò smarrire il suo abituale ritegno con parole ed atti contrari alla sua natura, io discoprii -

ovvero mi parve - nel suo accento, nella sua espressione, in tutto l'insieme, insomma, della sua

fisionomia, un qualche cosa che, dapprima, mi fece trasalire e m'affascinò poi fin nel profondo, col

risveglio, nell'animo mio, d'alcune oscure visioni della mia prima infanzia, rimasugli strani e

scomposti di memorie andate, al tempo in cui io non ero neppur nato al pensiero e alle persistenti

immagini di esso. Non saprei definire quella sensazione in maniera più acconcia se non col dire che

m'era difficile liberarmi dall'idea d'aver già conosciuto quegli che m'era dinanzi in un'epoca

remotissima, in un passato estremamente lontano e nebuloso. E nondimeno quell'impressione svanì

colla rapidità medesima con la quale la mia mente eccitata l'aveva prodotta, ed io qui la ricordo

solamente per sottolineare quale fu il carattere dell'ultima disputa che ebbi, per allora, col mio

singolarissimo omonimo.

L'antica e vasta costruzione della scuola comprendeva, nelle sue innumerevoli suddivisioni,

una infinità di enormi camere comunicanti tra loro, le quali servivano da dormitori alla maggior

parte degli allievi. V'erano poi - e non potevan mancare, infatti, in una costruzione così

bizzarramente immaginata - angoli e cantucci in gran numero, ritagliati in vario modo, a seconda

che il fabbricato suggeriva, e che l'utilitaria ingegnosità del reverendo Bransby aveva trasformati,

ancor essi, in altrettanti dormitori, i quali - è evidente - da semplici sgabuzzini che erano, potevano

servire, al massimo, a un solo individuo. Wilson occupava uno di cotesti stambugi.

Una notte, allo spirar dell'ultimo anno ch'io trascorsi alla scuola, immediatamente dopo

l'alterco che ho già detto, mentre tutti erano immersi nel sonno, mi levai dal mio giaciglio e, con un

lume in mano, attraverso un intrico d'angusti passaggi, scivolai fino allo stambugio del mio rivale.

Avevo a lungo preparato, contro di lui, un altro di quei tiri maligni nei quali, fino a quel momento,

avevo sempre e completamente fallito. Deciso com'ero a porre quella volta il mio piano in atto,

intendevo che egli provasse tutta la forza della malvagità che mi traboccava nell'animo. Giunto che

fui nel suo stanzino, lasciai il lume sulla soglia, e stornando la luce con una ventola, entrai senza

fare il minimo rumore. Avanzai un passo e udii ch'egli respirava tranquillo. Ben persuaso, in tal

modo, che fosse addormentato pienamente e profondamente, tornai alla porta, presi su il mio lume

e, con esso nella mano, mi avvicinai di nuovo al letto. Le cortine eran chiuse; ed io le discostai

lievemente per effettuare il mio piano: ma cadendo il vivo lume, in pieno, sul dormiente, i miei

occhi furori portati, un istante, a soffermarsi sulla sua fisionomia. Lo guardai e mi sentii, nel

contempo, agghiacciare in tutto l'essere mio. Mi sussultò il cuore, mi vacillarono le ginocchia e un

insoffribile e inspiegabile orrore mi possedette l'animo all'istante. Respirando appena, in un

convulso tremore, accostai ancor più il lume al suo volto. Erano quelli, erano proprio quelli i

lineamenti di William Wilson? Vedevo, sì, ch'erano i suoi, eppure mi lasciavo assalire da un brivido

di febbre, immaginando ch'essi non lo erano. Che cosa, in essi, aveva il potere di farmi confondere a

tal segno? Non potevo distogliermi dal contemplarlo ed il mio cervello roteava in preda al delirio di

mille pensieri in contrasto. Non era così, ah, no! Certamente non era così ch'egli m'appariva nelle

ore normali, quando era desto. Lo stesso nome, la stessa ura, lo stesso giorno d'entrata a scuola!

E ancora l'inspiegabile dispetto della contraffazione della mia andatura, della mia voce, delle mie

abitudini! Rientrava nelle possibilità umane che quel ch'io vedevo, ora, fosse pure soltanto il

risultato di quel suo continuo esercizio, dell'ironia crudele della sua imitazione? Al colmo del

terrore, rabbrividendo, soffiai sul mio lume, uscii in silenzio dalla cameruccia e abbandonai, una

volta per sempre, il recinto della vecchia scuola.

Dopo un lasso di tempo - qualche mese - che spesi, in ozio assoluto, nella casa di mio padre

fui mandato a Eton. Tale breve intermezzo era stato sufficiente per annebbiare e quasi disperdere il

ricordo degli avvenimenti dell'istituto del dottor Bransby, o almeno a mutare la natura dei

sentimenti che quei ricordi mi risvegliavano. La realtà, e, cioè, la parte viva del dramma, non

esisteva più, così ch'io credevo perfino di porre in dubbio la testimonianza dei miei sensi. E molto

spesso, al ripensar quegli accidenti, meravigliavo del segno cui sa pervenire l'umana credulità e

irridevo meco la prodigiosa fantasia della quale, a mezzo d'una trasmissione ereditaria, mi trovavo

dotato dai miei genitori. La vita che io conducevo a Eton era tale da confortarmi in questa sorta di

scettica professione. Il turbine di sregolate follie al quale, senza por tempo in mezzo, m'abbandonai

allora, ebbe il potere di sommergere tutto, all'infuori d'un qualche superficiale ricordo di ciò

ch'erano stati i mesi trascorsi e portò via seco ogni radicata impressione, senza permettere che la

memoria serbasse null'altro, all'infuori delle più trasparenti immagini d'una bizzarra fanciullezza.

Non ho alcuna intenzione di segnare, in questo luogo, il corso delle mie sciagurate

dissolutezze, il quale sfidava ogni norma costituita, ed eludeva altresì ogni vigilanza. Tre anni di

folli sregolatezze, spesi senza verun profitto, erano stati causa che il vizio piantasse profonde radici

nell'animo mio, ed assieme che il mio sviluppo fisico fosse accresciuto in modo tutt'affatto

anormale: un giorno, dopo una settimana di abbrutimento, spesa nell'esercizio delle più ributtanti

infamie, convitai meco, nel mio appartamento privato, alcuni tra gli studenti più perversi, a far

baldoria. Ci trovammo assieme a tarda sera, dacché la gozzoviglia avrebbe dovuto protrarsi con

iscrupolo fino al mattino. Il vino corse a fiumi e non mancarono, com'è naturale, altre e più

pericolose fonti di dolce ebrezza, così che, quando furono annunciati i primi deboli chiarori

dell'alba, noi avevamo appena toccato il vertice del nostro stravagante delirio. Incendiato come ero

dall'alcool e dalla demoniaca febbre del giuoco, mi accanivo a ricominciare un brindisi della più

volgare insolenza, allorché la mia attenzione fu distratta dallo spalancarsi improvviso d'una porta e

dalle precipitate parole d'un servo: egli mi disse che un personaggio, il quale dava a vedere d'essere

divorato dalla fretta, chiedeva di potermi parlare nell'atrio.

Al colmo del delirio alcoolico, quella interruzione inaspettata, lungi dal meravigliarmi, mi

arrecò quasi un senso di sollievo, e raggiunsi così, di passo incerto, il vestibolo. In quella bassa

stanzetta non v'era altro lume che quello medesimo dell'alba veniente, il quale pioveva stento,

attraverso agli oscuri vetri d'una finestra ad arco. Al momento di porre il piede sulla soglia,

intravvidi la ura d'un giovane che sembrava della mia stessa statura e portava una veste da

camera di cachemire bianco, tagliata secondo la moda più recente, in tutto identica a quella che, in

quello stesso istante, avevo indosso lo. A quel fioco lume, non mi fu possibile distinguere la

fisionomia del giovane, anche perché questi, non appena entrai, mi si fece all'improvviso da presso

e afferrandomi un braccio in un gesto d'impazienza, bisbigliò, al mio orecchio, le due parole:

William Wilson

La mia ubriachezza fu dispersa in quell'attimo.

V'era qualcosa, nel comportamento dello straniero, in quel suo vibrare il dito levato davanti

ai miei occhi contro la luce, che mi paralizzò di meraviglia. E nondimeno non poté esser ciò - quel

qualcosa, dico - a sconvolgermi l'animo: l'esuberanza, bensì, dell'ammonimento solenne che era in

quel nome pronunciato da una voce bassa e come fischiante e, sopra ogni altra cosa, il tono, il

carattere, il senso di quelle sillabe, affatto familiari e nondimeno mormorate come da un magico

potere, le quali risvegliarono un nugolo di memorie sopite, e mi penetrarono come d'un brivido

elettrico. Non mi ero ancora rimesso da quella scossa che il mio visitatore era gia sso.

Quantunque vivo e operante, l'effetto che un tale avvenimento produsse su di me ebbe,

nondimeno, breve durata. Durante alcune settimane - è vero - m'avvenne di andare attorno a far

ricerche, come pure di restare a lungo assorto in profonda riflessione. Non che cercassi di

nascondermi l'identità del misterioso personaggio che mestava con tanta irriducibile caparbietà nei

miei piaceri privati e m'infastidiva coi suoi ammonimenti! Ma chi era, infine, codesto Wilson? Di

dove veniva? E che cosa voleva? Non seppi dare alcuna risposta a queste domande: seppi soltanto

che, per un improvviso accidente occorso alla sua famiglia, egli era stato costretto ad abbandonare

la scuola del dottor Bransby poche ore dopo che io stesso ne ero fuggito. Ciò nondimeno, di lì a

qualche tempo, tutta quella storia fini con l'uscirmi affatto di mente e non mi occupai più che della

mia partenza per Oxford - del resto già da tempo disposta - dove, ben equigiato com'ero dalle

stolte e vanagloriose prodigalità dei miei, potei menare non appena arrivato, la frivola esistenza che

tanto amavo, e rivaleggiare nelle spese, e soprattutto negli sprechi, coi più ricchi eredi delle più

cospicue contee d'Inghilterra.

Incoraggiato, così, il vizio, mi dedicai affatto e con sfrenato e rinnovato ardore, alle mie

naturali inclinazioni e, pazzamente infatuato, infransi, nelle mie orge, i più elementari obblighi della

decenza. Indugiare sui particolari della mia stravagante licenza sarebbe assurdo. Basti sapere che

superai lo stesso Erode per la dissolutezza, e che, prestando il mio nome a innumeri nuove

scellerataggini, m'avvenne d'arricchire non poco il catalogo dei vizi che erano allora di moda nella

più dissoluta delle università europee.

Si stenterà a credere che mi fossi abbassato al segno da tentare di familiarizzarmi coi più

infami artifici della professione del giocatore, da farmi seguace di quella equivoca scienza e dal

praticarla infine, abitudinariamente, come un mezzo per accrescere le mie rendite - già di per se

stesse enormi - alle spese dei miei colleghi meno astuti. E fu così invece. L'enormità medesima d'un

siffatto attentato ai danni dei miei stessi sentimenti di onore e dignità costituì, senza dubbio, la

prima se non la sola ragione della mia impunità. Quale dei miei perversi camerati non avrebbe

rifiutato di prestar fede anche alla più lampante testimonianza, piuttosto che sospettare di

scorrettezza il gioviale, il leale, il generoso William Wilson, il più nobile e prodigo studente di

Oxford, del quale le pazzie, secondo la voce messa in giro dai suoi stessi parassiti, non provenivano

da altro se non da una giovinezza e da un'immaginazione sfrenate? Del quale gli errori altro non

erano se non inimitabili capricci e i più sordidi vizi non potevano che implicare una sregolata,

accesa, appassionante bizzarria?

Menavo una vita di tal sorta, da due anni ormai, allorché giunse all'Università un giovane

parvenu, un Glendinning, straricco, si mormorava, come Erode Attico, e come questi pervenuto alla

ricchezza senza fatica alcuna. Non misi molto ad accorgermi che la sua intelligenza era torpida e

ottusa e, tamburo battente, lo destinai ad essere vittima del mio industre talento. Presi, così, a

invitarlo al giuoco e, com'è costume d'un giuocatore che sappia il mestiere, a lasciare ch'egli

vincesse delle considerevoli somme per meglio irretirlo. Maturato che ebbi, di poi, il mio piano, mi

disposi a coglierne il frutto nell'alloggio d'un nostro comune amico, il signor Preston, il quale - per

la verità - non nutriva il minimo sospetto su quelli che erano, realmente, i miei intendimenti. Perché

la mia vincita riuscisse più clamorosa, avevo provveduto a far convitare meco altre otto o dieci

persone, e che la sa delle sectiune avvenisse in maniera tutt'affatto incidentale, e solo dopo che

la vittima stessa l'avesse sollecitata. Non trascurai, insomma, per dirla in breve, alcuna delle astute

abbiezioni che si praticano in consimili circostanze e che sono ormai talmente di prammatica da far

considerare, per lo meno, molto strano che si trovi sempre della gente pronta ad abboccare.

La nostra riunione s'era prolungata fino a notte alta e ad un dato momento procurai che il

Glendinning fosse il mio unico avversario. il giuoco era quello da me preferito: l'écartè. Gli altri,

attirati dalle inusitate proporzioni che aveva assunto la nostra posta, s'erano distratti dalle loro

partite ed eran venuti a sedersi tutti attorno a noi. Il parvenu, ch'io avevo indotto, fin dall'inizio della

serata, ad alzare, come suol dirsi, il gomito, s'era lasciato dominare, a quel punto del giuoco, da un

tale nervosismo che nessuna ubriachezza, al certo, avrebbe giustificato. In un lasso di tempo

estremamente breve egli m'era divenuto debitore d'una somma ingentissima. Ed al momento che

avevo freddamente preveduto, dopo aver tracannato d'un sol sorso, alla barbara, un bicchiere colmo

di porto, propose di raddoppiare quella già altissima posta. Io simulai di resistergli, e fu soltanto

dopo che il mio ostinato rifiuto lo fece trasmodare a parole quasi ingiuriose - tanto ch'io potevo ben

darmi le arie di persona piccata - che accettai quella sua folle proposta. Il risultato fu quale,

appunto, avrebbe dovuto essere e fu chiaro, cioè, che la vittima era totalmente irretita. Non era

passata per intero un'ora che egli mi doveva una somma quattro volte maggiore. Il suo volto aveva

perduto già da qualche tempo la cera fiorente che il vino gli aveva prestata, ma solo in quel punto

mi accorsi con grande meraviglia che era sbiancato come per un pallore di morte. E ciò, come ho

detto, non fu senza meraviglia dal momento che le accurate indagini da me condotte in precedenza

m'avevano appreso come la ricchezza del Glendinning fosse talmente vasta che le somme perdute

fino a quel momento, per quanto ingenti potessero essere, non avrebbero dovuto sconvolgerlo né

tanto meno deprimerlo a quel modo. Credetti, così, che fosse il vino bevuto. Più per salvarmi, come

suol dirsi, la reputazione di fronte ai miei comni, che per alcun altro interessato motivo, io

m'apprestavo, intanto, ad insistere in modo più deciso perché il gioco fosse interrotto, allorché

alcune parole, dette al mio fianco tra i presenti e un grido di disperazione sfuggito al Glendinning

mi resero noto come io avessi operata la sua totale rovina, e lo avessi ridotto a tanto da essere, per

tutti, oggetto di stupita pietà, a tanto che nemmeno il demonio in persona avrebbe ormai potuto più

nulla contro di lui.

A quale linea di condotta potei pensare allora d'attenermi è difficile dire. Lo stato,

comunque, veramente pietoso In cui sembrava ridotta la vittima aveva suscitato, oltre l'imbarazzo,

una sorta di melanconico disagio. Il più assoluto silenzio regno, per alcuni minuti, durante i quali gli

sguardi, a metà sdegnati e inquisitori per l'altra metà, che mi venivano dai meno corrotti della

comnia, mi fecero bruciare il rossore sulle guance. Mi sembrò, così, di provare, dapprima, come

un senso di liberazione per lo straordinario avvenimento che si diede, improvviso, di lì a poco, a

interrompere quell'insoffribile situazione. I battenti della porta, infatti, s'apersero con tale

improvvisa violenza che tutte le candele intorno si spensero come se vi alitasse sopra un soffio

incantato. Io avevo fatto in tempo, però, ad avvedermi che nella stanza s'era introdotto uno

sconosciuto - un individuo che aveva, a un di presso, la mia stessa statura - il quale appariva

strettamente avvolto in un mantello. L'oscurità era, per l'intanto, completa ed a noi era concesso

soltanto sentire che egli era là, in mezzo a noi. E prima che potessimo riaverci dalla profonda

meraviglia in cui ci aveva piombati quella brutale intrusione, si levò la voce dello sconosciuto.

«Signori», egli disse con un leggero ma ben chiaro e indimenticabile mormorio che mi

punse il midollo delle ossa; «io non farò le mie scuse per la strana condotta che sono costretto a

tenere, dal momento che, portandomi in questo modo, non mi attengo che a uno stretto dovere. Voi

non conoscete, al certo, la vera natura della persona che ha vinto, stanotte, un'enorme somma di

danaro a Lord Glendinning. ½ propongo, quindi, un modo sicuro e sbrigativo d'apprendere la verità

su di lui. Abbiate la bontà di esaminare, se v'aggrada, il risvolto della sua manica sinistra, come

pure le tasche, capaci, della sua trapunta vestaglia».

Mentr'egli parlava, il silenzio della stanza era così profondo che si sarebbe udito cadere uno

spillo sul tappeto. E com'egli ebbe terminato di parlare, sve nella stessa improvvisa maniera

con la quale era venuto. In qual modo potrei, ora, descrivere i miei sentimenti di quell'istante?

Occorre forse ch'io dica come mi sentii posseduto dai terrori dei dannati? Non ebbi, a ogni modo,

alcun tempo per riflettere. Mille mani mi furono addosso nel mentre che i lumi venivano riaccesi.

Mi perquisirono. E se nel risvolto della mia manica sinistra si trovarono tutte le principali ure

dell'écarté, nelle tasche della mia vestaglia furori rinvenuti numerosi mazzi di sectiune simili a quelli di

cui ci servivamo nelle nostre accolte, salvo che le mie eran di quelle dette arrotondate, secondo che

il linguaggio del mestiere definisce una leggera convessione alle estremità degli onori, e ai lati delle

altre sectiune, per cui la vittima, alzando come è l'uso, nella lunghezza del mazzo, era costretta a dare

un onore all'avversario, nel mentre che costui, il quale alzava in larghezza, aveva modo di non dare

mai alla vittima una carta che gli riuscisse di svantaggio.

Un uragano di sdegno sarebbe stato preferibile al profondo silenzio pieno di significato che

seguì quella scoperta.

«Signor Wilson», disse l'ospite mio, nel mentre che si chinava per terra a raccattare un

meraviglioso mantello foderato di pelliccia che, per il freddo, m'ero messo sulle spalle uscendo di

casa e m'ero tolto non appena raggiunto il teatro del giuoco. «Signor Wilson: questa è roba vostra.

Mi sembra superfluo», soggiunse con un amaro sorriso, esaminando le pieghe del mantello, «mi

sembra superfluo ricercare, anche qui, nuove prove della vostra industria. Ne abbiamo avute a

sufficienza, per la verità. Così che spero comprendiate la necessità di abbandonare Oxford e, in ogni

caso, di uscire subito da casa mia!».

Avvilito come ero, e umiliato dalla mia bassezza medesima, avrei avuto la forza, tuttavia, di

reagire a quegli insulti con qualche atteggiamento, magari, di violenza, ove la mia attenzione non

fosse stata attratta, in quel punto, da un avvenimento eccezionale. Il mantello col quale ero entrato

in casa del mio ospite era, secondo ho già rilevato, guarnito e foderato d'una pelliccia rara e

preziosa, e tagliato secondo un modello di mia invenzione, dacché in tali frivolezze ero di

contentatura difficile e quant'altri mai eccentrico. Nel mentre, dunque, Preston mi porse il mantello

che aveva raccolto sulla soglia della stanza, mi sentii gelare per la meraviglia - per non dire dalla

paura - nell'accorgermi ch'io avevo già il mio, sul braccio, e che l'altro che m'era porto era, di

quello, solo una contraffazione, esattissima nei minimi particolari. Il singolare individuo dal quale

ero stato, per mala ventura, smascherato, aveva, secondo ricordavo perfettamente, anch'egli un

mantello e, tra gli astanti, io solo ero venuto a giocare con un simile indumento. Come dovevo

comportarmi? Cercai di serbare, al massimo, un contegno disinvolto, tolsi in braccio anche il

mantello che mi porgeva l'ospite, lo sovrapposi al mio senza farne avveduto alcuno, ed uscii da quel

luogo, fulminando in giro un'occhiata di sfida. Era appena l'alba ed io ero già in fuga da Oxford,

diretto al continente, in preda a un'agonia d'orrore e di vergogna.

Era invano, però, ch'io fuggivo. Il mio destino di sventura ebbe a perseguitarmi, vittorioso,

dando a vedere che in quella tragica notte aveva soltanto cominciato a esercitare su di me il suo

misterioso dominio. Non ero ancor giunto a Parigi che già Wilson mi forniva nuove prove del

malefico interesse ch'egli aveva preso alla mia sorte. E il tempo passò tuttavia, ed il mio nemico non

mi die' tregua. Miserabile! Con quale inopportuna premura e con qual garbo nulladimeno sinistro

non ebbe a intromettersi, tra me e il mio orgoglio, a Roma! E a Vienna! A Berlino! A Mosca! In

qual luogo mai non colsi un qualche amaro motivo per maledirlo dal profondo di tutto l'essere mio?

Io fuggivo, preda del terrore, innanzi alla sua imperscrutabile tirannide come se, a inseguirmi, fosse

un'epidemia pestilenziale. In capo al mondo fuggii ma fu sempre invano.

E ancora, chiedevo al segreto dell'animo mio: Chi è? Donde viene? Che vuole? E non avevo

risposta. E studiavo le forme, i metodi, i caratteristici tratti della sua arrogante sorveglianza, e nulla

potevo trovare che potesse, anche di lontano, schiuderne il mistero. Noterò, inoltre, che in ognuna

delle innumeri volte in cui m'attraversò la strada, egli mirò a sconvolgere i miei piani e mutar corso

alle mie operazioni, le quali, ove fossero state condotte a buon punto, m'avrebbero pur procurato,

sempre, un amaro disinganno. E nondimeno, qual meschina giustificazione non era questa per

usurpare quella sua autorità in maniera tanto insolente? Qual gramo compenso per il mio naturale

diritto a eleggere la mia volontà, offeso così accanitamente e ingiuriosamente?

Avevo notato, fin dai nostri primi incontri, che egli, pur nella sua scrupolosa e miracolosa

destrezza nell'imitare la mia foggia di vestire, ogni volta che veniva a porre un ostacolo alla mia

libera volontà, aveva sempre evitato ch'io lo guardassi in volto. Chiunque egli fosse, toccava, in

codesto volersi trincerare nel mistero, il colmo dell'affettazione e della stupidità. Maledetto! Poteva

egli illudersi che in colui che m'aveva ammonito ad Eton, che aveva distrutto l'onor mio a Oxford,

che aveva avversata la mia ambizione a Roma, la mia vendetta a Parigi, la mia passione a Napoli e

ciò, infine, ch'egli a torto definì cupidigia in Egitto, poteva egli illudersi che nel mio capitale

nemico e malefico genio, io non avessi ravvisato il William Wilson dei miei anni di scuola? Il mio

omonimo? Il mio esecrato rivale al convitto del dottor Bransby? Sarebbe stato assurdo. E veniamo,

nondimeno, all'ultima scena del dramma.

Avevo, sempre, sino allora, subito passivamente d'essergli soggetto. Il profondo rispetto col

quale mi ero abituato a venerare il suo nobile carattere, la maestà del suo sapere, la sua onnipotenza

e apparente onnipresenza, in una sorta di paura che m'ispiravano taluni tratti della sua indole,

m'avevano persuaso d'esser debole e del tutto indifeso dinanzi a lui e, insieme, m'avevan consigliata

una totale sottomissione - per quanta amarezza e disgusto potesse costarmi - alla sua arbitraria

dittatura. Negli ultimi mesi mi ero consacrato all'alcool con una assoluta dedizione, con l'effetto

ch'io ero reso ogni giorno più insofferente di qualsiasi controllo. Cominciai così, a mormorare, ad

esitare, a resistere, infine. Fu forse una follia credere che l'ostinazione di colui che s'era eletto a mio

carnefice sarebbe stata attenuata dalla mia fermezza? È probabile che fosse così. E nondimeno io mi

sentii, poco alla volta, animato da una nuova speranza e cominciai a nutrir fede, in segreto, che sarei

riuscito a liberarmi da quella schiavitù.

Nel carnevale del 18 ero a Roma. Una sera mi recai a un ballo in maschera che aveva

luogo nel palazzo del napoletano Duca di Broglio. Essendomi abbandonato, più del consueto, ai

piaceri dell'alcool, l'atmosfera soffocante delle sale da ballo, gremite d'una folla variopinta, mi

esasperò fino al punto d'essere incapace di sopportarla oltre. Anche la difficoltà d'aprirmi una via tra

la calca irritava vieppiù il mio umore. Giacché ansiosamente ricercavo - e ne tacerò l'indegno

motivo - la giovane, allegra e bella sposa del vecchio e stravagante Duca di Broglio. Ella m'aveva

rivelato - dando prova d'eccessiva leggerezza, a dire il vero - il segreto della mascheratura che

avrebbe indossata per quella sera, così che, non appena l'ebbi vista da lungi, già ismaniavo di

raggiungerla. Ed ecco una mano posarsi lievemente sulla mia spalla, ed ecco il dannato mormorio -

potrò mai dimenticarlo? - penetrare sommesso alle mie orecchie.

Mi volsi, posseduto da un impeto di furia ed afferrai violentemente colui pel suo bavero.

Egli aveva indosso, come, del resto, m'attendevo, un costume del tutto identico al mio: un costume

snuolo in velluto azzurro, con una cintura cremisina stretta attorno alla vita, da cui pendeva una

spada. E sul viso una maschera di seta nera.

«Ribaldo!», esclamai con voce arrochita dallo sdegno, che era vieppiù aumentato da ogni

sillaba che mi lasciavo sfuggire. «Impostore! Dannato furfante! Quando finirai di seguirmi come un

cane? Vien fuori, ch'io ti passi da parte a parte, sul luogo!». E, trascinandomelo dietro, traversai la

sala delle danze e lo condussi in un gabinetto attiguo.

Entrando, gli diedi una forte spinta, accecato com'ero dall'ira, ed egli andò a battere contro il

muro nello stesso momento in cui, mentre chiudevo, con una bestemmia, la porta, gli comandavo di

mettersi in guardia. Sembrò che esitasse. Ma fu l'impressione d'un attimo. Emise un leggero sospiro,

trasse la spada fuor della guaina e obbedì all'ingiunzione.

Il duello fu assai breve, per la verità. Sovreccitato com'ero per la sfrenata esasperazione

dell'animo mio, serbavo nel braccio il vigore e la potenza di tutt'intera una folla. Lo ridussi contro

una parete, in pochi minuti e, una volta a mia discrezione, lo trafissi ripetutamente, nel petto, con

ferocia.

In quello stesso istante, qualcuno, di fuori, tentò d'aprire la porta. Per impedire un'invasione,

io m'accanii con furia crescente sul mio nemico, per finirlo. E quali parole, tuttavia, potrebbero

rappresentar la maraviglia e la paura che in quel punto s'impadronirono di me? L'istante in cui m'ero

volto a guardare istintivamente verso la porta, era stato sufficiente perché, nella stanza, si

producesse un cotale mutamento nella disposizione dei mobili. Dove un momento innanzi non v'era

se non il legno della parete, vedevo, ora, un gigantesco specchio. E come io avanzavo in preda al

terrore verso di esso, vedevo venirmi innanzi la mia immagine, pallida nel volto, lorda di sangue, ed

il suo incedere era fiacco e malfermo.

Così mi parve che fosse, ma così non era. Era Wilson, era il mio nemico che mi stava ritto

davanti, mentre agonizzava. Egli aveva buttato il suo mantello ed ecco, io vidi che non v'era un solo

filo nella trama del suo abito, non un sol tratto dei suoi lineamenti tanto caratteristici e originali che

non fosse, nel modo più assoluto, mio!

Egli era Wilson. Ma le sue parole non giunsero più al mio orecchio filtrate dal suo

agghiacciante mormorio e mentr'egli parlava, io avrei giurato di sentir parlare me stesso.

«Tu hai vinto», egli disse, «ed io cedo. Ma anche tu, fin da questo istante, sei morto morto

al Mondo, al Cielo, alla Speranza. Tu esistevi in me ed ora... ora che sono morto, guarda in

questa mia spoglia, che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso».




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