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Tesina di Latino Fedro e la "voce del silenzio" - Seneca e la schiavitù di Alaimo Cinzia



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Tesina di Latino






Fedro e la "voce del silenzio"









Seneca e la schiavitù


di

Alaimo Cinzia



FEDRO E LA FABULA


Nel panorama letterario latino Fedro è il primo ad essersi consapevolmente dedicato al genere favolistica. Nella sua opera egli dà voce ai ceti subalterni, a quelli che non hanno diritto di parola, in genere assenti dalla tradizione culturale ufficiale. Nelle fabule gli animali esprimono i pensieri e i problemi degli umili, che vedono spesso negati i propri diritti. La sua è la voce de "silenzio", una voce che seppure mediata, poiché di essa si fa interprete il poeta, acquista un particolare rilievo nella ricostruzione storico-letteraria del passato.

Dalla sua stessa opera apprendiamo che Fedro, la cui vita è da collocare tra il 20 a.C. e il 50 d.C., era probabilmente nativo della Pieria (in Tessaglia). Vive a Roma tra la fine del I secolo a.C. e l'inizio del I secolo d.C., giunto a Roma probabilmente come schiavo in giovane età, poi affrancato e divenuto liberto di Augusto. Poche notizie si hanno della sua vita, in massima parte attinta dalla sua opera. Egli si dedicò duramente l'impero di Tiberio alla scrittura di favole esotiche in versi, a causa delle quali cadde in disgrazia presso il potente ministro Seiano, che gli intentò un falso processo dal quale non riuscì mai a riabilitarsi del tutto. Dovette dunque cercare la protezione di ricchi liberti, ai quali dedicherà gli ultimi tre libri delle Favole.

Egli scrive cinque libri di Favole, che ci sono giunti incompleti, con un totale di 93 Fabulae in senari giambici. Dalla sua opera inoltre sappiamo che Fedro afferma che la servitus obnoxia, ossia la servitù esposta a tutti i pericoli, spinge a trasporre il proprio mondo interiore in favole e a schivare con ingegnose trovate le calunnie. Lamenta poi di essere stato vittima di Seiano, il potente prefetto del pretorio che rappresenta a Roma la massima autorità, esercitata in modo crudele e dispotico.


L'intento poetico di Fedro è esposto con essenzialità e chiarezza nel prologo del primo libro della sua raccolta di favole: tradurre in latino le favole di Esopo in versi senari giambici. Il lettore ne trarrà due vantaggi: sorriderà divertito e ne trarrà qualche saggio insegnamento. In effetti il genere della favola nasce in Grecia con Esopo nel VI secolo a.C. Tuttavia, prima di Fedro nella letteratura latina si erano già accostati al genere della favola anche  Lucilio e successivamente Orazio. Ma solo con Fedro la favola acquista una dimensione autonoma. Da Esopo Fedro eredita comunque la tendenza al racconto di fantasia i cui protagonisti, perlopiù animali, sono allegorie del mondo umano. In effetti le favole di Fedro sono la trasposizione allegorica della quotidianità del vivere, in cui gli animali sono assunti come simboli e maschere dei vizi e delle virtù dell'uomo. In esse la morale è in genere espressa in chiave di lettura, e può precedere (promitio) o seguire (epimitio) la narrazione. Essa fornisce insegnamenti sul modo di comportarsi ed invita alla laboriosità, alla lealtà, alla riconoscenza, alla moderazione e alla prudenza. Queste favole non sono quindi racconti per bambini, in quanto non trasportano nel mondo del fiabesco, non stimolano la fantasia o l'immaginazione, ma riflettono il mondo degli uomini.

Nelle forme simboliche della favola trova voce il mondo dei diseredati e degli emarginati, osservato dal punto di vista dei ceti subalterni, che non sono solo soggetti ai potenti, ma non nutrono neppure la speranza di potersi un giorno emancipare o di veder migliorare la propria situazione. Questa prospettiva, che impronta in sé tutto il tema della denuncia e della protesta, prende corpo in forme differenti, ma non presenta mai un progetto di cambiamento e nemmeno una proposta concreta di riforma. Una sorta di fatalismo rende tanto più amara la denuncia quanto meno consente di sperare in un futuro migliore.

Fedro, pur prendendo a modello la favola esopica, tende a dilatarne gli orizzonti con frequenti riferimenti alla sua vita privata e a vicende del suo tempo. Le fabulae o fabellae sono componimenti in genere brevi, anche se alcuni hanno una maggiore estensione, strutturati, secondo il modello esopico, con l'esplicitazione di una morale, che può precedere o seguire il racconto. Lo stile, puntuale e schietto, corrisponde perfettamente alle esigenze di una narrazione concisa, chiara e di immediata comprensione.la proprietà della lingua e l'abilità nella versificazione fanno di Fedro un abile poeta.

Per quanto riguarda le ure degli animali, ci si chiede perché gli animali sono i protagonisti delle favole? Perché l'uomo ha affidato agli animali, in ambito favolistica, il compito di esprimere un patrimonio di saggezza acquisito nel corso dei secoli? Uno dei motivi è rappresentato dalla più stretta convivenza dell'uomo antico con il mondo animale e quindi dalla maggiore conoscenza che si aveva degli animali sul piano etologico, cioè del comportamento; oggi invece queste nozioni sembrano appannaggio di una ristretta cerchia di studiosi. Nelle favole fedriane gli animali che con maggiore frequenza appaiono come protagonisti sono il lupo, la volpe, il cane e l'asino. Si tratta di quattro animali che vivono in modi diversi a stretto contatto con l'uomo. lo sfondo su cui si colloca la maggior parte delle favole è rappresentato dunque dal mondo agricolo-pastorale.

La poesia di Fedro ha comunque il merito di richiamare l'attenzione sui ceti subalterni, ponendo come oggetto letterario il mondo degli umili, e di conferire dignità letteraria alla favola, un genere sempre ritenuto di secondo ordine a causa della sua origine popolare. Egli esprime attraverso l'allegoria del mondo animale il pensiero e i sentimenti degli schiavi e dei più umili. La sua ideologia esprime più che una protesta una rassegnata consapevolezza.

LUPUS ET AGNUS

(il lupo e l'agnello)

"Superior stabat lupus, inferior agnus"


La favola del lupo e dell'agnello è la favola della denuncia della legge del più forte in termini destinati a rimanere fino ad oggi proverbiali, associando al lupo il ruolo negativo del prepotente oppressore e all'agnello quello della vittima, un'opposizione che, letta in chiave metaforica, fissa il rapporto tra umili e potenti sotto un profilo di critica e denuncia così com'è visto da Fedro.

È presente nella fabula un'insistenza sul giudizio morale, evidenziato con l'associazione al lupo di una serie di termini negativi (l'animale è infatti latro, predone; la sua gola è improba, maledetta; va in cerca dello iurgium, della lite; la morte che infligge all'agnello è ingiusta, ingiusta) e all'agnello di parole di verità (veritatis veribus).

Gli ultimi due versi della fabula compongono l'epimitio.



Allo stesso rivo il lupo e l'agnello erano venuti

spinti dalla sete; più in alto stava il lupo

molto più in basso stava l'agnello. D'un tratto

il padrone stimolato dalla sua gola maledetta tirò fuori un pretesto di lite.

"Perché" disse "mi hai intorbidito l'acqua proprio

mentre bevevo?". E il lanuto, tutto tremante, rispose:

"Come posso, di grazia, fare ciò che tu lamenti, o lupo?

È da te che scorre giù l'acqua fino alle mie labbra".



Respinto dalle forze della verità il lupo esclama:

"Sei mesi fa hai sparlato di me".

Rispose l'agnello: "ma se non ero ancora nato . ".

"Tuo padre, perdio, parlò male di me".

E così lo abbranca e lo sbrana, uccidendolo ingiustamente.

Questa favola è stata scritta per quegli uomini

che opprimono gli innocenti con false accuse.


Lucio Anneo SENECA


Seneca è la personalità di maggior rilievo dell'età neroniana: un'età ricca di fermenti intellettuali che vede la presenza, nel panorama letterario latino, di altre significative ure, quali Petronio, Lucano, Persio, la cui sorte è legata alle tristi vicende del principato di Nerone.

Il luogo d'origine della famiglia degli Annei, da cui discendeva Seneca, era Cordova, in Sna. Appartenevano alla ricca aristocrazia provinciale, di rango equestre. Già il padre, Seneca il Vecchio, si era sposato a Roma, dove si era stabilito. Il giovane Lucio, nato forse ne 4 a.C., ebbe una buona educazione retorica in vista della carriera politica. Egli segue anche con entusiasmo le lezioni di valenti maestri di filosofia verso la quale mostra un amore che lo accomna tutta la vita.

Accusato di coinvolgimento in uno scandalo a corte, nel 41 venne condannato alla relegazione dall'imperatore Claudio: destinazione scelta per l'esilio, la Corsica, che Seneca descrive come posto selvaggio e inospitale. In Corsica compone due Consolazioni, opere dove con varie argomentazioni si cercava di confortare una persona colpita da un dolore: Consolatio ad Helviam matrem, per consolare la propria madre Elvia del suo esilio, Consolatio ad Polybium, indirizzata a un potente liberto di Claudio che aveva perduto un fratello, e Consolatio ad Marciam, in cui cerca di confortare una madre per la morte del lio.

Nel 49 viene richiamato a Roma, per intercessione dell'imperatrice Agrippina, madre di Nerone, che lo scelse poi come precettore del lio. In questo ruolo di educatore, Seneca accomnerà l'ascesa al trono del giovane principe, nel 54. Ma quando Agrippina fu uccisa dal lio, Seneca si ritira dalla scena politica (nell'anno 62), dedicandosi interamente alle sue opere. A quegli anni risalgono i sette libri del De beneficiis, dedicato al problema dei "benefici", cioè l'assistenza e il generoso patronato che ci si aspetta dai potenti, i tre libri del De clementia, i sette libri delle Naturales qauestiones, i venti delle Epistulae morales ad Lucilium, e probabilmente De providentia, De costantia sapientis, De ira, De vita beata e De brevitate vitae che si trovano raccolti nei dodici libri dei Dialoghi.

La complessa personalità senecana presenta diverse anime strettamente connesse ed interrelate (il filosofo, lo scrittore, il politico, il drammaturgo, il poeta satirico, il filosofo scientifico), ma esse hanno come unico centro ispiratore la dottrina stoica.

Secondo i precetti dello stoicismo il saggio conosce e pratica la virtù, nel senso che egli, con le sue azioni, "mette in scena" la virtù: vivendo, il sapiente immette la virtù nel flusso concreto della storia e la offre agli altri uomini come esempio per l'imitazione.

I Dialoghi

I Dialoghi, o Dialogorum libri, è una raccolta di 12 libri che tuttavia non hanno carattere di "dialogo" come noi lo intendiamo, ma presentano piuttosto un carattere di esposizione vivace. Con il termine dialogus, infatti, Seneca intendeva un tipo di "conversazione", colloquio, comunicazione di contenuto morale, in un certo senso anche "predica" in senso affettuoso. Inoltre le singole opere dei Dialoghi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell'etica stoica.

Nei tre libri del De ira, opera indirizzata al fratello Novato, Seneca espone una sorta di fenomenologia delle passioni umane, analizzandone i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle. All'ira in particolar modo è dedicato il III libro.  Seneca la descrive come una vera e propria malattia, "una pazzia che sconvolge chi ne è dominato. Basta guardare in viso l'iracondo per rendersene conto: volto minaccioso, occhi fiammeggianti, capelli rizzati, respiro agitato". Il De ira fu scritto da Seneca quando era ancora vivo il ricordo dell'imperatore Caligola, famoso per la sua iracondia, menzionato nell'opera come esempio di folle ira.

Agli ultimi anni dovrebbe appartenere il De providentia, dedicato al Lucilio delle Epistulae, che affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane (in polemica con la tesi epicurea dell'indifferenza divina) e la sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta di Seneca è che le avversità che colpiscono chi non le merita non contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestano la volontà divina di mettere alla prova i buoni ed esercitarne le virtù; come il fuoco prova la bontà dell'oro, così le disgrazie mostrano quanto il sapiens sia virtuoso e forte, "Ignis aurum probat, niseria fortes".

In De costantia sapientis si svolge uno dei motivi più cari a Seneca: quello della ura del saggio, del quale viene esaltata la forza e l'imperturbabilità interiore di fronte alle ingiurie e alle avversità. "Come una roccia invincibile, i suoi beni sono cinti da difese solide. A quella fortezza non possono essere paragonate le mura di Babilonia che Alessandro riuscì ad abbattere, o alle mura di Cartagine distrutte da un incendio, e neppure alla rocca del Campidoglio presa dai Galli. Le difese che proteggono il saggio sono sicure da assalti e incendi, sono inespugnabili".

Il De vitae beata affronta il problema della felicità e del ruolo che nella ricerca di essa possono avere gli agi e le ricchezze. Posto che l'essenza della felicità è nella virtù, e non nella ricchezza e nei piaceri, Seneca legittima tuttavia l'uso della ricchezza se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù.

Il tema del De brevitate vitae  è il problema del tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità di una vita che tale ci sembra perché non ne sappiamo afferrare l'essenza, disperdendola in tante occupazioni futili senza averne piena consapevolezza. Infatti la vita che ci è data non è breve, ma siamo noi che la sciupiamo. Egli paragona la vita ad un patrimonio; se questo è affidato ad un cattivo padrone in poco tempo si sciupa, se invece è nelle mani di un bravo amministratore si accresce.

Le Consolationes

Un posto a parte occupano le tre consolationes. Il genere della consolazione si costituisce su un repertorio di temi morali, come la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell'uomo, attorno ai quali ruota gran parte della riflessione filosofica di Seneca.

La Consolatio ad Helviam matrem è stata scritta da Seneca durante il suo esilio per consolare la madre Elvia per la sua assenza a causa dell'esilio.

La Consolatio ad Polybium è scritta da Seneca per consolare il potente liberto di Claudio della perdita di un fratello, ma indirettamente si rivela un'adulazione all'imperatore per ottenere il ritorno a Roma. Questa sarà l'opera che più è costata a Seneca l'accusa di opportunismo.

Infine la Consolatio ad Marciam è indirizzata alla lia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della morte del lio.


Le opere etico-politiche

L'ideale del sapiente impegnato, interessato alla società e responsabile del benessere comune, informa altre opere importante, tra cui il De beneficiis, in 7 libri, che tratta degli atti di beneficenza e filantropia, e del legame di riconoscenza che questi atti costituiscono tra benefattore e beneficato, dei doveri della gratitudine, delle conseguenze che colpiscono gli ingrati. Come si capisce, il De beneficiis è un'opera dove la morale individuale è chiamata a un forte impatto sociale: la rete delle clientele create dal beneficio era, da sempre, uno dei meccanismi fondamentali della società e della vita politica romana. Egli afferma che c'è una legge che regola il beneficio: chi lo fa deve subito dimenticarsene, chi lo riceve deve invece ricordarsene. Inoltre egli mette in evidenza anche la falsa vita di corte, che egli stesso conosceva bene: lì i benefici sono tutti ipocriti ed interessati, dominati dalla adulandi certamen (gara dell'adulare i più potenti). Seneca sta però solo cercando di definire una pratica che deve diventare soccorso a che ha bisogno, e creare uno stato di ordina e relativa giustizia: i ricchi devono aiutare chi è in condizioni più modeste. Ma egli non parla della classe plebea, cioè dei nostri "proletari": il suo interesse si limita a ceti relativamente benestanti, che invita a un mutuo soccorso in modo da creare uno scambio tra i ricchissimi, i ricchi e la classe di mezzo, diffondendo ordine controllo e stabilità sociale.

Il De clementia è un opera, in 3 libri, rivolto a Nerone e scritto nei primi anni del suo impero con l'obiettivo di plasmare l'animo del suo discepolo. Seneca infatti in quest'opera non mette in discussione la legittimità istituzionale del principato, né le forme apertamente monarchiche che esso ha ormai assunto; il potere unico era infatti il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal logos, della ragione universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita. Il problema, piuttosto, è quello di avere un buon sovrano; e, in un regime di potere assoluto, prive di forme di controllo esterno, l'unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà trattenere dal governare in modo tirannico. La clemenza (che non si identifica con la misericordia o la generosità gratuita, ma esprime un generale atteggiamento di filantropica benevolenza) è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi: con essa, e non incutendo timore, egli dovrà ottenere da loro consenso, dedizione ed obbedienza, da cui trarre la stabilità di uno stato.




L'opera filosofica

L'opera Epistulae ad Lucilium è una raccolta di 124 lettere divise in 20 libri, dedicate all'amico Gaio Lucilio, il quale si trova lontano da Seneca, in Sicilia, dove è stato inviato come autorevole funzionario imperiale.

Seneca mette in campo, in queste Lettere , tutta una complessa scenografia tipica della scrittura epistolare antica: il loro, dice il filosofo stesso, è un colloquio tra amici, una scuola di due che si scambiano impressioni e opinioni per migliorarsi; sono lontani, ma devono sentirsi vicini "nel loro animo". Seneca è un maestro che non si rappresenta perfetto, e si dice ancora pieno di colpe da sanare, ma è più avanti dell'amico sulla strada verso la saggezza. Nelle Lettere, infatti, Lucio comunica a Seneca le proprie difficoltà , e chiede consiglio su come comportarsi, ottenendo risposta ai suoi dubbi. Così le Lettere raccontano spesso aneddoti, incontri, momenti di vita che il filosofo commenta per trarne un insegnamento, un incentivo a migliorarsi; quei fatti reali sono occasione di riflessioni che spaziano verso l'universale, le grandi questioni della vita e della morte. Ogni evento è buono perché Seneca vi scorga simboli di una condizione umana, e voglia comunicare la sua intuizione a Lucilio. La raccolta delle Epistulae riporta solo le lettere inviate da Seneca in risposta a Lucilio; ma Seneca riesce comunque a comunicare l'impressione di un dialogo vivace.

Seneca in tutte le sue Lettere cerca il sommum bonum, cioè il sommo bene che ci avvicina alla perfezione di Dio. Egli si chiede dove possa trovarsi: "Non sarà il denaro che ti potrà rendere uguale a Dio, non sarà la toga praetesta, non sarà la reputazione, non tutti gli schiavi che ti portano sulla lettiga. Nessuno di questi beni infatti resiste al tempo. Bisogna invece cercare qualcosa che non si deteriori giorno dopo giorno: questo bene è l'animo retto, buono, grande. Questo animo è un dio ospitato in un corpo umano. Un animo così può cadere in un cavaliere romano come in un liberto. Infatti chi sono il cavaliere, il liberto, lo schiavo? Semplici nomi nati dall'orgoglio o dall'ingiustizia" (31° epistola). Per Seneca inoltre non ci sono distinzioni sociali né categorie o classi: "l'uomo è solo e sempre cosa sacra per ogni altro uomo, Homo, sacre res homini" (95° epistola). Gli stessi schiavi che lo stesso diritto romano considerava come res hanno pari dignità degli altri. Infatti egli dirà "Servi sunt, immo homines, sono servi, dunque uomini. Lo schiavo è nato dai medesimi seni da cui sei nato tu, fruisce del medesimo tuo cielo, respira, vive, muore, proprio come te. Tu lo puoi vedere libero, come lui può vedere schiavo te" (47° epistola).

Il modello di Seneca, nelle Epistulae ad Lucilium, è Epicureo. Le lettere erano per Epicureo l'unico modo di continuare a seguire e consigliare amici e discepoli spesso lontani.

Infatti Seneca, nonostante si dica stoico, non ha paura di richiamarsi a quello che degli stoici era stato il più grande e temibile avversario. La sua dottrina filosofica prende spunto da diverse dottrine, laddove egli trova qualcosa che ritiene giusto lo fa suo.  Egli dice "si può disputare con Socrate, dubitare con Carneade, acquietarsi con Epicureo, vincere la natura umana con gli stoici, oltrepassarla con i cinici" (De brevitate vitae). Il suo pensiero filosofico, nel suo complesso, è rivolto più ai posteri che ai contemporanei: egli guarda alla posterità nella speranza di darle consiglio e aiuto. Seneca confessa e mette a nudo le sue debolezze cercando di essere utile agli altri con la sua esperienza pratica. La sua filosofia è sempre agganciata alla vita, e nasce proprio dall'osservazione della vita stessa e degli uomini.


L'opera geografico-scientifica

L'opera Naturales quaestiones è per Seneca l'occasione di enunciare i suoi studi approfonditi sulle scienze naturali. Nell'opera, suddivisa in 7 libri, anch'essa dedicata a Lucilio, egli elabora trattati su fenomeni naturali e celesti quali temporali, terremoti, comete, frutto di anni di lavoro. Egli ritiene importante la conoscenza di questi fenomeni perché essi ci avvicinano alla conoscenza di Dio. Ma nonostante il contenuto prettamente scientifico e naturalistico, l'opera non risulta priva di spunti morali.


La satira

Un'opera davvero singolare, nel panorama della vasta produzione senecana, è il Laudus de morte Plaudii, o Divi Plaudii apotheosis per saturam. Il titolo con cui l'opera va comunemente conosciuta è Apocolocyntosis, termine greco che significa forse "inzuccamento", "trasformazione in zucca" del Divo Claudio. L'operetta s contiene infatti la parodia della divinizzazione di Claudio. Dopo morte, avvenuta nel 54 d.C., Claudio, così narra Seneca, pretenderebbe di essere assunto in cielo e si presenta all'Olimpo, dove gli dei, uniti per parodia come nel Senato romano, lo condannano invece a discendere agli inferi, dove sarà condannato per l'eternità a giocare a dadi con un liberto, gioco amato in vita dall'imperatore.

L'argomento deriva dal risentimento ancora vivo di Seneca nei confronti di Claudio, il quale lo mandò in esilio; per tale ragione mette in evidenza in maniera ridicola la bruttezza e i difetti fisici, le malattie, nonché la sua incapacità di reggere Roma dell'imperatore.   

L'opera è l'unica satira menippea conservata per intero, e alterna perciò prosa e versi di vario tipo, in una singolare fusione linguistica che presenta coloriture colloquiali e beffarde incursioni nel lessico volgare. In quest'operetta il fantastico e il reale, il ridicolo e il patetico, il serio e il grottesco si uniscono in una satira che supera ogni genere tradizionale.

Epistulae morales ad Lucilium 47, 1-5

SERVI SUNT, IMMO HOMINES

(sono servi, dunque uomini)


Nell'epistola 47 Seneca affronta il problema dell'uomo in relazione ai concetti di uguaglianza e libertà, esponendo il suo pensiero sulla schiavitù.

Ma non si affronta tale problema dal punto di vista storico; si parla piuttosto del trattamento degli schiavi.

Seneca prende l'avvio da un fatto reale: ha saputo che Lucilio, invece che punire duramente uno schiavo, si è limitato a rimproverarlo. Questo gli da spunto per un intervento più generale: egli dimostra che la crudeltà dei padroni verso i suoi servi non a; solo con un atteggiamento moderato e un attento paternalismo si potrà evitare di trasformare in pericolosi nemici quelli che possono fornire il loro lavoro in uno spirito di amicizia, o almeno senza odiare.


Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere:

hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. "Servi sunt." Immo homines.

"Servi sunt". Immo contubernales. "Servi sunt." Immo humiles amici. "Servi

sunt." Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae.

Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia

superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam

circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum

ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam

ingessit.

At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet;

virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta

sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum



silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant.

Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi

quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os

non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum

imminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis

tacebant.

Deinde eiusdem arrogantiae proverbium iactatur, totidem hostes esse quot

servos: non habemus illos hostes sed facimus. Alia interim crudelia, inumana

praetereo, quod ne tamquam hominibus quidem sed tamquam iumentis

abutimur.



Traduzione:

Con piacere ho sentito da quelli che mi giungono da casa tua che vivi

familiarmente i tuoi servi: questo si addice alla tua saggezza e alla tua finezza.

'Sono schiavi.' Dunque uomini. 'Sono schiavi'. Dunque coinquilini. 'Sono

schiavi'. Dunque anche umili amici. 'Sono schiavi.' Dunque comni di

schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su entrambi.

Perciò rido di chi giudica disonorevole pranzare col del proprio schiavo: per

quale motivo se non perché è una consuetudine dettata dalla piú superba

arroganza, impone intorno al padrone che cena una folla di servi in piedi? Egli,

il padrone, mangia più di quanto gli sta in corpo, e con grande avidità riempie il

ventre teso, ormai disabituato alle proprie funzioni, al punto che rigetta tutto

con maggior fatica di quanta ci ha messo a ingurgitare.

E intanto a questi disgraziati schiavi non è permesso neppure muovere le

labbra per parlare. Ogni bisbiglio è represso con la frusta e non sfuggono alle

percosse neppure i rumori involontari, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo:

l'interruzione del silenzio dovuta ad una parola si sconta con grave punizione;

devono stare tutta la notte in piedi digiuni ed in silenzio.

Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne

parlino male. Invece quei servi di una volta, che potevano parlare non solo in

presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la

bocca cucita, erano pronti a offrire la testa al carnefice al suo posto, e ad

attirare sul proprio capo un pericolo su lui incombente: parlavano durante i

banchetti, ma sapevano tacere sotto tortura.

Si ripete perciò un detto, frutto della medesima arroganza, che il numero dei

nemici è uguale a quello degli schiavi: essi non sarebbero nostri nemici, ma noi

li rendiamo tali. E lascio perdere altri casi di crudeltà e disumanità, per esempio

che abusiamo di loro non come uomini, ma come bestie.

Il contesto storico-culturale:  schiavi, liberti e clientes


Nelle culture antiche la schiavitù era considerata una condizione "naturale". Giuridicamente, uno schiavo era un "oggetto di proprietà", come un qualsiasi bene mobile, mentre un uomo libero era un "soggetto giuridico".

Nella società romana vi erano quattro situazioni per cui una persona poteva cadere in schiavitù e, da libero, diventare totalmente dipendente da un'altra: per nascita (servis ex ancilla), per debiti, per essere stato fatto prigioniero di guerra, e per scelta, facendosi vendere da un mercante di schiavi e ottenere così per sé una parte della somma. Gli schiavi di vendita erano posti su un palco girevole con al collo un titulus, un sectiunello con tutte le indicazioni utili al compratore (nome, paese di provenienza, doti fisiche e intellettuali, particolari abilità, eventuali difetti).

Agli inizi della storia di Roma la vita degli schiavi era inumana: infatti, essi non potevano possedere nulla, non potevano opporsi ad eventuali soprusi del padrone, non potevano sposarsi e nel caso si macchiassero di gravi colpe (furto, fuga, ribellione ecc.) erano previste severe e spesso atroci punizioni fino alla condanna a morte.

Successivamente, il trattamento degli schiavi migliorò, almeno in parte: essi potevano, per esempio, essere affrancati dal padrone o accumulare risparmi fino a raggiungere la somma necessaria per il riscatto e divenire così liberti, cittadini liberi. Potevano anche sposare una donna scelta fra le schiave.

All'interno della società romana i liberti compirono un'ascesa politica lenta, ma inesorabile. Essi si qualificarono un presto come un ceto di affaristi e speculatori: gestendo il patrimonio dei loro ex padroni, infatti, trovarono spesso il modo di accumulare ingenti fortune e arrivarono a ricoprire anche importanti cariche politiche alla corte imperiale e ruoli di grande responsabilità nella gestione del potere statale.

La società romana contemplava anche la ura del cliens, cliente, un uomo libero che si affidava a un altro (il patronus) e ne riceveva in cambio la protezione, che andava dal vitto ordinario a qualche invito a cena, fino all'assistenza giuridica in tribunale. In cambio egli aiutava il patronus nella vita privata e pubblica, mostrandogli subordinazione e rispetto. I clientes accomnavano spesso al foro il loro patronus, sbrigavano per lui le pratiche burocratiche, si occupavano talvolta dei suoi interessi economiche, soprattutto, organizzavano per lui la proanda elettorale se egli si presentava candidato alle elezioni politiche.



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