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Ugo Foscolo: le odi e i sonetti - All'amica risanata, Alla sera, In morte del fratello Giovanni

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Ugo Foscolo cominciò a scrivere sin da ragazzo odi, sonetti, canzoni e altre composizioni di vario metro, pubblicando nel 1803 le Poesie.

Esse comprendevano due odi risalenti al periodo della scrittura delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, omaggio galante e settecentesco alla bella donna, All'amica risanata, discorso filosofico sulla bellezza ideale e sulla funzione esternatrice della poesia che canta la bellezza (culto foscoliano della bellezza) e dodici sonetti.

I sonetti invece, vicini alla materia autobiografica riprendono i temi dell'Ortis, da cui le odi si discostano, e di matrice alfieriana, sono ricchi di reminescenze di Tetrarca e altri poeti latini.



I temi delle odi sono:

Conflitto con il "reo tempo" presente;

Il "nulla eterno" come unica alternativa;

Illusione della sepoltura lacrimata,

Proiezione del poeta in una ura eroica sventurata e tormentata;

Valore eternatore della poesia;

Rapporto con la terra materna e con il mito antico;

Nichilismo.



Riporto di seguito le parafrasi dell'ode All'amica risanata e dei due sonetti Alla sera e In morte del fratello Giovanni.


All'amica risanata

L'ode è del 1802. E' dedicata alla donna amata, Antonietta Fagnani Arese, che è guarita da una malattia e si appresta a rientrare in società. Le strofe sono formate da cinque settenari, alternativamente piani e sdruccioli, a cui segue un endecasillabo che rima col settenario precedente (schema metrico: abacdD)


Qual dagli antri marini

L'astro più caro a venere

Co' rugiadosi crini

Fra le fuggenti tenebre

Appare, e il suo viaggio

Orna col lume dell'eterno raggio;


sorgon così tue dive

membra dall'egro talamo,

e in te beltà rivive,

l'aurea beltate ond'ebbero

ristoro unico a' mali

le nate a vaneggiar menti mortali.


Fiorir sul caro viso

Veggo la rosa, tornano

I grandi occhi al sorriso

Insidiando, e vegliano

Per te in novelli pianti

Trepide madri, e sospettose amanti.



Le Ore che dianzi meste

Ministre eran de' farmaci,

oggi l'indica veste

e i monili cui gemmano

efiati Dei

inclito studio di scalpelli achei,


e i candidi coturni

e gli amuleti recano,

onde a' cori notturni

te, Dea, mirando obliano

i garzoni le danze,ùte principio d'affanni e di speranze:


o quando l'arpa adorni

e co' novelli numeri

e coì' molli contorni

delle forme che facile

bisso seconda, e intanto

fra il basso sospirar vola il tuo canto


più periglioso, o quando

nalli disegni, e l'agile

corpo all'aure fidando,

ignoti vezzi sfuggono

dai manti, e dal negletto

velo scomposto sul sommosso petto.


All'agitarti, lente

Cascan le trecce, nitide

Per ambrosia recente,

mal fide all'aureo pettine

e alla rosea ghirlanda

che or con l'alma salute Aprile ti manda.


Così ancelle d'Amore

A te d'intorno volano

Invidiate l'Ore.

Meste le Grazie mirino

Chi beltà fugace

Ti membra, e il giorno dell'eterna pace.


Mortale guidatrice

D'oceanine vergini,

la parrasia pendice

tenea la casta Artemide,

e fea terror di cervi

lunghi fischiar d'arco cidonio i nervi.


Lei predicò la fama

Olimpia prole; pavido

Diana il mondo la chiama,

e le sacrò l'elisio

soglio, ed il certo telo,

e i monti, e il carro della luna in cielo.


Are così a Bellona,

un tempo invitta amazzone,

die' il vocale Elicona;

ella il cimiero e l'egida

or contro l'Anglia avara

e le cavalle e il furor prepara.


E quella a cui di sacro

Mirto te veggo cingere

Devota il simulacro,

che presiede marmoreo

gli arcani tuoi lari

ove a me sol sacerdotessa appari,


regina fu, Citera

e Cipro ove perpetua

odora primavera

regnò beata, e l'isole

che col selvoso dorso

rompono agli euri e al grnade Ionio il corso.


Ebbi in quel mar la culla,

ivi erra ignudo spirito

di Faon la fanciulla,

e se il notturno zeffiro

blando sui flutti spira,

suonano i liti un lamentar di lira:


ond'io, pien del nativo

aer sacro, su l'itala

grave cetra derivo

per te le corde eolie,

e avrai divina i voti

fra gli inni delle insubri nipoti.


PARAFRASI

Così come dagli abissi marini appare la stella cara a Venere con i suoi raggi simili a chiome stillanti di rugiada tra le tenebre che fuggono e adorna il suo percorso nel cielo con la luce solare, le tue divine membra sorgono dal letto dove giacesti malata, e in te ritorna a vivere la bellezza, la splendida bellezza dalla quale le menti dei mortali, inclini per natura a perdersi in vane follie, ebbero l'unico conforto ai loro mali.

Vedo il tuo viso tornare a riprendere il colorito roseo della salute, i tuoi occhi tornano ad illuminarsi riacquistando il loro fascino sugli uomini; e le madri trepidanti, insieme alle amanti timorose di perdere i propri uomini, tornano a restare nuovamente sveglie a piangere.

Le ore della giornata cghe prima, durante la malattia, ti somministravano tristi la medicina, oggi ti porgono la veste di seta, i monili adorni di cammei su cui sono efiate divinità classiche, opera preziosa di artisti greci, le bianche scarpette da ballo e altri ornamenti, a causa dei quali nelle feste notturne i giovani, contemdo te, causa del loro affanno e delle loro speranze di amore, dimenticano le danze; sia quando suoni l'arpa con nuove armonie e con il morbido contorno delle tue forme che il bisso aderente asseconda, e nel frattempo il tuo canto si eleva più pericoloso tra il sommesso sospirare dei giovani presenti; sia quando danzi disegni ure con le membra, e abbandoni all'aria il tuo agile corpo, sfuggono dalla veste e dal velo scomposto sul petto ansimante, bellezze nascoste.

Mentre ti muovi, le trecce allentate cadono, lucenti a causa degli unguenti spalmati di recente, mal tenute dal pettine dorato e dalla ghirlanda di rose che aprile ti dona insieme alla salute che dà vita.

Così le Ore, ancelle d'amore, volano intorno a te invidiate dai giovani che non possono averti. E le grazie guardino con rimprovero chi ti ricorda della fugacità della bellezza e della morte.

La pendice del monte Parrasio fu casa della pura Artemide, donna mortale guidatrice delle ninfe oceanine e che col suo arco cidonio terrorizzava i cervi. La fama la proclamò lia di giove; impauriti gli umani la chiamano Dea, e le consacrarono l'oltretomba, le frecce infallibili, i monti e la luna.

Così a Bellona, un tempo amazzone invincibile, il canto dei poeti consacrò altari; ella ora prepara l'elmo, lo scudo, i cavalli e il furore contro l'avara Inghilterra.

E colei, della quale ti vedo cingere con il sacro mirto la statua, che domina marmorea le tue stanze più interne dove a me sola concedi il tuo amore, fu regina e regnò beata su colera e Cipro, dove profuma eternamente la primavera, e sulle isole Ionie, che con i loro dorsali montuosi coperti di selve rompono il corso alle onde e ai venti del mar Ionio.

Nacqui a Zacinto, in quel mare dove erra lo spirito di Saffo, e se lo zeffiro notturno soffia dolcemente sulle acque marine, le rive risuonano del lamento della sua lira: per cui io, ispirato dall'aria della terra natale, sacra per il ricordo che essa conserva della civiltà greca, traspongo la musicalità della poesia eolica nei metri più gravi della poesia italiana, e sarai venerata e invocata col canto dei miei inni dalle fanciulle lombarde dei secolo futuri.






Alla sera

Composto probabilmente tra l'agosto del 1802 e l'aprile del 1803, il sonetto fu collocato dal Foscolo in apertura della raccolta delle sue Poesie.


Forse perché della fatal quiete

Tu sei l'immago a me sì cara vieni

O sera! E quando ti corteggian liete

Le nubi estive e i zeffiri sereni,


e quando dal nevoso aere inquiete

tenebre e lunghe all'universo meni

sempre scendi invocata, e le secrete

vie del mio cor soavemente tieni.


Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme

Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge

Questo reo tempo, e van con lui le torme


Delle cure onde meco egli si strugge;

e mentre io guardo la tua pace, dorme

quello spirito guerrier ch'entro mi rugge.



PARAFRASI

Forse perché sei l'immagine della morte giungi a me così cara, o sera! E scendi sempre da me invocata e raggiungi soavemente le zone più segrete del mio cuore, sia quando ti accomnano liete le nubi estive ed i venti tiepidi che rasserenano il cielo, sia quando dall'aria nevosa protendi all'universo tenebre lunghe ed inquiete.

Fai vagare i miei pensieri facendoli giungere all'idea di morte; e mentre mi abbandono al pensiero della morte, ge questo presente, e con lui la folla degli affanni che me con esso strugge; e mentre contemplo la tua pace, trova pace anche il mio animo ribelle.






In morte del fratello Giovanni

Il sonetto fu scritto nel 1802. Il fratello Giovanni Dionigi, tenente dell'esercito cisalpino, si era ucciso per debiti di gioco all'età di vent'anni, l'8 dicembre 1801.



Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo

Di gente in gente, mi vedrai seduto

Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo

Il fior de' tuoi gentili anni caduto.


La madre or sol, suo dì tardo traendo,

parla di me col tuo cenere muto:

ma io deluse a voi le palme tendo;

e che se da lunge i miei tetti saluto,


sento gli avversi Numi, e le secrete

cure che al viver tuo furon tempesta,

e prego anch'io nel tuo porto quiete.


Questo di tanta speme oggi mi resta!

Straniere genti, l'ossa mia rendete

Al petto della madre mesta.





PARAFRASI

Un giorno, se io non andrò sempre spostandomi in esilio, mi vedrai seduto sulla tua tomba, o mio fratello, a piangere la tua gentile giovinezza troncata nel suo fiorire dalla morte.

Ora solo la madre, trascinando la propria vecchiaia, parla di me alla tua cenere muta. Ma io a voi tendo le braccia deluse; e se già saluto da lontano la mia casa, sento gli dei nemici che mi respingono indietro, e i segreti tormenti che sconvolsero la tua vita spingendoti al suicidio, e invoco anche io la pace della morte.

Fra tante speranze questa sola mi resta! Gente straniera, rendete le mie spoglie alle braccia dell' addolorata madre.





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