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RELATIVITA - Galileo, Sistemi di riferimento inerziali, Le trasformazioni di Galileo, Newton, Maxwel, Luce ed etere, Lorentz

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RELATIVITA'


Introduzione

Glileo

1) Sistemi di riferimento inerziali



2) Le trasformazioni di Galileo

Newton

1)Gravitazione universale

2)Meccanica celeste

Maxwel

1) Fenomeni elettromagnetici

2) Le equazioni di Maxwel

Luce ed etere

Misheison e Morganz

Lorentz

I postulati

1) Articolo di Einstein sul principio di relatività

La simulataneità

Spazio e tempo

Velocità

Luce come costante

Dilatazione tempi

Contrazioni lunghezze

Paradosso gemelli

Massa-velocità

1) Verifica sperimentale della variazione della massa con la velocità

Metrica di Minkowski

Massa= energia!

1) Verifiche sperimentali sulla relazione massa-energia

2) Produzione di energia nel Sole e stelle

Effetto Doppler

Bibliografia


Introduzione


Anche se la scienza si evolve secondo un processo continuo e regolare, non è impossibile individuare dei periodi storici ben precisi, caratterizzati da rilevanti scoperte sperimentali e da nuove idee teoriche. Una di queste svolte decisive si ebbe nel 1600 circa ed è legata al nome di Galileo che, mediante le sue ricerche sulla meccanica, pose le fondamenta del metodo empirico e diede una prova convincente del sistema copernicano dell'universo, enunciato cinquant'anni prima. Ciò segnò la fine della filosofia scolastica della natura basata sull'insegnamento di Aristotele e l'inizio della scienza moderna.

Per quanto riguarda la relatività, invece, non è altrettanto facile riferirsi a un solo nome o a una singola data: verso il 1900 parecchi grandi matematici e fisici, Larmor, Fitzgerald, Lorentz, Poincaré, per ricordarne solo alcuni, avevano intuito molti dei suoi contenuti principali. Nel 1905 Albert Einstein fondò la teoria su principi molto generali di carattere filosofico, e pochi anni dopo Hermann Mimkowski ne diede un'espressione conclusiva dal punto di vista logico e matematico. La ragione per cui di solito soltanto il nome di Einstein è legato alla relatività è che il suo lavoro del 1905 non rappresentò che il punto di partenza per l'ancor più fondamentale 'relatività generale', nella quale egli enunciava una nuova teoria della gravitazione e apriva nuove prospettive alla comprensione della struttura dell'universo.

La teoria della relatività speciale del 1905 può a ugual diritto essere considerata la fine del periodo classico o l'inizio di una nuova era. Essa infatti, se utilizza le idee classiche sulla distribuzione continua della materia nello spazio e nel tempo e sull'aspetto causale, o meglio deterministico, delle leggi naturali, nello stesso tempo introduce una concezione completamente nuova dello spazio e del tempo, criticando risolutamente i concetti tradizionali formulati da Newton. In questa nuova prospettiva nel considerare i fenomeni naturali è l'apporto più significativo di Einstein, ciò che distingue la sua opera da quella dei suoi predecessori e la scienza moderna dalla scienza classica.

Si tende a rendere oggettivo qualsiasi tipo di osservazione e ad eseguire delle misure per quanto possibile indipendenti dal singolo sperimentatore. In questo senso è possibile, per esempio, parlare di un campo elettromagnetico; non perché esso sia direttamente accessibile ad alcun nostro senso, ma perché siamo in grado d'eseguire delle osservazioni su certe grandezze meccaniche che risentono delle sue azioni.

Un'altra caratteristica generale del pensiero scientifico è nell'evidenza data all'aspetto relativo dei fenomeni. Un esempio famoso in tal senso è connesso con la scoperta della forma sferica della terra: finché la terra era considerata un disco appiattito, la direzione verticale in un punto era in un certo senso assoluta. Ora, essa diventava la direzione verso il centro del globo ed era quindi definita solo rispetto alla posizione dell'osservatore. Problemi estremamente generali come il carattere assoluto di una direzione o di un punto nello spazio o di un istante nel tempo, trovarono una prima risposta nell'ambito scientifico nei famosi assiomi di Newton. Il loro enunciato non lascia alcun dubbio che tale risposta dovesse essere positiva. Ma le sue equazioni del moto non sono del tutto compatibili con questa posizione: esse dimostrano che sistemi di riferimento in moto relativo, possono ciascuno a ugual diritto essere considerati a riposo. Lo spazio di Newton è assoluto solo in un senso limitato; d'altra parte, nuove e più severe difficoltà dovevano sorgere in seguito, alla luce di ulteriori ricerche, specialmente in elettromagnetismo e in ottica.

Einstein superò questa difficoltà partendo da una completa revisione dei vecchi concetti di spazio e di tempo, che giudicava assolutamente inadeguati. Ai principi già accettati sul carattere oggettivo e relativo della realtà, egli ne aggiunse un altro, di cui per primo seppe cogliere l'estrema portata logico-critica nell'ambito della ricerca scientifica. Questo principio, già noto per esempio al fisico e filosofo Ernst Mach che esercitò una grande influenza sul pensiero di Einstein, afferma che nessun concetto e nessuna affermazione che non siano suscettibili di verifica sperimentale devono trovar posto in una teoria fisica. In questo senso egli affermò che il concetto di simultaneità di due eventi in punti diversi dello spazio, non è una nozione verificabile. Questa idea lo portò a formulare, nel 1905, nuove proprietà peculiari dello spazio e del tempo. Circa dieci anni dopo, introducendo lo stesso principio nello studio del moto dei corpi soggetti a un campo gravitazionale, fu portato a enunciare la sua teoria della relatività generale.

Questo principio per cui tutte le grandezze non osservabili sono eliminate dalla fisica, fu oggetto di varie dispute filosofiche; si disse che apparteneva all'ambito della filosofia positivista, di cui Mach era convinto assertore. Ma il positivismo definendo pura costruzione mentale tutto ciò che non è oggetto di immediata percezione sensoriale, cui soltanto riconosce un carattere di realtà, porta a un fondamentale scetticismo nei confronti dell'esistenza di una realtà esterna a noi. Niente fu più lontano dalle convinzioni di Einstein, che negli ultimi anni dichiarò esplicitamente la sua opposizione a questa filosofia.

Si potrebbe pensare che questo metodo, così fecondo di risultati nell'opera di Einstein, non sia che un criterio euristico per cercare di salvare quelle parti della teoria classica che si erano rivelate meno in accordo con la realtà empirica. In realtà esso è diventato di fondamentale importanza in fisica per lo sviluppo della ricerca, specie nell'àmbito della teoria dei quanti; in questo senso veramente l'opera di Einstein si colloca al culmine della teoria classica e all'inizio di un nuovo periodo della fisica.'

Introduzione tratta da La sintesi einsteiniana di Max Born. Torino, Boringhieri, 1969.


Galileo


Un passo fondamentale della relatività einsteiniana fu la ripresa del Principio di relatività galileiana, mostratoci dallo stesso Galileo con un semplice esempio. Nel 'Dialogo dei massimi sistemi', pubblicato a Firenze nel 1632, Galileo fa infatti proporre a Salviati un esperimento per dimostrare che, nella stiva di una nave, i fenomeni appaiono identici sia che la nave sia ferma, sia che essa si muova a velocità costante:

'Rinserratevi nella maggiore stanza che sia sotto coperta di alcun gran navilio, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d'acqua, e dentrovi dei pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello che a goccia a goccia vadia versando del'acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quegli animaletti volanti con pari velocità vadano verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre 'l vassello sta fermo non debbano succedere così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità, ché (purché il moto sia uniforme e non fluttuante) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina oppure sta ferma'

Possiamo quindi enunciare nel modo seguente il Principio di relatività di Galileo: i fenomeni meccanici si svolgono con leggi dello stesso tipo in due distinti sistemi di riferimento in moto rettilineo uniforme tra loro.

La formulazione galileiana segna l'ingresso nella fisica moderna del concetto di relatività: 'E' impossibile mettere in evidenza il moto assoluto di un oggetto e si può solamente parlare di velocità relativa di due oggetti'. Il principio di relatività è verificabile nella vita di tutti i giorni; seduti nello stimento di un treno che sta partendo dalla stazione, con un altro treno a fianco, facciamo fatica a capire se ci stiamo muovendo noi o l'altro treno. La relatività galileiana continua a essere usata con successo per trattare i fenomeni non relativistici, ossia quelli che si svolgono con velocità molto inferiori a quella della luce (c=299.792,458 km/s). A velocità prossime a c - dette relativistiche - essa si rivela invalida e occorre usare la relatività einsteiniana


Sistemi di riferimento inerziali:

E' necessario, ora, fare una precisazione sui sistemi di riferimento.
Nell'esempio precedente avrete sicuramente notato che Galileo insiste nel dire che la velocità della nave doveva essere costante e il mare tranquillo. Ciò è importante, perché il principio di relatività non è valido per i sistemi di riferimento che si muovono in un modo qualunque, ma vale solo per i sistemi animati di moto rettilineo uniforme rispetto ad un sistema di riferimento, i cui orientamenti possono considerarsi fissi nel tempo. Tale sistema viene chiamato sistema inerziale. Il termine è giustificato dal fatto che egli si può definire come quel sistema in cui è valida la legge d'inerzia*.
Alla domanda circa l'effettiva esistenza di un sistema inerziale non è facile rispondere; in certi casi, e con buona approssimazione, possiamo considerare la Terra sistema inerziale. E' importante comprendere che, se un siffatto sistema esiste, ogni altro riferimento in moto rettilineo uniforme rispetto ad esso è ancora un sistema inerziale.
Inoltre, per la descrizione matematica dei fenomeni fisici, si usa spesso associare al corpo di riferimento un sistema di assi sectiunesiani ortogonali di tre assi. Un'idea concreta di un sistema di assi sectiunesiani ortogonali ce la possono dare i tre spigoli di una stanza che si incontrano in uno stesso punto.I tre spigoli vengono solitamente contrassegnati con le lettere x, y, z. E' intuitivo che per individuare la posizione di un corpo rispetto alla stanza, bisogna specificare la sua distanza da due pareti e inoltre dare l'altezza rispetto al pavimento. Queste tre distanze possono essere misurate lungo gli spigoli e i tre numeri che esprimono i valori cosi determinati si dicono 'coordinate' del corpo. (A rigor di termini il discorso fatto vale solo quando il corpo è puntiforme, ossia se le sue dimensioni sono trascurabili; se il corpo ha invece una certa estensione, allora bisogna considerare le coordinate dei suoi vari punti). Una volta che siamo in grado di stabilire la posizione di un corpo nel sistema di riferimento, siamo anche in grado di descriverne il moto specificando tutte le posizioni occupate successivamente nel tempo.
Come abbiamo visto, il principio di relatività afferma che le leggi fisiche sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Però che le leggi fisiche siano le stesse non significa che i fenomeni debbano apparire esattamente gli stessi a due osservatori posti in due diversi sistemi di riferimento, mobili l'uno rispetto all'altro. Infatti, il moto di un'automobile rispetto ad un'altra automobile può essere molto diverso dal suo moto rispetto alla Terra, cosi come il moto di Marte - per esempio - rispetto al Sole è più semplice che rispetto alla Terra. In generale all'osservatore conviene porsi idealmente in quel riferimento da dove il fenomeno appare più semplice.

Il principio di inerzia afferma che un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme fino a quando non interviene una causa esterna (forza).


Le trasformazioni di Galileo:

Per quanto le leggi della meccanica siano le stesse in tutti i sistemi inerziali, da ciò non segue naturalmente che le coordinate e le velocità dei corpi rispetto a due sistemi inerziali siano uguali. Un corpo che si trovi, per esempio, in quiete in un sistema S, possiede, in un altro sistema S' in moto rispetto a S, una velocità costante. Le leggi generali della meccanica contengono soltanto le accelerazioni, e queste sono le stesse per tutti i sistemi inerziali. Ciò non è vero per le coordinate e le velocità.
Si pone quindi il problema di trovare la posizione e la velocità di un corpo in un dato sistema inerziale S', una volta che queste siano note per un altro sistema inerziale S.
Si tratta di passare da un certo sistema di coordinate a un altro sistema in moto rispetto al primo. Per fare ciò utilizziamo delle leggi, le cosiddette equazioni di trasformazione, che ci permettono di passare matematicamente da un sistema all'altro.
Queste che seguono sono le equazioni di una trasformazione galileiana, o semplicemente trasformazioni galileiane:

x' = x - vt y' = y z' = z t' = t

Ricordiamo ancora che, passando da un sistema a un altro, alcune grandezze cambiano, mentre altre restano immutate.
Queste ultime si chiamano invarianti.
Sono invarianti, per esempio, la massa di una particella, l'accelerazione di un corpo e la forza agente su esso.
Un esempio invece di grandezza che muta per effetto di una trasformazione galileiana è dato dalla velocità.
Dette v e v' le velocità di uno stesso punto materiale nei due distinti sistemi di riferimento S e S', dei quali S' è in moto con velocità di trascinamento vtr rispetto al sistema S considerato fermo, la legge di composizione delle velocità afferma che la velocità assoluta v è uguale alla somma vettoriale della velocità relativa v' e della velocità di trascinamento vtr .
Ossia:

v = v' + vtr

relazione che, nell'ipotesi che la velocità vtr avvenga lungo la comune direzione degli assi x e x', risulta equivalente alle tre equazioni scalari:

vx = v'x + v0 vy = v'y vz = v'z


Newton

Newton fu posto dinanzi al compito di trovare il sistema di riferimento in cui fossero valide la legge d'inerzia e tutte le altre leggi della meccanica. Egli, tuttavia, non era certamente un relativista, ed era convinto di poter dare una definizione di moto assoluto, e anche di spazio e tempo assoluto, utilizzando un sistema di riferimento (o osservatore) ancorato rispetto alle stelle fisse. Se egli avesse scelto il sole, il problema non sarebbe stato risolto, ma soltanto differito, in quanto si sarebbe potuto scoprire, un giorno, che anche il sole si muove, come in realtà è avvenuto nel frattempo.
Per quanto riguarda il tempo, egli scrisse:

Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno
Infatti i giorni naturali, che di consueto sono ritenuti uguali, e sono usati come misura del tempo, sono inuguali. Gli astronomi correggono questa inuguaglianza affinché, con un tempo più vero, possano misurare i moti celesti. E' possibile che non vi sia movimento talmente uniforme per mezzo del quale si possa misurare accuratamente il tempo. Tutti i movimenti possono essere accelerati o ritardati, ma il flusso del tempo assoluto non può essere mutato. Identica è la durata o la persistenza delle cose, sia che i moti vengano accelerati, sia che vengano ritardati, sia che vengano annullati

Sullo spazio Newton espresse opinioni simili. Egli scrisse:

Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché d'esterno, rimane sempre uguale e immobile; lo spazio relativo è una dimensione mobile o misura dello spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente preso al posto dello spazio immobile Così, invece dei luoghi e dei moti assoluti usiamo i relativi; né ciò riesce scomodo nelle cose umane: ma nella filosofia occorre astrarre dai sensi. Potrebbe anche darsi che non vi sia alcun corpo in quiete al quale possano venire riferiti sia i luoghi che i moti

Nonostante che Newton intendesse indagare solo su fatti e fenomeni reali ('hypotheses non fingo'), i suoi concetti di spazio e tempo assoluti esistono 'indipendentemente da ogni oggetto esterno' cioè sono indipendenti dalle cose osservabili. Nella scienza moderna, però, si attribuisce valore reale ad un concetto solo quando esistono valori osservabili corrispondenti ad esso. Allora lo spazio ed il tempo assoluti sono idee astratte, perché non rilevabili con l'osservazione.
Per mettere in evidenza il moto assoluto, Newton propose anche un esperimento concettuale basato sul fatto che, se un secchio pieno d'acqua ruota a velocità costante, la superficie dell'acqua assume un profilo concavo. Come fu osservato, questo metodo evidenzia solamente i moti accelerati.
Di contro, negli stessi anni, l'idea galileiana di relatività trovava anche sostenitori autorevoli come Christian Huygens, che nel 1669 scriveva: 'La quiete e il moto possono venire considerati soltanto relativamente, e lo stesso corpo che uno dice in quiete rispetto a certi corpi, può venir detto in movimento rispetto ad altri, e ritengo che non vi sia più realtà di movimento nell'uno piuttosto che nell'altro'. E comunque nell'Ottocento l'argomentazione di Newton venne duramente criticata da Ernst Mach nel suo 'Die Mechanik in ihrer EntwicMung'. Il libro di Mach, che Michele Angelo Besso raccomandò al giovane amico Albert Einstein, ebbe certamente un'influenza importante sullo sviluppo delle idee che avrebbero portato alla teoria della relatività.

Gravitazione universale: L'influenza del lavoro di Newton sul mondo scientifico fu cosi grande che la sua meccanica, pubblicata nei Principia nel 1686, giunse praticamente inalterata fino alla fine del XIX secolo.
Newton generalizzò l'analisi che Galileo aveva compiuta solo in un numero ristretto di casi semplici, e riuscì a formulare il problema nei suoi termini più generali e, cosa ancora più importante, in maniera quantitativa.
Servendosi della sua invenzione del calcolo differenziale e integrale (eseguita nello stesso periodo indipendentemente anche da Leibniz), Newton fu in grado di scrivere una relazione quantitativa fra la forza agente su un corpo e la accelerazione (cioè la variazione di velocità avvenuta nell'unità di tempo) da questo di conseguenza acquisita. Questa è la famosa equazione fondamentale della meccanica F = ma ; nota la forza agente F e la massa del corpo m, è possibile valutare la accelerazione acquisita a, e quindi determinare completamente qualunque tipo di moto. Il passo successivo compiuto da Newton fu quello di formulare in termini matematici l'espressione della forza di gravità, cioè di quella forza che impone ai corpi sulla terra di cadere, ed alla terra stessa ed agli altri pianeti di ruotare attorno al sole. Newton giunse alla conclusione che i corpi, nell'universo, si attraggono in misura proporzionale alle loro masse ed inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze. Newton cercò le possibili soluzioni della sua equazione, una volta che al posto della F venisse posta la effettiva espressione della forza di gravità, da lui stesso trovata.

Meccanica celeste:Newton sviluppò una teoria dinamica delle orbite dei pianeti, quindi fu il fondatore di quella che oggi si suole chiamare meccanica celeste. Essa fu dedotta utilizzando un procedimento di calcolo basato sulle leggi di Keplero, che qui riportiamo.
1) I pianeti percorrono orbite ellittiche, di cui il sole occupa uno dei due fuochi;
2) Il raggio vettore diretto dal sole verso un pianeta descrive aree uguali in tempi uguali;
3) I cubi degli assi maggiori dell'ellissi sono proporzionali ai quadrati dei periodi di rivoluzione.

Infatti, mediante il calcolo integrale fu in grado di dimostrare che ogni corpo, soggetto alla forza gravitazionale di un altro, non può muoversi che su orbite circolari, ellittiche o paraboliche. La scelta fra questi tre tipi di orbite dipende dalle cosiddette condizioni iniziali del corpo in movimento, essenzialmente cioè dal valore della velocità di cui era dotato il corpo nel momento in cui la forza aveva cominciato a far sentire la propria azione. Da notare, però, che le leggi di Keplero sono valide soltanto nel determinato caso in cui un corpo sia in moto mentre l'altro si trovi in uno stato di quiete; infatti, un fatto nuovo si verifica nel caso in cui entrambi i corpi sono considerati in moto. Abbiamo a che fare con un problema di tre o più corpi che corrisponde alle effettive condizioni del sistema del sistema etario. Non sono infatti soltanto i pianeti e i satelliti a essere attratti rispettivamente dal sole e dai relativi pianeti, ma ogni corpo, sia esso stella, pianeta, satellite o cometa, esercita un'attrazione su tutti gli altri corpi. Di conseguenza, le ellissi di Keplero risultano essere solo delle approssimazioni, che sono accettabili solo perché l'azione esercitata dal sole, a causa della sua grande massa, prevale di gran lunga sull'azione reciproca di tutti gli altri corpi del sistema etario. Ma in lunghi intervalli di tempo queste azioni reciproche si manifestano come deviazioni dalle leggi di Keplero; parliamo allora di 'perturbazioni'.

La visione generale di Newton permette di inquadrare quindi in un unico schema le orbite ellittiche di Keplero, e i movimenti parabolici studiati da Galileo. Le conseguenze delle teorie di Newton sono però ancora più profonde di quanto non possa risultare a questo punto: in effetti, secondo la meccanica newtoniana, se si conoscono quantitativamente le forze che agiscono su un corpo e le condizioni iniziali del moto, è possibile dedurre analiticamente tutte le modalità di svolgimento del moto nel tempo successivo. In altre parole, almeno in linea di principio, l'intero corso futuro del moto del nostro universo è deducibile a tavolino dall'esatta applicazione delle equazioni di Newton, note però tutte le posizioni e le velocità in un certo istante (non necessariamente quelle 'iniziali') e le forze agenti. Tenuto conto degli strepitosi successi ottenuti da Newton nel descrivere il moto dei corpi, dai pianeti alle palle di cannone, non ci si può meravigliare del fatto che tutti gli scienziati a lui contemporanei o che lo seguirono nel tempo, abbiano accettato le sue teorie meccaniche praticamente senza alcuno spirito critico, considerandole come l'ultima parola nella comprensione scientifica dei problemi meccanici.

Maxwel

La teoria newtoniana non era però in grado di spiegare il complesso dei fenomeni elettrici e magnetici che si erano venuti scoprendo durante lo stesso secolo. Li spiegò invece la teoria di Maxwell. Questo scienziato inquadrò in un'unica cornice tutte le leggi dell'elettromagnetismo e scopri che anche la proazione della luce si poteva ricondurre ad un processo ondulatorio di natura elettromagnetica. Più precisamente, Maxwell previde l'esistenza di perturbazioni elettromagnetiche proantisi alla maniera caratteristica delle onde con la velocità di 300 mila chilometri al secondo. E siccome la luce si proa con questa medesima velocità, veniva spontaneo concludere che la luce e le onde elettromagnetiche avessero la stessa natura. Altri prima di Maxwell avevano ipotizzato che la luce si proasse per onde, e l'ipotesi risultava in perfetto accordo con i dati sperimentali concernenti l'ottica geometrica (proazione rettilinea, riflessione, rifrazione) e l'ottica fisica (interferenza, diffrazione) conosciuti a quel tempo. Quella di Maxwell, però, era più che un'ipotesi, in quanto l'esistenza di onde era una conseguenza delle sue equazioni, deducibile per via matematica.

Fenomeni elettromagnetici: I primi studi effettuati sui fenomeni elettrici in uno spirito scientifico moderno iniziano con l'invenzione della pila, effettuata da Volta alla fine del XVIII secolo. Questo dispositivo, fornendo una corrente elettrica per periodi relativamente lunghi, permise per la prima volta una seria sperimentazione nel campo dell'elettricità.
Fino all'inizio del secolo diciannovesimo, l'elettricità e il magnetismo furono considerati fenomeni appartenenti a campi simili sotto qualche aspetto, ma completamente separati e indipendenti. Si cercò vivamente, ma per molto tempo senza successo, un ponte fra questi due campi. Finalmente, nel 1820, il fisico danese Oersted scoprì un fenomeno del tutto inatteso, rivelando la stretta connessione esistente fra correnti elettriche e magnetismo. Nel suo famoso esperimento, Oersted osservò che un ago magnetico, di quelli normalmente usati nella costruzione delle bussole, risentiva fortemente dell'essere o meno avvicinato ad un filo percorso da corrente; segno evidente questo del fatto che la corrente stessa generava, nello spazio circostante, un campo magnetico. Nello stesso anno Biot e Savart trovarono la legge quantitativa relativa a questo fenomeno, che Laplace formulò in termini di azione a distanza. Questa legge è molto importante per noi, perché in essa e una costante, propria dell'elettromagnetismo e con le dimensioni di una velocità, che più tardi si dimostrò coincidente con la velocità della luce. Sempre nel 1820, Ampère riusciva a mettere in forma quantitativa la relazione esistente fra correnti e campi magnetici, dimostrando che una corrente circolante in un filo conduttore circolare (spira) produce una forza magnetica esattamente dello stesso carattere di quella prodotta da un equivalente magnete permanente di ferro. Questo portò anzi Ampère a ipotizzare, contro il parere di molti suoi contemporanei, che il fenomeno del magnetismo presentato in natura da alcuni materiali fosse proprio da ricollegarsi a correnti elettriche microscopiche circolanti al loro interno. Ampère dimostrò anche che fra due fili conduttori percorsi da corrente si esercitano le stesse interazioni che si svolgono fra due calamite.
Ci si pose, quindi, la seguente domanda: il campo magnetico, può anche mettere in moto elettricità che si trova in quiete? Può generare, o 'indurre', una corrente in un filo metallico, se questo non è inizialmente percorso da corrente?
Il passo successivo fu effettuato nel 1831, da un genio della fisica sperimentale, l'inglese Faraday, che riuscì a mostrare come, in certe circostanze, anche i magneti possono generare delle correnti elettriche, cosi come in precedenza era stata verificata la possibilità, per le correnti elettriche di generare effetti simili a quelli prodotti dai magneti. Faraday prese una normale calamita e cominciò a muoverla nelle vicinanze di una spira di materiale conduttore (. a destra). Il filo era connesso ad un galvanometro, che permetteva la misura della corrente circolante nel filo stesso. Se la calamita era ferma, nel filo non passava alcuna corrente; nel momento invece in cui calamita e filo si muovevano rapidamente uno relativamente all'altro, il galvanometro indicava un impulso di corrente, rivelando in questa maniera che una calamita in movimento aveva la possibilità di 'indurre' in un circuito il passaggio di una corrente elettrica.

Questa fondamentale scoperta portava a chiarire completamente la profonda simmetria esistente fra elettricità e magnetismo, sebbene questa simmetria risulti di natura piuttosto subdola, nel senso che, mentre è una corrente elettrica che genera un campo magnetico, non è direttamente un campo magnetico che genera una corrente, ma piuttosto una sua variazione nel tempo (ricordiamo che nell'esperimento, per ottenersi induzione, la calamita doveva spostarsi rispetto al filo, cioè il filo doveva risentire di un campo magnetico non costante). Per avere una idea delle profonde conseguenze tecnologiche che ha avuto questa scoperta, pensiamo per esempio alla dinamo, in cui in effetti viene prodotta energia elettrica facendo ruotare delle spire conduttrici fra i poli magnetici di un grosso magnete.

Furono Weber e Kohlrausch (1856) a eseguire la prima misura accurata di c, mediante esperienze molto precise che furono memorabili non solo per la loro difficoltà, ma anche per le notevoli conseguenze che esse implicarono. Per c si ottenne infatti il valore di c = 3*1010 cm/s, cioè proprio la velocità della luce.
Questa coincidenza non poteva essere casuale. Molti studiosi, fra cui lo stesso Weber e numerosi altri fisici e matematici, intuirono il profondo legame che la quantità c = 3*1010 cm/s stabiliva fra due grandi branche della scienza, e cercarono di scoprire il ponte d'unione fra l'elettromagnetismo e l'ottica. Questo compito fu realizzato da Maxwell, dopo che il brillante e ingegnoso metodo di sperimentazione di Faraday aveva portato a conoscenza nuovi fatti e nuove idee di cui fra poco seguiremo lo sviluppo.

Le equazioni di Maxwel:La limitatezza delle conoscenze matematiche non permise a Faraday di porre in una forma analitica, e quindi quantitativa, i risultati delle sue osservazioni sulla connessione esistente fra campi elettrici e magnetici. Si deve al genio matematico di J.C. Maxwell la formulazione di quelle famose equazioni del campo elettromagnetico che, ponendo in forma quantitativa i risultati delle esperienze di Faraday, sono oggi il punto di partenza di ogni moderna discussione sui fenomeni elettromagnetici. Da questo punto di vista si può affermare che Maxwell occupa, rispetto a Faraday, la stessa posizione che spetta a Newton nei riguardi di Galileo.
Le equazioni di Maxwell permisero di prevedere un fenomeno completamente nuovo, cioè la proazione di radiazione elettromagnetica nel vuoto. Le equazioni permettono di dedurre infatti che se si è in grado di costringere un oggetto carico elettricamente a vibrare a frequenze molto elevate in parte del campo elettromagnetico circostante, la carica in movimento si allontanerà da questa, sotto forma di un'onda.
Le stesse equazioni portano a prevedere però che, contrariamente a quanto non avvenga per le onde sonore o quelle del mare, questo nuovo tipo di onde ha la capacità di proarsi nello spazio vuoto, nel vuoto assoluto. Maxwell fu in grado anche di valutare il valore della velocità a cui questa proazione avviene, trovando il valore, enorme, di circa 300.000 km/s. L'identità di questo valore con quello sperimentalmente ottenuto per la velocità di proazione della luce fu poi il primo passo verso l'identificazione della radiazione luminosa in un particolare tipo di radiazione elettromagnetica di opportuna frequenza.

Luce ed etere



Nel 1880 il tedesco Herzt fu in grado di verificare sperimentalmente l'uguaglianza fra il valore della velocità di proazione della luce e quello delle onde elettromagnetiche. Era così inevitabile che i fisici si ponessero tale domanda: se la luce è un fenomeno ondulatorio, e poiché le onde si proano tutte in un qualche mezzo, qual è il mezzo in cui si proa la luce?
L'osservazione che la luce viaggia attraverso lo spazio e che dal Sole e dalle altre stelle giunge fino a noi, induceva ad ammettere che un tale mezzo dovesse riempire tutto lo spazio siderale. Questo ipotetico mezzo venne chiamato 'etere', e riconducibile storicamente alla 'quintessenza' aristotelica (la parola 'etere' deriva dal greco 'aithein', brillare, usato da Aristotele per descrivere la sostanza da cui dovevano essere formate le stelle).

Quali proprietà dobbiamo assegnare all'etere visto come mezzo elastico? Basta poco per capire come queste proprietà erano in contrasto l'una con l'altra. In primo luogo a causa del grandissimo valore della velocità di proazione della luce, è necessario supporre che la rigidità elastica sia molto elevata o che la densità sia molto piccola, oppure che ambedue queste condizioni si verifichino contemporaneamente. Inoltre, poiché la luce non si proa con la stessa velocità in tutte le sostanze, dobbiamo ritenere che l'etere si condensi in modo diverso all'interno dei corpi o che possa variare la sua elasticità; anche in questo caso, le due circostanze possono verificarsi simultaneamente.
La prima obiezione all'ipotesi dell'etere elastico, nasce dalla necessità di ammettere che la sua rigidità sia sufficientemente elevata da spiegare l'alta velocità delle onde. Tale sostanza infatti offrirebbe necessariamente una notevole resistenza al moto dei corpi celesti, particolarmente dei pianeti, mentre gli astronomi non hanno mai misurato alcuna deviazione delle leggi di Newton che ne giustificasse l'esistenza.

Con quel che abbiamo detto si comprende come, conformemente allo spirito dei tempi, si sia tentato di attribuire all'etere quelle stesse proprietà riscontrabili negli ordinari corpi materiali. Si cercava ancora una volta una spiegazione in termini essenzialmente meccanici. Non ci dilungheremo a parlare di altre difficoltà intervenute, sempre a proposito delle proprietà dell'etere, in seguito agli ulteriori sviluppi della teoria elettromagnetica. Nuove difficoltà, che si vennero aggiungendo alle vecchie, determinarono alla fine la completa rinuncia all'ipotesi dell'esistenza di questa sostanza. Era giunto il tempo in cui i fisici avrebbero dovuto riconoscere che non tutti i fenomeni potevano essere spiegati in base a concetti meccanici.

Le contrastanti proprietà dell'etere- è trasparente- è onnipresente nell'universo- è infinitamente leggero- è infinitamente elastico- è la sostanza più rigida di tutto l'universo

Misheison e Morganz

Un noto esperimento che provava ad accertare la presenza dell'etere ne determinò, invece, la sua crisi. Vediamo su che cosa si basa questo esperimento.
Se l'ipotesi dell'esistenza dell'etere è accettabile e se è vero che esso riempie tutto lo spazio siderale, deve essere possibile realizzare un qualche esperimento capace di rivelare il moto della Terra attraverso lo spazio. Infatti, giacché la Terra si muove sulla sua orbita intorno al Sole alla velocità di 30 km/sec, essa dovrebbe essere investita da un 'vento di etere' spirante nella direzione opposta a quella del moto. Ci si dovrebbe accorgere di questo (magari mediante un esperimento) allo stesso modo in cui ci si accorge della presenza dell'aria a causa del vento che ci investe quando corriamo in bicicletta o stiamo sul ponte di una nave in movimento.

Nel 1881, a Cleveland, due fisici americani, Albert A. Michelson ed Edward W. Morley, eseguirono un esperimento che diventerà poi classico nella storia della fisica, basandosi sull'effetto che il moto della terra avrebbe dovuto avere sulla velocità della luce rispetto ad un osservatore terrestre.
Lo scienziato pensò che i raggi di luce che si proano nella stessa direzione del vento di etere dovrebbero apparire più veloci di quelli che si proano nella direzione contraria. E ciò perché i primi verrebbero per cosi' dire trascinati dalla corrente del mezzo, mentre i secondi sarebbero rallentati dalla corrente stessa. Dovrebbe verificarsi per i raggi di luce una situazione analoga a quella di due battelli che navigano su un fiume, uno nel senso della corrente e l'altro nel senso opposto. Per un osservatore sulla sponda, la velocità del primo è maggiore di quella del secondo.
Nel suo esperimento Michelson, invece di misurare la differenza di velocità tra due raggi di luce proantisi in senso opposto, trovò più conveniente eseguire la misura servendosi di due raggi proantisi in direzioni perpendicolari. Tornando all'esempio del fiume, è come se l'osservatore guardasse uno dei due battelli navigare nella direzione della corrente e l'altro andare di traverso da una sponda all'altra.
Supponiamo ora che un battello debba attraversare il fiume andata e ritorno e che l'altro debba percorrere, sempre andata e ritorno, un'uguale distanza, però nella direzione della corrente. Immaginando l'acqua ferma e le velocità delle barche uguali, i due percorsi verrebbero effettuati nello stesso tempo. Se invece l'acqua scorre regolarmente, è intuitivo che il battello che attraversa compie il suo tragitto in un tempo più lungo, mentre a priva vista potrebbe sembrare che l'altro battello non subisca ne' ritardo né anticipo. (Si potrebbe infatti pensare che il tempo perduto a navigare contro corrente venga recuperato completamente nel tratto percorso col favore della corrente). Questo però non è vero. Per convincersene basta pensare a quello che accade se la velocità dell'acqua è uguale a quella della barca: il percorso verso valle è compiuto in metà tempo, ma il ritorno contro corrente diventa addirittura impossibile. In generale possiamo affermare (e un semplice calcolo potrebbe dimostrarlo) che le due barche non subiscono uguali ritardi a causa della corrente, e precisamente il ritardo minore viene accumulato dalla barca che attraversa il fiume.
Il ragionamento precedente rimane del tutto valido se sostituiamo, al posto della corrente, il vento di etere e, al posto dei battelli, due raggi luminosi proantisi in direzioni perpendicolari.
Cerchiamo ora di vedere come fu realizzato l'esperimento di Michelson; è bene farlo riferendoci alla ura che rappresenta schematicamente l'apparecchiatura usata dallo scienziato.
Un raggio di luce emesso dalla sorgente L si proa verso lo specchio semitrasparente S; questo riflette parte del raggio incidente verso lo specchio S1 e lascia proseguire il resto della luce verso lo specchio S2. S1 ed S2 riflettono i raggi verso lo specchio semitrasparente S: qui la metà del primo raggio passa oltre proseguendo verso il cannocchiale C, mentre la metà dell'altro raggio viene riflessa anch'essa verso C. In tal modo i due raggi arrivano entrambi nel cannocchiale sovrapponendosi. Michelson dispose la sua apparecchiatura in modo che il braccio LS2 si trovasse nella direzione del vento di etere, o, se si preferisce, nella direzione del moto orbitale della Terra. Un raggio di luce che si proa in tale direzione, per un osservatore terrestre si trova in condizioni analoghe a quelle del battello che naviga secondo la corrente del fiume. L'altro raggio, quello che si proa nella direzione CS1, corrisponde al battello che attraversa il fiume da una sponda all'altra. Come si è detto, il primo battello accumula un certo ritardo sul secondo: analogamente il raggio LS2 dovrebbe giungere al cannocchiale C con un certo ritardo rispetto all'altro raggio.
Benché tale ritardo possa apparire trascurabile dal punto di vista ordinario, non lo sarebbe affatto dal punto di vista fisico. Infatti si potrebbe dimostrare con il calcolo che in un simile intervallo di tempo la luce può percorrere una distanza paragonabile alla lunghezza d'onda della luce stessa, e pertanto uno dei due raggi dovrebbe giungere al cannocchiale con un certo anticipo sull'altro - discordanza di fase - provocando delle ure di interferenza.

Nonostante l'accuratezza con cui Michelson fece e rifece l'esperimento, non fu possibile osservare il minimo indizio di interferenza. In effetti, non vi era mai alcuna differenza, qualunque fosse la direzione di moto, fra le velocità di proazione dei due raggi luminosi.

L'esperimento di Michelson e Morley pose gli scienziati di fronte ad una seria e imbarazzante alternativa: o si doveva rigettare l'ipotesi relativa all'esistenza dell'etere, che però serviva a spiegare molti fatti sull'elettricità, il magnetismo e la luce, oppure, continuando a mantenere la teoria dell'etere, si era costretti ad abbandonare la teoria copernicana relativa al moto della terra. Ad alcuni fisici sembrò addirittura più facile credere che la Terra fosse immobile piuttosto che ritenere che le onde elettromagnetiche potessero esistere senza un mezzo che servisse loro da supporto.
E' facile immaginare che se il medesimo esperimento fosse stato eseguito nel secolo XVI, sarebbe stato interpretato naturalmente come una bella prova che Copernico si era sbagliato e che Tolomeo aveva ragione; ma nel 1887 una tale interpretazione era divenuta impossibile sotto altri aspetti.
Ma l'idea dell'etere appariva troppo attraente perché la si potesse abbandonare senza alcun tentativo si salvataggio. Infatti, per giustificare il risultato negativo dell'esperienza di Michelson, furono fatte diverse ipotesi. Una di esse è la famosa ipotesi della contrazione dovuta a Fitzgerald e Lorentz.

Lorentz

H.A. Lorentz fu il primo a raggiungere una spiegazione del fallimento e una prima, sia pure incompleta, formulazione della relatività. Secondo Lorentz, che credeva nell'etere, il vento d'etere aveva anche altre conseguenze di rilievo. Egli concepiva i corpi materiali come composti da particelle dotate di cariche opposte e tenute insieme dalle forze elettromagnetiche. Se queste forze sono proate dall'etere, dipendono dal vento d'etere (come d'altronde la proazione della luce), allora anche la forma dei corpi deve dipendere dal loro stato di moto rispetto all'etere. In base ad alcune assunzioni sulle forze elettromagnetiche, egli dimostrò che il vento d'etere doveva produrre un accorciamento dei corpi lungo la direzione del vento. Questo accorciamento, pure predetto da G.F. Fitzgerald, alterava i tempi di percorso della luce entro l'apparato di Michelson e Morley in modo da nascondere completamente l'effetto cercato. L'etere possedeva dunque una proprietà straordinaria, quella di rendersi completamente inosservabile. Nel corso delle sue ricerche Lorentz dimostrò che il vento d'etere doveva alterare il ritmo degli orologi. Se dunque spirava il vento d'etere le misure convenzionali di spazio e tempo risultavano alterate ed erronee in modo tale da simulare una realtà fisica in cui l'etere appariva sempre immobile e la velocità della luce era ancora la stessa in tutte le direzioni. Questo risultato di Lorentz va sotto il nome di 'principio degli stati corrispondenti'. In sostanza asserisce l'esistenza dell'etere e di un sistema di riferimento privilegiato ancorato all'etere anche se non rilevabile attraverso esperimenti di natura elettromagnetica. In questo senso esso è in contrasto con il principio di relatività galileiano. Nella teoria di Lorentz, il moto dell'etere induceva delle distorsioni nell'apparato di misura per cui le trasformazioni dl Galileo andavano corrette. Da questa analisi Lorentz dedusse delle nuove trasformazioni che portano il suo nome e che tengono conto del moto dell'etere e delle distorsioni da esso indotte. Le formule di Lorentz furono poi riderivate da Einstein come immediata conseguenza dei postulati della relatività ristretta, e venne così confermata la conclusione secondo cui un oggetto in moto è tanto più accorciato quanto maggiore la sua velocità. Nell'interpretazione di Einstein si riscontrano alcuni punti in comune, ma niente a che vedere con le proprietà dell'etere.

I postulati

Volendo risolvere la contraddizione tra le previsioni della meccanica e quelle dell'elettromagnetismo riguardo la velocità della luce, e convinto che il tempo assoluto non esiste, Einstein propose di rifondare da capo la fisica partendo da due soli postulati (pubblicati in un articolo del 1905 sulla rivista 'Annalen der Physik'

Le leggi e i principi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali;

La velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali, in modo indipendente dal moto del sistema stesso o della sorgente da cui la luce è emessa.

Il primo postulato è una generalizzazione a tutta la fisica del principio di relatività galileiana che vale per la meccanica. Si tratta di un assioma che nasce direttamente dalla fiducia di Einstein nel fatto che fosse possibile descrivere la natura con leggi semplici ed eleganti. In effetti, una fisica in cui le leggi sono le stesse in tutti i sistemi inerziali è molto più semplice e cristallina di una in cui le leggi variano nel passare da un sistema di riferimento all'altro.
Il secondo postulato permette di spiegare nel modo più semplice il risultato negativo dell'esperimento di Michelson e Morley: in effetti, se la velocità della luce non dipende dal sistema di riferimento, le durate dei percorsi tra i due specchi sono le stesse sia quando l'apparato sperimentale è orientato in un certo modo, sia quando è ruotato di 90°. Ecco, quindi, che l'ipotesi dell'invarianza della velocità c della luce dà ragione del fatto che non si osserva alcuna variazione nella ura di interferenza.
Va però detto che Einstein, quando cominciò a elaborare la propria teoria, non era a conoscenza dell'esperimento di Michelson e Morley. Per lui il secondo postulato era motivato dalle stesse ragioni di semplicità ed eleganza che sono alla base del primo postulato. Anzi, in un certo senso si può vedere il secondo postulato come un caso particolare del primo: se le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento e se in tutti valgono le equazioni di Maxwell, poiché esse prevedono un ben preciso valore della velocità della luce, questo è il valore che si deve misurare qualunque sia il sistema inerziale scelto.

Ecco una delle riflessioni di Einstein sui due postulati: 'nulla dovrebbe essere considerato come troppo ovvio; se vogliamo essere realmente scrupolosi dobbiamo sottoporre ad una accurata analisi le supposizioni della fisica, tenute finora per certe. Una supposizione non deve essere ritenuta irragionevole soltanto perché differisce da quella della meccanica classica ()
Rammentiamo: la velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi inerziali. E impossibile conciliare questo fatto con la trasformazione classica. Il circolo vizioso va spezzato in qualche punto. Non è forse il caso di farlo qui?'.

Articolo di Einstein sul principio di relatività: La prima pubblicazione con cui Einstein presentò la sua teoria della relatività ristretta fu l'articolo apparso nel 1905 sulla rivista 'Annalen der Physik' e intitolato 'Zur Elektrodynamik bewegter Kòrper' (Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento).
Ecco come Einstein enuncia il Principio di relatività nelle prime frasi dell'articolo del 1905:

'È noto che l'elettrodinamica di Maxwell così come la comprendiamo attualmente quando viene applicata ai corpi in movimento, porta ad asimmetrie che non paiono essere intrinseche ai fenomeni.
Si prenda, per esempio, l'azione elettrodinamica reciproca di un magnete e di un conduttore. Il fenomeno osservabile, qui, dipende soltanto dal moto relativo del conduttore e del magnete, laddove la visione tradizionale traccia una netta distinzione tra i due casi in cui l'uno oppure l'altro di questi corpi è in moto.
Infatti, se il magnete è in moto e il conduttore è a riposo, nelle vicinanze del magnete sorge un campo elettrico con una certa energia ben definita, che produce una corrente nelle posizioni in cui si trovano le parti del conduttore.
Ma se il magnete è stazionario e il conduttore è in moto, nelle vicinanze del magnete non sorge alcun campo elettrico. Nel conduttore, tuttavia, troviamo una forza elettromotrice alla quale di per sé non corrisponde alcuna energia, ma che dà origine - supponendo l'eguaglianza del moto relativo nei due casi in discussione - a correnti elettriche che hanno la stessa direzione e intensità di quelle prodotte nel caso precedente dalla forza elettrica.
Esempi di questo tipo, insieme ai tentativi senza successo di scoprire un qualsiasi moto della Terra rispetto al 'mezzo leggero', suggeriscono che i fenomeni dell'elettrodinamica, come quelli della meccanica, non posseggano alcuna proprietà corrispondente all'idea di riposo assoluto. Suggeriscono piuttosto che, come è già stato dimostrato al prim'ordine di quantità piccole, le stesse leggi dell'elettromagnetismo e dell'ottica saranno valide per tutti i sistemi di riferimento per i quali valgono le equazioni della meccanica.
Eleveremo questa congettura (che in quanto segue chiameremo 'Principio di relatività') allo status di postulato, e introdurremo anche un altro postulato, che soltanto apparentemente è inconciliabile con il precedente, vale a dire, che la luce si proa sempre nello spazio con una precisa velocità c che è indipendente dallo stato di moto del corpo che la emette. Questi due postulati sono sufficienti per il raggiungimento di una teoria semplice e coerente per l'elettrodinamica dei corpi in movimento basata sulla teoria di Maxwell per i corpi stazionari.
L'introduzione di un 'etere luminifero' si dimostrerà superflua, nel senso che la visione che sarà sviluppata qui non richiederà uno 'spazio assolutamente stazionario' dotato di proprietà speciali, né assegnerà un vettore velocità ad alcun punto dello spazio vuoto in cui hanno luogo i processi elettromagnetici.'

La simulataneità

Faremo ora alcune considerazioni basandoci su un'esperienza che ad Einstein appariva facile da ideare e difficile da eseguire, e che a noi, abituati alle imprese spaziali del nostro tempo, sembra addirittura realistica.

Immaginiamo una grande stanza a pareti trasparenti, che si muova nello spazio di moto uniforme e con velocità molto elevata. Un osservatore esterno ha la possibilità di vedere attraverso le pareti, mentre un altro osservatore si trova a bordo di questa singolare nave spaziale. Una lampada posta al centro della stanza emette un segnale luminoso che ambedue gli osservatori sono in grado di vedere. Riferendo le proprie impressioni, l'osservatore interno affermerà: 'il segnale luminoso emesso dalla lampada viaggia con la nota velocità della luce c e, dopo brevissimo tempo, raggiunge tutte le pareti simultaneamente'. Il resoconto dell'altro osservatore suonerà pressappoco così: 'il segnale si proa con la stessa velocità c in tutte le direzioni, e ciò non sorprende affatto in quanto è risaputo che il moto della lampada non influisce sulla velocità della luce. C'è da aggiungere però che, essendo la stanza in moto, la parete anteriore si allontana davanti al segnale, mentre la parete posteriore va incontro ad esso. Di conseguenza la prima viene raggiunta dalla luce con un certo ritardo rispetto alla seconda'. Confrontando le testimonianze dei due osservatori, notiamo che per uno di essi i segnali hanno colpito le pareti nello stesso istante, mentre per l'altro i fatti sono avvenuti in due istanti successivi. La conclusione cui siamo indotti è piuttosto sorprendente: due eventi, contemporanei per un osservatore, possono non essere tali per un altro. Finora avevamo usato l'avverbio simultaneamente attribuendo ad esso un significato assoluto; sembrava ovvio, infatti, che due avvenimenti contemporanei per un particolare osservatore dovessero essere pure contemporanei per qualsiasi altro osservatore. Se ora accettiamo i postulati della relatività, non c'è alcun motivo di prendere per vera l'affermazione dell'osservatore interno e per falsa l'altra. E' necessario invece rinunciare a nozioni come simultaneamente, prima, dopo, nella forma in cui le avevamo intese fino ad ora, anche se ci sono sempre sembrate, al di là di ogni incertezza, precise ed inequivocabili. Possiamo quindi dare un'espressione più rigorosa al risultato precedente dicendo:

« Eventi che accadono nello stesso tempo, ma in luoghi diversi (le due pareti), in un riferimento mobile, da un osservatore esterno sono giudicati accadere in tempi diversi ».

Per spiegare meglio questa affermazione, che si scontra con i pregiudizi legati alla nostra abitudine di considerare il tempo come assoluto, illustriamo un esempio più concreto di quello della stanza che vola nello spazio.
Consideriamo due laser L1 ed L2 situati sopra un vagone che viaggia lungo una linea ferroviaria e due pannelli che segnalano i due raggi laser, e supponiamo che i pannelli siano equidistanti da un osservatore posto a terra. L'osservatore può accendere contemporaneamente i due laser mediante uno stesso interruttore. Immaginiamo che sulla linea transiti un treno su cui viaggia un secondo osservatore e che l'operatore a terra accenda i laser proprio nell'istante in cui il passeggero passa davanti ad all'osservatore posto a terra. Entrambi gli osservatori registrano gli istanti in cui vedono giungere i due laser ai pannelli. Il passeggero vedrà, naturalmente, giungere i raggi emessi dai laser nello stesso istante; l'osservatore a terra invece vedrà che il raggio laser proveniente da L2 raggiungerà il pannello prima del raggio proveniente da L1. Questo perché il treno (che si muove ad alta velocità) si sposta verso L2 di un certo tratto nell'intervallo di tempo finito che la luce impiega per raggiungerlo. L'osservatore a terra conclude quindi che l'arrivo dei due laser non avviene simultaneamente. L'opinione di quale dei due osservatori è più attendibile?
Il principio di relatività ci ricorda che non esiste nessuna ragione per preferire un sistema di riferimento (il suolo) all'altro (il treno) e che le impressioni dei due osservatori hanno perciò identico valore.

Proviamo ora a scambiare, nella citata affermazione, la parola 'tempo' con la parola 'luogo'. La frase suonerà:

« Eventi che accadono nello stesso luogo, ma in tempi diversi, in un riferimento mobile, da un osservatore esterno sono giudicati accadere in luoghi diversi ».

Il suo contenuto è di una evidenza quasi banale. Basta pensare ad un viaggiatore seduto nel suo stimento ferroviario che si mette a leggere il giornale: dal suo punto di vista egli apre legge e chiude il giornale nello stesso luogo, cioè sul suo sedile. Per una persona a terra i due eventi, apertura e chiusura del giornale, accadono in luoghi notevolmente diversi lungo la strada ferrata.
Il fatto che noi accettiamo come ovvia la trasformazione di un intervallo di tempo in una distanza e giudichiamo invece quasi paradossale la trasformazione inversa di distanza in intervallo di tempo (tra due fatti non contemporanei), ha una sua ragione. Questa ragione risiede nella nostra abitudine: alla nostra osservazione si offrono ordinariamente quelle velocità che sono tra le più basse di tutte quelle possibili in natura. Perché non ci stupiamo se diciamo che il viaggiatore del treno apre il suo giornale in un certo posto e lo chiude - poniamo, dopo un quarto d'ora - in un altro posto lungo la ferrovia? Evidentemente perché abbiamo a che fare con una velocità molto familiare, quale può essere quella di un treno. Se il treno corre a 60 km/h, ad un intervallo di tempo di un quarto d'ora corrisponde una distanza percorsa di 15 km. Una simile distanza rientra nell'ambito delle nostre esperienze quotidiane e pertanto la accettiamo di buon grado. Se il treno si muovesse invece alla velocità della luce, nell'intervallo di 15 minuti esso percorrerebbe una distanza di 270 milioni di chilometri, e la cosa comincia a rientrare tra quelle da noi difficilmente immaginabili. Perché allora non accettiamo in modo altrettanto disinvolto la conclusione che l'osservatore del treno vede le lampade - separate da una certa distanza - accendersi in due istanti diversi? Evidentemente perché la velocità con cui stavolta abbiamo a che fare è la velocità della luce, la quale, sappiamo, è ben più elevata delle ordinarie velocità. Se la distanza tra le due lampadine fosse, per esempio, 60 metri, la luce impiegherebbe 1/10000000 di secondo per coprire la metà di essa. Differenze di tempo di questo ordine di grandezza non sono assolutamente rilevabili dai nostri sensi, non deve quindi stupire se non ce ne eravamo mai accorti!
In definitiva possiamo dire che dal punto di vista della velocità della luce, se scegliamo le unità di distanza usuali, le corrispondenti unità di tempo risultano molto piccole. Il contrario accade se scegliamo le usuali unità di tempo; in tal caso le corrispondenti misure di distanza risultano estremamente grandi.

Spazio e tempo

Fin dal primo lavoro di Einstein sulla relatività, nel 1905, emerse chiaramente una nuova visione della natura in cui spazio e tempo non potevano più venire considerati come entità indipendenti. Nella teoria della relatività ristretta, l'entità fondamentale è lo spazio-tempo (o 'continuo spazio-temporale'), una geometria nuova la cui precisa struttura fu poi stabilita nel 1907 da Hermann Minkowski, già professore di Einstein al Politecnico di Zurigo (all'epoca, Minkowski era stato assai poco impressionato dalla svogliatezza dell'allievo; ma dopo la pubblicazione della teoria della relatività, ne divenne uno dei più accesi sostenitori e divulgatori).
I fenomeni nello spazio-tempo possono venire descritti in infinite maniere, diverse ed equivalenti, dagli osservatori inerziali.
Alcune variabili fisiche hanno lo stesso valore per tutti gli osservatori, e sono quindi assolute: per esempio la distanza spazio-temporale tra due eventi, che generalizza la distanza dello spazio tridimensionale.
Molte altre variabili, invece, sono relative: per esempio (contrariamente al senso comune) la lunghezza di un oggetto o l'intervallo di tempo tra due eventi.
Lo spazio-tempo rappresenta una realtà assoluta, non relativa, che viene vista sotto prospettive diverse dai diversi osservatori.
(Proprio questo 'dogmatismo' dello spazio-tempo, incidentalmente, attirò a Einstein le critiche di Ernst Mach, che peraltro era stato uno degli ispiratori del pensiero scientifico del giovane Einstein).
Infatti secondo Einstein lo spazio e il tempo sono due facce della stessa medaglia e quindi sono intercambiabili (come abbiamo già dimostrato nella sezione della simultaneità). La vita dell'uomo avviene in un'unica cornice: lo spazio-tempo.

Velocità

E' facile a questo punto convincersi come sia impossibile modificare i concetti di spazio e di tempo e lasciare inalterato il resto della fisica. Prendiamo per esempio la velocità: si possono fare in proposito due osservazioni.

La definizione di velocità implica una combinazione di spazio e di tempo di cui ora abbiamo modificato i concetti; va da sé quindi che adesso è necessario sottoporre a revisione anche l'idea di velocità.

Il postulato della costanza della velocità della luce ci dice che, se aggiungiamo alla velocità della luce c un'altra velocità, otteniamo come risultato la stessa velocità c.

Questo equivale a dire che la legge galileiana di addizione delle velocità, pur essendo in perfetto accordo con l'esperienza ordinaria, non funziona nel caso della proazione luminosa.
Infatti, secondo la fisica tradizionale e la visione della relatività di Galileo e di Newton, le velocità di oggetti in moto relativo si sommano quando cambia il sistema di riferimento da cui viene osservato il moto.
Per esempio, se su un treno ce un controllore che corre a velocità v verso la testa del treno, mentre il treno si muove (rispetto a noi) a una velocità u, noi vedremo il controllore muoversi con una velocità V data dalla somma (u + v).
Con la teoria della relatività, invece, Einstein ha scoperto che la formula classica per l'addizione delle velocità deve essere modificata. Secondo Einstein, l'addizione di due velocità dà sempre un risultato MINORE della loro somma.
Questo effetto, assolutamente impercettibile quando le velocità in gioco sono quelle della nostra vita quotidiana, diventa importante quando le velocità sono paragonabili a quelle della luce.Per esempio, se due automobili viaggiano in direzioni opposte e ciascuno si muove rispetto al terreno a 100 km/h, secondo la fisica classica ( .sopra) ciascuno dei due conducenti vedrà l'altra automobile avvicinarsi a 200 km/h. Secondo la relatività ( .sotto), invece, ciascun conducente vedrà l'altra automobile avvicinarsi a 199,9999999999999 km/h: la differenza, chiaramente, è irrilevante a tutti gli effetti pratici.

Consideriamo invece due astronavi, ciascuna delle quali si muove (rispetto, per esempio, alla Terra) con una velocità di 0,5c , cioè metà della velocità della luce.
Secondo la fisica classica, ciascun pilota vedrà l'altra astronave avvicinarsi a (0,5c + 0,5c), cioè alla velocità della luce. Secondo la relatività, invece, ciascun pilota vedrà l'altra astronave avvicinarsi soltanto a 0,8c , cioè soltanto all'80% della velocità della luce.

Immaginiamo ora di lanciare un sasso dal finestrino di un'automobile. Se il lancio avviene nel senso del moto, il sasso avrà rispetto al suolo una velocità che è la somma di due velocità: quella da noi impressa nel lancio e quella dell'automobile. Al contrario, un sasso lanciato all'indietro, cioè in senso opposto a quello del moto, avrà rispetto al suolo una velocità che è data dalla differenza delle due velocità. Non si fa nessuno sforzo ad accettare queste affermazioni, anzi il loro contenuto fa parte dell'esperienza di ogni giorno e determina certi nostri comportamenti. Applichiamo praticamente questa regola tutte le volte che vogliamo lanciare un oggetto il più lontano possibile: prendiamo infatti la rincorsa proprio per aggiungere alla velocità di lancio quella del nostro corpo.
Il secondo postulato ci dice però che tutto questo non vale nel caso della luce, dal momento che i raggi luminosi giungono a noi con la stessa velocità. Per uscire dalla difficoltà, Einstein decise di rinunciare alla legge classica di addizione delle velocità, ragionando pressappoco così. La legge classica fu stabilita sulla base dell'esperienza comune, ossia per spiegare fenomeni in cui le velocità in gioco sono sempre abbastanza piccole, in confronto a quella della luce. Nel caso generale di velocità comunque grandi è necessario stabilire una regola diversa e tale da potersi applicare anche alla proazione luminosa.
Secondo Einstein, se V è la velocità dell'automobile e v quella impressa nel lancio, il sasso non ha rispetto al suolo la velocità V + v, bensì una velocità data da:

V+v / [1+(V*v)/c²]

dove c, come al solito, indica la velocità della luce. Questa è una regola valida in tutti i casi: essa si applica altrettanto bene alle velocità prossime a quella della luce come pure alle piccole velocità. In quest'ultimo caso, infatti, essendo V e v piccole, il rapporto

V*v/c²

è praticamente uguale a zero e la formula precedente si riduce alla nota espressione classica

V+v

Vediamo ora come si comporta la formula di Einstein nel caso in cui le velocità considerate - una o tutt'e due - sono dello stesso ordine di c.
Per fissare le idee supponiamo che la velocità dell'auto di cui si parlava all'inizio e quella del sasso siano ciascuna i 3/4 della velocità della luce: secondo la regola classica la velocità del sasso rispetto al suolo dovrebbe risultare

¾c+¾c=3/2c

quindi superiore alla velocità della luce. Vediamo invece il risultato secondo la regola di addizione di Einstein:

V+v / [1+(V*v)/c²]= ¾c+¾c / [1 + (¾c*¾c)/c²] =3/2c / [1 + (9/16c²)/c²]=

=3/2c / (1+9/16)= 3/2c / 25/16 = 3/2c * 16/25 = 24/25

Troviamo cosi' un risultato che è inferiore alla velocità della luce. Ridotto in percentuale, esso è precisamente il 96% di c. In conclusione la velocità del sasso rispetto al suolo è, nonostante le aspettative, minore di c.

Luce come costante

La formula relativistica per la composizione delle velocità è tale che la risultante di due velocità è sempre minore della loro somma. In particolare, se una delle due velocità da sommare è la velocità della luce, la velocità risultante sarà sempre uguale alla velocità della luce. Facciamo ora un caso limite: immaginiamo di lanciare da un'auto in corsa il sasso con una velocità pari a quella della luce. Essendo sempre V la velocità della macchina, avremo:

V+c / [1+(V*c)/c²] = V+c / (1 + V/c) = V+c / [(c+V)/c]= c*(V+c) / (V+c) =c

Il calcolo ci dà come risultato la velocità della luce.

E' meglio precisare che la velocità della luce cui si fa normalmente riferimento è quella che corrisponde alla proazione delle onde elettromagnetiche nel vuoto. Per esempio la luce visibile, le onde radio o i raggi X rivelati sulla Terra dagli osservatori astronomici, e che sono stati emessi da oggetti cosmici lontani, hanno attraversato a questa velocità (approssimativamente 300.000 km/secondo) gli spazi intergalattici.
La velocità della luce che attraversa la materia è inferiore a quella nel vuoto, e inversamente proporzionale all'indice di rifrazione del mezzo considerato.
Nell'acqua, per esempio, la velocità della luce si riduce a circa 230.000 km/secondo; nel vetro, a circa 200.000 km/secondo. E' questa la velocità a cui vengono trasmessi i dati trasmessi lungo le linee di telecomunicazione a fibre ottiche.
In particolare, sebbene la teoria della relatività stabilisca che la velocità della luce nel vuoto è insuperabile, la riduzione della velocità della luce nell'attraversare la materia fa sì che possano esistere particelle che, in un dato materiale, si muovono a velocità superiore a quella della luce in quel materiale.
Tale fenomeno è stato rivelato per primo dal fisico russo Cerenkov, che osservò l'effetto, simile per molti versi all'onda d'urto dì un velivolo supersonico, di particelle in moto a velocità superluminali (che ora va sotto il nome di 'effetto Cerenkov').
Le prime misure della variazione della velocità della luce attraverso diversi materiali risalgono alla metà dell'Ottocento, quando il fisico francese Armand Hippolyte Fizeau, dopo aver ottenuto un'accurata misura nell'aria, costruì un'ingegnosa apparecchiatura per misurare non soltanto la velocità della luce nell'acqua, ma anche la sua variazione al variare della velocità dell'acqua attraversata. La formula empirica ottenuta da Fizeau trovò spiegazione soltanto con l'avvento della teoria della relatività speciale di Einstein.

Il postulato di Einstein, secondo cui la velocità della luce nel vuoto non cambia con la velocità della sorgente, era ispirato dalla presenza della costante c, indipendente dal sistema di riferimento adottato, nelle equazioni dell'elettromagnetismo derivate dallo scozzese James Clerk Maxwell.
Il postulato, oltre a essere giustificabile a posteriori sulla base della coerenza interna della teoria di Einstein e della riconosciuta validità delle sue previsioni ha ricevuto nel frattempo numerose conferme sperimentali, per esempio dall'osservazione astronomica delle stelle binarie.
Nei sistemi binari in cui una stella più piccola ruota rapidamente intorno a una stella più grande, l'immagine della stella piccola appare infatti nitida, al telescopio, durante tutte le fasi dell'orbita, sia quando la stella si sta allontanando da noi, sia quando si sta avvicinando.
Se la velocità della luce emessa variasse con la velocità della stella relativa a noi, riceveremmo in ogni dato istante segnali luminosi emessi dalla stella durante fasi diverse della sua orbita, e dovremmo invece osservare un immagine diffusa e indistinta.

Dilatazione tempi

Abbiamo visto come due eventi giudicati contemporanei da un osservatore, possono non essere tali per un altro. Vediamo ora di confrontare le durate di uno stesso fenomeno, così come risultano dalle misure effettuate da due osservatori O e O' in moto relativo.
Trattandosi di una misura di tempo, i nostri osservatori devono essere muniti di orologi.
Questo problema discende dalla necessità di verificare se due eventi che siano risultati simultanei a due osservatori in quiete, continueranno ancora ad apparire tali anche a due osservatori che siano dotati invece, l'uno rispetto all'altro, di moto relativo e uniforme.
Supponiamo per esempio che sia presente un osservatore proprio nel punto equidistante fra i due orologi e che, all'inizio dell'esperimento, vi sia anche un osservatore in movimento che passi proprio in quel momento nello stesso punto centrale. Entrambi gli orologi, da fermi, segnano le sette e, in accordo con il programma dell'esperimento, da ognuno dei due orologi parte un segnale luminoso. Dal punto di vista dell'osservatore fermo nel punto equidistante dai due orologi, i due segnali luminosi, qualche istante dopo, giungono simultaneamente in quel punto. La stessa cosa però non è più valida dal punto di vista di quell'osservatore in moto che si trovava a passare, in quell'istante, per lo stesso punto intermedio fra i due orologi. Infatti, poiché questo si sta muovendo, dirigendosi verso uno dei due orologi e allontanandosi contemporaneamente dall'altro, la distanza che il primo segnale luminoso deve percorrere prima di raggiungere i suoi occhi risulta essere inferiore a quella che deve invece essere percorsa dal secondo segnale e quindi, tenuto in debito conto il fatto che la luce si muove con velocità costante, il primo impulso luminoso raggiungerà l'osservatore mobile prima di quanto non faccia il secondo. L'osservatore mobile ne dovrà allora dedurre, seguendo la medesima definizione operativa di simultaneità adottata in precedenza, che i due eventi non sono più simultanei e che quindi i due orologi non sono tra loro sincronizzati.
Ne discende quindi che l'osservatore in moto e quello fermo nel punto intermedio fra i due orologi non sarebbero più assolutamente in accordo sulla sincronizzazione dei due orologi. Il tempo misurato nel sistema di riferimento mobile, risulta quindi diverso da quello misurato nel sistema fisso.
Non vi è proprio assolutamente nulla da fare per cambiare questa situazione poiché questa è una diretta conseguenza del fatto che la luce non si muove a velocità infinita. Sino al momento in cui Einstein non aveva ancora effettuato questa approfondita analisi del fenomeno, era praticamente e tacitamente assunto da tutti che la frequenza del tic-tac di un certo orologio fosse esattamente sempre la stessa, sia che l'orologio fosse in quiete, sia che si muovesse con una certa velocità.
Nel suo lavoro Einstein, non solo afferma che invece questo non è vero, ma è in grado di derivare anche una formula matematica capace di predire di quanto il periodo di un certo orologio in movimento si dovesse ridurre rispetto a quello presentato dallo stesso orologio in quiete.

t=t¹ * 1 / radice di 1-v²/c²

Questa derivazione si serve di entrambi i principi fondamentali su cui è basata tutta la teoria di Einstein, la validità cioè del principio di relatività e di quello della velocità di proazione della luce. Ciò che colpisce è come questa formula sia, da un punto di vista matematico, straordinariamente semplice. La logica che sottende questa formula è molto sottile, ma nessuno dei passaggi matematici è tale da non poter essere completamente compreso da chiunque abbia una sia pur minima conoscenza di algebra. Questa formula mostra in maniera incontrovertibile come lo scorrere del tempo risulti molto più lento in un sistema dotato di movimento di quanto non avvenga invece nel caso di un sistema fermo. Questa formula matematica presenta una caratteristica di particolare importanza; perde completamente di significato nel caso in cui l'orologio che si suppone in moto risulta viaggiare ad una velocità superiore a quella di proazione della luce. Più esattamente deriva da questa formula che il periodo di un orologio in moto diventa sempre più lungo man mano che, aumentando la velocità dell'orologio stesso, questa si avvicina a quella della luce. Dal punto di vista dell'osservatore in quiete, all'aumentare della sua velocità l'orologio in moto andrà sempre più indietro.
La formula ottenuta da Einstein afferma che, nel caso in cui l'orologio in moto raggiungesse la velocità della luce, il suo periodo, quale visto dall'osservatore in quiete, diventerebbe infinito; lo scorrere del tempo sarebbe cosi arrestato. La velocità della luce è quindi in questa teoria un limite superiore. naturale, e questo è proprio ciò che è necessario assumere per evitare il paradosso di cui abbiamo parlato in precedenza. Per la dilatazione del tempo, cosi come per la contrazione delle lunghezze, gli effetti relativistici sono tipicamente proporzionali al quadrato del rapporto esistente tra la velocità di cui è dotato il corpo in movimento e quella della luce nel vuoto. Servendosi della formula di Einstein si può mostrare facilmente, per esempio, che se un orologio si muovesse ad una velocità pari alla metà di quella della luce, il tempo da questo misurato risulterebbe ritardato di circa il 13% rispetto a quello indicato da un orologio identico in quiete. Ne discende che per tutte le velocità raggiungibili sulla Terra, anche di diverse centinaia di chilometri all'ora, l'effetto della dilatazione del tempo è, dal punto di vista pratico, completamente trascurabile. Nel suo lavoro, Einstein presenta un simpatico esempio per dare risalto al principio stesso: egli immagina due orologi identici, dei quali uno sia posto al polo Nord, l'altro all'Equatore. Se ne deve dedurre che l'orologio all'Equatore dovrà, sia pure di una frazione piccolissima, andare indietro rispetto a quello posto sul polo, poiché mentre questo è praticamente fermo, ruotando su se stesso, quello all'Equatore risentirà completamente del moto di rotazione terrestre, risultando quindi in movimento rispetto al primo.
E' chiaro che, in questo caso, essendo il rapporto tra la velocità di rotazione della Terra e quella della luce estremamente piccolo, non vi sarà alcun effetto realmente misurabile; è importante realizzare però come vi siano diversi fenomeni naturali, per esempio nel campo della fisica delle particelle elementari, in cui invece questa prevista contrazione dello scorrere del tempo gioca un ruolo cruciale e direttamente osservabile.

Ci proponiamo, ora, di confrontare le misure di due intervalli di tempo eseguite dagli osservatori O e O' in moto rettilineo uniforme l'uno rispetto all'altro e di far vedere come in un sistema in movimento la durata Dt di un fenomeno è maggiore di quella Dt' dello stesso fenomeno quando il sistema è fermo. In particolare, se v è la velocità del sistema in moto, la durata del fenomeno appare per O' dilatata del rapporto:

1 / radice di 1 - ß² con ß= v/c

Per mettere in evidenza questa sorprendente proprietà del tempo, consideriamo un orologio alquanto ideale, schematicamente rappresentato in ura. L'orologio è ideale nel senso che pur essendo concettualmente possibile non è praticamente realizzabile. Esso però presenta il vantaggio di essere uno strumento razionale per descrivere le misure temporali connesse con il rallentamento degli orologi in moto, o, come spesso si dice, per evidenziare la dilatazione dei tempi. Si tratta di un orologio, detto 'a luce', nel quale immaginiamo di sostituire il bilanciere con un pennello di luce che, una volta emesso, possa riflettersi, alternativamente su e giù, sugli specchi S1 e S2 posizionati entro una scatola cilindrica. Se, per esempio, la scatola è alta 15 cm, il segnale luminoso impiega circa un miliardesimo di secondo per percorrere in andata e ritorno l'altezza del cilindro. Questo tempo si può far corrispondere a un 'tic-tac' dei nostri comuni orologi. Ciò premesso, fissiamo l'attenzione su un lampo di luce che successivamente si riflette tra due specchi S1 ed S2. Il tempo impiegato dal lampo per percorrere la distanza d dallo specchio S1 allo specchio S2 e ritornare in S1, dopo essersi riflesso in S2, rappresenta il periodo di questo orologio a luce.
Consideriamo ora due orologi a luce, uno dei quali è collegato a un osservatore O, mentre l'altro è fissato a un osservatore O'. Se i due osservatori sono fissi, gli orologi hanno lo stesso periodo e quindi il Dt di O coincide con il tempo Dt' di O'.
Immaginiamo ora ( .sotto) che l'osservatore O' si muova con velocità costante v insieme al suo orologio rispetto all'osservatore O. L'osservatore O' non nota nulla di nuovo, nel senso che, osservando il proprio orologio, vede il lampo di luce andare su e giù tra i due specchi, in quanto per lui il proprio orologio è fermo.
L'osservatore O che osserva l'orologio O' vede invece il lampo di luce procedere obliquamente. Durante il tempo Dt' impiegato dalla luce rispetto ad O' per andare dallo specchio inferiore a quello superiore, il lampo di luce percorre, rispetto all'osservatore O, il tratto L, ipotenusa del triangolo rettangolo avente per cateti la distanza d tra gli specchi e la distanza a percorsa dall'orologio rispetto a O. Quindi lo spazio percorso dalla luce rispetto ad O è maggiore di quello percorso dallo stesso lampo rispetto ad O'. Poiché la velocità della luce è uguale rispetto ai due osservatori, concludiamo che il tempo Dt impiegato dalla luce per andare da S1 a S2 e misurato dall'osservatore O è maggiore di quello registrato dall'osservatore O'.
Troviamo ora la relazione che intercorre tra i due intervalli di tempo Dt e Dt'.

1)L²=d²+a²

D'altra parte è anche

L=c*t

2) tutto sotto sistema d=c*t¹

a=v*t

in quanto a e L sono le distanze percorse rispetto all'osservatore O rispettivamente dall'orologio mobile e dal lampo di luce durante il tempo Dt, mentre d è la distanza tra S1 e S2, percorsa dalla luce nell'intervallo di tempo Dt'.

Sostituendo le -2- nella -l- si ricava:

c²*t²=c²*t¹ ² + v*t²

da cui:

t=t¹ * 1 / radice di 1-v²/c²

Ponendo infine ß= v/c

t=t¹ * 1 / radice di 1-ß²

Si vede che, mentre l'orologio mobile misura il tempo Dt', per l'osservatore O è passato un tempo maggiore. In altri termini, l'orologio dell'osservatore O' è più lento di quello dell'osservatore O. Un intervallo di tempo Dt' per O' viene, rispetto ad O, dilatato secondo il rapporto indicato nella -3-.
L'intervallo di tempo Dt' misurato dall'osservatore O', nel proprio sistema di riferimento in cui l'orologio è in quiete, si chiama tempo proprio.
Il corrispondente intervallo di tempo Dt, misurato dall'osservatore O rispetto al quale O' è in moto con velocità v, si chiama invece tempo non proprio.
Per concludere, facciamo presente che i risultati dedotti misurando il tempo con un orologio a luce valgono in generale, in quanto tutti gli orologi di O', qualunque sia il principio di funzionamento, ritardano rispetto ad O. In O' qualsiasi fenomeno subisce un rallentamento rispetto a quando O' si trova immobile rispetto all'osservatore O. Per esempio, l'osservatore O vede O' fumarsi una sigaretta o mangiare più lentamente rispetto a quando quest'ultimo rimane fermo rispetto ad O.
Ribadiamo nuovamente che quando, per una certa sintesi, diciamo che 'gli orologi in movimento vanno più lentamente' intendiamo affermare che, se un orologio si muove con velocità costante rispetto a un riferimento inerziale nel quale sono distribuiti una successione di orologi tutti in riposo e sincronizzati fra loro, l'orologio sarà visto andare 'più lentamente' rispetto agli orologi stazionari.
Più in generale, la scala temporale di O e quella di O' sono diverse se gli osservatori si trovano in uno stato di moto relativo.

È bene chiarire che la dilatazione dei tempi non è un effetto apparente, o un miraggio dovuto alle peculiarità dei nostri sistemi di misura del tempo, bensì un effetto reale e osservabile. In un sistema di riferimento che si muove rispetto a noi, il tempo scorre realmente a rilento; per chi sta in quel sistema, naturalmente, tutto pare procedere a ritmo normale, poiché anche gli 'orologi interni' dei sistemi biologici battono in ritardo.
La dilatazione dei tempi è tanto maggiore quanto maggiore la velocità del sistema di riferimento considerato. Per un oggetto che si muovesse alla velocità della luce (eventualità peraltro esclusa dalla teoria di Einstein), il tempo non scorrerebbe affatto.
Il ritardo degli orologi sui satelliti artificiali dovuto alla dilatazione dei tempi prevista dalla relatività speciale è misurabile. Ma anche la teoria della relatività generale prevede un'alterazione dello scorrere del tempo, dovuta alla differenza nell'intensità del campo gravitazionale in cui si muove il satellite, rispetto a quella cui è sottoposto di chi sta a terra. Le correzioni che permettono alle comunicazioni via satellite di funzionare tengono conto di entrambi gli effetti.

L'effetto di dilatazione dei tempi fu proposto per primo da Hendrik Antoon Lorentz, il quale aveva interpretato i risultati di Michelson e Morley invocando un effetto del vento d'etere su tutte le misure convenzionali di spazio e tempo. In base ad alcune ipotesi non irragionevoli sulle forze elettromagnetiche, Lorentz dimostrò che il vento d'etere doveva produrre un accorciamento dei corpi lungo la direzione del vento, e doveva anche alterare il ritmo degli orologi, anzi di qualsiasi sistema fisico con interazione elettromagnetica, compresi i sistemi biologici. Il 'Principio degli stati corrispondenti' di Lorentz continua, in sostanza, ad ammettere l'esistenza dell'etere e di un sistema di riferimento privilegiato a esso ancorato, pur se non rivelabile attraverso esperimenti di natura elettromagnetica. Questa posizione contrasta, ovviamente, con la relatività galileiana e richiede correzioni alle trasformazioni di Galileo. Queste correzioni, le 'trasformazioni di Lorentz', si rivelarono quantitativamente esatte e furono portate a nuova vita da Einstein, che le dedusse dai postulati della sua teoria della relatività. Nel 1904 Henri Poincaré, che da tempo aveva espresso scetticismo sull'obiettività del concetto di simultaneità e sull'esistenza stessa dell'etere, cercò di superare le limitazioni della teoria di Lorentz proponendo che venisse data dignità di variabile fisica a un 'tempo locale', dipendente dall'osservatore.
L'approccio di Einstein nel 1905 differisce in modo sostanziale da quello di Lorentz ed è più vicino a quello di Poincaré: in particolare, Einstein ritenne insoddisfacente la conclusione lorentziana secondo cui, miracolosamente, l'etere esisteva ma aveva proprietà tali da renderlo inosservabile, e ritenne di dover privilegiare la conservazione del Principio di relatività galileiano, in una versione estesa a comprendere i fenomeni elettromagnetici.

Contrazioni lunghezze


Abbiamo visto come la nozione di durata di un fenomeno sia connessa con quella di sistema di riferimento, nel senso che la valutazione di un intervallo di tempo dipende in maniera essenziale dall'osservatore. Lo stesso concetto vale per la nozione di lunghezza: nel seguito ci proponiamo appunto di confrontare le lunghezze che due osservatori inerziali O e O' attribuiscono ad uno stesso corpo, per esempio una sbarra rigida.

Immaginiamo che la sbarra sia ferma rispetto ad O e sia l la sua lunghezza per questo osservatore (lunghezza di quiete). L'altro osservatore O' si muova rispetto ad O con velocità v, in una direzione parallela alla lunghezza della sbarra. (Questo equivale a dire che la sbarra si muove rispetto ad O' con velocità -v, cioè con la stessa velocità ma in senso opposto). Vogliamo ora determinare la lunghezza l' della sbarra così come viene valutata da O'. Faremo questo mediante un semplice ragionamento.
Supponiamo che O' veda passare davanti a sé la estremità anteriore dell'asta all'istante t'1 e l'altra estremità all'istante t'2: il tempo che il corpo impiega a passare è per l'orologio di questo osservatore

t¹= t'2 -t'1

Per la legge del moto uniforme questo intervallo di tempo è legato alla lunghezza della sbarra dalla relazione

l¹= v*t¹

Stabiliamo ora la relazione che lega queste stesse quantità nel sistema di riferimento di O. Dal punto di vista di questo osservatore l'asta è ferma ed è O' che si muove percorrendo la lunghezza l in un tempo Dt, di modo che

l= v*t

Dividendo membro a membro queste due ultime relazioni si deduce l'uguaglianza dei rapporti

l¹/l=t¹/t

Ricordando che

t¹/t = radice di 1 - ß²

si ha:

l¹= l*radice di 1 - ß²

La sbarra risulta pertanto accorciata di un fattore radice di 1 - ß² rispetto alla sua lunghezza di quiete, giacché come si sa questo fattore è un numero minore di uno.
L'effetto di cui abbiamo parlato va sotto il nome di 'contrazione delle lunghezze'.Come per il tempo, scopriamo che anche lo spazio assoluto della meccanica classica non esiste. Lo stesso oggetto ha lunghezze diverse in sistemi di riferimento in moto relativo tra loro. Questo carattere relativo dei valori delle grandezze fisiche è la proprietà che dà il nome a tutta la teoria einsteiniana della relatività.

Parlando della dilatazione degli intervalli di tempo, sappiamo che la lunghezza di un segmento posto in direzione perpendicolare al moto appare uguale ai due osservatori O e O'. Però, dopo avere scoperto la contrazione delle distanze poste nella direzione del moto, potremmo dubitare di tale affermazione. In realtà, ogni eventuale sospetto è immotivato: se abbiamo due sistemi di riferimento inerziali S1 e S2, con quest'ultimo che si muove, rispetto al primo, a velocità costante v, tutti i segmenti perpendicolari a v,risultano della stessa lunghezza per gli osservatori solidali con i due sistemi.

Paradosso gemelli


Nel 1911 Einstein in un suo scritto aveva osservato che: 'Se un organismo vivente, dopo un volo arbitrariamente lungo ad una velocità approssimativamente uguale a quella della luce, potesse ritornare nel suo luogo di origine, egli sarebbe solo minimamente alterato, mentre i corrispondenti organismi rimasti già da tempo avrebbero dato luogo a nuove generazioni'. Questa sconcertante affermazione rappresenta una diretta conseguenza della dilatazione del tempo.

Anche se il differenziato comportamento degli orologi è valido nella relatività ristretta solo per un moto relativo rettilineo uniforme, e in tali condizioni dovrebbe essere verificato, immaginiamo che l'orologio stazionario sia un organismo vivente di nome Franco, mentre l'orologio viaggiante, sincronizzato col primo, sia un suo gemello di nome Ciccio.
Nell'ipotesi che gli orologi biologici (ritmiche pulsazioni del cuore, battiti del polso) si comportino come gli ordinari segna tempo, supponiamo che il giorno del venticinquesimo compleanno Ciccio possa partire con una nave spaziale che si muove con velocità costante rispetto alla Terra e quindi rispetto a Franco.
Poiché nel veicolo spaziale in movimento tutti i fenomeni, compresi quelli biologici, scorrono più lentamente, anche l'invecchiamento di Ciccio avviene con un ritmo più lento. In altri termini, Ciccio, dopo avere fatto un lungo viaggio, ritornando sulla Terra, trova Franco più invecchiato.
Teoricamente, nell'arco della vita umana un astronauta potrebbe fare un viaggio verso una lontana stella e fare ritorno in un mondo del futuro, in quanto sulla Terra sarebbero trascorsi alcuni secoli.

Naturalmente per la -3- l'effetto è tanto più consistente quanto maggiore è la velocità v della nave spaziale. Se invece la velocità v è piccola rispetto alla velocità c della luce, come avviene in tutti i voli spaziali che si stanno realizzando in questi anni, la dilatazione del tempo è praticamente trascurabile.
Per esempio, supponiamo che Ciccio voli 10 anni del tempo misurato sulla nave spaziale con velocità v = 0,98 c rispetto alla Terra. Sempre in base alla -3- per Franco è passato un tempo

t= * 1 / radice di 1-(0,98)² anni = 50 anni


Quindi al termine del volo Ciccio avrà solo 35 anni, mentre Franco ne avrà 75, cioè Franco invecchia più di Ciccio.

Il problema dei gemelli però sembra condurre a un paradosso. Infatti, quando Ciccio dalla sua nave spaziale guarda la Terra, osserva gli orologi di Franco procedere più lentamente, perché anche questi sono in moto rispetto all'astronave; perciò Franco dovrebbe invecchiare meno di Ciccio.
Questo tipo di ragionamento però sarebbe esatto solo se il problema dei gemelli fosse esattamente simmetrico, se cioè i gemelli si trovassero sempre nelle stesse condizioni di moto.
In realtà non è così perché Ciccio deve accelerare al momento della partenza e dell'arrivo; inoltre, per poter tornare sulla Terra deve invertire rotta e durante questa fase del volo la nave spaziale è soggetta ad accelerazioni.
Ciccio ha quindi la possibilità di accorgersi di queste accelerazioni, perché si manifestano rispetto ad esso forze d'inerzia che agiscono su di lui e su tutti gli oggetti dell'astronave. Succede quindi nella nave spaziale qualcosa di nuovo rispetto a Ciccio, mentre Franco non subisce nulla di tutto questo.
Il problema è perciò asimmetrico ed è per questo motivo che, eseguendo con attenzione un corretto calcolo, Ciccio al suo ritorno sulla Terra trova effettivamente Franco più vecchio.
Certamente questa giovinezza più lunga per Ciccio non può essere sperimentalmente verificata finché non si comunica alla nave spaziale una velocità non trascurabile rispetto a quella della luce, e almeno per il momento non se ne vede la possibilità.

Massa-velocità

Un'altra importante conseguenza dei postulati della relatività è l'aumento della massa di un corpo a causa della sua velocità.

Immaginiamo due osservatori inerziali O e O' in moto relativo. O' porta con sé alcuni strumenti di misura, precisamente un metro, un orologio e un chilogrammo. Se O fa una verifica della precisione di tali strumenti, dal suo riferimento egli trova che il metro di O' è troppo corto e che l'orologio va indietro rispetto al suo. E fin qui non c'è niente di nuovo rispetto a quanto ci attendevamo. La novità riguarda invece il chilogrammo di O'. Infatti O trova che il campione trasportato dall'altro osservatore è più 'pesante' del proprio di un fattore radice di 1 - ß² In verità l'aggettivo 'pesante' non è del tutto appropriato, bisognerebbe dire più correttamente che la massa del chilogrammo di O' appare ad O più grande del normale.
Se la verifica venisse fatta da O' sugli strumenti di O, si giungerebbe esattamente alle stesse conclusioni in senso inverso. Come tante volte ci è capitato di dire infatti, tra i due osservatori non c'è nessuna differenza, e ognuno di essi può considerare se stesso fermo e l'altro in moto.

Possiamo ora generalizzare l'affermazione precedente come segue: sia m0 la massa di un oggetto quando è fermo ed m, la massa dello stesso oggetto quando è in moto con velocità v -rispetto ad uno stesso osservatore-; queste masse risultano legate dalla relazione

m=m° * 1 / radice di 1-v²/c²

Poiché il denominatore di questa frazione diminuisce al crescere di v, è evidente che il valore di m appare tanto più grande quanto maggiore è la velocità, fino a diventare addirittura infinito quando v = c.

E' possibile dare una giustificazione di quanto abbiamo detto mediante una considerazione intuitiva basata sul concetto di massa e sulla costanza della velocità della luce.
La massa rappresenta la resistenza, o inerzia, che un corpo oppone ad ogni variazione della sua velocità; per questo talvolta viene anche chiamata massa inerziale. Si capisce che per conferire al corpo una certa velocità occorre farlo accelerare, vincendo la sua inerzia mediante l'applicazione di una forza che lo spinga: in tali condizioni il corpo accelera costantemente acquistando sempre maggiore velocità. Ora, mentre la meccanica classica non poneva alcun limite a questo processo di accelerazione -le velocità raggiungibili potevano essere comunque grandi- la relatività ci dice che, quando la velocità diviene molto prossima a c, il corpo non può subire ulteriori accelerazioni perché la velocità della luce è un limite insuperabile. Le cose vanno perciò come se la resistenza del corpo, e quindi la sua massa vada aumentando, fino a diventare, vicino a quel limite, talmente grande da non consentire alcun altro aumento di velocità.

Verifica sperimentale della variazione della massa con la velocità:Una delle conferme più valide della teoria della relatività è costituita dalla verifica sperimentale della variazione della massa con la velocità. La prima prova fu fornita da un'esperienza condotta da Bucherer nel 1909 e che consisteva nel determinare la massa degli elettroni emessi dalle sostanze radioattive. Questi elettroni costituiscono la cosiddetta 'radiazione beta' e possiedono una gamma di velocità che in alcuni casi si estende fino a valori molto vicini alla velocità della luce. Essi pertanto si prestano molto bene ad esperimenti sulla dipendenza relativistica della massa dalla velocità.
In precedenza la massa elettronica era stata determinata in modo abbastanza preciso, tramite esperimenti sui raggi catodici. Il valore trovato, per le modeste velocità degli elettroni nei tubi catodici, poteva essere assunto come massa di quiete delle particelle.

Nelle apparecchiature di Bucherer, gli elettroni aventi una certa velocità venivano prima convogliati in una determinata direzione, e poi venivano fatti passare attraverso un campo magnetico. Questo, come è noto, esercita sulle particelle una forza perpendicolare alla direzione del moto, la quale - proprio a causa di questa perpendicolarità - non provoca un aumento di velocità delle particelle, ma semplicemente un incurvamento delle loro traiettorie.

Nella ura la direzione del campo magnetico è perpendicolare al piano del foglio; v indica la velocità della particella ed F la forza agente su di essa.

Ora, l'entità dell'incurvamento suddetto dipende dalla massa della particella, nel senso che, maggiore è la massa (inerzia) e più difficile è farla deviare dalla direzione rettilinea. Basandosi su questo fatto e prendendo in esame elettroni con diverse velocità, Bucherer poté determinarne di volta in volta la massa studiando la deflessione delle traiettorie. I valori così trovati risultavano diversi alle diverse velocità e variavano proprio nel modo previsto dalla formula

m=m° * 1 / radice di 1-v²/c²

Ulteriori conferme di questa formula si sono avute per mezzo delle macchine acceleratrici. In un primo momento con queste macchine i fisici sono riusciti ad accelerare particelle fino a 285.000 km/sec, ossia il 95% della velocità della luce. A tale velocità la massa delle particelle risultava il triplo della loro massa di quiete. Successivamente si giungeva a risultati ancora più spettacolari, riuscendo ad accelerare gli elettroni fino a velocità solo di qualche km/sec inferiori a quella della luce. L'aumento di massa corrispondente era di circa 900 volte la massa degli elettroni in riposo.

Metrica di Minkowski

La caratteristica essenziale della nuova cinematica è di considerare spazio e tempo come entità inseparabili; l'universo è una varietà quadridimensionale, i cui elementi sono i punti di universo. Spazio e tempo non sono che forme di ordinamento, sino a un certo grado arbitrarie, dei punti di universo. Così esprimeva Minkowski questa idea: 'D'ora in avanti lo spazio e il tempo, concepiti singolarmente, vanno considerati come pure apparenze, e solo una sorta di unione dei due concetti mantiene un carattere di realtà'. Secondo Minkowski, l'ambiente naturale per la descrizione dei fenomeni non è l'usuale spazio a tre dimensioni nel quale viviamo, ma uno spazio a quattro dimensioni, detto spazio-tempo, caratterizzato da quattro coordinate: le tre coordinate spaziali più una quarta coordinata, il tempo. Naturalmente non possiamo rappresentare uno spazio a quattro dimensioni e pertanto ci limiteremo a rappresentare una coordinata spaziale (la x) e la coordinata temporale (la t); il grafico che così si ottiene è detto diagramma di Minkowski. Per quanto riguarda le unità di misura, il tempo verrà misurato in secondi, mentre per lo spazio utilizzeremo il secondo-luce (ossia lo spazio percorso dalla luce in un secondo, che è pari a 299792458 metri). Con la scelta di queste unità la velocità della luce risulta automaticamente posta uguale a 1, il che semplifica tutti i calcoli.
Un evento è rappresentato da un punto nello spazio-tempo e le sue coordinate si ottengono tracciando per il punto le parallele agli assi. Qualunque fenomeno che abbia una certa durata nel tempo può essere considerato come una successione di eventi e quindi è rappresentato da una successione continua di punti, ossia da una linea nello spazio-tempo. Tale linea è detta linea d'universo del fenomeno considerato.

Da un atomo a una stella, da una cellula a un essere vivente, ogni cosa che presenta una certa esistenza temporale può essere rappresentata in un diagramma spazio-tempo. Per esempio, la nascita e la morte sono il primo e l'ultimo evento di un essere vivente. Questa sequenza temporale, come quella che caratterizza l'esistenza di qualsiasi entità concreta, può essere espressa da un succedersi continuo di eventi rappresentabili in un diagramma spazio-tempo mediante una linea, chiamata linea di universo. I punti di questa linea visualizzano istante per istante la posizione nello spazio dell'entità considerata durante la sua esistenza.

Se un oggetto è fermo, la corrispondente linea d'universo è rappresentata da una retta verticale (. a sinistra), in quanto, mentre il tempo scorre, le coordinate spaziali non mutano. Se, invece, l'oggetto si muove con velocità costante v < c la linea d'universo è una retta inclinata la cui pendenza dipende dallo spazio percorso in funzione della velocità dell'oggetto.
Poiché c rappresenta la velocità limite della luce nel vuoto, avendo scelto come unità di misura per l'asse dei tempi il prodotto ct, deve pure esistere una inclinazione limite della linea d'universo che possa corrispondere al moto di un raggio di luce. Nella ura la linea d'universo del raggio è inclinata con un angolo di 45°.

Se due oggetti sono in quiete relativa l'uno rispetto all'altro le loro linee d'universo sono verticali e parallele. Se invece sono in moto relativo le loro linee d'universo non sono più parallele e le coordinate temporali dell'uno non sono generalmente in comune con quelle dell'altro.
 Per visualizzare la rappresentazione grafica nello spazio-tempo, nella ura a sinistra abbiamo rafurato simbolicamente due stelle: il Sole e la stella più brillante della costellazione del Centauro, la cosiddetta aCentauri. Poiché queste due stelle si possono considerare in quiete relativa, le loro linee d'universo sono verticali e parallele e distanti l'una dall'altra di un intervallo spaziale corrispondente a circa 4 anni luce, pari a circa 4.1013 km. Nella stessa ura abbiamo inoltre rappresentato, mediante una linea diagonale ondulata, un raggio di luce che partendo dal Sole raggiunge dopo 4 anni luce l'aCentauri. Il raggio appare inclinato di 45° poiché per ogni osservatore la velocità della luce è sempre la stessa: essa, infatti, percorre in un secondo sempre una distanza pari a 300000 km.
Questa distanza, di poco inferiore a quella fra la Terra e la Luna, viene chiamata secondo luce.

Massa= energia!

Trattiamo, ora, di un importantissimo risultato della teoria. Si tratta di un risultato che ha avuto enormi conseguenze sia dal punto di vista teorico che applicativo. Alludiamo all'equazione di Einstein

E = mc2

Nella formula, E indica l'energia posseduta da un corpo, m la sua massa e c, come al solito, la velocità della luce. L'equazione stabilisce che c'è equivalenza tra la massa di un corpo e la sua energia, secondo un rapporto rappresentato dal quadrato della velocità della luce. In origine questa equivalenza fu ritenuta valida per una particolare forma di energia, e cioè per l'energia cinetica. Possiamo comprendere questo con un semplice ragionamento.
E' noto che l'energia cinetica è quell'energia che un corpo possiede in virtù della sua massa e della sua velocità: un corpo in quiete possiede, ovviamente, una massa, ma non ha energia cinetica; un corpo in moto possiede massa ed energia cinetica. In precedenza abbiamo visto che un corpo in moto a grande velocità oppone maggiore resistenza alle accelerazioni di quanto non ne opponga quando è fermo, ed abbiamo espresso questo fatto dicendo che la massa (inerzia) del corpo aumenta con la velocità. D'altra parte sappiamo che quando la velocità aumenta, anche l'energia cinetica cresce, di modo che possiamo dire che ad un incremento dell'energia cinetica si accomna un aumento della massa del corpo. Le cose vanno quindi come se, conferendo al corpo energia cinetica, non si facesse altro che aggiungere ad esso nuova massa. Possiamo illustrare meglio quest'ultima affermazione, considerando il caso di un corpo che venga accelerato fino ad una velocità prossima a quella della luce. In tal caso, qualunque sia il lavoro fatto per accelerare il corpo, la sua velocità -e quindi la sua energia cinetica- può aumentare solo di poco. Dove va a finire il resto dell'energia spesa per l'accelerazione? Secondo la teoria della relatività la funzione di tale energia è appunto quella di trasformarsi in aumento di massa.

In seguito l'equivalenza massa-energia si dimostrò valida non solo per l'energia cinetica, ma per tutte le altre forme di energia, sicché alla relazione espressa dall'equazione di Einstein deve attribuirsi un significato del tutto generale: 'fra massa ed energia non c'è differenza sostanziale: l'energia possiede massa e la massa rappresenta energia' . Notiamo inoltre che l'equazione presenta un aspetto molto importante anche in termini quantitativi. Il coefficiente c2, infatti, ci dà informazioni precise circa il rapporto di equivalenza. Il fatto che questo coefficiente sia un numero molto grande -il quadrato della velocità della luce- implica come conseguenza che a piccole quantità di materia equivalgono grandi quantità di energia e, viceversa, solo a notevoli quantità di energia corrispondono apprezzabili quantità di materia. Per chiarire il concetto, Einstein paragona il rapporto di scambio tra materia ed energia a quello tra una moneta di altissimo valore (la massa) e una moneta molto deprezzata (l'energia). Qualche esempio concreto riesce meglio a dare una idea di tale rapporto.
Se mediante un qualche processo fisico, un grammo di una qualunque sostanza potesse trasformarsi interamente in energia, l'energia ottenuta potrebbe essere sufficiente per far evaporare 30.000 tonnellate di acqua. Nella trasformazione inversa, l'energia luminosa emessa da una lampada di 100 watt in un'ora darebbe - trasformata in materia - la massa di 42*10-l0 grammi, cioè una frazione di grammo avente per denominatore 1 seguito da dieci zeri.

Facciamo un esempio pratico di come l'energia rappresenti una certa quantità di massa. Consideriamo una lunga scatola appoggiata su una tavola liscia e orizzontale. Se nessuno spinge la scatola, il suo centro di massa, se inizialmente fermo, rimarrà fermo, qualsiasi cosa possa accadere all'interno della scatola. Ma ciò non significa necessariamente che la scatola stessa rimanga ferma: se all'interno della scatola vi sono delle masse che si muovono, la posizione del centro di massa della scatola può cambiare e quindi, rimanendo fermo il centro di massa, la scatola si muoverà.
 Supponiamo ora che all'interno della scatola, a un capo di essa, vi siano una pallina e una robusta molla tenuta compressa da un meccanismo a orologeria. Quando, a un certo istante, il meccanismo scatta e la molla si distende, la pallina viene spinta lungo la scatola. Se l'altro capo della scatola è ricoperto con una sostanza adesiva, tale da trattenere la veloce pallina quando questa lo colpisce, che accade alla scatola?
In questo esperimento la situazione è simile a quella di un fucile che spara: si ha un rinculo, e la scatola comincia a muoversi in direzione opposta alla pallina. Il centro di massa dell'intero sistema (scatola e pallina) si muove rispetto alla scatola, rimanendo fisso nello spazio, per cui la scatola si muove in direzione opposta a quella della pallina. Questo moto continua finché la pallina urta la parte adesiva, cioè finché l'urto non ferma la scatola. Un osservatore esterno vede la scatola, inizialmente ferma, cominciare a un tratto a muoversi, e fermarsi poi in modo ugualmente improvviso, in una posizione differente da quella iniziale. Se questo osservatore conosce la legge della conservazione della quantità di moto, terrà conto del fatto che il centro di massa dell'intero sistema (scatola più contenuto), essendo inizialmente fermo, deve rimanere sempre nella stessa posizione, poiché al sistema non era applicata alcuna forza esterna; egli dedurrà perciò che lo spostamento della scatola deve essere stato provocato da uno spostamento di una massa all'interno della scatola (la pallina). Se sapesse quanto è stato lungo il percorso della pallina e quanto vale la massa della scatola (includendo molla e meccanismo), egli potrebbe dedurre dallo spostamento della scatola la massa della pallina. Questo esempio costituisce una applicazione diretta della dinamica newtoniana, e Newton stesso l'avrebbe potuto realizzare. Ciò che di nuovo ci fa capire Einstein, è quello che succede quando sostituiamo alla pallina del nostro esempio un lampo di luce. La proprietà importante della luce, necessaria alla dimostrazione di Einstein, è che essa esercita una pressione. La luce, incidendo su una superficie nera (su cui viene assorbita) dà ad essa una spinta; se incide su uno specchio (da cui viene riflessa) dà ad esso una spinta doppia. Per qualsiasi intensità di luce realizzabile in pratica questa pressione è molto piccola; tuttavia l'esistenza della pressione segue direttamente dalla teoria della luce di Maxwell (che è venuta quarant'anni prima della relatività) e può essere mostrata, se lo si fa con abbastanza accuratezza. L'apparecchio costituito da una piccola ruota a pale fatta ruotare dalla luce è uno degli strumenti preferiti dai musei delle scienze, e a volte gli ottici ne espongono uno in vetrina.

Supponiamo ora di avere la stessa scatola di prima, ma in cui il meccanismo a orologeria chiude un contatto che connette una batteria a una lampadina, la quale emette un breve e intenso lampo di luce. Tutte le pareti sono lucide e riflettono la luce, eccetto quella che si trova dalla parte opposta della lampadina, che invece è nera.
Quando si chiude il circuito la lampadina emette luce in tutte le direzioni. Se la lampadina è vicina a un estremo della scatola, metà della luce rimbalza immediatamente su questa parete ed esercita una pressione su di essa, che mette in moto la scatola; quando la luce un più tardi urta la parete nera (poiché la luce impiega un certo tempo anche per percorrere una scatola) tutta la luce ora esercita una pressione che ferma la scatola. Per l'osservatore esterno la situazione in linea di principio è perciò identica a quella della pallina: la scatola, inizialmente ferma, a un tratto comincia a muoversi fermandosi poi in una posizione diversa da quella iniziale. L'osservatore deve perciò dedurre che è stata trasferita una certa massa dall'estremo in cui si trova la lampadina a quello in cui è la parete nera, e può calcolare la quantità di massa dallo spostamento della scatola. La teoria della luce di Maxwell mostra che la pressione della luce su una superficie nera è uguale all'intensità divisa per la velocità della luce: combinando questa relazione con il tempo impiegato dalla luce e con la durata del lampo, Einstein trovò che la massa trasferita è uguale all'energia del lampo di luce divisa per il quadrato della velocità della luce.
E' fuor di dubbio che è stata trasferita dell'energia dall'estremo in cui è la lampadina (dove l'energia inizialmente era immagazzinata nella batteria) alla parete nera, che è stata riscaldata dalla luce assorbita. L'esperimento ideale di Einstein mostra che questo trasferimento dell'energia E è accomnato da un trasferimento della massa m, queste due quantità essendo legate dalla E = mc2 Quindi l'energia della luce, proprio come l'energia di moto, ha una massa. Inoltre, partendo dalle nostre conoscenze, possiamo dedurre, come prima, che tutta l'energia deve avere una massa, ricavabile da questa relazione.

Per venire ora all'altro problema, cioè se anche la massa a riposo rappresenti dell'energia, dobbiamo tornare alla fisica nucleare. Tutti i nuclei sono composti da protoni e neutroni; la massa di un nucleo composto è minore (all'incirca dell'1 %) della somma delle masse dei protoni e neutroni di cui è fatto; questa differenza si spiega con l'energia liberata (e sfuggita in forma di radiazione) quando i protoni e i neutroni si uniscono e formano il nucleo composto. Ciò sta alla base della produzione di energia nucleare (bombe atomiche, centrali elettronucleari), e prova la completa equivalenza di massa ed energia. Quindi la teoria di Einstein non soltanto ha unificato l'ottica e la dinamica, non soltanto ha chiarito il significato del tempo e dello spazio, ma ha anche unificato i concetti di massa ed energia.

Verifiche sperimentali sulla relazione massa-energia: Passiamo ora ad analizzare le verifiche sperimentali effettuate per la famosa equazione E = mc2, che lega la quantità di energia E che può venir rilasciata in un processo in cui venga a mancare una certa quantità di massa m. Gli scienziati, per ottenere una verifica di questa equazione, concentrarono subito le proprie ricerche sul mondo dell'atomo o, più esattamente, sul mondo del nucleo. Era noto come il nucleo fosse costituito da ciò che chiamiamo oggi protoni e neutroni; si sapeva inoltre che il protone trasporta una carica positiva quantitativamente uguale a quella dell'elettrone, mentre il neutrone è privo di carica elettrica. I nuclei degli elementi più leggeri sono costituiti da un minor numero di protoni e neutroni, mentre per nuclei più pesanti detto numero aumenta. Per esempio, il nucleo dell'elemento più leggero (l'idrogeno) consiste di un unico protone, mentre il nucleo dell'uranio (che è uno dei più pesanti) contiene 92 protoni e 146 neutroni. Caratteristica importante dei nuclei, presto riconosciuta, fu che neutroni e protoni dovevano essere tenuti insieme, a formare il nucleo, da forze di enorme intensità. Questo risulta particolarmente chiaro se si pensa che, normalmente, le cariche dello stesso segno tendono a respingersi fortemente l'una con l'altra; quindi, quando queste particelle, nel nostro caso i protoni, vanno a costituire il nucleo, le forze nucleari che lo tengono insieme devono essere di molto più intense di quelle, elettromagnetiche, che tenderebbero a respingere i protoni fra loro. Ne dobbiamo dedurre che l'edificio del nucleo è tenuto insieme da ciò che prende comunemente il nome di energia di legame. Se un nucleo viene suddiviso in parti più piccole, questa energia di legame, che in precedenza lo teneva unito a scapito delle forze di repulsione elettriche, verrà rilasciata.
Noi sappiamo che uno dei principi fondamentali della fisica è quello della conservazione dell'energia. L'energia non può essere, in un sistema isolato, né creata né distrutta, ma solo trasformata da una forma all'altra. Da dove può provenire quindi questa quantità di energia che tiene insieme il nucleo chi lo fornisce? La risposta a questa domanda è proprio data dalla formula di equivalenza fra massa ed energia, derivata teoricamente da Einstein nell'ambito della sua relatività ristretta. Questo afferma, in effetti, che l'energia di legame rilasciata da un nucleo durante la sua eventuale rottura è fornita proprio da parte della massa del nucleo. Se un nucleo presenta una certa massa prima della sua rottura, e nell'atto di questa viene rilasciata una certa quantità d'energia, dobbiamo aspettarci che la massa totale dei frammenti in cui il nucleo stesso si è suddiviso, risulti inferiore alla massa nucleare originale. La massa mancante è proprio quella che, secondo la legge di Einstein, è stata convertita in energia. Se la somma delle masse presentate dai singoli frammenti fosse eguale alla massa nucleare di partenza, l'energia che noi sperimentalmente vediamo essere rilasciata nel processo di frammentazione apparirebbe come misteriosamente creata dal nulla, violando in questa maniera la legge di conservazione dell'energia. E' importante osservare che nei processi nucleari che oggi si conoscono, non si ha mai la possibilità di trasformare tutta la massa nucleare in energia, ma soltanto quella piccola parte della massa corrispondente all'energia nucleare di legame. Per verificare questa ipotesi e indirettamente, anche, la legge E = mc2 proposta da Einstein, fu necessario determinare accuratamente la massa di un particolare nucleo, provocarne artificialmente la rottura, e determinare con grande precisione la quantità d'energia, liberata in questo processo, che abbiamo chiamata energia di legame, e le masse dei singoli frammenti ottenuti dalla rottura dei nuclei di partenza.

Il primo esperimento che portò con successo ad una simile verifica fu eseguito in Inghilterra nel 1932 da Cochroft e Walton. Questi ricercatori riuscirono a colpire un nucleo di litio con un protone di alta energia. Nella tremenda collisione il nucleo di litio si spezza in due parti. Contemporaneamente viene rilasciata verso l'esterno una apprezzabile quantità di energia. Come previsto, la somma delle masse dei due frammenti ottenuti dalla rottura del nucleo di litio risultò inferiore al valore iniziale della sua massa. Cochroft e Walton riuscirono anche a misurare l'energia rilasciata durante il processo, mostrando come questo valore coincidesse, con ottima approssimazione, con quello valutabile mediante la formula di Einstein, inserendo al posto della massa il valore corrispondente alla differenza fra la massa iniziale del nucleo di litio e la somma delle masse dei frammenti ottenuti come risultato della collisione. Ben 27 anni dopo la sua prima previsione, veniva quindi verificata sperimentalmente la legge di equivalenza fra massa ed energia. A questo primo esperimento di Cochroft e Walton ne seguirono molti altri, che portarono tutti a ulteriormente confermare la validità di questa relazione. Fra questi la storia ne annovera due che hanno posto l'intera umanità sull'orlo di un baratro, mettendo in pericolo la possibilità stessa di sopravvivenza del genere umano. Ci riferiamo all'esplosione della prima bomba atomica, ad Alamogordo, nel Nuovo Messico, il 16 luglio 1945, e a quella della prima bomba all'idrogeno, avvenuta nelle isole Marshall, il l° novembre 1952.

Produzione di energia nel Sole e stelle: Il problema di scoprire in che modo il Sole e le stelle producono l'energia che irradiano nello spazio affaticò a lungo la mente degli scienziati. Dapprincipio si pensò che il Sole bruciasse più o meno allo stesso modo di una qualunque sostanza combustibile e che quindi la produzione di energia fosse dovuta ad una ordinaria combinazione chimica. Quest'ipotesi si rivelò inammissibile per il fatto che la combustione si sarebbe dovuta esaurire nel giro di migliaia di anni.

Verso la metà del 1800 fu proposta un'altra teoria basata sulla forza gravitazionale che si esercita tra le varie parti di un corpo celeste e sulla conseguente contrazione della sua massa. Secondo questa teoria il lavoro di contrazione si trasformerebbe in calore conformemente al noto principio di equivalenza, consentendo così al Sole di brillare per un considerevole numero di anni. Il processo in questione avrebbe potuto essere molto lento, ma in effetti non abbastanza per gli avvenimenti della scala geologica.

In tempi più recenti la scoperta della radioattività e la constatazione che le reazioni nucleari comportano sviluppi di energia milioni di volte maggiori delle reazioni chimiche, gettò nuova luce sul problema. Le teorie proposte in tempi recenti si basano su modelli di reazioni nucleari di fusione, che dovrebbero aver luogo sugli astri, in cui la produzione di energia è dovuta ad una corrispondente perdita di massa. Secondo calcoli fatti in questo senso, il Sole irradiando energia subisce una perdita di massa che ammonta all'1 % del totale in un milione di anni. Continuando a 'bruciare' a questo ritmo, occorrono ancora miliardi di anni prima che l'astro si esaurisca cessando quindi definitivamente di splendere.


Effetto Doppler

Fu Christian Doppler (1842) a scoprire che la frequenza di un'onda dipende dal moto della sorgente luminosa e dell'osservatore rispetto al mezzo interposto. Questo fenomeno è abbastanza semplice da osservare nel caso di onde sonore: il fischio di una locomotiva sembra più acuto quando questa si avvicina all'osservatore e diviene più grave a partire dall'istante in cui passa. Al rapido avvicinarsi della sorgente sonora corrisponde un aumento delle fasi delle onde, cosicché massimi e minimi si succedono più rapidamente; in modo del tutto analogo un osservatore in moto verso la sorgente riceve le onde secondo una più rapida successione.
Un fenomeno dello stesso tipo deve valere naturalmente anche nel caso di vibrazioni luminose. Come sappiamo a una frequenza della luce corrisponde un certo colore osservato, in uno spettro che va dal violetto, per le vibrazioni più rapide, al rosso, per quelle più lente. Dobbiamo ritenere allora che, quando la sorgente di luce si avvicina all'osservatore, o viceversa, il colore della radiazione si sposti verso il violetto; quando sorgente e osservatore si allontanano fra loro, lo spostamento sia verso il rosso. Questo fenomeno è stato effettivamente osservato.

Si tenga presente però che la luce emessa da un gas non consiste di tutte le frequenze possibili, ma soltanto di un numero limitato di frequenze. Lo spettro luminoso ottenuto mediante un prisma o un qualunque altro dispositivo, non ha l'aspetto di una distribuzione continua di colore simile a quella dell'arcobaleno, ma è formato da righe colorate, nette e separate fra loro. La frequenza di queste linee spettrali è caratteristica degli elementi chimici contenuti nel gas (analisi spettrale di Bunsen e Kirchhoff, 1859). Lo spettro della luce stellare, per esempio, è di questo tipo, e le righe coincidono con quelle di elementi esistenti sulla terra; da questo risultato, si è portati a concludere che i principali costituenti della materia, anche nelle più lontane regioni dello spazio astronomico, siano gli stessi. Non vi è però una coincidenza perfetta tra le righe di questi due spettri, e le osservazioni hanno messo in evidenza un leggero spostamento in una direzione, per una metà dell'anno, e in direzione opposta per l'altra metà. Queste variazioni della frequenza sono una conseguenza dell'effetto Doppler, dovuto al moto della terra intorno al sole. Se ci riferiamo a una stella in particolare, possiamo pensare che durante una metà dell'anno la terra si avvicini ad essa, e quindi, in corrispondenza a un aumento delle frequenze di tutte le onde luminose della luce stellare, le righe dello spettro appaiano spostate verso l'estremo violetto, mentre, durante l'altra metà dell'anno, quando la terra si allontana dalla stella, si osservi uno spostamento delle righe verso il rosso.
Lo spettro stellare ci fornisce così una immagine suggestiva del moto della terra, anche se all'osservazione il fenomeno non si manifesta in modo completamente chiaro poiché ad esso si sovrappone l'effetto Doppler dovuto al moto della sorgente di luce. Infatti, dato che le stelle non sono a riposo nell'etere, il loro moto deve dar luogo a un ulteriore spostamento delle righe spettrali che, non presentando una variazione annuale, potrà essere facilmente distinto e separato da quello dovuto al moto della terra. Da un punto di vista astronomico anzi, questo fenomeno è ancora più importante, perché ci permette di ottenere delle informazioni sulle velocità anche delle stelle più lontane, in quanto il moto implica un avvicinamento o un allontanamento rispetto alla terra. Ma uno studio più approfondito di questi fenomeni ci allontanerebbe troppo dal nostro scopo.
Ci interessa piuttosto studiare cosa succede quando l'osservatore e la sorgente si muovono nella medesima direzione e con identica velocità. Le ipotesi che possiamo formulare sono: che non si abbia più l'effetto Doppler; che esso dipenda dal moto relativo dei due corpi; che l'effetto non scompaia e sia di conseguenza possibile riconoscere il moto dei corpi attraverso l'etere. In quest'ultimo caso il principio di relatività sarebbe valido per i fenomeni ottici che si verificano tra corpi materiali.

La soluzione di questo problema secondo la teoria dell'etere è che l'effetto Doppler non dipende soltanto dal moto relativo fra la sorgente e l'osservatore, ma anche, sia pure in piccola parte, dai moti di ambedue rispetto all'etere. Questo effetto tuttavia è così piccolo da non poter essere osservato, e inoltre, nel caso di un moto di traslazione comune della sorgente e dell'osservatore, è esattamente zero.
Però, dopo l'abbandono dell'ipotesi dell'etere luminifero, per la luce tale distinzione non ha senso. È quindi necessario rivedere da capo il problema dell'effetto Doppler della luce sulla base di ciò che abbiamo imparato sulla teoria della relatività ristretta. Per prima cosa notiamo che, visto che non esiste un mezzo materiale necessario alla luce per proarsi, il sistema di riferimento S in cui la sorgente è ferma (e l'osservatore si muove con una velocità di modulo v) è del tutto equivalente al sistema S' in cui l'osservatore è fermo. Inoltre, per il primo postulato di Einstein, la forma delle leggi fisiche deve essere la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Quindi non vi è alcuna necessità di studiare i due casi come abbiamo fatto in acustica: il risultato che otterremo in un caso sarà valido anche nell'altro.

Otteniamo che la frequenza f' dell'onda ricevuta dall'osservatore in moto rispetto alla sorgente è

f' =f*radice di (1 - ß) / (1+ß)

Se la sorgente e l'osservatore si avvicinano, la formula precedente continua a valere con il segno di b cambiato; quindi, in tal caso, si ha

f' =f*radice di (1 + ß) / (1 - ß)

Se la sorgente e l'osservatore si allontanano, la frequenza f' dell'onda ricevuta risulta minore di f. Al contrario, se il moto relativo tra la sorgente e l'osservatore è di avvicinamento, f' risulta maggiore di f.

Ciò permette per esempio di misurare la velocità di un aereo rispetto a un radar fermo al suolo: il radar emette onde elettromagnetiche di frequenza fissata, che sono assorbite dall'aereo e poi riemesse. Visto che la sorgente delle onde riflesse (l'aereo) è in movimento rispetto al rilevatore (di nuovo il radar), avviene l'effetto Doppler relativistico.
Così la stazione ricevente, confrontando la frequenza dell'onda emessa con quella dell'onda riflessa, può stabilire sia se l'aereo si sta avvicinando o allontanando, sia il modulo della sua velocità.


Bibliografia

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