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Scultura Classica

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Scultura Classica


Soltanto pochi decenni separano le sculture di Egina da quelle dei due frontoni del tempio di Zeus a Olimpia (465 circa). Il tema è ancora la lotta contro le immagini tenebrose delle antiche saghe: nel frontone orientale Zeus, ritto al centro, assiste alla gara di Enomao e Pelope; nell'occidentale, Febo assiste alla lotta dei Lapiti con i Centauri. L'ignoto, grandissimo MAESTRO DI OLIMPIA, in cui s'è perfino proposto di riconoscere Fidia giovane, concatena ure ed episodi nella stretta di un pathos crescente. Sono gli anni in cui s'inasprisce la lotta contro i persiani, i 'barbari' ; né meraviglia che questa lotta per la libertà contro una forza soverchiante, oscuramente legata a concezioni remote e quasi protostoriche, rianimasse drammaticamente, nelle coscienze, il tema tradizionale del contrasto tra la chiara mitologia delle idee e la buia mitologia delle forze. Se ad Egina la composizione era ancora paratattica, o per giustapposizione di ure isolate, a Olimpia è sintattica o per combinazione di ure in gruppi formanti un unico insieme, quasi un nodo plastico. Là le ure erano collegate dal logico succedere dell'effetto alla causa; qui dalla risposta di un sentimento a un sentimento, di una reazione a un'azione, di un gesto umano a un gesto umano. La causalità non ha l'arbitrarietà del fato, è una legge razionale, superiore; ma è pur sempre una legge, al cui imperio non ci si può sottrarre. A un gesto umano si risponde con un gesto umano: anche se la causa prima rimane una volontà divina, gli impulsi all'agire si suscitano e si attuano nella sfera dell'umano. Ciò che conta non è più l'attuarsi di una legge, ma lo svolgersi nello spazio e nel tempo di un contrasto di sentimenti e di azioni. I gesti non sono mai, tranne che nelle ure divine, conclusi in se stessi; seguitano nell'altra o nelle altre ure del gruppo, si trasmettono da un gruppo all'altro come un'onda di movimento. Anche se la condizione spaziale è sempre quella determinata dal triangolo del frontone con il suo breve incasso che costringe le ure ad allinearsi contro il fondo, il loro annodarsi forma masse animate di luce a cui corrispondono, irregolari e drammatiche, pause scure di vuoto. La correlazione dei gesti delle ure è dialogica, c oncitata, per frasi brevi e taglienti, talvolta interrotte dalla replica immediata, come nella schermaglia delle sticomitìe tragiche. Ad Egina la ura centrale del dio era l'asse della composizione, qui è una cesura tra un'arsi e una tesi, un momento di sospensione al culmine dell'intensità drammatica, di stasi tra due ondate progredienti di moto.



Il racconto ha un suo tempo, ma è un tempo storico, non più l'eternità del divino. Sussiste una simmetria ai lati dell'alta ura centrale, ma è una simmetria di movimenti e non più di posizioni. E la simmetria non è più identità di valori corrispondenti, ma equivalenza di ritmi compositivi. Nella Centauromachia Febo, al centro, volge di scatto il capo ed alza il braccio destro, assegnando la vittoria ai Lapiti: il suo gesto si ripercuote nei gruppi, si trasmette fino all'estremità del frontone. Ma s'intuisce che lo stesso segnale è già stato dato nella direzione opposta, che nello sviluppo dei fatti ai due lati del dio v'è una pur minima diversità di tempi. Dunque l'artista non si accontenta più di 'presentare' il fatto; vuole 'rappresentarlo' , ricostruirlo nel suo svolgersi, farne la storia. La nuova dimensione temporale è, infatti, il tempo storico, e nel racconto storico non tutto può essere detto con lo stesso accento e la stessa forza: il racconto storico non è soltanto descrizione ma valutazione dei fatti. Se il fatto che si vuole accentuare è lo scatto di un braccio che ferisce o la contrazione d'ira e di spasimo del volto di un ferito, bisogna che tutto si ordini in funzione di quel tratto dominante. Il modellato è liscio, pacato, continuo; ma tutti i suoi piani convergono là dove nell'immobilità della forma s'accende la scintilla dell'evento: a una bocca appena contratta, a un'orbita impercettibilmente più fonda, alla misurata tensione di un braccio. Questo convergere di tutte le membra e perfino delle pieghe delle vesti nel punto culminante del gesto dà luogo a un ritmo ineguale, con accentuazioni e rallentamenti, salite e cadute. Si suole attribuire al Maestro di Olimpia l'invenzione dello scorcio; ma il suo modo di mettere le ure in scorcio non è, come sarà poi, un espediente illusivo per fingere che la ura stia in uno spazio maggiore di quello che le è concesso. Le sue ure non sono poste o ridotte in scorcio; nascono in scorcio, né sarebbe possibile immaginarle prima o dopo, in riposo. Scorcio e movimento sono qui i modi di una più intensa e complessa strutturazione del fatto plastico: non sottintendono, dicono più concisamente. Nel movimento e nello scorcio la forma presenta alla luce piani diversamente orientati: distesi per riceverla in pieno, trasversi e sdruccioli per farla scorrere più rapida, tronchi per farla precipitare in una cavità piena d'ombra. La luce non si limita a rivelare; partecipa della composizione colpendo duramente le forme, immedesimandosi alle masse, ingorgandosi nelle depressioni, disperdendosi nelle ombre. La stessa cavità frontonale, che ad Egina situava le ure nella dimensione 'catartica' della sua perfetta proporzionalità, è qui un fattore di concentrazione drammatica: le masse, quasi spinte in avanti, non affiorano più a un piano ideale ma si espongono alla luce viva, la captano, la impegnano nel loro movimento. In quello spazio le azioni umane assurgono al livello del divino o dell'eroico senza perdere nulla della propria drammaticità: come nella tragedia di Eschilo, dove la vicenda, dolorosamente umana e dominata dal fato, è tuttavia così altamente vissuta da coinvolgere l'umanità e la realtà tutta.

Parallelamente alla scultura marmorea della grande decorazione architettonica e muovendo da una tradizione anche più arcaica, si sviluppa la scultura in bronzo. Anche se collocata in un'architettura, la statua bronzea non si integra allo spazio architettonico: la qualità e il colore della materia, che non assorbe e diffonde ma riflette la luce, la isolano e, al tempo stesso, accrescono la sua forza di richiamo visivo. Poiché non si fonde ma spicca, la statua deve dominare lo spazio con l'intensità degli effetti di movimento e di luce. D'altra parte la perfezione raggiunta nella tecnica della fusione e la saldezza della materia permettono, specialmente nei moti delle braccia e delle gambe, una maggior libertà. V'è sempre un'esperienza stilistica che matura con l'esperienza tecnica, e questa porta, nel bronzo, a gettare in fuori la forma, a far presa sullo spazio. S'è veduto che lo scultore in marmo arriva alla forma dall'esterno, distruggendo via via la materia; il bronzista (e le due tecniche apparivano distinte, quasi come due generi) parte dalla massa informe della creta, la modella via via aggiungendo al nucleo iniziale, sviluppando la forma nello spazio. Anche questo processo dall'interno all'esterno tende ad accentuare i gesti, i movimenti: lo si vede dal fatto che a parità di data le ure bronzee sono, dal punto di vista dell'anatomia e della dinamica dei gesti, più caratterizzate che quelle di marmo. Anche per la sua principale funzione (la celebrazione statuaria degli atleti vincitori) la scultura bronzea tende all'esaltazione della ura isolata: elabora così, parallelamente alla poetica del racconto mitologico della scultura decorativa, una poetica dell'eroico. Se, dunque, per i frontoni di Egina e di Olimpia abbiamo potuto riferirci alle forme poetiche della tragedia, per i grandi bronzi del V secolo possiamo riferirci alle forme poetiche dell'inno o dell'ode. Diversa è anche, almeno nel periodo classico, la ricerca formale: la scultura marmorea ha generalmente piani larghi e modulati, ampie masse e superfici aperte all'assorbimento e alla diffusione della luce; la scultura bronzea ha generalmente un modellato nervoso e accidentato, capace di offrire infinite occasioni al mobile gioco dei riflessi.

Di NESIOTES e KRITIOS, tra i più celebrati bronzisti, conosciamo solo da copie le famose statue dei tirannicidi Armodio e Aristogitone, dedicate nel 477: ure audacemente protese in avanti, con le gambe a compasso come in un perfetto 'a-fondo' e le braccia tese o levate nell'atto di colpire. Il movimento delle due ure è esatto, calcolato come in un congegno di leve: il gesto non è la concitata espressione di un sentimento d'ira o di sdegno, ma la risultante logica di un sistema di forze in atto. I muscoli, i tendini, le vene affioranti sono soltanto i conduttori di queste forze: i due eroi uccidono il tiranno con la stessa precisione ed economia di gesto con cui l'atleta, nello stadio, lancia il disco o l'asta. E i loro corpi sono duri ed asciutti, ridotti all'essenzialità del congegno, come quelli degli atleti.

Di un maestro non lontano da Kritios è il prezioso originale del Poseidon di Capo Artemisio (460 circa): è impostato anch'esso su un incrocio di diagonali, e le braccia aperte riprendono, sviluppano, estendono allo spazio l'impulso di moto che dalle gambe flesse si trasmette lungo la muscolatura tesa e affiorante del busto. Il tema dominante, come già in Kritios, è ormai quello del pondus, della gravitazione della ura su un punto d'appoggio, che è anche punto di partenza del movimento: non più l'equilibrio rigorosamente simmetrico dei kouroi arcaici, ma una compensazione a distanza, e spesso lungo le diagonali, del moto di una gamba con quello di un braccio, dell'inclinazione del busto con quella, opposta, del capo. La struttura anatomica dei corpi non è, in realtà, che un perfetto congegno di leve che trasmette a tutta la ura e, dalla ura, allo spazio l'iniziale impulso di moto: ma accrescendolo, estendendolo, irradiandolo in tutte le direzioni, disperdendolo nello spazio, infine, con gli infiniti raggi della luce riflessa dalla superficie. Non sempre, infatti, la presa di possesso dello spazio si compie attraverso l'evidenza dei moti delle membra. Era forse di bronzo l'originale della Afrodite Sosandra (465 circa), di KALAMIS: una ura tutta chiusa nel mantello, senza il minimo accenno all'anatomia del corpo. Ma la luce trascorrente sui piani inclinati della massa compatta e, di quando in quando, raccolta e vivamente riflessa sulle creste delle pieghe oblique e, finalmente, fluente nei profondi canali del lembo ricadente dal braccio basta a definire, nelle dosate quantità delle ombre e dei riflessi, la proporzione ideale della ura.

Fissato il principio della forma plastica come compendio o sintesi di tutti i possibili punti di vista, era logico che gli sviluppi della scultura in bronzo e di quella in marmo tendessero a convergere. La ricerca della forma assoluta o ideale si separa dalla ricerca tecnica, si pone come fine estetico da raggiungere sfruttando tutte le possibilità operative. POLICLETO DI ARGO, attivo nella seconda metà del V secolo, fissa un canone proporzionale, cioè il principio strutturale della urazione statuaria; e lo fissa in una statua di atleta, il Doriforo. 'Il delicato gioco di flessioni, che si era iniziato con l'Efebo di Kritios rompendo la rigida frontalità arcaica, si arricchisce nel Doriforo e nelle altre statue policletee in una sciolta e armonica articolazione ritmica, con chiastiche rispondenze nelle membra, con una sequenza di arsi e di tesi che i retori greci paragoneranno alla struttura di un periodo armonicamente costruito con quattro frasi giustapposte (koàla), cioè tetråakolos, chiamando cioè tetràgona, e i latini quadrata, i signa di Policleto. Una gamba si flette e arretra, la spalla opposta si abbassa, alla gamba piegata corrisponde il braccio flesso, alla portante quello abbassato, la testa si gira reclinata. Allo studio ritmico si univa quello delle proporzioni regolate su una misura-base che ne costituiva il cànone, fissato dall'artista in un trattato. Si codificava così, nel tempo stesso in cui il sofista Protagora proclamava nel suo trattato Della verità essere l'uomo la misura di tutte le cose, quel processo che fin dall'arcaismo aveva ricercato nell'immagine umana un'armonia universale' (G. Becatti).

Come principio strutturale il canone non ostacola l'invenzione artistica: ciò che viene dato a priori dal canone è soltanto il valore-base del rapporto tra una forma universale e lo spazio universale. Lo stesso Policleto ha applicato il canone quadrato in opere tra loro molto diverse, come il Doriforo, il Diadumeno, l'Amazzone: per dire soltanto delle più note attraverso le copie romane. In pratica il canone policleteo risolve anche il problema della rappresentazione del movimento in una forma necessariamente statica e, più precisamente, della temporalità del movimento in una forma che abbia, con la qualità del bello, quella dell'eterno. Di solito le ure stanti policletee si presentano, rispetto all'asse mediano, con un lato portante, a piombo, e con l'altro animato da un accenno di moto: la statua è la sintesi, la soluzione in un'unica immagine, di questi due modi di essere-nello-spazio. Con termini moderni potremmo dire che l'immagine policletea riunisce i due valori dello essere e dell'esistere: dell'essere in uno spazio e in un tempo assoluti e dell'esistere in uno spazio e in un tempo reali. Così Policleto fissa un nuovo valore concettuale della statua: non come simulacro immoto né come veristica rappresentazione di un corpo in movimento, cioè non come immagine dell'eterno né come copia del contingente, ma come immagine della vita, intesa come realtà assoluta che s'invera e rivela nel fluire del tempo e negli atti degli uomini.

Policleto arriva fino al margine della teoria, dove l'opera d'arte vale anche come verità concettuale, manifestazione visibile del bello. Il suo contemporaneo FIDIA sente la realtà come un divenire, più che un essere, e poiché il divenire dell'umanità è la storia, riconduce nel grande flusso della storia l'arte che Policleto tendeva ad astrarre nella teoria. Nella sua opera il mito rivela la propria ricca, profonda sostanza storica: è la storia di un pensiero che, dall'antichità più remota, fluisce fino al presente e dà un significato e un valore non contingenti alla vita che si vive. E la vita è, in concreto, quella della polis, con le sue tradizioni, i suoi ideali religiosi e politici, la sua realtà in atto. Il nome di Fidia è legato a quello di Pericle, colui che realizzò l'unità ideale e politica dei popoli greci. Operò negli anni in cui quell'unità panellenica s'era saldata nella lotta contro il despotismo dell'impero persiano; e la nuova coscienza della più grande polis espresse con la stessa chiarezza con cui i poemi omerici avevano esaltato il primo riscatto ellenico dalla minaccia asiatica dell'antica Troia.

L'opera di Fidia è in gran parte connessa con la costruzione del Partenone, il tempio che Pericle volle erigere sull'Acropoli a simbolo della vittoria dell'unione e che, in certo senso, segna il passaggio dalle vecchie tradizioni religiose delle singole comunità a quella che potremmo chiamare l'ideologia religiosa della Grecia unita.

Si cominciò a costruirlo nel 448, subito dopo la pace con la Persia, sui progetti di CALLICRATE e ICTINO; dieci anni più tardi si collocava nella cella la gigantesca statua di Atena, d'oro e d'avorio, opera di Fidia. Il grande tempio, di marmo pentelico, periptero, d'ordine dorico, sorge su un alto stilobate al sommo dell'Acropoli, visibile da ogni parte della città. Le fronti, con otto colonne, misurano più di trenta metri; i lati, con diciassette, circa s ettanta; le colonne, che superano i dieci metri di altezza, ne hanno quasi due di diametro alla base. La cella, con un vestibolo anteriore e uno posteriore, era divisa in tre navate da due file di colonne. La decorazione scultorea del tempio, concepita da Fidia e compiuta sotto la sua direzione da scultori provenienti da varie città greche, era così distribuita: nel frontone orientale, la nascita di Atena; nell'occidentale, la contesa tra Atena e Poseidon per il possesso dell'Attica (statue a tutto tondo incassate nella cavità frontonale); nelle novantadue mètope della trabeazione, la Gigantomachia (fronte est), l'Amazzonomachia (fronte ovest), la Centauromachia (lati nord e sud); nel fregio tutt'intorno alla parte superiore delle pareti esterne della cella, la processione delle Feste Panatenee.

1 Dopo Teodosio il Partenone fu trasformato in chiesa cristiana, dedicata alla Divina Sapienza (S. Sofia) e poi (XIII sec.) alla Madonna. Dopo la conquista turca (1456) fu adattato a moschea. Nel 1687, usato dai turchi come polveriera, fu colpito dai cannoni della flotta veneta e gravemente danneggiato dall'esplosione. Nel secolo scorso l'inglese Lord Elgin fece rimuovere, con molto danno, gran parte delle sculture ancora in situ. Ora si trovano a Londra, nel British Museum.

Il Partenone è sorto da un grandioso, ponderato disegno politico. Dopo la vantaggiosa pace con i persiani, Pericle cerca di conservare, sotto l'egemonia ateniese, l'unità delle città greche che avevano fatto lega nel momento del pericolo; nello stesso tempo, instaura una saggia politica di sviluppo economico e culturale. La costruzione di un monumento di splendore mai visto era un modo di dar forma visibile a un'ideologia, di dare a tutti i popoli greci un solo oggetto di culto, di affermare la supremazia ideale e politica di Atene; ma anche di accentrare nella città i migliori artisti greci, di fondere tradizioni artistiche e di culto regionali, di dare un vigoroso impulso allo sviluppo dell'arte, dell'artigianato, dei traffici, di accumulare nella città egemone una somma di valori culturali ed economici. L'attuazione di questo programma fu affidata a Fidia, che seppe coordinare tutti gli sforzi, realizzare quella sintesi, fare del Partenone l'immagine vivente della cultura e della civiltà di una polis che andava ormai molto al di là di Atene e dell'Attica. La tesi dell'opera è enunciata dai temi stessi delle urazioni tutte ispirate all'idea centrale della vittoria della forma, come realtà ideale, sulla forza: null'altro che questo significano le Gigantomachie, le Amazzonomachie, le Centauromachie e, anche più esplicitamente, la vittoriosa contesa della giovane Atena (se ne rafura la nascita) sul vecchio Poseidone (divinità superstite della mitologia arcaica) per il patronato di Atene e dell'Attica. Ma la decorazione, che pure rievoca miti remoti, si conclude, e proprio nella zona più sacra del tempio, con una urazione del tutto nuova ed attuale: la celebrazione della massima festività della polis con la processione della nobile gioventù ateniese al tempio della dea patrona.

Delle due colossali statue criso-elefantine (d'oro e d'avorio) scolpite da Fidia - l'Atena Parthenos per il Partenone (438) e lo Zeus di Olimpia - non rimangono che frammentarie testimonianze iconografiche; come pure delle statue di Atena a Platea, a Pellene, ad Atene stessa. Altre opere note o ricostruite da copie sono: l'Amazzone, l'Apollo Parnopios, l'Anacreonte, l'Afrodite Urania, l'Afrodite seduta. Nei due frontoni del Partenone, dove più evidente è il suo intervento diretto, Fidia rompe decisamente lo schieramento frontale: il frontone non è più un dato spaziale a priori che detta il ritmo della composizione, ma una regione superiore, dove la luce è altissima e rarefatta, e dove immagini di un'umanità superiore, al limite del divino, si muovono liberamente. Dalla cavità le ure non emergono più con la nota saliente di un gesto, ma come masse percosse dalla luce e animate dal vento che si plasmano e conurano, quasi per miracolo, in ure umane aggruppate. Più che individuare le singole ure, Fidia cerca di dar vita a un ritmo che intrecci e identifichi i modi del divenire della realtà naturale (delle nuvole trascorrenti nel cielo, delle onde del mare, delle fronde dei boschi e delle messi dei campi) con quelli del divenire umano (le passioni dell'animo, le decisioni etiche, la conoscenza intellettuale): un ritmo, cioè, che sia ad un tempo il ritmo vitale della natura e della storia. Solo in questa identità, che gli permette di associare a parità di valore il racconto mitologico e lo spettacolo della vita in atto, egli riesce a chiudere nella forma una concezione totale del mondo, illimitatamente estesa nello spazio quanto profonda nel tempo.

Come nella realtà della natura e della storia, il ritmo della composizione fidiaca non è regolare o uniforme: ha impeti improvvisi e sùbite lentezze, trascorre come la corrente di un fiume o precipita in repentine cascate o si frange in mille rivoli. Il gruppo fidiaco non è più, come a Olimpia, un contrapporsi di sentimenti e di gesti; è un'unica massa modellata, con risalti salienti e profondità perdute, e in essa due o più ure formano un'assoluta unità plastica. I due processi tecnici e di determinazione formale, che abbiamo indicati come propri della statuaria marmorea e della bronzea, confluiscono e si fondono nella visione plastica fidiaca. Il movimento del gruppo nasce dal profondo delle masse, abbozza il contrapposto dei volumi, l'alternarsi delle sporgenze e delle cavità della forma; salendo alla superficie, conura con semplicità grandiosa le immagini e sùbito, affiorando alla luce viva, si dissolve in infiniti, concertati, vibranti effetti luminosi. Ma, nello stesso tempo, da quella superficie animata la luce scorre lungo i piani inclinati, nei canali tortuosi delle pieghe dei drappi; s'ingorga negli scavi profondi, penetra nella materia viva del marmo; si fa essa stessa volume, massa, materia. Se osserviamo più da vicino una di queste ure vediamo che non soltanto una precedente nozione anatomica ma la profonda architettura della massa determina la forma del corpo; su questo, le pieghe abbondanti delle vesti sono increspate, talvolta agitate e sconvolte, come drappi sbattuti dal vento nella luce vivida del sole. Lo stesso moto che fa di quei viluppi di pieghe una ineguale, splendente, mobilissima corrente di luce fa, altrove, aderire i veli ai risalti dei corpi, ne rivela il volume, scopre ed espone alla luce le superfici levigate del nudo. Né mai sapremmo dire se quel ritmo sia la vita della materia o il movimento del corpo o l'animazione profonda dello spazio infinito della natura: è tutto questo insieme, e non dato in una sintesi intellettuale e quasi in una formula, come nel canone policleteo, ma in quell'unità e simultaneità di 'diversi' ch'è la vita stessa.

Questa straordinaria fusione di modellato costruttivo, profondo, architettonico e di modellato di superficie, come se fossero l'aria e la luce a premere e a plasmare in immagini umane la materia, pienamente traduce in puri valori di forma il tema ideologico, che abbiamo indicato, della lotta vittoriosa della idea-forma contro la materia-forza, del mito chiaro e moderno contro il mito oscuro ed arcaico, della natura-armonia contro la natura-potenza. Nella plastica fidiaca la materia-massa, elemento primigenio espresso dal seno profondo della terra, evolve nella forma spaziale e luminosa: passando attraverso la naturalità superiore, 'civile' , della ura umana, si sublima nel supernaturale e nel superumano, nel divino.

Consideriamo, per esempio, il gruppo di Dione e Afrodite, del frontone orientale. Nella donna seduta il busto eretto è appena inclinato per equilibrare la spinta di quella sdraiata; le gambe flesse e disgiunte, formando volumi contrapposti ma legati dalle linee di tensione delle pieghe, ne sostengono il peso; nell'angolo formato dalle gambe e dal busto si appunta il gomito della sdraiata, e di qui parte una lunga onda di moto, che scorre con brividi continui d'ombra e di luce, lungo i canali tortuosi delle pieghe, per tutto il corpo. Inutile cercare di far coincidere questo o quel valore della forma con un particolare anatomico del corpo; ma inutile anche cercare una coerenza o una continuità nell'andamento delle pieghe come se fossero davvero mosse dal vento. In ogni ura la massa ha una struttura profonda e un andamento di superficie diversi; ogni ura trova un proprio rapporto armonico con la realtà del mondo: proprio perciò la ura umana, anzi le diverse 'persone' del racconto mitico sono il tramite, la condizione di quel sublimarsi della materia in un valore di spazialità pura. Dunque questa sublimazione non è il prodotto di una legge di natura: mediata dalla ura umana, si attua attraverso una qualità che è propria dell'essere umano, cioè attraverso una civiltà che è anzitutto storia ed educazione attraverso la storia. Nell'alta metafisica della visione fidiaca lo spazio, che è nello stesso tempo la struttura costante e il mutevole fenomeno dell'essere, può essere dato tanto come profondità che come piano, tanto nel tutto-tondo della statua che nel bassorilievo.

Nel fregio la profondità è limitata dallo spessore sottile della lastra; la luce attenuata dell'ambulacro non incide direttamente sulla forma. Ma lo scultore compone e modella con la stessa libertà con cui compone e modella nello spazio libero: nella superficie della lastra definisce vari livelli di profondità, individua nodi strutturali, forti articolazioni formali, bastandogli un filo d'ombra a disegnare un volume, una superficie luminosa a situare una massa. Non v'è dramma in questa composizione continua, ch'è quasi un inno pindarico alla gioventù ellenica. Sulla superficie del presente o della vita in atto non trovano posto i grandi fatti storici, ma soltanto i piccoli eventi della realtà quotidiana: il cavallo che s'impenna, il giovane a cui si sono sciolti i lacci dei calzari. Ma anche questi piccoli eventi rientrano nel ritmo dell'essere; non cadono nel particolarismo dell'episodio e dell'aneddoto, anche se non hanno dietro di sé la profondità della storia e i lontani orizzonti del mito. La statua di Anacreonte, il poeta dei blandi sentimenti d'amore e dei ritmi melodici, ha bensì il classico pondus, ma temperato da un'impercettibile oscillazione del moto; e il modellato fermo del nudo è come velato da un chiaroscuro trepido, sfumato. Non è forse arrischiato dire che nel fregio delle Feste Panatenee una lieve brezza anacreontica s'intreccia alla scansione più tesa e librata dell'inno. È la prova della capacità di Fidia di cogliere la realtà a diversi livelli senza mai perdere il senso della sua unità; ma anche della continuità ch'egli sente nel divenire dell'ethos popolare ellenico, dai suoi miti più remoti alla società del suo tempo. È questa pluralità di motivi pur nella concezione unitaria del mondo che gli permette di sfuggire al pericolo di una mimesi oggettiva e descrittiva come a quello di una mimesi idealizzante, rispettivamente insiti nel virtuosismo di un Mirone o nella tendenza teorizzante di Policleto; e di fondare un nuovo valore della mimesi, come sintesi piena e vitale di idea ed esperienza.

Per la prima volta, con Fidia, un artista assume funzione e dignità di 'maestro' , crea una scuola, determina una corrente di gusto, trasmette ai posteri non soltanto un'esperienza tecnica ma una cultura formale, uno stile. Dal genio classico di Fidia discende il classicismo fidiaco, che mai raggiunge l'altezza del maestro e talvolta ha il carattere ripetitivo e peggiorativo della 'maniera' . Ma negli stessi artisti della sua corrente è chiara la coscienza che l'esempio del maestro non è raggiungibile, appartiene a una storia che non può ripetersi: non si può, dunque, che guardare al passato come a una 'epoca aurea' perduta per sempre. Questo storicismo di fondo, che implica una certa sfiducia nella cronaca del presente e identifica il passato con l'universale e l'eterno, sarà, fino ai tempi moderni, il carattere di ogni classicismo. Poiché non si crede di potere uguagliare il maestro nei molteplici aspetti del suo genio universale, si riprendono e sviluppano caratteri particolari, spesso i più superficiali, del suo stile, portandoli talvolta all'eccesso. Nel caso di Fidia, il motivo che più facilmente trascorre nei seguaci, fino a diventare il tema dominante della scultura attica, è la fluidità dei ritmi lineari, il dissolversi della materia plastica nella vibrazione chiaroscurale, la scioltezza del movimento. Lo vediamo nelle cariatidi dell'Eretteo, sull'Acropoli, attribuite al più diretto seguace del maestro, ALKAMENES; e, con una crescente accelerazione delle cadenze lineari e luministiche, nel fregio della balaustrata del tempio di Atena Nike sull'Acropoli di Atene (410 circa). Nel ciclo delle Menadi, attribuito a CALLIMACO, le ure sono assorbite, quasi cancellate, nel vortice dei veli ritmicamente agitati intorno ai corpi: i solchi fitti delle pieghe, rifluendo in onde ritmiche, formano aloni di luce vibrante; il linearismo, non più impegnato a definire i contorni, si trasforma in un luminismo vorticoso; al movimento dell'azione succede quello della danza; alla serena proporzione 'apollinea' succede, moderata soltanto da una suprema eleganza, l'eccitazione fremente della ritmica 'dionisiaca' . Le sottigliezze lineari e chiaroscurali della corrente ionica, fino a questo momento periferica, confluiscono nella dilagante corrente fidiaca: PAIONIOS DI MENDE, nella Nike di Olimpia, osa librare la ura nello spazio aperto, sorreggendone il volo con l'ala dei veli gonfiati dal vento.

All'interpretazione di Fidia in chiave di eleganza manieristica reagisce vigorosamente SCOPA, attivo in Grecia e in Asia Minore nella prima metà del IV secolo: e non soltanto si richiama ai più forti motivi costruttivi ed espressivi del maestro, ma ai canoni quadrati, al rigore formale policleteo. In quel che rimane dei frontoni del tempio di Tegea - alcune teste di guerrieri, frammentarie e corrose - Scopa afferma già il suo ideale eroico e quello che potremmo chiamare il pathos euripideo della sua plastica. Non più, come in Fidia, un'identità suprema di umano, naturale e divino, ma un sentimento aspro, quasi un'insofferenza della condizione umana. L'Olimpo è lontano, gli dèi beati assistono indifferenti alle vicende dei mortali; l'uomo deve trovare in se stesso la forza di affrontare il dramma dell'esistenza, e questa forza fa di lui un eroe, ma anche un ribelle contro l'ingiustizia del cielo. Anche la natura non è più amica: con la perennità dei suoi cicli, fa maggiormente sentire all'uomo il dramma del suo essere mortale. L'eroe non può che opporre l'impeto della passione all'indifferenza degli dèi e della natura; sfidando la morte valica e annulla il confine che lo separa dagli dèi immortali. Nella scultura di Fidia la forma plastica si ident ificava con lo spazio, in quella di Scopa lo conquista di forza. Il modellato parte dall'interno, spinge in fuori le forme; la superficie è rudemente tagliata, il suo contatto con la luce e l'atmosfera è urto ed attrito. Nelle teste di Tegea i volumi sono esasperati, a forti risalti corrispondono scavi profondi: luce ed ombra sono ormai elementi antitetici, in contrasto. Nella Menade di Dresda il busto è violentemente proiettato in avanti dall'opposto sbandare delle anche; la testa è rovesciata all'indietro; e certamente il gesto delle braccia, perdute, accentuava la torsione del busto, sottolineata anche dalle pieghe della veste scomposta. La ura si avvita nello spazio agitata da un moto che non può frenare: orgiastica e dionisiaca, ma nel senso tragico del termine, è presa nel vortice della danza come in un gorgo che finirà per sommergerla.

Nel periodo più inoltrato della sua attività, Scopa non fu insensibile alla nuova tematica di Prassitele e alla sua poetica della grazia malinconica. La statua di Pothos, la divinità minore che personifica il languore amoroso, risente del Sauroctonos, dell'Hermes di Prassitele: ma con una più accentuata deviazione dall'asse di equilibrio, con uno scatto più nervoso nelle gambe incrociate, con un chiaroscuro più movimentato e contrastato.

Il rapporto tra i due maestri si spiega: come Scopa, e di lui maggiore, PRASSITELE opera in un'agitata situazione storica. Dopo l'euforia del trionfo, la minaccia persiana riappare più vicina e più subdola, sfruttando la rivalità delle città greche, la crisi della democrazia ateniese. Le guerre peloponnesiache non sono più la lotta comune contro l'invasore barbaro, ma il travaglio interno del popolo greco che non riesce a definire la propria ura storica. Il mito non spiega più la vita, si allontana, diventa favola; è più legato alla natura che agli uomini, la cui esistenza storica si distingue sempre più dall'esistenza 'naturale' . La natura stessa è un 'oggetto' rispetto all'uomo 'soggetto' : ciò che conta non è più la profonda armonia tra natura e uomo, ma l'atteggiamento dell'uomo verso le cose naturali, il suo sentimento' della natura.

Era lio, Prassitele, di uno scultore ateniese, Cefisodoto rinomato bronzista; ma la materia prediletta da Prassitele fu il marmo, una materia in cui l'artista opera direttamente e che più delicatamente reagisce al contatto della luce e dell'atmosfera. Non fu un creatore di grandi cicli mitologici e storici. Preferiva la statua isolata, di grandezza conforme al vero; la statua era per lui l'immagine di una 'persona' ideale, di una bellezza a cui si aspira ma che, proprio perciò, non è data a priori come modello o archetipo. Per Fidia la statua era la forma dello spazio e della persona ad un tempo; per Prassitele è forma umana che si colloca ed esiste nello spazio naturale. Le ure prassiteliche, infine, sono bensì divinità olimpiche, ma calate nella dimensione dell'umano, fatte capaci di sentire e reagire, e, per questa loro umanità, non più arbitre e sovrane. Si è celebrata, di Prassitele, la fedeltà alla natura; si ricordano i nomi dei suoi modelli; si è detto che, scegliendo in essi le qualità del bello, non mirava a scoprire le strutture eterne dell'essere, ma a cogliere la grazia di un atto o di un movimento. Dunque il bello non è un principio eterno, ma un'apparizione momentanea, che bisogna sapere afferrare; non discende più dall'alto come un'idea universale, ma sale dal basso come aspirazione umana. Non è più la ragione che lo scopre, ma il sentimento. Tra le divinità olimpiche, Prassitele prediligeva quelle più vicine alla natura, o quelle che incarnavano sentimenti umani più che poteri divini: Afrodite o l'amore, Apollo o l'ispirazione poetica, Hermes o l'ingegno, Artemide o il sentimento della natura. E le rafurava giovani, perché proprio nei giovani il sentimento 'naturale' viene educato attraverso la paideia.

Prassitele non ama i gesti, studia gli atteggiamenti: allontanandosi sempre più dalla legge classica del ponderato equilibrio, pone le ure in una condizione di equilibrio instabile, compensato da un appoggio esterno: un lembo di drappeggio, un tronco. Nell'Apollo Sauroctonos, noto da copie, la gamba portante non coincide con l'asse e la ura ha bisogno di appoggiarsi, dalla parte opposta, al tronco dell'albero: facendo perno su quella gamba, la ura si flette e raddrizza con andamento sinuoso. Il modellato è morbido, senza forti risalti e depressioni; il chiaroscuro non costruisce saldamente la forma ma l'avvolge in uno sfumato discontinuo, in cui s'alternano addensamenti e schiarite. Nella Afrodite Cnidia il braccio piegato ad angolo e leggermente arretrato, con l'appoggio 'visivo' del drappeggio ricadente, basta a permettere, in tutta la ura, uno sviluppo di linee curve e di piani dolcemente ondulati; nell'Hermes e Dioniso di Olimpia (unico originale di Prassitele che ci sia pervenuto) l'estrema mobilità del chiaroscuro sul corpo del Dio ha la sua giustificazione nell'evidente spostamento del centro di gravità del gruppo. Il modellato di Prassitele è morbido, quasi serico, e proprio perciò sensibilissimo alla luce; il movimento, la vita della ura sono spesso rivelati dall'istantaneo guizzo di un muscolo, da una piega della pelle. Non sono, questi, moti che esprimano un'azione decisa e compiuta, ma piuttosto un istintivo, quasi involontario, sentire e reagire.

LISIPPO DI SICIONE fu, come Apelle pittore, artista prediletto da Alessandro Magno: con lui si chiude il periodo classico e si apre la fase ellenistica. Straordinariamente fecondo, avrebbe scolpito, stando alle fonti, millecinquecento statue; e già la varietà dei temi trattati basterebbe a fare di lui il precursore della scultura ellenistica. Si disse di Lisippo ciò che, nel XVII secolo, si disse del Caravaggio: che disdegnasse l'insegnamento degli antichi, riconoscendo la natura come sola maestra. In realtà, egli fu il creatore di una nuova poetica, rinnovatrice: la novità è appunto il richiamo, non già alla natura, ma all'esperienza visiva. Lo scultore non imita la ura umana come un oggetto, di cui si potrebbe, volendo, ricavare un calco preciso; imita la immagine afferrata dall'occhio, e questa è fatta di macchie colorate, più chiare e più scure. La differenza è tutt'altro che irrilevante: la volontà di rappresentare il corpo non com'è, ma come appare, implica la rinuncia ad una preliminare nozione del vero e l'accettazione del dato di visione, corrisponda o non al vero, come punto di partenza dell'arte. L'ultima conseguenza sarà quella che ne trarrà l'arte ellenistica: non v'è una classe di ure o di cose che formino il mondo dell'arte, ma ogni immagine può interessare l'artista. Anche Lisippo ha un suo canone, che indubbiamente tiene conto di quello policleteo, ma lo rettifica nel senso di considerare tutti i fattori (distanza, condizioni atmosferiche e luminose) che modificano, nella veduta reale, la forma ideale. L'Apoxyomenos (atleta che si deterge il sudore), noto da una copia, risponde appunto al nuovo canone lisippeo: coglie la ura, non già nell'atto tipico dell'azione atletica, ma nel gesto occasionale del detergersi; e benché il corpo graviti, con perfetta 'ponderazione' , sulle gambe, le braccia protese implicano nella struttura plastica lo spazio vuoto antistante, allontanano il busto, producono un effetto di ombre portate, che entra di pieno diritto nel sistema delle forme plastiche della statua. Benché il risultato sia indubbiamente luministico, non per questo si applica alla scultura la condizione di veduta, da un punto di vista unico, della pittura: da tutti i punti di vista la statua si presenta sempre come un animato complesso di masse d'ombra e di luce. Il suo valore, quindi, non sta nel fatto che, mutando il punto di vista e quindi la conurazione dell'immagine, si abbia sempre lo stesso rapporto di parti, come se il mutare dell'apparenza non potesse mutare la sostanza della forma; ma nel fatto che il mutare del punto di vista muta anche strutturalmente la ura, e l'opera d'arte vale proprio in quanto si dà in una successione d'immagini diverse. Riportato alla natura, questo principio equivale ad affermare che ogni fenomeno vale per se stesso e il tutto non è che un'infinita serie di fenomeni, negando così che la varietà dei fenomeni o delle apparenze riveli pur sempre la sostanza di fondo di una costante, immutabile struttura. Lisippo, tuttavia, non trascura, al contrario, la coerenza che pure collega i diversi 'effetti' delle sue statue: ora snellisce la ura, come nell'Hermes che si allaccia un sandalo, ora l'appesantisce come nell'Eracle, ora intensifica le ombre, ora le dirada per un effetto generale di luminosità. Può darsi che una delle sue opere, il Kairos (l'Occasione), molto commentata dagli antichi scrittori, fosse una specie di programma, l'enunciazione urata della poetica dell'artista, sempre attento alla 'occasione visiva' e avente come ultimo fine di rendere nell'arte, e nel continuo variare delle sue forme, il variare continuo delle forme naturali. Si spiega facilmente, anche, come Lisippo, muovendo da questi presupposti, sia stato un grande ritrattista, anzi il creatore, con le famose ure di Alessandro, di quella che si chiamerà la ritrattistica 'eroica' : rivolta cioè, non già a idealizzare la ura riportandola alla regolarità del bello, ma a cogliere e sottolineare il 'carattere' del personaggio, ricostruendone la storia da un gesto o da un aspetto particolare.




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