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Medicinali dalle foreste

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Medicinali dalle foreste


La farmacia più grande del mondo

Guardare al passato per trovare i farmaci dei futuro:

in tutto il mondo, scienziati e case farmaceutiche stanno

studiando le piante medicinali usate da secoli dagli indigeni.

Ma occorre anche tutelare i diritti dei nativi e proteggere

queste preziose specie dallo sfruttamento selvaggio




di ANTONIO BIANCONI


Subhash K. Saigal è uno zelante funzionario governativo di Calcutta, abituato a considerare i problemi in modo concreto. Così dev'essere rimasto molto perplesso quando i suoi superiori hanno deciso di avviare uno studio delle piante medicinali utilizzate dagli Onge, piccola tribù di aborigeni delle isole Andamane che negli ultimi millenni non ha mutato granché il suo stile di vita. E ancora più perplesso deve essere rimasto quando Debaprasad Chattopadhyay, il giovane botanico inviato laggiù dal governo, è tornato a Calcutta con strane storie sulla straordinaria efficacia di una pianta usata dagli indigeni per curarsi dalla malaria, diffusissima in quelle isole. Ma soprattutto Chattopadhyay è rientrato con la decisione che non avrebbe rivelato a nessuno il modo per identificare la pianta, se non in presenza di un contratto ufficiale che riconoscesse al popolo degli Onge un beneficio economico per gli eventuali guadagni che lo studio chimico e farmacologi­co e lo sfruttamento di questa pianta avrebbe portato.

Il mercato farebbe gola a qualsiasi multinazionale: la malaria uccide due milioni di persone all'anno in Africa, Asia e America Latina ed è l'incubo dei milioni di viaggiatori che visitano ogni anno questi continenti. Convinto che tutto ciò che viene finanziato dal governo debba appartenere allo Stato (e quindi anche eventuali brevetti derivati dalle ricerche tra gli Onge) Saigal iniziò una guerra privata contro il giovane difensore degli indigeni, proibendogli di visitare la riserva delle isole Andamane in cui sopravvive il popolo Onge. Ma non avrebbe mai immaginato che, nel giro di qualche mese, il proprio nome sarebbe diventato sinonimo di «biopirateria», mentre Chattopadhyay è oggi l'emblema di una nuova generazione di ricercatori, decisi a tutto pur di difendere i diritti degli ultimi popoli nativi delle foreste tropicali. Anche a costo di rinunciare a una promettente carriera universitaria e a un bel po' di soldi.

Questa storia è sicuramente destinata a ripetersi. Da un lato infatti ci sono pochi eroici scienziati che ‑ dopo aver vissuto insieme con gli ultimi popoli nativi ancora isolati nel profondo delle foreste tropicali ‑dedicano la loro vita a difendere i diritti di questa gente. Dall'altro centinaia a di tecnici, perfettamente equipaggiati, che si muovono disinvoltamente negli ambienti naturali più disparati collezionando qualsiasi pianta o forma vivente che possa nascondere un interesse economico. L'enorme sviluppo dei sistemi di screening e di analisi dell'industria farmaceutica e i nuovi metodi di elaborazione computerizzata hanno infatti riproposto nell'ultimo decennio, con estrema attualità, l'importanza delle sostanze di origine naturale come fonte i nuovi farmaci o di nuovi rimedi per molte malattie che ancora affliggono l'uomo moderno. Con una differenza, rispetto ai decenni passati. Mentre un tempo si cercava soprattutto di isolare dalle Piante medicinali nuove sostanze si ricercano le cosiddette «strutture ‑ prototipo» su cui successivamente i chimici lavorano per creare derivati in parte o completamente sintetici. Naturalmente tutti coperti da brevetto. «Gli scienziati possono anche creare qualsiasi molecola riescano a immaginare», ha detto un ricercatore della multinazionale farmaceutica Glaxo a un convegno mondiale, ma la natura è infinitamente più ingegnosa e può offrire strutture chimiche molto più complesse di quelle che gli uomini riescono soltanto a sognare».

La natura resta quindi una fonte insostituibile e preziosa per la moderna ricerca farmacologica. Un recente documento dell'americano Na­tional Cancer Institute sottolinea che il 60 per cento degli agenti antitumorali e degli antivirali oggi in commercio o negli ultimi stadi dello studio clinico sono di origine naturale. Da un albero delle foreste della Malesia, il Calophyllum lanigerum, è stato estratto un composto attivo contro il virus H.I.V. responsabile dell'AIDS , inclusi i ceppi resistenti ai farmaci oggi impiegati contro questa malattia. E nel giugno 1997 è stato stabilito un accordo tra Medichem Research, un'azienda americana di biotecnologie, e il governo del Sarawak Malese per l'estrazione del principio attivo e la coltivazione su scala in di questo albero.

L'importanza di una fonte so­ no e il tumore polmonare a piccole cellule, anche resistenti alla chemioterapia. Per ottenerne una dose era ne sradicare tre alberi e per avere un chilo di sostanza si arrivava a distruggere 23000 alberi. In queste condizioni era impensabile affrontare non solo qualsiasi programma terapeutico, ma semplicemente completare una seria indagine clinica sulla reale efficacia di questo composto. Oggi questo problema è stato aggirato attraverso un processo di semi sintesi grazie al quale è possibile ottenere il tassolo dalla 10‑deacetilbaccatina, una sostanza presente nelle foglie aghiformi del tasso europeo ( Taxus bacata).

Ma non sempre questo è possibile, e molti prodotti promettenti sono stati abbandonati per la progressiva ssa delle piante medicinali da cui derivavano [vedi riquadro ina XXVI. Un esempio clamoroso è offerto dal Ginkgo biloba, pianta originaria dell'Asia: dalle sue foglie si ottiene un estratto utile nell'insufficienza cerebrale dell'anziano, nei disturbi della memoria e della circolazione. In Germania i prodotti a base di questo preparato fatturano oggi oltre 200 miliardi all'anno e per i medici tedeschi rappresentano la prima prescrizione in caso di disturbi neurovascolari di grado lieve e medio nell'anziano. Questo albero è l'ultimo rappresentante di una famiglia preistorica ormai estinta, e sappiamo anche che probabilmente era destinato a sire dalla faccia della Terra in un periodo compreso tra il 2000 e il 3000 avanti Cristo. Fu Lao Tze, il fondatore del taoismo cinese, a ordinare ai propri monaci di coltivare questa pianta nei giardini dei templi, evitando così l'estinzione della specie e preservando questo dono della natura fino ai nostri giorni. Si tratta del primo caso di gestione sostenibile di una pianta medicinale ed è l'esempio più eclatante di come la ssa delle specie viventi non provochi solamente un impoverimento della biodiversità ma ci privi di preziosi benefici non ancora scoperti dagli scienziati. Le tradizioni mediche dell'antica Cina hanno del resto saputo trasmettere fino ai nostri giorni un insieme di informazioni mediche, farmacologiche

ed ecologiche su un numero impressionante di piante medicinali. Negli Stati Uniti oggi sono in corso studi clinici sulla Imperzina, una sostanza derivata dalla LIuperzia serrata, un muschio cinese impiegato tradizionalmente contro i disturbi della memoria. Questa sarebbe in grado di contrastare il progredire di una grave malattia come il morbo di Alzheimer, in modo più efficace e con minori effetti collaterali dei farmaci di sintesi usuali.

Dalla Schizandra chinensis, una pianta utilizzata fin dall'antichità nelle intossicazioni del fegato, è stata recentemente isolata la gomisina A, una sostanza a marcata azione protettrice del fegato, dalla quale la società giapponese Tsumura ha ottenuto un farmaco utile nelle forme croniche di epatiti virali. Tali scoperte rivelano quanto siano importanti le informazioni tramandate fino ai nostri giorni dalle

medicine tradizionali Norinan Farusworili, dell'Università di Chicago, ha dimostrato in uno studio diventato celebre che il 75 per cento delle sostanze naturali utilizzate nella moderna medicina hanno un uso corrispettivo nella medicina tradizionale di alcuni popoli. Recentemente, per esempio, un'indagine clinica inglese ha dimostrato l'utilità della somministrazione per via nasale di un estratto di peperoncino rosso (Capsicum annum) contro le cefalee a grappolo. A tale scoperta si è arrivati consultando alcuni rapporti dell'inizio del secolo su un uso analogo da parte di alcune tribù indiane della Guyana. Michael Balick, direttore del Giardino botanico di New York, ha dimostrato che le informazioni dei <<guaritori>> del Belize consentivano di trovare un numero tre volte più elevato di piante con attività farmacologica potenzialmente utile in terapie antitumorali e anti H.I.V.

Per valorizzare le conoscenze delle popolazioni indigene, e permettere a esse di trarne i giusti benefici, negli Stati Uniti sono nate aziende che lavorano esclusivamente su piante derivate dalle farmacopee locali. Osservando come gli indios amazzonici curano ferite e infezioni, una di queste aziende, la Shaman Pharmaceuticals, ha brevettato un estratto di Croton lechlerii una pianta  chiamata an­che «Sangue di drago a causa della sua resina rosso vivo, che possiede una marcata attività cicatrizzante e antivirale (il drago per gli indigeni rappresentalo spiri­to della foresta). Il preparato che se ne ricava è utile nelle ulcere gastriche e nelle infe­zioni da herpes. Inoltre, uno studio clinico su pazienti af­fetti da AIDS conclamato ha evidenziato l'utilità di questa sostanza nelle infezioni opportunistiche (cioè che colpi­scono le persone immunode­presse) di origine virale del tratto gastrointestinale, ma la sua utilità riguarda anche la profilassi delle diarree virali del viaggiatore, grazie allo scarso assorbimento del principio attivo. La Shaman Pharmaceuticals, oltre a riconoscere i diritti economici delle popolazioni native sugli eventuali guadagni, si è già impegnata nei confronti dei gruppi indigeni, con i quali lavora in programmi di sviluppo per conservare l'ambiente naturale da cui estraggono i loro rimedi. Simile l'esperienza di un'azienda italiana, la Renaco di Montebelluna (Treviso) che importa dall'Amazzonia prodotti erboristici e cosmetici a base di Croton lechlerii e di altre piante medicinali, riconoscendo ai produttori un beneficio economico e impegnandosi a proteggere l'ambiente naturale. Questo nuovo atteggiamento si è esteso anche a multinazionali come la Merck and Co. che, insieme con l'Istituto di Biodiversità del Costa Rica, ha dato origine a un progetto di ricerca: in cambio di specie viventi da analizzare, è prevista la creazione di infrastrutture di ricerca e aree protette nel Paese latino‑americano.

Forse assisteremo a un cambiamento radicale nell'approccio dell'industria farmaceutica nei confronti dei composti naturali provenienti dai Paesi tropicali: da questa nuova collaborazione tra popoli indigeni e scienziati, potremmo tutti trarre cospicui vantaggi in tempi relativamente brevi e il giovane botanico indiano Chattopadhvay, considerato da motti un sognatore, potrebbe diventare il simbolo di un nuovo modo di fare scienza.





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