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CONVENZIONI E SINDACATI DI VOTO



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CONVENZIONI E SINDACATI DI VOTO


Particolari patti parasociali sono le convenzioni e i sindacati di voto. Per convenzioni di voto si intendono quegli accordi fra due o più soci con i quali i soci medesimi si obbligano ad esprimersi in assemblea con un voto conforme alle decisioni dei soci preventivamente adottate ad unanimità o a maggioranza dagli aderenti al patto di sindacato. Oppure i partecipanti al sindacato potrebbero investire uno di loro o un terzo di una procura irrevocabile o di un mandato ufficiale in modo che questo eserciti in assemblea un voto conforme alle decisioni del sindacato stesso. Dal punto di vista della struttura queste convenzioni appartengono ad una categoria più ampia, quella dei patti parasociali. Abbiamo già visto l'esempio di patti parasociali, i così detti sindacati di blocco che in realtà non sono che un accordo extra-assembleare in cui si prevede ad esempio la inalienabilità delle azioni, un patto del genere non potrebbe essere inserito quale clausola in uno statuto di S.p.A., ma potrebbe essere inserito in una S.r.l.. Quindi i sindacati di blocco fanno parte anch'essi dei patti parasociali, perché parasociali? Perché sono patti che non vengono tramutati in clausole poi inserite nello statuto, altrimenti sarebbero clausole statutarie, ma sono accordi separati ed autonomi rispetto al contratto di società e rispetto allo statuto. Quindi più soci danno vita a un regolamento di rapporti che non trova riscontro nell'atto costitutivo e nello statuto. E' una sorta di accordo parallelo che sta fuori del sociale, parasociale. Non trova riscontro nell'atto costitutivo, atto costitutivo nel quale gli accordi si differenziano profondamente sotto il profilo dell'efficacia, nei patti parasociali si tratta di efficacia interna o obbligatoria anziché esterna o reale come nello statuto. Questo comporta, anche, una sorta di grossa differenza quando si analizza la prelazione degli obblighi contenuti in un patto parasociale, questo ha efficacia talmente obbligatoria, che essendo i patti parasociali nient'altro che dei contratti innominati, avremo delle soluzioni riguardo la loro prelazione di tipo contrattuale: soluzione del contratto per inadempimento; se ci sono danni, risarcimento degli stessi rispetto agli appartenenti a questo patto. Quindi c'è una grossa differenza, sono contratti innominati, perché non vengono previsti dai contratti tipici previsti dal nostro legislatore, e sono contratti associativi, così come i contratti di società, però parallelamente stanno fuori da tutto ciò che è l'atto costitutivo e le sue clausole. Ecco perché hanno efficacia obbligatoria e non reale oppure efficacia interna e non esterna.



Nei patti parasociali rientrano sicuramente i sindacati di blocco, che abbiamo già visto. Ove si può fare, per escludere il trasferimento di azioni laddove la clausola di questo tipo non contrasta con l'atto costitutivo: si parla di un patto parasociale, così detto sindacato di blocco. Questo vuol dire che una volta che si violi patto, l'efficacia di questo varrà soltanto per gli aderenti al patto.

Sindacati di voto. Nel testo c'è una distinzione sottile tra convenzione di voto vera e propria, che è un accordo che vale sull'esercizio del diritto di voto, che vale per una singola assemblea, e sindacati di voto più generale, che prevede un accordo più duraturo da esercitare più che in una singola assemblea. Ma la distinzione è molto sottile.

Bisogna occuparci di quei patti parasociali che vanno sotto il nome di convenzioni o sindacati di voto, perché, qui, si predetermina il quorum con cui si andrà a votare. Cosa succede? Chi fa parte del patto di sindacato predetermina le decisioni che verranno poi assunte in sede assembleare. Gli aderenti al patto dovrebbero votare ad unanimità o a maggioranza, perché? Quale è il problema? In seno al sindacato di voto ci si obbliga ad esprimere in assemblea un voto conforme a decisioni che sono adottate preventivamente ad unanimità o a maggioranza dagli aderenti al patto. C'è una differenza tra votare queste decisioni ad unanimità o a maggioranza nell'ambito del sindacato, vedremo poi le differenze. In linea generale, all'inizio, questi patti sono stati circondati da molto sospetto da parte della dottrina e della giurisprudenza. Sospetto che è andato sempre più diminuendo alla luce anche dei provvedimenti legislativi che hanno dato per scontato ormai l'esistenza di questi patti all'interno di società quotate e non. Quindi hanno preso atto della loro esistenza prevedendo addirittura la presenza di sindacati di voto quali ipotesi di controllo. ½ sono numerose leggi, ad esempio quella sull'editoria art. 2 della legge 5 agosto 1981 n° 416, il testo unico in tema di sistemi bancari e creditizi approvato con decreto legislativo 1 settembre 1993, l'art. 26 della legge che ha introdotto nel 1991 il bilancio consolidato e via dicendo. Questi sindacati sono stati presi in considerazione sotto il profilo del controllo da numerosi interventi legislativi. Il problema, che verrà poi affrontato con un certo scetticismo riguardo la loro validità generalizzata (nel nostro testo), è questo: sono diffusi a tal punto che alcuni provvedimenti legislativi ne hanno previsto eventuali ipotesi di controllo. Perché hanno previsto la presenza di un sindacato di voto quale ipotesi autonoma di controllo?. Sono diffusi ed il legislatore li ha nominati, però non vuol dire ancora che tutti i tipi di sindacato siano validi.

Bisogna poi vedere se tutti i patti di sindacato esistenti siano validi, legittimi. Sotto alcuni profili alcuni di essi sono stati ritenuti . di legittimità.

A questa parte, sul testo, è dedicato molto spazio perché il prof. Cottino ha fatto una trattativa al riguardo, ma è un atteggiamento molto più restrittivo di altri autori nel senso che quando il legislatore, nei provvedimenti citati, ha preso atto dei sindacati di voto, si sono aperte due strade: una parte degli autori si è schierata a favore della liceità di ogni tipo di sindacato, dicendo che ormai sono talmente diffusi che il legislatore li prevede autonomamente come ipotesi di controllo e quindi dobbiamo inchinarci a questa previsione legislativa e dobbiamo smettere di discutere in ordine alla liceità dei patti sindacali. Un'altra parte della dottrina sostiene che non è che dobbiamo far finta che le prese di posizione del legislatore non esistano, perché questo oramai è un dato di fatto, ma questo non toglie ancora che l'indagine relativa alla liceità del singolo patto, quindi bisogna vedere se il singolo patto preveda dei profili di invalidità o meno. Quest'ultimo atteggiamento è quello del testo e rispetto agli altri è molto restrittivo. Dal canto suo la giurisprudenza è oscillante perché da un primo periodo in cui era molto restrittiva in tema di validità dei sindacati di voto, oggi forse la cassazione sta cambiando orientamento, a giudicare dall'ultima pronuncia del '95 in cui ha detto che i sindacati sono validi pur che siano circoscritti entro i limiti determinati di tempo.

Quali sono i dubbi riguardo alla validità dei patti sindacali? Dubbi, sono gli accordi in base ai quali i soci si impegnano a votare secondo istruzioni che non vengono dall'organo amministrativo e viceversa che attribuiscono al sindacato competenze decisionali che sono proprie degli amministratori, con un inversione rispetto a quelle linee di tendenze che il nostro legislatore ha voluto e che attua all'art. 2364 n°4 e che prevede nelle delibere dell'assemblea gestionale come punto centrale proprio per la definizione delle diverse competenze. Dubbi anche sulla liceità di quei patti che predeterminano quei criteri con cui votare con un assemblea di più organi sociali. Si è detto che l'atto costitutivo può prevedere un organo particolare per la nomina delle cariche sociali, questa è una causa dell'atto costitutivo che non esautora l'assemblea a usare i quorum prescritti dalla legge, tanto che è stato detto che uno di questi modi per predeterminare, il modo di votare le cariche sociali sarebbe inserire una clausola. In questo caso, un accordo parasociale al di fuori dello statuto, in una forma in cui si potrebbe anche votare a maggioranza, in cui si prevedono i criteri per eleggere amministratori e sindaci, pone forti dubbi sul fatto che possa sussistere. Come forti dubbi sussistono con riguardo ai sindacati deliberanti a maggioranza. in questo caso gli aderenti al sindacati si impegnano a votare in assemblea in conformità delle alienazioni raggiunte dalla maggioranza degli aderenti al sindacato. Questa maggioranza poi risulta essere una minoranza in assemblea. Esempio: fanno parte del sindacato due soci, uno al 35% e l'altro al 20%, ed insieme formano il 55% delle azioni sindacali, cosa succede? Si vota all'interno del sindacato con voto a maggioranza, il 35% vota a favore. A questo punto però quando si andrà a votare in assemblea, dove ci vuole almeno il 51% dei soci presenti, il voto portato dal sindacato non riguarderà solo il 35% ma coinvolgerà tutte le azioni sindacali, perchè all'interno del sindacato si è votato a maggioranza perché la maggioranza vincola la minoranza, e risulta che quel 35% che è bastato ad ottenere la maggioranza all'interno del sindacato, portato all'esterno alla volontà di tutti farà si che le delibere verranno adottate non con la maggioranza assoluta dei presenti ma con quel 35%. Diversamente stanno le cose se nel sindacato si vota ad unanimità perché allora, e qui sorgono dubbi relativi alla legittimità, si porta la volontà di tutti e non solo di una residua parte del capitale. Ecco perché il nostro testo, sotto questi profili, considera con poco valore i patti di sindacato deliberanti a maggioranza, perché alterano questo gioco della formazione naturale della maggioranza assembleare così come prevista dal legislatore. Quindi qualcuno ha detto, che, visto che questi patti violano norme imperative, rispetto al tipo sociale scelto, sono da considerarsi invalidi. Ma, non sono invalidi tutti questi tipi di patti, ma solo quello specifico che viola norme imperative di legge, rispetto al tipo sociale scelto. E' una norma imperativa quella che regola le maggioranze per la formazione della volontà sociale nella S.p.A., è una norma imperativa quella che prevede che solo l'assemblea può nominare gli organi sociali, è una norma imperativa quella che prevede la divisione di poteri tra organi amministrativo ed organo assembleare, per cui se il sindacato viola queste norme imperative il contratto è nullo. Qualcuno si è spinto oltre dicendo che visto che questi patti sono quasi tutti segreti, non sono conoscibili, bisogna fare una distinzione fra società non quotate e quotate. Sembra che recentemente la legge Draghi abbia dato voce alla distinzione emersa perché all'art.122-l23-l24 sono previsti i sindacati. In questi art. si dettano delle regole di trasparenza e di pubblicità di questi patti. L'art. 122 dice che: "Patti parasociali. 1 - I patti in qualunque forma stipulati, aventi per oggetto l'esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano sono: a) comunicati alla CONSOB entro 5 giorni dalla stipulazione; b) pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana entro 10 giorni dalla pubblicazione; c) depositati presso il registro delle imprese del luogo ove la società ha la sede legale entro 15 giorni dalla stipulazione. 2 - La CONSOB stabilisce con regolamento le modalità e i contenuti della comunicazione, dell'estratto e della pubblicazione. 3 - In caso di inosservanza degli obblighi previsti dal comma 1 i patti sono nulli. - 4 Il diritto di voto inerente alle azioni quotate per le quali non sono state adempiuti gli obblighi previsti dal comma 1 non può essere esercitato. ", quindi la legge si preoccupa anche di dire che, in caso di inosservanza di tutte queste regole, i patti di sindacato sono nulli, non solo ma è sospeso il diritto di voto in caso in cui non vengano osservate queste disposizioni e quindi le sanzioni sono molto gravi. Oggi abbiamo un ulteriore presa di posizione del nostro legislatore che si pone accanto a tutti quei mutamenti settoriali di cui vi parlavo prima e che per tutte le società quotate o per le società che controllano società quotate, ha dettato delle discipline in omaggio al principio di trasparenza. Questo perché, questa diffusa segretezza che caratterizzava i patti di sindacato aveva fatto dire ad un autore che vi fosse una loro tendenziale inammissibilità con riferimento alle società quotate, perché questa segretezza contrastava rispetto ai principi fondamentali di tutela del pubblico risparmio, primo fra tutti quello della trasparenza. Il legislatore, così, ha previsto un regime di trasparenza con riferimento ai patti sindacali con riferimento alle società quotate. Questo non vuol dire ancora che tutti i patti, comunque formulati, siano comunque validi e soprattutto bisogna tenere presente che ammesso e non concesso che questa sia una breve disposizione generalizzata riguarda comunque solamente le società quotate, quindi tutti i problemi di cui vi parlavo prima continuano a riguardare le società non quotate.

I sindacati di voto si accomnano speso ai sindacati di blocco nei patti parasociali perché si cerca di fare in modo che le partecipazioni rimangano tra gli aderenti al sindacato. Il testo da un osservazione molto utile: ammesso e non concesso che tutti i patti di sindacato siano validi, questo va ad urtare contro il principio di tipicità delle società, perché se si ammette con un patto di sindacato un voto a maggioranza in cui si predetermina il voto riguardo alla nomina delle cariche sociali, all'approvazione del bilancio, in cui si alterano i rapporti tra organo amministrativo ed assemblea e come se si creasse una società dentro la società. Quindi è come se si avesse un tipo diverso di società per azioni e quindi un tipo caratterizzato dalla presenza di patti di sindacato, rispetto al tipo previsto dal legislatore, quando il patto di sindacato non c'è. Quindi secondo il prof. Cottino si urterebbe contro il principio di tipicità delle società e questi dubbi li nutre ancora oggi nonostante questa nuova legge.




Ritornando alle delibere assembleari, dobbiamo affrontare un altro aspetto che è quello della verbalizzazione. Una volta effettuata la votazione, che può essere contestuale alla discussione in omaggio al principio di collegialità della formazione della volontà sociale, che riguarda una determinata proposta definita nell'ordine del giorno, se tale proposta attraverso la proclamazione dei risultati da parte del presidente ha avuto la percentuale dei voti necessaria per passare, secondo la legge, quindi succede che si è ultimato tutto il procedimento relativo alla formazione della delibera assembleare. Però questa delibera come cita l'art. 2375 deve anche constare dal verbale, sottoscritto dal presidente e dal segretario, redatto da un notaio in assemblee straordinarie. Questo verbale viene poi trascritto in un libro sociale che è il libro delle delibere e delle adunanze della assemblea. Sorge un problema riguardo al verbale perché si è detto se debba essere analitico o sintetico, ossia deve contenere la dettagliata elencazione nominativa di tutti i soci compilata dalle loro dichiarazioni o basta una sintesi ? La giurisprudenza è oscillante sul punto, e siamo ritornati adesso dopo una fase in cui sembrava essersi assestata la tesi del verbale sintetico, pare che adesso siano tornati di nuovo alla tesi della analiticità. Che è meglio per altro, anche se è discusso, per evidenziare determinate ipotesi di conflitti di interesse, di soci dissenzienti ai fini di eventuali diritti di recesso. Quindi è solo da ricordare che il problema è discusso e che le ultime prese di posizione paiono orientate verso la tesi della analiticità del verbale.


Problema della invalidità delle delibere assembleari. Invalidità è un concetto generale che comprende varie forme di invalidità, quelle previste dalla legge sono due. Quindi sotto il genere invalidità abbiamo diverse forme di invalidità e queste forme sono con riguardo alle delibere dell'assemblea sono la annullabilità della delibera e la nullità della delibera. Non è una forma di invalidità la così detta inefficacia della delibera. Perché l'inefficacia può accomnarsi tanto alla delibera nulla quanto ad una delibera falsa, che è valida ma visto che ha toccato i diritti individuali del singolo socio non può produrre effetti. Quindi la categoria dell'inefficacia non è una categoria che si può accumunare alla nullità ed alla annullabilità, cioè non è una forma di nullità o annullabilità, perché l'inefficacia per le delibere così come nei contratti può accomnarsi anche ad una delibera valida. Il contratto nullo è un contratto inefficace, ma un contratto può essere valido ed inefficace se sottoposto a condizione sospensiva. Quindi l'efficacia così come l'inefficacia implica l'attitudine di un altro a produrre i suoi effetti. Quindi un contratto nullo non è atto a produrre alcun effetto, quindi un contratto nullo è inefficace, ma anche un contratto valido potrebbe essere inefficace se nel produrre i suoi effetti era stato posto in condizione sospensiva. Quindi la categoria dell'inefficacia è una categoria a sé stante e significa che una delibera inefficace non è atta a produrre effetti e se è invece efficace è idonea a produrre effetti. Il contratto nullo è per definizione inefficace, non può produrre effetti, anche la delibera nulla è per definizione inefficace, non può produrre effetti. Facciamo l'ipotesi della delibera annullabile, fino a quando commerciali con una sentenza costitutiva non vengono rimossi gli effetti che nel frattempo si sono prodotti, la delibera produce questi effetti, così come il contratto. In un contratto che può essere annullato, fino a quando non venga impugnato per un determinato vizio che abbia chiamato l'annullamento, produce i propri effetti i quali vengono poi tramutati con una sentenza che agisce retroattivamente facendo salvi i diritti dei terzi. Quindi la delibera può essere annullabile, ma può produrre degli effetti per quel limitato periodo di tempo che intercorre tra l'adozione di quella delibera e la preposizione dell'impugnazione e fino all'esito di quel giudizio a meno che non vengano sospese prima. Una delibera valida può essere inefficace perché può essere la delibera di un assemblea generale che ha dimenticato i diritti dei soci di categoria, per cui una delibera valida è inefficace. Quindi la forma generale è l'invalidità che comprende la nullità e la annullabilità. L'inefficacia è una categoria a sé stante.

La legge all'art. 2377 parla di annullabilità delle delibere. Al comma1° dice: "Le deliberazioni dell'assemblea, prese in conformità della legge e dell'atto costitutivo, vincolano tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti" quindi questo è un principio che non altera il principio di votazione a maggioranza che prevede che la maggioranza vincola la minoranza, purché però la maggioranza abbia adottato una delibera conforme ai dettami della legge dell'atto costitutivo, se la delibera è legittima la delibera vincola anche i soci di minoranza.

Ora, perché sono partita dalla delibera annullabile? Perché a differenza di quello detto nei contratti, dove quando si studiano le forme di invalidità, la categoria generale è la nullità, l'annullabilità è prevista solo per i contratti relativamente a specifiche ipotesi, esempio, vizi della volontà. Quindi l'elemento generale dei contratti è quello della nullità, mentre l'elemento residuale è quello della annullabilità. Ora nel sistema societario troviamo un inversione di tendenza, l'ipotesi generale è quella della annullabilità e l'ipotesi residuale è quella della nullità. La delibera non conforme alla legge o all'atto costitutivo è annullabile, la medesima delibera non è che fin dall'origine sia libera dagli effetti, è solo suscettibile di perderli, quando a seguito di una sentenza costitutiva del giudice questi effetti decadono. Ci potrebbe poi essere da parte dell'impugnante della sospensione degli effetti, però per avere questo vi è un provvedimento cautelare che va richiesto al giudice.

Legittimati a far valere l'annullabilità sono i soggetti indicati dal 2° comma del 2377: "Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dell'atto costitutivo possono essere impugnate dagli amministratori, dai sindaci assenti o dissenzienti, e quelle dell'assemblea ordinaria altresì dai soci con diritto di voto limitato, entro tre mesi dalla data della deliberazione, ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, entro tre mesi dall'iscrizione", io non vi ho detto che vi sono alcune delibere che vanno iscritte nel registro delle imprese, quali sono? in linea generale sono tutte le delibere che modificano l'atto costitutivo. Quindi tutte le delibere che modificano l'atto costitutivo sono sottoposte a dei limiti o collocazione ed iscrizione nel registro delle imprese così come avviene per l'iscrizione e l'omologazione dell'atto costitutivo stesso, perché, così come ci vuole il procedimento di omologa ed iscrizione per costituire una società, tute le volte che si modifica le basi previste nell'atto costitutivo bisogna seguire lo stesso procedimento. Quindi le delibere dell'assemblea straordinaria che modificano l'atto costitutivo vanno omologate ed iscritte allo stesso modo in cui va omologato ed iscritto l'atto costitutivo stesso. Quindi il termine di 3 mesi decorre con l'emanazione della delibera o dall'iscrizione a seconda che si tratti di una delibera dell'assemblea ordinaria o dell'assemblea straordinaria. La legge dice anche che la delibera può essere impugnata dagli amministratori e dai sindaci, ora si intende che l'impugnazione debba provenire dall'organo inteso collegialmente, potrebbe provenire dal singolo amministratore solo quando vi sia una delibera diretta in capo a quel amministratore (delibera che revoca la carica dell'amministratore sig. Rossi). C'è un brevissimo termine, il diritto di domandare l'annullamento delle delibere può essere fatto valere in un termine brevissimo di decadenza, 3 mesi decorrenti dalla data della delibera o dall'iscrizione della medesima quando prevista. Spirato questo termine gli effetti della delibera si consolidano definitivamente. Quindi se non si impugnano entro 3 mesi, questi effetti che potevano essere posti nel nulla da una sentenza costitutiva di annullamento, si consolidano definitivamente, anche se la delibera è viziata.

Anche se l'impugnazione viene fatta entro i 3 mesi, l'interessato non ha nessuna garanzia di vedere caducati tutti gli effetti diretti ed indiretti della delibera. Questo lo si deduce dall'art. 2377, 3° comma: " L'annullamento della delibera ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori a prendere i conseguenti provvedimenti, sotto la propria responsabilità. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiti in esecuzione della deliberazione". La delibera produce effetti ed è eseguibile, a meno che non venga dichiarata l'annullamento della stessa. Allora, visto che produce effetti ed è eseguibile, trascorsi i 3 mesi questi effetti si consolidano. Ma ci sono degli effetti che si consolidano ugualmente e sono quelli che riguardano i terzi di buona fede. Quindi anche se l'impugnazione è tempestiva, l'interessato all'impugnazione non ha alcuna garanzia di vedere tramutati tutti gli effetti della delibera.

Non solo il diritto di ottenere l'annullamento è vincolato, secondo l'art. 2377, 4° comma: "L'annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dell'atto costitutivo".

Cosa si ricava dalla norma 2377? E' una soluzione. E la soluzione proposta dal nostro legislatore è quella che prevede del contrasto fra interesse alla eliminazione dal mondo giuridico delle conseguenze scaturenti da atti viziati e l'opposto interesse alla conservazione di atti. Il nostro legislatore propende per quest'ultima soluzione. Questo perché non solo viene contrassegnata la sentenza di annullamento, la caducazione degli effetti della delibera annullabile, non solo viene messo nelle mani della maggioranza un forte potere quello di evitare anche la caducazione o sostituzione delle delibera ma vengo anche ridotti i numeri dei soggetti legittimati ad attaccare la lettera perché i legittimati sono solo quelli previsti dalla legge. Non solo ma ci sono delle categorie di effetti che non vengono proprio travolti e sono quelli che riguardano i diritti acquistati da terzi di buona fede. Quindi il nostro legislatore ha voluto risolvere il contrasto fra due tipi di interesse cioè quello dell'eliminazione dal mondo giuridico delle conseguenze scaturenti da atti viziati e l'opposto interesse alla conservazione delle delibere, ha scelto per la conservazione degli effetti delle delibere.



Perché c'è un capovolgimento rispetto al regime dei contratti? Le delibere dell'assemblea sono atti unilaterali plurisoggettivi, ma una norma del codice l'art. 1324 ci dice che per gli atti unilaterali con contenuto patrimoniale si applicano le stesse norme dei contratti, e cioè la categoria generale è la nullità e la categoria specifica l'annullabilità. Quindi essendo le delibere atti unilaterali dovrebbero seguire le norme dei contratti, ma grazie alle norme speciali 2377-2379 alle delibere vengono applicate norme diverse.

Queste sono norme speciali che valgono per le delibere degli organi collegiali delle società di capitali, questo è un favore del legislatore riguardo alla conservazione degli effetti delle delibere che parte dal riconoscimento, nel nostro sistema, generale dell'annullabilità a scapito della nullità. Non solo ma anche lo stesso processo di impugnazione è regolato dettagliatamente dal nostro legislatore perché l'art. 2377 riguarda la disciplina sostanziale della delibera, l'art. successivo prevede la disciplina processuale, il processo di impugnazione art. 2378. Questo art. prevede l'onere per il socio che impugna, di depositare in cancelleria almeno un azione e questa è una condizione di procedibilità dell'impugnativa stessa perché senza il deposito non si può provare la legittimazione del tribunale, non solo, al socio opponente può essere imposta la prestazione di un idonea garanzia, non solo, la legge ci dice anche che tutte le impugnazioni relative ai soggetti legittimati che riguardano la stessa delibera devono essere istruite congiuntamente, devono essere decise con un unica sentenza e la trattazione della causa non può avere inizio prima dello scadere del termine di decadenza previsto dall'impugnazione della delibera stessa.

Ci sono delle delibere di natura tale da non poter essere neanche presuntivamente conosciute dal soggetto che intende procedere all'impugnazione. Esempio: se non c'è stata una convocazione come farebbe il socio a sapere che c'è stata una delibera, come farebbe il socio dissenziente, da che cosa! visto che non ha avuto l'ordine del giorno.

Allora bisogna analizzare come questa ura dell'annullabilità, in realtà, abbia dei limiti ben precisi, per cui non sia sempre percorribile. Per cui studiamo le ure diverse rispetto a quelle dell'annullabilità della delibera. Quand'è che una delibera è nulla? Art.2379: "Deliberazioni nulle per impossibilità o illiceità dell'oggetto. Alle deliberazioni nulle per impossibilità o illiceità dell'oggetto si applicano le disposizioni degli art. 1421, 1422, 1423", quindi la nullità della delibera è ammessa solo per impossibilità o illiceità dell'oggetto. E' una forma di invalidità questa della nullità che risulta a differenza dell'annullabilità e grazie al richiamo delle norme del 1421, 1422, 1423, una nullità assoluta e cioè eccepibile da chiunque vi abbia interesse e addirittura nei casi di ufficio, una nullità imprescrittibile e cioè opponibile senza limiti di tempo, insanabile cioè insuscettibile di convalida.

Questa norma della nullità prevede una notevole rottura del sistema iperprotettivo che il legislatore si è creato con gli art.2377, 2378, a favore della società. Anche se poi questo sistema iperprotettivo riguarda due casi particolari, due ipotesi tassative di nullità.

La giurisprudenza ha ulteriormente fatto una distinzione. Noi possiamo dire che l'illiceità o l'impossibilità dell'oggetto sono comunque due casi tassativi di violazione di norme imperative, ma sono due casi tassativi che riguardano l'interesse generale. Allora, cosa ha detto la giurisprudenza? La giurisprudenza pur partendo dall'equazione illiceità dell'oggetto della delibera = violazione di norme imperative, opera costantemente una distinzione fra norma imperativa e norma imperativa, affermando che solo il contrasto con norme dirette a tutelare un interesse generale o di terzi ma non dei soci può impedire una deviazione dallo scopo economico pratico del contratto di società e suscettibile di portare la nullità della delibera. Quindi tutta la violazione di norme imperative che non rientrano in questa disciplina e che non riguardano comunque un interesse generale ma un interesse interno alla società, fanno si che si parli di annullabilità della delibera, giammai di nullità. Questa distinzione è stata fatta dalla giurisprudenza.

Quindi la nullità: impossibilità o illiceità dell'oggetto. Esempio: bisogna vedere da quali vizi può essere affetta una delibera che approvi il bilancio non valido. Si è detto che una delibera che approvi un bilancio falso è una delibera nulla, oggi si dice anche che una delibera che approva un bilancio non solo non veritiero ma anche non chiaro è una delibera nulla. Un primo orientamento della cassazione invece dice un'altra cosa, che la violazione del principio di chiarezza comporta la nullità della delibera che approva il bilancio sotto il profilo dell'illiceità dell'oggetto, solo se la chiarezza sia travolta da un bilancio falso. Oggi invece con la nuova disciplina dei bilancio pare che l'orientamento della dottrina ma anche quello della giurisprudenza si stia leggermente modificando, e si stia seguendo l'orientamento che ha sempre sostenuto la giurisprudenza del tribunale di Milano, secondo il quale sia la violazione autonoma del principio di chiarezza sia la violazione del principio di verità, comportano la nullità di una delibera che approva il bilancio.

La legge Draghi dice che si applicano delle norme relative alla nullità dei contratti, quindi la nullità può essere fatta valere da chiunque ne abbia interesse, sotto questo profilo è sorta una discussione. Si è detto: se un socio vuole far valere la nullità della delibera basta che dichiari la sua qualità di socio? Cioè il fatto di avere interesse alla dichiarazione di nullità è insita nella qualità di socio o bisogna un ulteriore interesse? Questo è stato molto importante soprattutto con riferimento alle delibere che hanno approvato un bilancio falso. La giurisprudenza ha ritenuto che ci volesse un interesse ulteriore, identificando questo interesse in un completo pregiudizio patrimoniale che potrebbe ricevere il socio dall'esecuzione della delibera, in un momento successivo e forse più correttamente in un interesse del socio ad avere informazioni più corrette riguardo al bilancio.

C'è un altro problema che è quello di analizzare ipotesi macroscopiche di invalidità che non essendo previste nelle ipotesi tassative di cui all'art.2379 andrebbero a confluire nel 2377. Esempio: se non c'è la convocazione e non c'è neppure l'assemblea totalitaria e ciò non di meno la delibera viene adottata, cosa avviene di questa delibera? Se guardassimo solo a questi due art. non è nulla, perché non è impossibile o illecito l'oggetto.

Sappiamo che rispetto a questo che prevede due ipotesi tassative di nullità per la categoria generale dell'annullamento, è sorta un'interpretazione della dottrina e della giurisprudenza, che ha creato una categoria ulteriore, quella della inesistenza delle delibere assembleari. La categoria dell'inesistenza con vizio che affetta l'invalidità di un atto o di un contratto è stata inventata dai francesi per supplire alle loro ipotesi tipiche tassative di nullità in capo di diritto di famiglia, relativa alla nullità del matrimonio. Questo perché? Perché si è sentito il bisogno di creare la categoria dell'inesistenza laddove il sistema prevedeva ipotesi tassative di casi di nullità. Allora si diceva, visto che nel caso di nullità le ipotesi tassative sono nulle, quando c'è un vizio grave, talmente grave da essere più grave ancora dalle ipotesi di nullità previste dal legislatore, e visto che le ipotesi sono tassative e quindi non posso dire che la delibera è nulla perché il legislatore non me lo consente, affinché non si applichi un regime meno grave del vizio, si è creata una categoria nuova. Allora la categoria dell'inesistenza è stata creata dai francesi per supplire a un sistema di ipotesi tassative di nullità in caso di disciplina di diritto di famiglia, è stato creato dalla nostra dottrina e giurisprudenza con riferimento alle delibere assembleari il cui vizio era talmente grave da non potersi parlare nemmeno di delibera, ma nonostante questa gravità non poteva dirsi nemmeno delibera nulla perché i casi di nullità sono tassativi. Il problema è sorto dopo, perché, si diceva che c'erano dei vizi così gravi che non si poteva dire neanche di essere in presenza di una delibera. Però poi, dalla categoria generale dell'inesistenza ai singoli vizi, cioè un conto è parlare di una categoria generale dell'inesistenza ed un altro è dire quando una categoria è inesistente. A questo punto la dottrina e la giurisprudenza sono d'accordo su un punto: la delibera adottata in assenza assoluta di convocazione e senza che vi sia un'assemblea totalitaria non è valida, perché la convocazione è il primo anello della formazione collegiale della volontà sociale, omesso il quale, in assenza di una assemblea totalitaria, non si può neanche parlare di delibera, ciò che si è deciso non è riferibile ai soci. Quindi la mancanza assoluta di convocazione comporta l'inesistenza della delibera, l'irregolarità di una convocazione che c'è stata ma non è stata conforme ai canoni legislativi comporta l'annullabilità della delibera.

Gli interpreti poi si sono veramente divulgati nell'enucleare le varie forme di inesistenza. Qualcuno ha detto che la delibera è inesistente quando partecipano al voto soggetti che sono privi della legittimazione primaria al voto, esempio: ha votato un azionista di risparmio che è privo del diritto di voto; qualcun altro ha detto che è inesistente la delibera che non è stata verbalizzata o ove vi è mancata la discussione. E via dicendo. Sul testo ci sono altri esempi. Proprio perché la categoria non è prevista dalla legge, i controlli sfuggono ad ogni enucleazioni di casi di inesistenza.

Vi è poi il problema della così detta categoria dell'inefficacia, quand'è che una delibera è inefficace? Esempio: la delibera dell'assemblea generale degli azionisti che decide di abbattere il privilegio riconosciuto alle azioni privilegiate. La delibera è valida ma inefficace, quindi inidonea a produrre effetti riguardo ai possessori di azioni privilegiate, perché quei possessori sono riuniti in un'apposita assemblea che si chiama assemblea speciale e solo con il voto favorevole di quell'assemblea ( delibera con il quorum di voto dell'assemblea straordinaria) si potrà dire che la delibera dell'assemblea generale è efficace, altrimenti sarà valida ma inefficace perché ha contratto i diritti degli azionisti di categoria, diritti di cui solo la categoria debitamente intesa e votante a maggioranza può disporre. Altro esempio è quello della delibera dell'assemblea straordinaria che introduca a maggioranza una clausola di gradimento e prelazione estranea alla conurazione originaria dell'atto costitutivo. Anche questa si dice delibera inefficace se non c'è il consenso di tutti i soci. Questo perché soltanto i soci possono disporre del diritto in questione, quindi ci sono delle delibere dell'assemblea, che l'assemblea delibera a maggioranza ma la maggioranza può disporre dei diritti di cui può disporre la maggioranza assembleare, non può disporre dei diritti indisponibili dalla maggioranza. L'enucleazione di questi diritti è stata fatta dalla dottrina e dalla giurisprudenza. La giurisprudenza dice che per introdurre successivamente una clausola di gradimento ci vuole l'unanimità dei consensi perché la maggioranza non può disporre, così come la giurisprudenza dice che per revocare la liquidazione non basta una delibera dell'assemblea straordinaria adottata a maggioranza ma occorre il consenso dei soci perché solo loro possono disporre di quel diritto alla liquidazione della quota che oramai sorge solo col verificarsi di una causa di scioglimento, è discutibile questa opinione ma è un opinione della giurisprudenza. la maggioranza assembleare si ferma laddove siano individuati dei diritti invulnerabili dalla maggioranza assembleare, ma disponibili solo dal singolo socio interessato. La categoria dei diritti individuali è una categoria che è stata recentemente sottoposta a una dura revisione critica proprio perché non sono previsti dal legislatore. Il legislatore solo una volta ci parla di delibere unanime a proposito della modifica delle azioni con connesso l'obbligo delle prestazioni accessori (2345). Per tutte le altre delibere prevede una regola maggioritaria, dicendo però che bisogna fare attenzione a non essere in presenza di un diritto inviolabile del soci. Ma la categoria dei diritti inviolabili non è di origine legale ma solo giurisprudenziale. Certo ci sono dei diritti che sono inviolabili in assoluto quali il diritto di voto, il diritto di recesso, però questo vuol dire che non li potrebbe violare neanche il socio. Quindi il nostro testo distingue tra diritti assolutamente indisponibili, quali il diritto di voto e il diritto di recesso, questi non possono essere disposti ne dall'assemblea di maggioranza ne tanto meno dal singolo socio e i diritti relativamente indisponibili che possono essere disposti solo dal socio ma non dalla maggioranza assembleare. L'enucleazione dei vari diritti individuali è lasciata alla dottrina e alla giurisprudenza.



Conflitto di interessi (art. 2373). Quando si parla di conflitto di interesse si intende quando ci sia in assemblea, un azionista portatore di un interesse che confligge con l'interesse della società. In questo caso il conflitto di interesse deve emergere in seno all'organo assembleare, perché, vedremo poi, che si parla anche di conflitto di interesse con riferimento alle delibere del consiglio di amministrazione. Quando si parla di interessi della società, esistono due nozioni di interesse sociale: la teoria così detta contrattualistica, che dice che l'interesse sociale non è niente altro che l'interesse comune dei soci all'esercizio comune di un attività al fine dividerne gli utili (interesse sociale =interesse comune dei soci, è la causa delibera contratto art.2243). A questa teoria, che è la teoria dominante, se ne contrappone un altra: la teoria istituzionalistica. Questa dice che l'interesse sociale non è solo l'interesse comune dei soci ma è qualcosa che va oltre, è l'interesse dell'impresa in sé. E' un interesse che coinvolge anche gli interessi dei creditori. Comunque, qualunque sia la concezione che si abbia dell'interesse sociale, questo non riguarda il problema dell'art. 2373, perché, una volta risolto il concetto di interesse sociale, il legislatore si chiede cosa succeda quando un socio è portatore di un interesse confliggente con un interesse della società.

Art.2373. Per interpretare la cornice entro la quale si muove questa norma bisogna dire, che l'organo amministrativo per legge è tenuto a perseguire l'interesse sociale, l'amministratore in conflitto di interessi compie una condotta addirittura sanzionata penalmente. Il conflitto di interessi è previsto tra le norme penali che regolano il conflitto dell'amministratore. A differenza dell'amministratore comunque dell'organo amministrativo che è tenuto a perseguire l'interesse sociale, ci si chiede se il socio quando vota, la maggioranza quando vota in assemblea, è tenuta a perseguire l'interesse sociale? O è obbligata a perseguire l'interesse sociale così come gli amministratori? No, qui si vede la differenza tra i due organi. Il socio e con esso la maggioranza assembleare può votare come vuole pur che non si ponga in contrasto l'interesse sociale, cioè i soci potrebbero anche perseguire un interesse personale pur che non confliggente con quello sociale.

Quali dubbi interpretativi ha provocato questa norma?

Art. 2373: "conflitto di interessi. Il diritto di voto non può essere esercitato dal socio nelle deliberazioni in cui egli ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società.

In caso d'inosservanza della disposizione del comma precedente, la deliberazione, qualora possa recare danno alla società, è impugnabile a norma dell'art. 2377 se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi dalla votazione non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza.

Gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità.

Le azioni per le quali, a norma di quest'articolo, non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell'assemblea".

Abbiamo prima parlato della forma di invalidità delle delibere e abbiamo visto che in alcuni casi la non conformità alla legge, all'atto costitutivo, che normalmente provoca l'annullabilità della delibera, è causa di invalidità solo se a essa si aggiungono altri presupposti quali la potenziale dannosità della delibera alla società ( 2373,comma 2) o l'essenzialità del vizio per la formazione della medesima. Cosa vuol dire essenzialità del vizio? Vedremo che la delibera non è sempre annullabile, è annullabile solo se possa arrecare danno alla società ed in oltre quando imponendo un conflitto di interessi, ha comunque superato la prova di esistenza. cioè che ha un voto marginale, ossia senza quel voto non si sarebbe potuta raggiungere la maggioranza.

Quindi la non conformità alla legge o all'atto costitutivo di una delibera comporta l'annullabilità della stessa soltanto se avesse avuto altri presupposti quali la potenziale dannosità della delibera per la società e l'essenzialità del vizio che vuol dire che il voto deve essere marginale e deve essere superata positivamente la così detta prova di esistenza. Cosa vuol dire che il voto deve essere marginale? Che senza il voto espresso in conflitto di interesse non si sarebbe raggiunta la maggioranza richiesta per ottenere la delibera.

Come va interpretata questa norma? la norma esordisce dicendo: "Il diritto di voto non può essere esercitato quando il socio ha un interesse in conflitto", questo significa che il socio può perseguire anche un interesse personale pur che non si ponga in conflitto con l'interesse sociale. La lettera della norma è chiara: il diritto di voto non può essere esercitato. L'altra lettera della norma parrebbe, e questa è opinione di Cottino, che la norma sancisca un vero e proprio divieto di voto. A questo c'è una conseguenza che se in tale situazione si trovasse un socio di maggioranza, questo non dovrebbe votare ma dovrebbe lasciar decidere alla minoranza. Non solo, ma secondo la tesi del prof. Cottino e di altri (parlano di un vero e proprio errore letterario della norma), se c'è un vero e proprio diritto di voto, o almeno parrebbe, il presidente dell'assemblea dovrebbe inibire al socio di votare, escluderlo dal voto. A questa tesi che è una tesi radicale si contrappone l'orientamento predominante in dottrina e di tutta la giurisprudenza, che dice che questa norma non prevede un divieto assoluto di voto ma un semplice limite all'esercizio di voto. E' vero che la legge dice che il socio non ha il diritto di votare ma peccato che non c'è una sanzione immediata prevista dalla legge per chi vota in conflitto di interesse. La sanzione c'è ma è prevista in seconda battuta dal 2° comma. Se è così, il 1° e 2° comma vanno letti con una lettura sistematica, quindi le cose non stanno così. La delibera adottata dal socio in conflitto di interesse non è annullabile di per sé ma è annullabile anche se si aggiungono determinati presupposti e cioè la potenzialità di danno e la prova della marginalità del voto. Ma se così è, vuol dire che la norma non prevede un divieto assoluto di voto, non prevede un potere del presidente di escludere dal voto il socio in conflitto, ma modifica l'esercizio di voto. La legge non dice che il socio in conflitto non può votare ma che il socio non può votare quando con il suo voto andrebbe a pregiudicare il patrimoniale sociale o arrecare un possibile danno.

Sono stati fatti vari esempi. Nel caso di un socio che è anche amministratore, è l'assemblea che determina il compenso dell'amministratore stesso, quando si decide sul compenso degli amministratori, l'azionista che è anche l'amministratore, secondo la giurisprudenza non si deve solo astenere dal voto, ma solo se si giudica su un compenso esagerato, questo perché un compenso esagerato potrebbe essere dannoso per il patrimonio sociale. ½ è poi un caso in cui il legislatore valuta in astratto il conflitto di interesse senza nessun altro elemento. Il 3° comma 2373: "gli amministratori non possono votare nelle delibere riguardanti la loro responsabilità", in questo caso il conflitto è previsto dal legislatore, non bisogna andare a vedere se c'è conflitto o se non c'è. E' un ipotesi in cui il legislatore ha già stabilito che è dannoso che voti un socio amministratore quando si delibera sulle azioni sociali di responsabilità. Esempio: Azionista in conflitto di interesse con la società, si deve decidere riguardo l'acquisto di un immobile di proprietà dell'azionista, e la società deve decidere di comprare questo immobile. L'azionista tenterà di lucrare il maggior profitto possibile e la società tenterà invece a spendere meno. Applicando la teoria di Cottino l'azionista non può votare applicando la 2° teoria si guarda alla congruità del prezzo. Quindi si dice che la delibera è annullabile soltanto se potrebbe provocare un giudizio al patrimonio sociale ma anche se il socio in conflitto è stato marginale.







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