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LA LIBERTA' RELIGIOSA

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LA LIBERTA' RELIGIOSA


CAPITOLO I

IL CONTENUTO DELLA LIBERTA' RELIGIOSA

La legalità costituzionale è una legalità per valori, e si può dire che "la Costituzione si ispira innanzitutto all'ideale della centralità e del primato della persona"; per cui viene in evidenza, in primo luogo, il valore che appare più strettamente collegato a quell'ideale, ossia la libertà, che ci interessa per la sua specificazione in libertà religiosa e quindi per le modalità attraverso cui si intende offrire tutela ed attuazione a questo valore.

L'art. 19 Cost. dichiara che "tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne proanda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto".

La tutela costituzionale e internazionale esige che il potere pubblico non emani provvedimenti o disposizioni normative che si risolvano sostanzialmente in un impedimento al compimento dell'esperienza religiosa. Siccome la libertà religiosa appare strettamente inerente al valore della dignità della persona umana, essa rientra nella categoria dei diritti umani. Proprio perché questi diritti umani hanno una portata che travalica gli stretti confini territoriali, se ne giustifica una tutela da parte della comunità internazionale.



Il modo di intendere la libertà religiosa, le sue esplicazioni e l'ampiezza di esse, dipende essenzialmente dal modo di concepire il rapporto tra politica e religione, e quindi dalle forme di Stato che condizionano l'interpretazione di quel rapporto.

Il fatto è che i diritti umani di cui tanto parliamo sono inequivocabilmente occidentali. Fatto sta che molti Paesi arabi nell'aderire ai Patti tennero a precisare che la libertà di religione doveva intendersi alla luce della religione islamica. La quale concepisce la libertà religiosa come libertà a senso unico. Pare più realistico fare riferimento a norme internazionali per così dire regionali, limitate cioè a zone del mondo più omogenee dal punto di vista storico-culturale.

Il fatto è che libertà religiosa presuppone una relazione fra tre punti di riferimento che costituiscono altrettante variabili, sulla natura, qualità e quantità di ciascuna delle quali vi può essere diversità di vedute, determinata spesso da vere e proprie teorie filosofiche e politiche. Di modo che il concetto di libertà diventa veramente contestabile, se non si prende atto che esso si riferisce a tante svariate situazioni quante sono le combinazioni possibili tra quelle tre variabili, richiedendo quindi modalità di effettiva tutela differenziate in rapporto alle diverse situazioni.

La religione può venire in rilievo in una duplice prospettiva: da un punto di vista per così dire statico, essa costituisce un messaggio più o meno complesso in cui credere, cui aderire. Da un punto di vista dinamico, essa costituisce un insieme di regole di vita e di comportamenti sia liturgici, sia etici, concernenti cioè la vita sociale sia pubblica che privata.

Nel secondo caso, siamo di fronte ad azioni per così dire plateali, visibili, delle quali perciò appare più semplice la valutazione e la consequenziale tutela; tali azioni sono però il frutto dell'adesione ad un messaggio religioso. Questa adesione è frutto di un procedimento tutto particolare, di cui si può parlare in termini di tutela giuridica solo in quanto lo si voglia considerare un atto di scelta. La scelta viene compiuta al termine di un procedimento che si svolge non già sul piano esteriore bensì sul piano psicologico, mentale. È ovvio allora che non possa parlarsi di libertà di religione "senza prestare attenzione all'aspetto preliminare" costituito da questo processo psicologico. Anche il processo interiore destinato a sfociare in una scelta dovrebbe essere protetto da turbamenti e costrizioni.

Preliminare al discorso sulla libertà religiosa in senso proprio è il discorso sulla libertà della coscienza intesa come sede di quel procedimento psicologico che si conclude con l'assunzione di una determinata credenza religiosa. Ed a questo processo psicologico si riferisce la Corte Costituzionale. Pertanto il principio creativo della coscienza viene considerato un "bene costituzionalmente rilevante", e la sua protezione "si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti all'uomo come singolo, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione".

Viene dunque riconosciuto il diritto alla libera formazione della coscienza, a che cioè quel processo interiore, psicologico si attui senza condizionamenti esterni.

La libertà della scelta religiosa compiuta va difesa in vario modo:

a) contro la costrizione a compiere atti che comportino adesione o propensione per uno specifico messaggio religioso, laddove il soggetto, ne compirebbe altri esprimenti la sua adesione a credo religioso diverso da quello cui viene costretto a manifestare;

b) contro persecuzioni o punizioni o discriminazioni per il semplice fatto di aderire ad un credo religioso diverso da quello che eventualmente i poteri pubblici ritengano più serio, più ragionevole, più congeniale ai valori generalmente accolti nella società civile;

c)  contro punizioni, ostacoli o difficoltà frapposte alla decisione del soggetto di mutare la scelta compiuta, sia nel senso di un semplice recesso, sia nel senso del passaggio da un credo religioso ad un altro.

La scelta religiosa compiuta va protetta contro ogni attività rivolta a lederne il contenuto. Il sentimento è per l'appunto "l'organo attraverso cui la coscienza individuale si mette in rapporto con i valori".

La Corte Costituzionale riconduce il sentimento religioso alla coscienza considerata quale sfera virtuale delle espressioni esterne tutelate dai diritti fondamentali; la conseguenza è che anche il sentimento religioso è "da considerarsi tra i beni costituzionalmente rilevanti", anzi costituirebbe "elemento base della libertà di religione che la Costituzione riconosce a tutti", un "corollario del diritto costituzionale di libertà di religione"; e questo giustifica misure legislative rivolte a proteggere il sentimento religioso, ossia la sensibilità dei credenti, da offese che possano essere a tale sensibilità arrecate.


CAPITOLO II

LA LIBERTA' RELIGIOSA COME TUTELA DI AZIONI ESTERNE

Una prima tipologia riguarda le azioni che si ritengono tipiche di qualsiasi forma di tale esperienza religiosa. Esse sono:

a) attività di natura simbolica (culto);

b) attività di natura comunicativo-persuasiva (proanda della propria fede).

La libertà religiosa riconosce a ciascuno la possibilità di adoperarsi per convincere altri a condividere la credenza, la fede che si ritiene vera e buona.

Ma molto spesso per un gruppo religioso la proanda non ha la funzione generica ora descritta, bensì il ben preciso fine di procurare nuovi adepti, nuovi seguaci: ha per fine cioè il proselitismo. In linea di principio, quindi, il proselitismo costituisce parte indisgiungibile del diritto di libertà religiosa.

Il legislatore ha sempre conosciuto attività rivolte alla realizzazione dell'esperienza religiosa cristiana; è stato questo tipo di attività che ha favorito una determinata rappresentazione dei comportamenti e degli atteggiamenti religiosi.

La professione di fede religiosa si esterna in attività che, sulla base di una consapevole distinzione tra sacro e profano, nulla hanno a che vedere con la politica, e richiede ai fedeli, nella vita quotidiana, comportamenti che certamente non urtano contro i valori mediamente circolanti nella vita sociale, sono conformi alla morale corrente, che anzi dai contenuti etici connessi a quella professione di fede appare in qualche modo condizionata.

Normalmente, un messaggio religioso include anche regole di vita, precetti morali, l'osservanza dei quali è condizione indispensabile per il compimento dell'esperienza religiosa secondo quel peculiare messaggio.

Possiamo dire che il rispetto di queste regole di vita trova la sua fonte immediata nella coscienza, la quale pertanto assume uno spiccato carattere normativo. È possibile che un comportamento imposto ad un soggetto come dovere da parte dello Stato sia vietato come illecito da parte della religione, che un comportamento imposto ad un soggetto come dovere da parte della religione sia vietato come illecito da parte dello Stato.

Nelle ipotesi indicate, il soggetto viene allora a trovarsi in un drammatico conflitto interiore (c.d. conflitto di lealtà) fra due doveri di comportamento, l'uno richiesto dall'obbligo giuridico statale e l'altro richiesto dall'obbligo morale col primo contrastante; il soggetto si trova cioè di fronte al problema della duplice obbedienza.

Siccome l'ostacolo a questa particolare forma di libertà è costituito da una norma dell'ordinamento statuale, il riconoscimento di essa non può che avvenire attraverso la decisione dell'ordinamento di rinunciare alla pretesa di osservanza della norma da parte di quei soggetti per i quali l'adempimento del dovere comporterebbe il tradimento della normatività della propria coscienza. La possibilità di comportarsi secondo i dettami della propria fede presuppone allora una deroga.

Queste sgradevoli situazioni di conflitto sono apparse per lungo tempo insuperabili. Il frutto della riconosciuta libertà di coscienza, ossia di adesione alle opzioni etiche preferite, è inevitabilmente il "pluralismo dei valori di coscienza", che si traduce allora nella possibilità di tenere comportamenti differenti da quelli pur ragionevolmente imposti alla generalità dei cittadini.

È possibile pertanto conurare, come espressione particolare di libertà religiosa, il "diritto alla testimonianza della fede", ossia il "diritto di agire secondo i dettami del proprio credo".

La normatività della coscienza non può avere riconoscimento assoluto, giacché anche la norma statuale può poggiare su valori meritevoli di tutela, ed è necessario pertanto un contemperamento: ecco perché queste deroghe non possono essere rimesse alla sensibilità individuale ed alla coscienza sociale.

È necessaria perciò una interpositio legislatoris, intesa a bilanciare la libertà di coscienza "con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon andamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale". Può essere consentita a comportamenti sorretti da motivi di coscienza "una determinata e limitata capacità di deroga a doveri costituzionali" (cosiddetta obiezione di coscienza).


CAPITOLO III

DALLA LIBERTA' NEGATIVA ALLA LIBERTA' POSITIVA

L'aspirazione naturale delle persone è quella di poter scegliere e decidere il tipo di comportamenti da tenere per la propria auto-realizzazione, senza esserne impedite. L'impedimento a questa aspirazione naturale proviene dal potere, quello pubblico innanzitutto, ma anche quello privato.

Oggi si va affermando il convincimento che per tutelare effettivamente le libertà non basta fermarsi alle restrizioni costituite da illegittimi attacchi da parte dei poteri pubblici e privati, bensì occorre anche guardare alle restrizioni costituite dalla carenza di mezzi economici e giuridici, che si traduce in difficoltà di fatto rispetto al compimento delle attività in cui si concreta l'esercizio delle libertà stessa.

Rispetto alle restrizioni del primo tipo ( = ostacoli di natura economica), l'uso del diritto è in funzione garantista, ossia deve conurare quegli atti autoritativi come contrari alla legalità, fornendo al soggetto la pretesa giuridica, azionabile dinanzi agli organi statuali, alla loro eliminazione.

Rispetto alle restrizioni del secondo tipo ( = ostacoli di natura giuridica), l'uso del diritto è in funzione interventista, ossia deve determinare le modalità d'intervento del potere pubblico al fine di rimuovere gli ostacoli di natura economica oppure al fine di ampliare la sfera giuridica dei soggetti.

Questo discorso varrebbe anche per la libertà religiosa. Quegli aspetti sono riconducibili sostanzialmente a quella dimensione della libertà religiosa che si conviene di qualificare come negativa, l'atteggiamento dello Stato è puramente garantista, nel senso che, da una parte, impegna i propri poteri ordinamentali a non ostacolare le attività ed i comportamenti attraverso cui i soggetti realizzano la loro esperienza religiosa, dall'altra impegna il proprio potere giudiziario ad intervenire per tutelare i soggetti da ostacoli tuttavia frapposti sia da parte dei poteri pubblici, sia da parte dei numerosi poteri privati.

In relazione alla libertà religiosa sarebbe doveroso evidenziare una dimensione qualificabile come positiva, ricollegabile cioè ad una serie di condizioni di fatto.

Quali sono queste condizioni di fatto? Sono tutte le attività ed iniziative attraverso cui il singolo può effettivamente condurre l'esperienza religiosa.

La stessa Corte Costituzionale favorisce una lettura della libertà religiosa in questo senso, allorché rileva che lo Stato si fa carico del compito di "facilitare l'esercizio del culto", che è "componente essenziale della libertà religiosa, consequenziale alla stessa professione di una fede religiosa".

Nella sua dimensione positiva, la libertà religiosa appare soltanto come posizione degna di attenzione sul piano politico; essa si conura cioè come un diritto di prestazione nei confronti delle strutture pubbliche. Le forme di aiuto che il potere pubblico decide di fornire, costituiscono il frutto di scelte politiche, il cui rischio è proporzionale alla discrezionalità con cui il potere pubblico dispensa risorse giuridiche e materiali, discrezionalità attraverso cui possono passare preferenze e gradimenti favoriti dalla possibilità di uno scambio politico.

Questi conferimenti di risorse economiche e giuridiche "per necessità strutturali non possono avere come destinatari singoli individui"; ed allora si intuisce che la valorizzazione della dimensione positiva della libertà religiosa serve proprio per giustificare il soddisfacimento non certo di interessi religiosi individuali, bensì degli interessi religiosi di cui si fa titolare il gruppo confessionale.

I gruppi confessionali per definizione pongono a disposizione dei loro membri quei beni e quei servizi spirituali, dettano loro quelle regole di comportamento che sarebbero desumibili dagli aspetti etici del messaggio religioso, grazie alle quali il fedele può compiere la sua esperienza religiosa.

Per consentire ai fedeli di compiere la loro esperienza religiosa il gruppo confessionale ha bisogno delle risorse materiali e giuridiche necessarie per organizzare i servizi e per assicurare l'efficacia delle regole di comportamento per i suoi membri.

Quando si parla di aspetti positivi della libertà religiosa bisogna tener conto che ci si muove in una logica tutta diversa, in quanto la libertà religiosa non è allora un diritto immediato dei singoli, ma è un diritto riflesso, nel senso che il singolo ne gode in proporzione alle risorse di cui gode il gruppo.

Se la libertà religiosa viene intesa in chiave individualistica, facilmente il suo contenuto può essere reso conforme all'esigenza di eguaglianza; se invece la libertà religiosa viene intesa in chiave comunitaria, il suo contenuto varierà in corrispondenza alla capacità della comunità di ottenere quelle possibilità finanziarie e giuridiche che essa comunità ritiene necessarie per sentirsi veramente libera. La conseguenza sarà che i cittadini avranno gradi diversi di libertà sulla base della loro appartenenza formalizzata all'una od all'altra comunità.

Si può pertanto affermare che concordati e intese sarebbero indirizzate al fine "di pervenire ad uno svolgimento il più ampio e completo possibile di tutte le estrinsecazioni della libertà religiosa".

La fruizione della libertà religiosa può essere fatta apparire meritevole di essere sostenuta perché ed in quanto, oltre che ad essere considerabile come un valore in sé, essa può anche essere ritenuta socialmente rilevante.

Bisogna tener presente che viene indicato come obiettivo di fondo dell'ordinamento il "progresso materiale o spirituale della società". Tale progresso si realizzerebbe attraverso la formazione morale ed intellettuale dei consociati.

Ne consegue che è socialmente utile qualunque attività "che concorra" a tale progresso. Nessuno potrebbe negare che la religione sia un elemento costitutivo della cultura. La religione delinea le forme storiche concrete della vita sociale e del consenso sociale che evidentemente le sorregge. Spunta ora la brillante trova cui la Repubblica italiana riconosce "il valore della cultura religiosa". Ne consegue che i soggetti che si preoccupano di provvedere al soddisfacimento di bisogni religiosi possono essere considerati soggetti che recano un contributo al progresso spirituale della società così come concepito dalla Costituzione.

La dimensione positiva della libertà religiosa costituisce una brillante operazione per dare legittimazione indiscutibile a posizioni di potere religioso altrimenti non difendibili.


CAPITOLO IV

I SOGGETTI COLLETTIVI

Il fenomeno religioso si presenta come pluri-dimensionale, nel senso che lascia scorgere, accanto a soggetti individuali anche soggetti meta-individuali o gruppi. Gli interessi religiosi non sono una categoria univoca, bensì presentano "vari e differenziati livelli di coesione e strutturazione2.

Anche per questi soggetti collettivi si pongono problemi di libertà.

L'organizzazione sta ad indicare quell'insieme di mezzi, strumenti, costituiti da oggetti, strutture, persone, i quali, debitamente gestiti e coordinati, conesentono al gruppo di perseguire le sue finalità. L'associazione in tanto è libera veramente, in quanto detta da sé, ossia autonomamente, le regole che guidano l'organizzazione.

Vengono dunque in rilievo anche esigenze di libertà per così dire strumentali, riguardanti cioè non tanto attività rivolte al perseguimento diretto dei fini, quanto piuttosto attività rivolte al funzionamento dell'organizzazione del gruppo.

Cominciamo con l'occuparci delle libertà per così dire finali. Di libertà di associazione si può parlare in una duplice prospettiva, e cioè come garanzia per il gruppo di non dover sottostare a regolamentazioni di terzi, di non essere cioè eterodiretti, e come libertà di svolgere le attività liberamente scelte. Esaminiamo queste due diverse prospettive.

Carattere particolare della libertà d'azione garantita dalla Costituzione alle associazioni sta nell'assicurazione che il fine associativo può essere perseguito con le modalità e le intenzioni riconducibili esclusivamente alla volontà degli associati, senza cioè che alle modalità di perseguimento del fine così come volute dagli associati possa sovrapporsi la determinazione di tali modalità da parte di altri soggetti.

In base ai principi in materia di libertà associativa, un gruppo può perseguire una finalità religiosa riconducibile al messaggio cristiano-cattolico anche se, nelle modalità di realizzazione, si pone in aperto contrasto con l'autorità confessionale, oppure, anche senza porsi in contrasto, intende mantenersi autonomo rispetto ai controlli dell'autorità confessionale.

I rapporti di gerarchia e di subordinazione che sono stabiliti da un ordinamento confessionale sono irrilevanti per quel che riguarda la condizione giuridica delle associazioni con finalità di religione.

Il gruppo perciò ha bisogno di libertà innanzitutto come possibilità di compiere le attività consistenti nella erogazione delle prestazioni e dei servizi di cui hanno bisogno i suoi membri per la loro scelta di autorealizzazione e, conseguentemente, come possibilità di disporre delle risorse necessarie per provvedere efficacemente a tale erogazioni di servizi.

Le attività da garantire sono allora, in sostanza, quelle che vengono garantite ai singoli, con i limiti che anche a quelle vengono posti, e cioè: a) liceità delle azioni; b) attività a doppia valenza.

a) Liceità delle azioni.

b) Attività a doppia valenza. Vengono alla luce attività dalla doppia valenza, attività cioè che il gruppo religioso considera espressione del suo agire simbolico e che invece lo Stato considera sotto una luce diversa, sottoponendone lo svolgimento a condizioni e requisiti che, se non osservati, comportano sanzioni a carico degli agenti.

Passiamo ora ad occuparci delle libertà per così dire strumentali del gruppo religioso.

Ogni gruppo può essere considerato, in linea di principio, come un ordinamento, in quanto provvisto di un sistema di norme, attraverso cui regola i comportamenti dei soggetti che ne fanno parte e stabilisce come devono essere ripartite ed esercitate le attività/funzioni attraverso cui il gruppo stesso persegue i suoi fini istituzionali. Il gruppo è realmente autonomo se può esercitare liberamente questi poteri ordinamentali.

Una prima serie di ipotesi in cui l'esplicazione di poteri ordinamentali del gruppo confessionale si riflette su situazioni cui si rivolge la doverosa tutela dell'ordinamento statuale, e che quindi crea il problema della loro limitazione, è quella derivante dalla presenza, nel nostro ordinamento, dell'art. 2 Cost., che impone all'ordinamento di tutelare i diritti fondamentali dei soggetti anche all'interno delle formazioni sociali in cui sono coinvolti.

Una seconda serie di ipotesi in cui l'esercizio dei poteri ordinamentali del gruppo ha indiscutibili riflessi sul piano statualistico e quindi crea problemi è quella che prende forma dalla considerazione secondo cui anche per i gruppi, come già per i singoli, si pone una esigenza di coerenza, ossia di identità collettiva. L'identità collettiva dipende dalla possibilità che il gruppo ha di far osservare le regole che esso stabilisce per indirizzare i comportamenti degli aderenti, nella vita quotidiana e nei rapporti con gli altri, in modo che essi siano coerenti con il sistema di valori cui il gruppo si richiama, diano cioè testimonianza di questa identità, proiettandola all'esterno.

In altri termini, l'aspirazione del gruppo è che i suoi membri possano avvalersi delle leggi confessionali piuttosto che di quelle statuali.

È evidente che l'espansione illimitata dei poteri confessionali soddisferebbe al massimo grado l'esigenza di libertà intesa come identità collettiva; ma si capisce la scarsa propensione ad accedervi da parte dello Stato.

Il modello di Stato finora invalso, proprio per essere ispirato al concetto della sovrana unità nazionale, ammette una sola appartenenza, quella unificante ed omogeneizzante legata al suo territorio, e misconosce tutte le altre, fondate su fattori differenti.

Entro quali limiti oggi è possibile, senza per questo favorire un processo di disgregazione, riammettere gli statuti personali all'interno dell'unico ordinamento generale?

Un primo limite potrebbe essere costituito dal principio di eguaglianza, ove mai questo fosse inteso nel senso più rigoroso. Mentre ben più importante appare il problema dell'inclusione/esclusione, del riconoscimento cioè delle identità collettive, problema che si risolve secondo il criterio del pluralismo culturale e quindi delle differenziazioni anche nella fonte della disciplina giuridica, beninteso nella salvaguardia di una trama di valori comuni di fondo.

La società civile ha un suo sistema di valori, che permeano non solo le regole morali e di costume, ma anche quelle giuridiche; e nulla esclude che il sistema di valori su cui si regge la società civile nel suo complesso sia diverso da quello su cui si regge il gruppo religioso, di modo che le regole dettate dall'un gruppo possono porsi in rotta di collisione rispetto alle regole che consentono all'altro di riconoscersi nei suoi propri valori.

La legislazione statuale, nella sua tendenziale generalità ed astrattezza, può imporre oneri oppure doveri che non tengano adeguato conto dei fattori che costituiscono per un gruppo determinato un elemento fondante l'identità, che insomma non riconoscono a questi gruppi un "diritto alla differenza".

La tolleranza esige una utilizzazione tollerante dei valori, consistente nel procedere ad una operazione di pesatura del costo del conflitto in termini di sacrificio di altri beni.

Non è possibile attenersi al relativismo culturale, secondo cui tutte le culture si equivalgono. Siffatti valori, cui il nostro ordinamento si adegua, non sono rinunciabili per rispetto alle culture particolari, alle quali pertanto, in tale caso, non può essere consentita alcuna forma di accoglimento. Per quel che riguarda la tolleranza, essa dovrà arrestarsi allorché il comportamento diverso è indiscutibilmente, alla luce del sistema penale protettivo di beni costituzionalmente rilevanti, deviante.


CAPITOLO V

IL PROBLEMA DEI LIMITI DELL'ESERCIZIO DELLA LIBERTA' RELIGIOSA

Ogni libertà deve adattarsi:

a) alle esigenze di coesistenza delle libertà;

b) alle esigenze di un ordine sociale politicamente determinato.

Di modo che non è concepibile un diritto fondamentale che non sia necessariamente limitato: in caso contrario, da una parte si creerebbero conflitti insanabili e si renderebbe difficile la convivenza, dall'altra si porrebbe in pericolo la stessa saldezza di quell'ordinamento giuridico che serve proprio a consentire l'ordinato esercizio delle libertà.

Si capisce allora la delicatezza e la rischiosità dell'apposizione legali di limiti alle libertà, sol che si pensi alle conseguenze. Il problema si pone allora: a) di legittimità o meno di provvedimenti dell'autorità amministrativa che richiamandosi alle regole limitatrici impediscano o vietino il compimento di attività che l'agente ritiene espressione di libertà religiosa; b) di giustizia o meno di sentenze penali che, sul presupposto della violazione di regole limitatrici, conurino come reato le attività che abbiano ecceduto quei limiti, ma che l'agente ritiene esenti da quei limiti proprio perché espressione di libertà religiosa.

È possibile stabilire preventivamente le esigenze individuali e sociali che giustificano l'apposizione di limiti alla libertà?

I limiti di una libertà giusta non sono facilmente definibili né in teoria, né in pratica: le frontiere vanno poste, ma si tratta di "frontiere mobili", nel senso che non possono essere rigidamente definite una volta per tutte, ma sono destinate a scontare la prevalenza dell'una o dell'altra ideologia. Si spiega perché la nostra Costituzione, ad esempio, si mantenga molto prudente e nulla indichi al riguardo, tranne la poco realistica o almeno troppo marginale ipotesi della contrarietà dei riti al buon costume.

In sostanza, vale come criterio giustificatore di limiti, quello della presenza di altri beni, individuali e collettivi, costituzionalmente rilevanti; ma si tratta di un paradigma estremamente elastico.

La doverosa non interferenza del potere pubblico vale finché le attività attraverso cui si professa e si proanda la fede non si traducano in un illecito penale, perché allora, in linea di principio, sull'esigenza di libertà prevale l'esigenza di tutela dei beni giuridici offesi dal comportamento illecito. Fatto sta che bisogna tener conto della scriminante di cui all'art. 51 c.p., secondo cui "l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica, o da un ordine della pubblica autorità, esclude la punibilità". Per cui l'attività illecita commessa nell'esercizio del diritto di libertà religiosa non sarà punibile solo se, nella prudente valutazione del giudice, il bene offeso da tale comportamento è di valore pari od inferiore a quello che la legge penale vuole difendere da aggressioni. Se tale bene appare di valore superiore il reato è punibile.

Ulteriori pericoli di riflessi vessatori della legge penale derivano dal fatto che le attività illecite se compiute dai dirigenti e dai convinti seguaci del movimento religioso, una volta ritenute conuranti gli estremi di un reato, ne provocano per ciò stesso un altro, quello cioè di associazioni a delinquere. Ancor più manifesto, allora, è il rischio che lo strumento penale possa essere usato per criminalizzare e quindi stroncare i nuovi movimenti religiosi, a tutto vantaggio di quelli consolidati e tradizionali.

A parte l'aspetto strettamente individuale dei reati che si conurano, in tali casi è accettabile il rilievo della dimensione associativa, se consti che è l'organizzazione a precostituire le basi necessarie per la realizzazione di condotte costituenti ure di reato.

Ma la libertà religiosa può offrire anche di limitazioni indotte dalla mentalità e dal pregiudizio, mentalità e pregiudizio favoriti dal modo di intendere la religione. Questo quadro idilliaco è però turbato, oggi, dall'irruzione di numerosi soggetti collettivi che, vengono chiamati nuovi movimenti religiosi.

Ora le Chiese più forti e, proprio per questo, tradizionalmente più legate al potere pubblico nel solito scambio politico, non potendo più fruire, da parte del potere pubblico di una difesa diretta contro la concorrenza che portano loro, nel campo religioso, i numerosi gruppi e movimenti che lo affollano sempre maggiormente, sono indotte ad esercitare sul potere politico una pressione volta a demonizzare i nuovi movimenti religiosi.

Visto che questi movimenti si appellano, per le loto iniziative, alla libertà religiosa, il primo gradino è proprio quello della identificazione di questi movimenti come religiosi, ed è proprio a questo livello che si può avere una limitazione/comprensione della libertà religiosa, visto che la categoria da utilizzare è già condizionata e pregiudicata.

I gruppi religiosi così qualificati si distinguono perché "hanno molto poco in comune con quella tradizione cristiana che aveva caratterizzato secoli di storia religiosa", e per quello che ora ci interessa si caratterizzano:

a) per il fatto che le loro pratiche di culto sono strane, eterodosse, imbarazzanti, spesso ai margini del confine tra lecito ed illecito;

b) che la loro opera di proselitismo è talvolta aggressiva o svolta attraverso tecniche che sembrano condizionate oltre misura i soggetti che ne sono destinatari, tanto che essi vengono spesso "accusati di ledere i diritti dell'uomo sotto molteplici profili".

È quindi necessaria una continua vigilanza affinché sotto le vesti di una giusta difesa di interessi generali non si celi l'obiettivo di scoraggiare l'iniziativa di nuovi gruppi religiosi che guadagnano terreno sulle Chiese tradizionali.






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