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LE COMPETENZE DELL'UNIONE EUROPEA

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LE COMPETENZE DELL'UNIONE EUROPEA


1. Le competenze comunitarie: il principio della competenza d'attribuzione.


Art. 5 TCE: norma di grande importanza che sintetizza alcuni principi generali riguardanti la portata delle competenze comunitarie e le condizioni per il loro esercizio.

Il primo comma enuncia il principio d'attribuzione: 'La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato'.

La Comunità non è un ente a finalità e competenza generali. Essa può intervenire soltanto nei settori in cui ciò sia contemplato dal Trattato e soltanto per gli obiettivi che il Trattato stesso indica.



(L'art. I-l1,par.2 della Costituzione sottolinea la natura derivativa delle competenze dell'Unione da un'attribuzione da parte degli Stati membri, nonché la specialità di tali competenze rispetto a quelle degli stessi Stati membri)

La Corte di giustizia ha tuttavia ammesso che, pur in mancanza di un espressa attribuzione di poteri, la Comunità possa essere considerata competente quando l'esercizio di un certo potere risulti indispensabile per l'esercizio di un potere espressamente previsto ovvero per il raggiungimento degli obiettivi dell'ente (teoria dei poteri impliciti). (Ad esempio l'affermazione della competenza comunitaria a stipulare accordi internazionali in materia di trasporti, in forza del c.d. principio del parallelismo dei poteri interni ed esterni - v. sentenza AETS). D'altra parte, il Trattato stesso prevede una sia pur parziale deroga al principio della competenza d'attribuzione, attraverso l'art. 308. L'inserimento di tale norma rivela come gli stessi autori del Trattato fossero coscienti dell'impossibilità di definire in anticipo e con esattezza i poteri di cui la Comunità avrebbe avuto bisogno per raggiungere i fini complessi e variegati descritti nell'art. 2 del Trattato e quindi della necessità di consentire l'assunzione autonoma di nuovi poteri, comprimendo così il principio d'attribuzione.

Le condizioni poste dall'art. 308 per l'esercizio del potere d'esame sono alquanto restrittive. Da un punto di vista procedurale è richiesta una delibera unanime del Consiglio, con coinvolgimento sia della Commissione, che formula la proposta, sia del Parlamento, che viene obbligatoriamente consultato. Da un punto di vista sostanziale occorre:

a) necessità dell'azione in relazione ai fini della Comunità: condizione che comporta un notevole margine di discrezionalità in favore delle istituzioni. La vastità degli scopi previsti dall'art. 2 è infatti tale che qualsiasi azione può essere agevolmente collegata con essi (soprattutto in campo economico). Tuttavia la prassi applicativa dell'art. 308 ha mostrato che, una volta raggiunto l'accordo unanime in seno Consiglio, non ci si preoccupa eccessivamente di chiarire il nesso della nuova azione con gli scopi della Comunità o con il funzionamento del mercato comune;

b) mancata previsione di adeguati poteri da parte del trattato: inizialmente la Corte sembrava volerne sminuire l'importanza (v. sentenza Massey Ferguson) ma di recente ha mostrato un atteggiamento più restrittivo, sottolineando il carattere residuale della norma in esame ed escludendone l'utilizzabilità ogni volta che il Trattato prevede una base giuridica alternativa (v. sentenza Erasmus).

Ci si domanda se esistano dei limiti intrinseci alla possibilità di ricorrere all'art. 308. Risulta infatti evidente che esso costituisce un minus rispetto alla procedura di revisione di cui all'art. 48 TUE. In primo luogo la norma in esame consente nuove azioni, ma non deviazioni o deroghe rispetto alla disciplina materiale fissata dallo stesso Trattato. La stessa soluzione negativa vale per il caso in cui le disposizioni che si vorrebbero fondare sull'art. 308 siano tali da modificare, sia pure direttamente, la struttura istituzionale della Comunità come delineata dal Trattato (situazione che si sarebbe verificata, secondo la Corte, qualora la Comunità, avesse deciso di aderire alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La posizione assunta dalla Corte risulterebbe superata da quanto prevede l'art. I-9, par.2 della Costituzione. La norma conferisce espressamente all'Unione la competenza a negoziare la propria adesione alla citata Convenzione).

È invece possibile riconoscere alla Comunità nuovi poteri, nel senso di consentirle di intervenire in settori non menzionati espressamente dal Trattato, purché non si vada al di là dell'ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del Trattato ed in particolare di quelle che definiscono i compiti e le azioni della Comunità (v. parere 2/94).

Una limitazione al ricorso all'art. 308 è derivata dall'introduzione del principio di sussidiarietà. Tale principio è infatti sicuramente applicabile ogniqualvolta la sola base giuridica disponibile per l'azione comunitaria è costituita dall'art. 308 (v. parere n. 2/92).

(La Costituzione ha mantenuto una norma analoga all'art. 308, si tratta dell'art. I-l8. Rispetto al testo attuale, il potere in esame non è più esercitabile soltanto in riferimento al funzionamento del mercato comune ma nel quadro delle politiche definite nella parte III)


2. I vari tipi di competenza comunitaria.


Non tutte le competenze attribuite dal Trattato alla Comunità hanno pari natura. Occorre in primo luogo distinguere tra competenze esclusive e competenze concorrenti (distinzione utilizzata dall'art. 5.2 e analogamente dall'art. 11). La distinzione in esame attiene ovviamente ai rapporti tra competenza comunitaria e competenza (residua) degli Stati membri.

Nei settori di competenza esclusiva, la competenza degli Stati membri è preclusa anche qualora la competenza comunitaria non sia stata ancora esercitata pienamente. In siffatta ipotesi, gli interventi degli Stati membri hanno carattere transitorio e debbono essere autorizzati dalla Comunità (v. sentenza 5 maggio 1981, Commissione c. Regno Unito).

Nei settori di competenza concorrente, invece, almeno inizialmente Comunità e Stati membri possono ciascuno esercitare i propri poteri. Situazione questa che potrebbe modificarsi nel tempo a favore della Comunità. Infatti a mano a mano che questa agisce, diminuisce corrispondentemente lo spazio d'azione degli Stati membri. In forza del principio di leale collaborazione di cui all'art. 10, gli Stati membri non potrebbero adottare provvedimenti in materie già oggetto di una disciplina comunitaria completa e dettagliata. Ne risulta che, l'estensione e finanche la sopravvivenza stessa della competenza degli Stati membri dipendono dai tempi e dai modi con cui la competenza comunitaria viene esercitata. La Comunità può infatti scegliere di esercitare pienamente la propria competenza, precludendo così agli Stati membri qualsiasi intervento. Al contrario, la Comunità può preferire lasciare a lungo inutilizzati i propri poteri, facendo così sopravvivere la competenza concorrente degli Stati membri (v. i vari pareri della Corte).

Il Trattato non precisa se una determinata competenza comunitaria è esclusiva o soltanto concorrente. Il problema di come classificare una determinata competenza va risolto in via interpretativa, dando rilievo soprattutto agli scopi perseguiti dal Trattato nell'attribuire alla Comunità determinati poteri. Così la Corte ha considerato come esclusiva la competenza comunitaria nel settore della politica commerciale comune di cui agli artt. 133 e ss. del Trattato (v. parere n. 1/75 e sentenza 5 maggio 1981, Commissione c. Regno Unito). Mancano affermazioni giurisprudenziali circa l'esclusività della competenza comunitaria in altri settori. In particolare la semplice circostanza che un determinato settore sia oggetto di una 'politica comune' (oltre alla politica commerciale comune, agricoltura e trasporti) non implica che si possa parlare di competenza esclusiva.

(Le norme del Trattato relativa all'agricoltura, ad esempio, prevedono che i prodotti agricoli siano sottoposti ad una politica agricola comune. Tuttavia potrebbe diventare esclusiva qualora fosse esercitata da prevedere una disciplina completa e dettagliata tale da non lasciare alcun profilo alla disciplina degli Stati membri - v. sentenza Galli,Grosoli,Roelstraete e British American Tobacco)

Il Trattato prevede inoltre un terzo tipo di competenze. In taluni settori, infatti, viene precisato che la competenza comunitaria deve essere esercitata in parallelo con la competenza degli Stati membri, attraverso azioni destinate a sostenere, coordinare o integrare quelle degli Stati membri e senza che la competenza comunitaria possa, nemmeno in prospettiva, sostituirsi a quella degli Stati membri (es. nuove azioni e politiche attribuite alla competenza comunitaria a partire dall'AUE)

(La distinzione tra i vari tipi di competenza è definita in maniera particolarmente articolata dall'art. I-l2 della Costituzione. Accanto alla competenza esclusiva e a quella concorrente esso parla anche di competenza per svolgere azioni di sostegno, di coordinamento e di completamento rispetto all'azione degli Stati membri. A queste si aggiungono la competenza per il coordinamento delle politiche economiche e occupazionali e quella in materia di politica estera e di sicurezza comune, considerata a parte)


3. Il principio di sussidiarietà.


È previsto dall'art. 5: 'Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni degli effetti e dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario'.

Ha assunto un'importanza centrale nell'economia dell'intero Trattato e costituisce un punto di riferimento obbligato quando si affronta il problema dei rapporti tra Comunità e Stati membri. Ciò risulta evidente, osservando che il principio è richiamato anche nel preambolo e dell'art. 2.2 TUE, e che ad esso è dedicato un apposito Protocollo allegato al TCE. Le stesse istituzioni hanno concluso tra di loro un accordo interistituzionale in proposito (Lussemburgo, 1993) e infine va ricordato il documento approvato dal Consiglio europeo di Edimburgo nel 1992 ('Impostazione generale dell'applicazione da parte del Consiglio del principio di sussidiarietà e dell'art. 3 B del trattato sull'Unione Europea').

Il principio in esame si pone ad un livello successivo rispetto al principio d'attribuzione. Esso presuppone infatti che il Trattato abbia conferito alla Comunità la competenza in un certo settore e si preoccupa di regolarne le modalità d'esercizio. L'art. 5.2 specifica il campo d'applicazione del principio di sussidiarietà. Esso vale soltanto nei settori che non sono di competenza esclusiva comunitaria (peraltro in numero esiguo). Considerando che, nei settori di competenza concorrente, la sopravvivenza della competenza statale dipende dalla maniera con cui la competenza comunitaria viene esercitata, il principio di sussidiarietà costituisce una garanzia per gli Stati membri che le loro competenze in settori di competenza concorrente comunitaria non vengano limitate o addirittura cancellate quando ciò non si giustifichi in relazione alla maggiore efficienza dell'azione comunitaria rispetto a quella autonoma degli Stati membri.

In astratto il principio potrebbe essere considerato come neutrale. La scelta di dare la preferenza all'azione statale ovvero a quella comunitaria dovrebbe dipendere da un esame obiettivo, mirante a stabilire quale delle due azioni assicuri migliori risultati.

(Per come risulta formulato e per come esso viene inteso dagli Stati membri, invece, il principio di sussidiarietà sempre esprimere un favor per l'azione statale. Quest'ultima va preferita si assicura il raggiungimento degli obiettivi prescelti benché solo in misura sufficiente, mentre l'azione comunitaria può essere scelta soltanto se ne garantisce il raggiungimento ad un livello superiore. Inoltre la maggiore efficienza dell'azione comunitaria rileva come criterio capace di farla preferire all'azione statale solo se essa dipende dalla dimensione e dagli effetti dell'azione in questione. Si deve trattare infatti, di affrontare una questione che presenta aspetti trasnazionali, in mancanza dei quali l'azione comunitaria è esclusa a priori)

Il principio di sussidiarietà dà luogo a non pochi problemi in sede d'applicazione. Le istituzioni sono pertanto preoccupate soprattutto di stabilire garanzie procedurali che favoriscano il rispetto di tale principio in occasione dell'approvazione dei vari atti: in particolare la Commissione deve procedere ad ampie consultazioni proposito, prima di proporre atti legislativi e motivare specificatamente sul punto.

Si è a lungo discusso se il rispetto del principio di sussidiarietà possa esser oggetto di controllo giurisdizionale. Pur avendo accettato di estendere il proprio sindacato al rispetto del principio in esame, la Corte ha operato con estrema prudenza, tenendo conto che la scelta di considerare un atto comunitario conforme al principio di sussidiarietà appartiene a quella sfera di discrezionalità politica che deve essere riservata alle istituzioni e nella quale il giudice non intende intromettersi, salvo il caso di travalicamento dei limiti della discrezionalità o di errore manifesto. In un primo tempo la violazione del principio di sussidiarietà è stata invocata dalle parti come vizio della motivazione (v. sentenze 13 maggio 1997, Germania c. Parlamento e Consiglio e 9 ottobre 2001, Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio). Successivamente la Corte è stata chiamata a verificare l'esistenza della violazione del principio in esame in quanto vizio autonomo. Ciò ha dato modo la Corte di precisare che la verifica del rispetto del principio di sussidiarietà va effettuata sotto due profili distinti: occorre esaminare in primo luogo a) se l'obiettivo dell'azione progettata potesse essere meglio realizzato a livello comunitario e b) che l'azione comunitaria non abbia oltrepassatola misura necessaria per realizzare l'obiettivo cui tale azione diretta (v. sentenza British American Tobacco).

(Il principio di sussidiarietà è ripreso con accresciuta enfasi nella Costituzione, in particolare nell'art. I-l1, par.3. L'unica differenza di rilievo riguarda il riferimento al livello regionale locale accanto quello centrale: entrambi vanno presi in considerazione per valutare se gli Stati membri siano o meno in grado di raggiungere sufficientemente gli obiettivi dell'azione prevista. Un apposito Protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità è stato allegato alla Costituzione per rafforzare il rispetto di tali principi. È prevista la facoltà per ciascun Parlamento nazionale o camera di un Parlamento nazionale di formulare, entro sei settimane dalla trasmissione di un progetto di atto legislativo europeo, un parere motivato di non conformità della proposta stessa ai suddetti principi. Inoltre è previsto un apposito tipo di ricorso d'annullamento ai sensi dell'art. III-365 in caso di violazione del principio di sussidiarietà proposto da uno Stato membro. Anche il Comitato delle regioni può proporre un ricorso del genere)


4. Il principio di proporzionalità.


Previsto dall'art. 5.3: ' L'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato'.

Anche questo principio attiene alle modalità d'esercizio delle competenze comunitarie. In tutti i tipi di competenza, l'intervento della Comunità, una volta che sia stato deciso, deve infatti essere limitato a quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato. Il principio ha pertanto la funzione di tutelare gli Stati membri da interventi comunitari di portata ingiustificatamente ampia. Gli Stati membri non hanno infatti esitato ad utilizzare il principio di proporzionalità per contestare la legittimità di atti delle istituzioni giudicate eccessivamente invasivi delle loro competenze (v. sentenza 9 novembre 1995, Germania c. Consiglio, sentenza 12 novembre 1996, Regno Unito c. Consiglio e sentenza 13 maggio 1997, Germania c. Parlamento e Consiglio). La Corte tuttavia, limita il proprio riesame alle ipotesi di errore manifesto, sviamento di potere o manifesto travalicamento dei limiti della discrezionalità.

L'esigenza di rispettare la proporzionalità comporta restrizioni per quanto riguarda tanto la scelta del tipo di atto da adottare, quanto il contenuto di quest'ultimo. Circa il primo aspetto, le direttive dovrebbero essere preferite regolamenti e le direttive quadro a misure dettagliate (punto 6 del Protolcollo). La Impostazione generale cit. afferma che ove possibile dovrebbero essere preferite misure non vincolanti, quali le raccomandazioni. Quanto al contenuto dell'atto le misure comunitarie dovrebbero lasciare il maggior spazio possibile alle decisioni nazionali, purché sia garantito lo scopo della misura e siano soddisfatte le prescrizioni del trattato (punto 7 del Protocollo).

Infine riguardo al rapporto tra il principio di proporzionalità cui all'art. 5.3 e il principio generale omonimo, incluso tra i principi generali del diritto comunitario: quest'ultimo si è inizialmente affermato come strumento di protezione dei singoli nei confronti delle istituzioni comunitarie ovvero delle autorità degli Stati membri, quando queste ultime agiscono in un settore retto dal diritto comunitario. Il principio esige infatti che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposte singoli siano a) idonei a raggiungere l'obiettivo perseguito e b) necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui. Il principio di proporzionalità di cui all'art.5.3 riguarda invece il rapporto tra le competenze comunitarie e quelle degli Stati membri. Costituisce pertanto una garanzia specificamente prevista per questi ultimi. Tuttavia i criteri utilizzati sono gli stessi di quelli propri del principio generale.


5. La competenza a concludere accordi internazionali.


Particolarmente complessa si rivela la definizione e la classificazione della competenza della Comunità per quanto riguarda la conclusione di accordi internazionali (c.d. competenza esterna). La competenza esterna della Comunità non ha portata illimitata. Essa infatti soggiace al principio della competenza d'attribuzione (v. parere 2/94). Inoltre la soggettività di diritto internazionale della Comunità coesiste con quella degli Stati membri (ciò ha dato luogo a frequenti controversie sulla portata della competenza esterna comunitaria).

I casi in cui la Comunità è dotata di competenza esterna appartengono due categorie:

a) competenza esterna normativamente prevista: si tratta dei casi in cui il Trattato dispone espressamente che la Comunità può concludere accordi internazionali (in origine solo accordi in materia di politica commerciale comune e di associazione. Successivamente si sono aggiunte altri settori);

b) competenza esterna parallela: la Corte di giustizia ha stabilito che la Comunità può concludere accordi internazionali anche in tutte le altre materie per le quali disponga del potere di adottare atti sul piano interno (principio del parallelismo dei poteri comunitari interni ed esterni). Essa può essere esercitata tanto dopo che la Comunità abbia già provveduto all'adozione di atti sul piano interno (competenza parallela successiva) (v. sentenza AETS di ), quanto quando la competenza interna è attivata proprio in occasione della conclusione di un accordo internazionale (competenza parallela preventiva) (v. parere n. 1/76). Questo secondo caso è da considerarsi eccezionale: secondo la Corte è necessario dimostrare che la partecipazione della Comunità all'accordo internazionale in questione è indispensabile per tre la realizzazione di uno degli obiettivi della Comunità stessa (v. parere n. 1/94 e sentenza 5 novembre 2002, Commissione c. Danimarca).

(La circostanza che la Comunità abbia concluso, anche nella forma di un accordo misto, un accordo con Stati terzi, esercitando così la propria competenza esterna, preclude agli Stati membri che siano parti dell'accordo accanto alla Comunità, di utilizzare tra di loro i procedimenti per la soluzione delle controversie predisposti dall'accordo stesso, trattandosi di controversia relativa all'interpretazione o all'applicazione del presente trattato ai sensi dell'art. 292 TCE, attribuita pertanto alla competenza esclusiva della Corte di giustizia - v. sentenza 30 maggio 2006, Commissione c. Irlanda).


Questione più delicata è stabilire se la competenza esterna comunitaria ha natura esclusiva o concorrente. Si tratta di determinare se la possibilità di che la Comunità concluda un accordo internazionale in un certo campo impedisce agli Stati membri di concludere a loro volta un accordo nel medesimo campo in alternativa alla Comunità o a fianco della stessa (accordi misti). Occorre fare alcune distinzioni:

a) competenza esterna originariamente esclusiva: nelle materie in cui la Comunità ha competenza esclusiva sul piano interno essa ha anche competenza esclusiva sul piano esterno. Così la Comunità è l'unica a poter concludere accordi internazionali nel campo della politica commerciale comune (v. parere n. 1/94) nonché nel campo della conservazione delle risorse biologiche del mare (v. sentenza Kramer).

b) competenza esterna esclusiva derivata: in tutti gli altri casi la competenza esterna della Comunità è concorrente e sopravvive a fianco di quella degli Stati membri. La scelta di chi debba concludere l'accordo potrebbe essere dettata da considerazioni di ordine politico. Si previsto tuttavia come la competenza (interna) concorrente degli Stati membri può risultare limitata o addirittura preclusa in conseguenza dell'esercizio della competenza (interna) concorrente della Comunità. Ciò avviene anche per quanto riguarda la competenza esterna. In particolare la competenza esterna degli Stati membri nei settori di competenza concorrente non può estrinsecarsi nella conclusione di accordi internazionali il cui contenuto a) sia incompatibile con norme comunitarie adottate sul piano interno o b) incida sulla loro applicazione (v. sentenza AETS).

(Delle due condizioni innanzi indicate che di fatto trasformano in esclusiva la competenza comunitaria, la seconda, ovvero l' incidenza dell'accordo su norme comunitarie, è quella che viene invocata molto più spesso. La verifica di tale condizione pone dei problemi interpretativi particolarmente delicati - v. sentenza 5 novembre 2002, Commissione c. Danimarca e parere n. 1/03)

Le conclusioni di cui sopra trovano applicazione anche per quelle (nuove) materie in relazione alle quali il Trattato prevede espressamente la competenza esterna comunitaria, ma ne evidenzia la natura concorrente, specificando che gli Stati membri possono concludere autonomamente accordi internazionali (artt. 111, 174.2, 181.2,181 A). In questo senso la Dichiarazione n. 10, allegata all'Atto finale relativo al TUE, precisa che secondo la Conferenza, tali disposizioni non ledono i principi risultanti dalla sentenza della Corte di giustizia della causa AETS.

(I risultati cui è giunta la giurisprudenza trovano riscontro, almeno in parte, in due articoli della Costituzione che si occupano di competenza esterna, gli artt. I-l3 e III-323 par.1).


6. Le competenze dell'Unione nel II e nel III pilastro.


Il TUE non contiene norme paragonabili all'art. 5 TCE. Manca pertanto un inquadramento generale del problema delle competenze dell'UE diverse da quelle rientranti nel pilastro comunitario. La Corte ha potuto dare sinora un contributo meramente episodico e parziale in questa materia. Tuttavia è possibile trarre da specifici articoli dei Titoli I, V, VI e VIII o dal contesto di tali Titoli alcuni principi che è opportuno mettere in risalto.

Il principio della competenza d'attribuzione: non vi è dubbio che esso si applichi anche in questi ambiti. L'art. 2.3 implica che le istituzioni godono soltanto dei poteri e delle competenze specificamente loro attribuite dal TUE e che tali poteri competenze possono essere utilizzati soltanto per proseguire gli obiettivi che il TUE fissa agli artt. 2,11 par.1(PESC) e 29(cooperazione del III pilastro). Manca peraltro una clausola di flessibilità come l'art. 308 TCE che consenta un'autonoma assunzione di poteri da parte delle istituzioni in caso di assenza di poteri adeguati per perseguire gli obiettivi del trattato (v. sentenza Yusuf).

Quanto al tipo di competenze la classificazione è difficile da seguire per quanto guarda il II e il III pilastro. Si può dire che non vi sono in questo ambito settori di competenza esclusiva dell'Unione. Al più può parlarsi di competenza concorrente. In molti casi si tratta di competenza del terzo tipo (competenze di coordinamento). La sola previsione della competenza dell'Unione in un certo settore, per perseguire determinati obiettivi, non preclude affatto agli Stati membri di agire autonomamente nei medesimi ambiti, fino a quando l'Unione non abbia esercitato i propri poteri.

(Non essendovi nell'ambito del II e del III pilastro competenze del tipo esclusivo, il principio di sussidiarietà previsto dall'art. 5.2 è applicabile all'intero settore della PESC e a quello della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. È quanto stabilisce esplicitamente il richiamato art.2.2 TUE)

La categoria della competenza concorrente è sicuramente presente nel III pilastro. In questo ambito la loro libertà d'azione diviene sempre più limitata man mano che l'Unione esercita le proprie competenze in materia di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Ciò si verifica quantomeno allorché il Consiglio adotta decisioni quadro per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali, ai sensi dell'art. 34 par. 2 lett. b. È riconosciuto anche nel campo d'applicazione del III pilastro un obbligo di leale collaborazione da parte degli Stati membri.

Quanto al pilastro PESC, la categoria della competenza concorrente trova riscontri soltanto parziali. Potrebbe forse parlarsi di competenza concorrente per le materie che possono formare oggetto di azioni comuni ai sensi dell'art. 14. L'adozione di un'azione comune fa scattare uno specifico obbligo di leale collaborazione, previsto dall'art. 11 e comporta a carico degli Stati membri una limitazione dei loro poteri, non potendo essi tenere comportamenti o emanare misure in contrasto. Tuttavia le azioni comuni hanno un obiettivo alquanto limitato quanto al contenuto e alla durata. Esse non possono pertanto avere lo stesso effetto di svuotamento della competenza statale che normalmente deriva dall'esercizio di una competenza concorrente di tipo normativo.

Piuttosto la competenza dell'Unione nel settore della PESC presenta alcune caratteristiche delle competenze di terzo tipo, soprattutto della competenza di coordinamento. Dall'art. 11 par.2 si evince che l'adozione di misure sempre più numerose ai sensi del Titolo V da parte dell'Unione Europea non comporta un corrispondente svuotamento della competenza degli Stati membri a condurre una propria politica estera di sicurezza, ma impone loro soltanto un obbligo di coerenza e un obbligo di coordinamento.

L'obbligo di coerenza si ricava da numerose disposizioni del Titolo V (artt. 11 par. 2 cit., 14 par. 3, 15). Gli ultimi due articoli postulano che gli Stati membri continuino a svolgere una politica estera nazionale, con il solo limite di evitare comportamenti difformi dalla linea adottata dall'Unione.

Quanto all'obbligo di coordinamento gli Stati membri si formano reciprocamente e si consultano in sede di Consiglio in merito a qualsiasi questione di politica estera e di sicurezza di interesse generale in modo da realizzare un'efficace azione convergente (artt.16,19,20).

In conclusione la competenza nel settore della PESC è da considerarsi sui generis e pertanto non classificabile secondo le categorie applicabili nel pilastro comunitario (il carattere sui generis è confermato dalla Costituzione che vi dedica una disposizione speciale: l'art.I-l6).

È opportuno infine accennare al problema della delimitazione di competenza tra i vari pilastri. Si è già visto come la Corte di giustizia si consideri competente a verificare, in sede di ricorso d'annullamento contro atti del Consiglio basati sulle disposizioni del III pilastro, che tali atti non invadano le competenze che le disposizioni del Trattato CE attribuiscono alla Comunità (v. sentenza 12 maggio 1998, Commissione c. Consiglio). La stessa soluzione dovrebbe valere anche in caso di atti basati su disposizioni del II pilastro. Anche in questo caso, infatti, trova applicazione il principio previsto dall'art. 47 TUE. Si è anche visto come, per esercitare tale compito, la Corte accerta se la base giuridica prescelta per l'atto impugnato è stata individuata correttamente, cioè in funzione di criteri oggettivi, in particolare lo scopo e il contenuto dell'atto. Pertanto il rispetto della delimitazione tra, da un lato, il pilastro comunitario e, dall'altro il II o il III pilastro è garantita da un rimedio giurisdizionale.

Dalla scarsa giurisprudenza finora emanata a riguardo, sembra però emergere una tendenza a considerare che le competenze del III pilastro abbiano una funzione residuale e possano essere legittimamente utilizzate soltanto se non sia disponibile una base giuridica adeguata all'interno del TCE (v. sentenza 13 settembre 2005, Commissione c. Consiglio). Quanto al rapporto tra pilastro comunitario e II pilastro, merita accennare al principio di coerenza (artt. 301 e 60 TCE), secondo cui è possibile utilizzare atti adottati in forza del TCE per perseguire obiettivi propri della PESC (v. sentenza Yusuf).





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