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LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE - DIRITTO DI CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI SUBORDINATI, DIRITTO DI STABILIMENTO, LIBERTA' DI CIRCOLAZIONE DEI CITTADIN

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LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE


Segue nella topografia del Trattato la materia della libera circolazione delle merci e quell'appendice particolare che è la materia agricoltura, la quale rappresenta una sorta di normativa speciale di libera circolazione delle merci.

Il Trattato parla essenzialmente della libera circolazione dei lavoratori; occorre però guardare nel suo insieme anche al Tr UE e ai principi enunciati dalla Corte di Giustizia, per rendersi conto che il diritto comunitario non si limita a riconoscere il diritto di libera circolazione solo ai lavoratori, ma in generale a tutti coloro che sono cittadini dell'Unione.

Cittadini dell'Unione sono coloro che sono cittadini di uno Stato membro dell'Unione, restando la sovranità degli Stati membri in merito alle regole per ottenerla. La CE non ha mai dettato norme comuni o unificate circa i requisiti per essere cittadini dell'Unione, lascia che ogni Stato membro disciplini quali sono i requisiti per essere cittadini di ciascuno Stato e nel momento in cui un soggetto è cittadino di uno Stato, automaticamente la Comunità riconosce la cittadinanza dell'Unione a quel cittadino



Ciò comporta una conseguenza significativa: in mancanza di una armonizzazione vera e propria delle norme in materia di cittadinanza, vi saranno 27 modi diversi di concederla, tanti quanto sono gli Stati; in alcuni Stati vi sarà la tendenza a maggiori larghezze di concessione, ovvero a requisiti meno rigidi, in altri vi saranno requisiti più restrittivi, ed è ovvio che gli Stati in cui vigono requisiti meno restrittivi tenderanno ad apparire ai cittadini provenienti da Paesi extra-UE come una sorta di porta per l'ingresso nell'Unione, per mettere piede e più rapidamente diventare cittadini dell'Unione e poter liberamente circolare nel resto della Comunità.

Nel 1978 la Comunità si era preoccupata di disciplinare con un apposito regolamento la libera circolazione delle persone; una decina di regolamenti successivi modificarono questo regolamento del1978, e c'era bisogno di codificare la legislazione esistente per porre rimedio alla sovrapposizione continua di norme. Questo è stato fatto con la direttiva 38/2004, "Relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri", in cui si trovano tutti i principi essenziali radunati in un unico atto.

Circolazione, soggiorno, ingresso sono le tre parole chiave di tutta la disciplina. Ci sono soggetti che godono del diritto di ingresso e non di soggiorno, ci sono soggetti che godono del diritto di ingresso e di soggiorno; le condizioni sono diverse.

Si parla di diritto dei cittadini e dei loro famigliari, e la direttiva stessa definisce il famigliare in un modo molto ampio, come: il coniuge; il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un' unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio; i discendenti diretti di età inferiore ai 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner sulla base della definizione di cui sopra; gli ascendenti diretti a carico o quelli del coniuge o partner. Nel regolamento del 1978 la definizione del familiare era quella di lio, coniuge, ascendente; in questa nuova considerazione dei partner c'è il segno dei tempi.



DIRITTO DI CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI SUBORDINATI

Si parla per lo più sul Tr di libera circolazione dei lavoratori. Questa è disciplinata dagli artt. 39 e ss del Tr e dalla direttiva 38 del 2004.

La nozione di familiare è stata con questa direttiva ampliata ad unioni diverse dal matrimonio.

Vi è una possibilità di revoca o di rifiuto del diritto di soggiorno.

Tutte le persone fisiche, per il solo fatto di essere cittadine dell'Unione, possono soggiornare in qualsiasi Paese della Comunità al massimo per 3 mesi, munite di carta di identità.

E' vietato imporre a tali cittadini che stanno esercitando il diritto l'applicazione di visti all'ingresso e all'uscita; il discorso vale anche per i familiari e per coloro che sono cittadini di uno Stato terzo. E' consentito in questo caso imporre un visto di breve durata.

Altre condizioni, oltre alla cittadinanza e alla carta di identità, sono quelle previste dall'art.39.


L'art.39 al par. 1 fa una affermazione solo apparentemente generalissima; in realtà, se ci pensiamo, è chiara, precisa e incondizionata. Un lavoratore subordinato che si trovasse impedito da uno Stato membro a circolare, potrebbe ragionevolmente ottenere tutela contro lo Stato membro che violasse il suo diritto, davanti al giudice nazionale: dalla norma infatti deriva un diritto del cittadino comunitario lavoratore nei confronti degli Stati membri a essere a essere lasciato circolare, se dimostra di essere in possesso dei requisiti previsti dall'ordinamento comunitario stesso.

Quanto previsto dall'art.39 va pensato come divieto degli Stati membri di prevedere norme in contrasto con questi principi, divieto di discriminare in base alla nazionalità tra lavoratori degli Stati membri con riguardo all'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro, divieto degli Stati membri di stabilire ad esempio metodi di calcolo della retribuzione o retribuzioni minime di legge diverse a seconda che il lavoratore sia nazionale o di un altro Paese membro della Comunità, divieto di stabilire condizioni di accesso al lavoro più difficoltose, anche in via di fatto. La Corte infatti va a vedere se nel concreto una disciplina dell'accesso al lavoro, che appare sulla carta trattare in modo eguale il lavoratore nazionale e il lavoratore di un altro Paese della Comunità, in realtà in concreto non si traduca invece in una maggiore difficoltà di accesso, applicando principi che potremmo chiamare quasi di eguaglianza sostanziale, o quanto meno di parità sostanziale.

Al di là di quello che è il tenore letterale delle disposizioni del Tr, la Corte di Giustizia si chiede, di fronte a determinate normative nazionali in materia di accesso al lavoro ad esempio, se quelle normative davvero in concreto in tutti i casi possibili e ipotizzabili si traducono in condizioni uguali per l'accesso lavoro dei lavoratori stranieri comunitari, rispetto alle condizioni di accesso al lavoro dei lavoratori nazionali.

La differenza fra un lavoro subordinato e un lavoro autonomo qual è? La Corte di Cassazione ha già detto più volte che qualunque attività umana può essere teoricamente oggetto e di lavoro autonomo e di lavoro subordinato e per capire se una determinata attività è di lavoro autonomo o subordinato bisogna guardare alle modalità con cui si svolge; la nostra giurisprudenza nazionale individua dei criteri per riconoscere se ciò che una persona fa è da considerare lavoro dipendente, subordinato oppure autonomo.

La giurisprudenza francese utilizza per definire se l'attività che chiunque svolge sia autonoma o subordinata i propri criteri, che potranno somigliare a quelli applicati dalla giurisprudenza italiana, ma non è detto che siano totalmente identici. La giurisprudenza snola userà i propri criteri, e così ogni Stato decide quali sono le modalità che un'attività lavorativa deve presentare per poter dire che si tratta di lavoro subordinato.

La Corte di Giustizia ha affermato che per stabilire se Tizio è cittadino dell'Unione occorre guardare all'ordinamento dello Stato membro cui appartiene, se uno Stato gli riconosce la cittadinanza egli è anche cittadino dell'UE; lo stesso problema si pone dal punto di vista del lavoro subordinato.

Esiste un diritto di circolare e di soggiornare dei lavoratori; cosa vuol dire essere lavoratori? Chi lo decide?

Tendenzialmente, lo avrebbe deciso ogni Stato di per sé; come per i criteri attributivi di cittadinanza, anche i requisiti per essere considerati giuridicamente lavoratori dipendenti li stabilisce ogni Stato.

In questo caso però la Corte ha detto che ogni Stato stabilisce per conto suo ai fini dell'applicazione del diritto del lavoro interno chi è lavoratore subordinato e chi no, ma per evitare sperequazioni, ai fini del riconoscimento del diritto di circolazione derivante dall'art.39 e ss del Tr, la decisione se le attività svolte da un cittadino dell'Unione siano da qualificare come lavoro subordinato o lavoro autonomo va fatta in base a criteri unificati; non si può lasciare agli Stati membri la libertà o la discrezionalità di decidere chi sia lavoratore subordinato e chi no.

Il risultato è che la Corte di Giustizia, nelle sentenze in cui si è trovata a pronunciarsi in materia di libera circolazione dei lavoratori, ha cominciato sentenza dopo sentenza  a premettere quali sono secondo lei i requisiti che l'attività di un cittadino dell'Unione deve presentare per poter essere considerata, ai sensi degli artt..39 e ss del Tr e delle norme di diritto derivato fondate su quegli articoli, un lavoratore subordinato.

Nel momento in cui il diritto comunitario per riconoscere un diritto (in questo caso il diritto alla libera circolazione) ponesse i requisiti che i soggetti e la loro attività devono presentare, si pone il problema di capire se il diritto comunitario si affidi al giudizio degli ordinamenti degli Stati membri, alla valutazione degli ordinamenti degli Stati membri, o se decida in base a criteri propri. Per quanto concerne la risposta alla domanda "chi è cittadino dell'Unione?", il diritto comunitario si limita a dire che è cittadino dell'UE chi è cittadino di uno Stato membro, poi lascia agli Stati membri il diritto di stabilire chi è proprio cittadino.

Quando invece si tratta di rispondere alla domanda "chi è da considerarsi ai sensi degli artt.39 e ss del Tr quale lavoratore dipendente o lavoratore subordinato?", la risposta non è più lasciata agli Stati membri: stante l'estrema diversità di criteri di giudizio di qualificazione del lavoro come autonomo o subordinato che si possono riscontrare osservando i singoli ordinamenti dei singoli Stati membri, si ritiene corretto per evitare sperequazioni, per evitare trattamenti diseguali o discriminatori tra cittadini di uno o di un altro Stato, che sia la stessa Corte ad individuare quegli elementi che sono desunti dalla lettura dei vari ordinamenti comunitari quegli elementi minimi, in presenza dei quali dobbiamo dire che l'attività che una persona fisica sta svolgendo per conto di qualcun altro è da qualificarsi come attività di lavoro subordinato.

Cosa è subordinato e cosa autonomo lo decide la Corte di Giustizia in base a criteri suoi, facendo una specie di sintesi di quelli che sono i criteri comuni fra tutti quelli adottati dagli Stati membri. Una volta stabilito che un soggetto è cittadino dell'Unione, guardando la legislazione dello Stato di cui il soggetto è cittadino, per capire se quel cittadino è anche titolare di un diritto di circolazione e di soggiorno derivante dagli artt.39 e ss del Tr e dal diritto che poi da quelli deriva (regolamenti e direttive) la Corte non si affida più agli Stati membri, ma decide in base ai propri criteri, desunti a loro volta da un'analisi, da un confronto e da una sintesi dei criteri adottati dai vari ordinamenti.

Questo significa che anche gli Stati membri, quando si trovano a dover decidere se riconoscere o meno il diritto di soggiorno a un cittadino dell'Unione oltre i tre mesi, quindi diritto di circolazione e di soggiorno del lavoratore, per stabilire se quella persona è un lavoratore dipendente i Governi degli Stati membri devono guardare alla giurisprudenza della corte di giustizia e andare a cercare i criteri alla stregua dei quali stabilire se quel cittadino è un lavoratore dipendente o meno.

Sono due modi di ragionare diversi: in materia di cittadinanza la Comunità ritiene di affidarsi alle leggi degli Stati membri; in materia di requisiti dell'attività delle persone ai fini della qualificazione di questa come attività di lavoro dipendente invece ci sono troppe diversità, per cui la soluzione utilizzata dalla Corte è individuare lei i caratteri, prendere quei requisiti che sono più o meno comuni a tutti gli Stati membri e creare la sua nozione comunitaria di lavoratore dipendente.

Il fondamento del diritto di libera circolazione dei lavoratori che prestano attività subordinata è l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.

La Corte non ha mai avuto il minimo dubbio che l'art.39 sia una norma munita di effetto diretto, perchè non è solo implicitamente desumibile un diritto, come avveniva nel caso Van Gend en Loos, ma qui l'articolo enuncia testualmente il contenuto di una serie di diritti soggettivi, tutelabili davanti ai giudici nazionali.

Deve esserci la stessa libertà di movimento di cui godono i lavoratori nazionali.

Si ha all'art.39 par.3 lett. d) uno dei rari casi di competenze esecutive della Commissione non delegate dal Consiglio, ma attribuite direttamente dal Tr. La Commissione dovrà disciplinare i termini e le condizioni alle quali dovrà essere riconosciuto ai lavoratori cittadini dell'Unione il diritto di rimanere sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.


DIRITTO DI STABILIMENTO

L'art.43 rientra nel capo secondo, denominato "diritto di stabilimento".

Il diritto di stabilimento è un diritto riconosciuto dal Tr, sempre attinente al tema della libera circolazione delle persone, solo che non si applica a coloro  che possiedono i requisiti voluti dalla Corte per essere considerati lavoratori dipendenti; si applica invece ai soggetti che svolgono una attività di lavoro autonomo o di lavoro di impresa, ai soggetti che vogliano fermarsi stabilmente sul territorio di uno Stato membro, non per svolgervi attività di lavoro dipendente, ma per svolgervi attività di lavoro autonomo o di impresa.

Ciò implica una particolarità dal punto di vista dei soggetti: poiché il diritto comunitario quando parla di singoli si riferisce sia alle persone fisiche sia alle persone diverse da quelle fisiche, e poiché a svolgere attività d'impresa può essere una persona fisica, ma anche una persona giuridica, mentre il diritto di circolazione e di soggiorno dei lavoratori si applica solo ed esclusivamente alle persone fisiche, il diritto di stabilimento si applica sia alle persone fisiche, sia ai soggetti singoli, privati, diversi dalle persone fisiche.

L'art.43 è espressa in termini di divieto per gli Stati membri di fare determinate cose; è una norma cui la Corte riconosce effetto diretto, ma qui per capire qual è il diritto soggettivo dei soggetti singoli e per capire chi sono questi soggetti singoli titolari del diritto di stabilimento, occorre fare un piccolo ragionamento.

Agli Stati è vietato porre restrizioni alla libertà dei cittadini di uno Stato membro di stabilirsi nel territorio di un altro Stato membro; dunque, se il cittadino di uno Stato membro vuole stabilirsi in un altro Stato membro per ivi esercitare attività autonoma o di impresa, lo Stato di stabilimento ha, in base a questa norma, il divieto di porre restrizioni a questa sua libertà. Ragionando con lo stesso schema mentale della Van Gend en Loos, potremmo dire che lo Stato di stabilimento ha un divieto e quindi il cittadino ha un diritto soggettivo riconosciuto dall'ordinamento comunitario nei confronti di quello Stato.

Il divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali.

E vietato agli Stati membri non solo restringere il diritto di un cittadino di andarsi a stabilire sul territorio di un altro Stato membro, diverso da quello di cui è cittadino, per ivi svolgere stabilmente attività autonome o d'impresa, ma è vietato anche restringere, cioè ostacolare, rendere più oneroso o difficile, il diritto di un cittadino di uno Stato membro, che rimane con la sede principale della sua attività nello Stato di appartenenza, e che volesse aprire all'interno di un altro Stato membro una cd sede secondaria.

In altre parole, la prima ipotesi di cui parla l'art.43 è l'ipotesi in cui il cittadino di uno Stato membro voglia stabilirsi in un altro Stato membro per svolgere lì la propria attività di lavoro autonomo o di impresa; la seconda ipotesi è quella del cittadino che voglia stabilire in un altro Stato membro non la propria attività integrale, cioè non vuole trasferirsi integralmente là, ma vuole stabilire in un altro Stato membro solo la sede secondaria, una agenzia, succursale o filiale.

In entrambi i casi, il comportamento di uno Stato membro, che si traducesse in un ostacolo a questa libertà, è vietato dal diritto comunitario; esempio: se uno Stato membro stabilisse, per l'iscrizione alla Camera di Commercio della ditta del cittadino proveniente da un altro Paese della CE, delle tasse di iscrizione maggiorate, delle procedure burocratiche più complicate, qualunque cosa che si traduca in un rallentamento, maggiore onere, ecc questa sarebbe una normativa contraria all'art.43, e dunque andrebbe disapplicata per il principio di prevalenza del diritto comunitario.


Vi è una differenza tra diritto di stabilire la propria impresa in un altro Paese, eventualmente andarla a costituire in un altro Paese, oppure spostarla quando già era costituita nel Paese di origine, ma anche semplicemente aprire sedi secondarie.

Il comma 2 enuncia che la liberà di stabilimento si applica anche alle persone giuridiche e deve essere intesa come diritto dei soggetti, siano essi persone fisiche siano essi società, a poter godere degli stessi diritti, delle stesse condizioni, che il Paese di stabilimento prevede per i propri cittadini e per le proprie persone giuridiche, per le proprie società.


L'art. 48 dice che le società per le quali ricorrano certi presupposti (devono essere costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e devono avere o la sede sociale o l'amministrazione centrale o il centro di attività principale all'interno di uno Stato membro), se ricorrono questi presupposti, ai fini dell'applicazione delle norme sulla libertà di stabilimento, devono essere trattate allo stesso modo dei cittadini persone fisiche.

Il comma 2 dichiara che questi principi non sono applicabili alle società non profit, cioè che non si pregono scopi di lucro, quindi ad esempio per le forme associative autonome.

Così come per stabilire se una persona fisica è o non è cittadino dell'Unione il diritto comunitario rimanda alla legislazione degli Stati membri, così anche per stabilire se una società sia validamente costituita per il diritto privato o per il diritto commerciale di qualcuno degli Stati membri, rimanda alle legislazioni degli Stati membri. Per certi aspetti il diritto comunitario decide di rimettersi alle valutazioni giuridiche compiute dai singoli Stati membri; su aspetti più delicati, per i quali rimettersi all'ordinamento dei singoli Stati membri potrebbe essere fonte di sperequazioni o di discriminazioni, preferisce individuare i propri criteri, e di solito a farlo è la Corte.


L'art.44 dice che per realizzare l'attività di stabilimento il Consiglio segue la procedura di codecisione (art.251) e con essa delibera direttive.


LIBERTA' DI CIRCOLAZIONE DEI CITTADINI

Si parla in particolare di una categoria di cittadini, cioè i lavoratori, che sono stati particolarmente protetti dal diritto comunitario, non perchè al diritto comunitario interessi la situazione del lavoratore.

L'impostazione del diritto comunitario in tema di libera circolazione delle persone non ha una portata di classe o ideologica; esso stabilisce queste regole in materia di libera circolazione dei lavoratori perchè ritiene che il funzionamento del mercato unico, così come non può prescindere dalla libera circolazione delle merci, non possa prescindere neppure da una libera circolazione dei lavoratori, poichè solo così le imprese troveranno più facilmente manodopera per svolgere le attività produttive, che poi sono a loro volta presupposto per il funzionamento del mercato.

La base del Tr è sempre quella di mercato.

In materia di libera circolazione delle merci il Tr (vedi art.95 ad esempio) si premura di dire che la CE ha tra i suoi scopi anche quello di armonizzare le legislazioni e di eliminare le difformità tra gli ordinamenti, per consentire alle merci di circolare senza gli ostacoli rappresentati dalle difformità tra le varie legislazioni, e per fare questo ad esempio la Comunità persegue un elevato livello di tutela della salute dei cittadini: questo a dire che la realizzazione del mercato non può prescindere dalla realizzazione di altri fini, che di mercato non sono, come la tutela della salute, la tutela degli interessi e dei diritti dei consumatori ecc

Il Tr della CE presuppone il seguente ragionamento: il mercato, se lo limitassimo alle merci, non garantirebbe il massimo livello di sviluppo e di benessere all'interno dell'Unione; per realizzare compiutamente il mercato che sia garanzia di un migliore sviluppo economico, di una più forte coesione tra i popoli della Comunità occorre far sì che il mercato sia libero, aperto, privo di ostacoli e di discriminazioni in tutti settori, compreso il settore del servizi, quello dei capitali e l'aspetto della circolazione delle persone.

Solo consentendo alle persone di poter circolare e lavorare in qualsiasi angolo della Comunità essendo in ogni parte trattati allo stesso modo dei cittadini nazionali, avremo una facilità dei cittadini della CE a spostarsi quindi a dare il proprio apporto all'economia di quel Paese e all'economia comunitaria nel suo complesso.

Questo può essere anche uno strumento per garantire uno sviluppo che non calpesti le libertà fondamentali e i diritti sociali fondamentali che la coscienza comune degli europei ha maturato, che le Costituzioni degli Stati membri riconoscono come tali, che le convenzioni internazionali, ivi compresi alcuni accordi internazionali tra alcuni Paesi della CE, fin dagli anni 60  hanno sempre riconosciuto come diritti sociali fondamentali e tuttora riconoscono.

Il mercato del lavoro, e più in generale la circolazione delle persone per permettere all'economia di funzionare è l'obiettivo prioritario, ma questo obiettivo può essere perseguito in vari modi: per il Tr Ce può essere perseguito rispettando una serie di principi di non discriminazione; il rispetto di questi principi di non discriminazione diventa anche uno strumento per garantire che detti principi vengano solo non violati, ma anche per altri perseguirne. Si passa dal tener conto dei diritti sociali dei cittadini, dei lavoratori della Comunità, all'usare la libera circolazione che ha come primario scopo il funzionamento del mercato per promuovere anche i diritti sociali dei cittadini Comunità.

Questo discorso sta alla base del diritto sociale comunitario.


Il diritto di soggiorno dei cittadini comunitari lavoratori è superiore ai tre mesi, che è invece il limite massimo di soggiorno per i cittadini che non abbiano uno staus di lavoratori. Quindi, mentre per chi è semplicemente cittadino dell'Unione e un passaporto o una carta di identità valida ai sensi delle leggi di uno degli Stati membri, c'è il diritto di circolare e soggiornare per tre mesi, per i lavoratori si ha un diritto di durata molto maggiore.

Condizioni poste dalla direttiva 38/2004 per godere di questo diritto superiore ai tre mesi sono:

a) esercitare attività di lavoro subordinato;

b) disporre di risorse economiche sufficienti;

c) disporre di una assicurazione sanitaria sulle malattie, che può essere anche di natura pubblica, quali sono ad esempio le assicurazioni sanitarie in Itlaia.

Ci sono accordi tra gli Stati membri che hanno permesso di scambiare i servizi di assistenza reciprocamente, si potrebbe parlare di un sistema sanitario europeo, che non è altri uno scambio di prestazioni tra i vari sistemi sanitari.

Questo serve ad  evitare che la libera circolazione possa essere un motivo per gravare sulle tasse pubbliche dello Stato in cui il lavoratore si reca.

Un diritto analogo a quello previsto per i lavoratori la direttiva 28/2004 lo prevede anche per coloro che sono studenti, che "seguono attività formative in qualità di studenti". Anche lo studente deve dimostrare di essere in possesso di risorse sufficienti al sostentamento e di una protezione sanitaria adeguata.

Vi anche il caso di chi è familiare di un cittadino dell'Unione che sia lavoratore o studente; ancora una volta il diritto di soggiorno in un altro Paese comunitario in capo a un familiare è il diritto avente un contenuto che costituisce il riflesso del diritto riconosciuto al soggetto principale.

Nel caso di un cittadino puro e semplice, non lavoratore, non studente, che goda del diritto di soggiornare per tre mesi, il familiare ha lo stesso diritto.

Nel caso del cittadino studente, il familiare gode dello stesso diritto del cittadino studente, alle stesse condizioni (reddito sufficiente e assicurazione di malattia).

Sono soppressi dalla direttiva tutti i permessi di soggiorno o anche le sectiune di soggiorno, previsti dal diritto preesistente, previgente; la vecchia disciplina prevedeva in generale la carta di soggiorno, qualche Stato membro chiedeva ancora il permesso di soggiorno: tutto questo oggi è vietato, è soppresso.

Benché si tratti di una direttiva, è evidente che una previsione che vieta agli Stati di condizionare il diritto di soggiorno dei lavoratori, degli studenti o dei loro familiari al possesso di una carta o di un permesso di soggiorno, è una norma dotata di effetto diretto. Se uno Stato membro fosse in ritardo rispetto all'attuazione di questa direttiva, decorso il termine fissato dalla direttiva per l'attuazione, questo diritto può essere fatto valere davanti ai giudici nazionali.

Quello che la direttiva prevede oggi è la facoltà (non l'obbligo) degli Stati membri, se vogliono, di individuare nel loro apparato amministrativo una autorità pubblica e di esigere dai cittadini comunitari lavoratori o studenti o loro familiari che restino sul loro territorio per svolgere attività di lavoro subordinato o di studio o di supporto morale, una iscrizione (dare di fatto notizia ufficiale, formale, della propria presenza sul territorio), che di fatto è un modo per mettere lo Stato ospitante ufficialmente a conoscenza della loro presenza sul territorio in qualità di lavoratori o studenti o famigliari di questi; in questo caso però, sorge l'obbligo per lo Stato membro che ha preteso l'iscrizione di rilasciare immediatamente un attestato di iscrizione  a quel cittadino che si è iscritto presso l'autorità competente individuata dallo Stato ospitante, come autorità presso cui occorre fare l'iscrizione.

Gli Stati possono scegliere o meno di cerare il regime di iscrizione, non possono porre condizioni diverse da quelle suddette; una volta che lo Stato ospitante abbia deciso di obbligare i cittadini dell'Unione che ospita a iscriversi presso una sua pubblica autorità, a quel punto sorge per lo Stato ospitante l'obbligo di rilasciare un attestato per l'iscrizione, che è solamente ricognitivo e non costitutivo, cioè non fa sorgere il diritto di soggiorno (il diritto di soggiorno sorge perchè lo dice il Tr e lo dicono le norme di diritto derivato , sulla base giuridica degli artt.39 e ss.).

Il certificato è un atto che facilita la prova, è ricognitivo, cioè prova, dimostra, riconosce un diritto che si ha già, non è una condizione per avere il diritto di soggiorno.

La disciplina vista si integra con una parte del vecchio regolamento del 1212/78, che è rimasta ancora in vigore, che prevede il diritto di ogni cittadino dell'Unione di accedere alle attività retribuite, salariate, e a svolgerle sul territorio di un altro Stato membro secondo regole identiche a quelle che si applicando ai rapporti nazionali; è un regolamento che precisa come questo diritto debba essere riconosciuto indifferentemente tanto ai lavoratori permanenti quanto ai lavoratori stagionali; è un regolamento che precisa che l'eguaglianza delle condizioni di accesso al lavoro significa anche l'eguaglianza delle eventuali priorità di accesso al lavoro e fa riferimento al fatto che a molti Stati membri è riconosciuto un diritto di priorità per l'accesso al lavoro per i portatori di handicap, queste stesse priorità devono essere riconosciute anche al cittadino lavoratore proveniente da un altro Stato della Comunità.

Dice il regolamento del 1978 che il sistema di collocamento pubblico che esiste all'interno di uno Stato membro deve garantire l'assistenza nella ricerca di nuovi posti di lavoro ai cittadini della CE.

L'assunzione da parte delle imprese non può dipendere da criteri sanitari, professionali, o di altra natura, che possano tradursi in una discriminazione in qualche modo correlata alla diversa cittadinanza del lavoratore comunitario rispetto al lavoratore nazionale.

Gli Stati membri sono chiamati a garantire la stessa formazione professionale, lo stesso accesso alle iniziative di orientamento professionale.

I vantaggi sociali e fiscali, come sgravi fiscali, devono essere gli stessi.

La direttiva 38/2004 prevede anche un diritto di soggiorno permanente, una sorta di consolidazione del diritto di soggiorno: quando un cittadino dell'Unione ha risieduto legalmente sul territorio di un altro Stato membro per un periodo ininterrotto di tempo di almeno 5 anni senza misure di allontanamento, il cittadino matura, ai sensi della direttiva, il diritto a soggiornare permanentemente in quel Paese, senza più i limiti, anche laddove si perda il lavoro. La direttiva prevede che quando il cittadino dell'Unione che ha risieduto legalmente in un altro Stato membro per più di 5 anni senza interruzioni o misure di allontanamento ha maturato il diritto di soggiorno permanente, abbia altresì diritto, se lo richiede allo Stato ospitante, al rilascio di un documento che attesti che egli è titolare di un diritto di soggiorno permanente.


DIRITTO DI SOGGIORNO PERMAMENTE

La direttiva 38/2004 contempla la possibilità di richiedere a tempo indeterminato, quindi di soggiornare a tempo indeterminato, senza quei limiti che ci sono a proposito del diritto di circolazione e di soggiorno generale o del diritto di soggiorno dei lavoratori, quando si maturino determinati requisiti: si sia cioè legalmente risieduto in uno Stato membro diverso da quello di cui si ha la cittadinanza, purchè ciò sia avvenuto per almeno 5 anni ininterrottamente, senza misure di allontanamento.

La direttiva stessa poi, mentre collega al fatto di subire misure di allontanamento l'immediata perdita di questo diritto, precisa che all' "ininterrottamente" ci sono eccezioni: sono possibili brevissime assenze, l'importante è ci sia una sostanziale continuità per i 5 anni e che eventuali brevissime assenze non siano dovute a misure di allontanamento adottate dalla pubblica amministrazione (es. polizia) per motivi di ordine pubblico.

Una volta che sia maturato il requisito dei 5 anni, si diviene automaticamente titolari del diritto di soggiorno permanente, che garantisce sì il diritto di soggiornare a tempo indeterminato, ma che richiede per essere mantenuto a sua volta una certa continuità, nel senso che dopo avere risieduto legalmente 5 anni e maturato il diritto di soggiorno permanente, questo diritto lo si perde se poi ci si assenta da quel Paese per un periodo di durata superiore a 2 anni consecutivi. Il diritto di soggiorno permanente significa avere maturato, anche a prescindere dalla propria occupazione e dai presupposti, il diritto di restare nel Paese.

Il diritto di soggiorno permanente non significa diritto alla cittadinanza del Paese; quello lo si ottiene in base alla legge dello Stato. Ai sensi del diritto comunitario si ha un diritto a quella particolare piena realizzazione del diritto di circolazione che consiste nel fatto di poter soggiornare permanentemente nello Stato; quel diritto lo si perde ove ci si assenti poi da quel Paese per un periodo superiore ai 2 anni. Ciò significa che per nuovamente poter soggiornare in quel Paese occorrerà essere in possesso dei requisiti: essere cittadini dell'Unione, avere un documento di identità valido del proprio Paese consente di risiedere fino a tre mesi; se in più si è lavoratori o studenti o famigliari, si hanno sufficienti mezzi per il sostentamento e un sistema di assistenza che garantisca tutela in caso di malattia, si può restare fino a 5 anni, e dopo i 5 anni anche oltre nel momento in cui essi sono stati continuativi, perchè a quel punto ci si garantisce un nuovo diritto di soggiorno permanente.

La direttiva detta disposizioni che chiama "disposizioni comuni al diritto di soggiorno e al diritto di soggiorno permanente".

Il primo principio, che secondo la Corte è espressione del generale principio di non discriminazione che costituisce uno dei principi fondamentali del Tr, è il diritto al pari trattamento rispetto a quello riservato dallo Stato ospitante ai cittadini nazionali, in tutti i settori oggetto del Tr CE: vale a dire, per tutte le materie per le quali non c'è competenza comunitaria, delle quali il Tr non si occupa, per quelle vedano gli Stati come regolarsi; su tutte le materie oggetto di disciplina da parte del Tr, gli Stati membri, sia che abbiano a che fare con un cittadino che esercita il diritto di soggiorno in quanto lavoratore, studente o famigliare, sia che abbiano a che fare con un cittadino che è titolare di diritto di soggiorno permanente, devono garantire in quelle materie un trattamento normativo, fiscale , previdenziale, esattamente identico a quello riservato ai propri cittadini.

Il fatto che il soggetto abbia la cittadinanza di un altro Stato membro non deve rilevare, non deve avere nessuna rilevanza giuridica.

Altra norma comune a entrambi i diritti è quella per cui, tranne nel caso dei lavoratori subordinati, nei primi tre mesi di soggiorno chi va a risiedere in un altro Stato membro non ha diritto a prestazioni di assistenza sociale, c'è una sorta di periodo franchigia.


Il tema della libera circolazione delle persone presenta soprattutto un aspetto delicato: le persone rappresentano per gli Stati un costo, ma anche una risorsa.

Se un soggetto si reca a lavorare in un altro Stato membro, per esso rappresenta un costo e anche una risorsa: nel momento in cui fruisce di qualsiasi servizio pubblico, rappresenta un costo; se produce reddito sul territorio di quello Stato, a anche le tasse a quello Stato e quindi rappresenta una risorsa; dal punto di vista del rapporto costi-benefici, il fatto che le persone circolino sul territorio comunitario è visto in modo neutro

A fronte di questa neutralità tra costi e benefici della circolazione delle persone, c'è il beneficio di rendere più fluido il mercato del lavoro, rendere più facile il reperimento di risorse umane e quindi far funzionare meglio il mercato.

Tutto ciò ha una grossa controindicazione: talvolta le persone delinquono, quindi la libera circolazione delle persone, se dà dei benefici in materia economica, se è neutra dal punto di vista dei costi e dei benefici per gli Stati ospitanti, è sicuramente un problema da risolvere per quanto concerne i problemi di ordine pubblico e di tutela dei valori fondamentali della convivenza civile. Non solo: il fatto che il territorio comunitario si apra alla circolazione senza limiti, rappresenta anche per motivi geografici e fisici una maggiore difficoltà a permettere il controllo sugli spostamenti, la reperibilità delle persone: Tizio che delinque in Italia, se può circolare liberamente sul territorio comunitario, è più difficile da reperire; è più difficile far funzionare quell'apparato di controllo che serve alla repressione dei reati a anche alla prevenzione. Per questo abbiamo un pilastro dell'UE che si occupa di cooperazione giudiziaria e di affari interni e che comporta una serie di forme di cooperazione intergovernativa in materia di giustizia e anche di polizia; per questo le sole restrizioni che la direttiva 38/2004 contempla, le contempla in materia di ordine pubblico e sicurezza.

C'è anche l'aspetto della sanità pubblica da considerare: le persone sono a volte veicoli di malattie, e il fatto che la circolazione di cittadini comunitari da un Paese all'altro negli ultimi trent'anni sia aumentata in termini geometrici, ha fatto sì che le problematiche di controllo della diffusione delle epidemie siano enormemente più complesse.

Oggi, di qualsiasi patologia si parli, si parla di qualcosa che si diffonde immediatamente a livello comunitario, e questo è un problema che va affrontato non più su base nazionale, ma su base comunitaria. Non è un caso che quando si è realizzata compiutamente la libera circolazione delle persone sul territorio comunitario, si è anche si è sentita l'esigenza di introdurre nel Tr l'art.152, che afferma l'idea che occorra affiancare alle iniziative dei singoli Stati membri in materia di tutela della salute dei loro cittadini, anche misure a livello comunitario (sulla base del principio di sussidiarietà, art.5 TCE, ovvero del principio in base al quale le misure vanno adottate a livello nazionale se sono più efficaci a quel livello, ma a livello comunitario tutte le volte che il perseguimento della tutela di un certo valore sia meglio realizzabile operando a livello comunitario), perchè la libera circolazione delle persone pone problemi di natura sanitaria che a livello statale non si riescono più a risolvere.

Mentre uno Stato prende qualsiasi decisione in materia sanitaria, ci sono già in quel momento milioni di persone che hanno circolato portando in giro il problema sanitario da un Paese all'altro.

Una politica sanitaria limitata al territorio nazionale poteva ancora funzionare quando non era realizzata la libera circolazione delle persone, ma oggi non avrebbe senso, vorrebbe dire avere un problema continentale e affrontarlo ognuno a modo proprio, con effetti limitati al territorio del singolo Stato. Le problematiche di natura sanitaria hanno assunto, come quelle di ordine pubblico, di delinquenza, ecc, una dimensione comunitaria.

Anche nella direttiva 38/2004, ossia nella direttiva che si preoccupa di disciplinare presupposti, condizioni e limiti delle varie forme di diritto di soggiorno, e che rappresenta la disciplina più completa in materia (a livello di disciplina di dettaglio) di libera circolazione di persone all'interno dell'UE, le sole restrizioni poste ai diritti di circolazione e di soggiorno sono quelle poste per motivi di ordine pubblico, di sicurezza pubblica e di pubblica sanità.

Per esempio, la direttiva prevede che, nonostante l'ampiezza dei diritti di circolazione e di soggiorno, vi sia in capo a ogni Stato membro un potere di adottare misure di allontanamento, cioè quelle misure che, se venissero adottate nei confronti di un soggetto che sta maturando il quinquennio al fine di avere il diritto al soggiorno permanente, gli fanno perdere la possibilità di acquisirlo.

La direttiva dice che, ferma restando l'ampiezza dei diritti di circolazione e di soggiorno, tuttavia quando uno Stato membro possa motivare il provvedimento per ragioni di pubblica sicurezza, ordine pubblico o pubblica salute, in quel caso può adottare provvedimenti di allontanamento dal territorio dello Stato.

Questo tipo di provvedimenti non vanno presi a target, ma vanno adottati nei confronti di coloro che utilizzano la libera circolazione per recarsi in un altro Stato a commettere reati.

La direttiva afferma che gli Stati membri, nell'esercitare potere di allontanamento, devono tuttavia rispettare il principio di proporzionalità: uno Stato membro che adottasse una misura di allontanamento senza che questa fosse strettamente necessaria per tutelare l'ordine pubblico, violerebbe la direttiva 38/2004, e a prescindere dal fatto che sia già stata attuata o meno, colui che subisse misure di allontanamento e potesse dimostrare a un giudice nazionale che in realtà il provvedimento non è proporzionato, perchè non è necessario ai fini di tutelare l'ordine pubblico, potrebbe ottenere in via di effetto diretto una tutela del proprio diritto anche davanti al giudice nazionale

Un altro limite che la direttiva pone al potere degli Stati di adottare misure di allontanamento è quello per cui gli Stati devono fondare in via esclusiva tali misure sul comportamento personale dell'interessato, quindi su un criterio di responsabilità personale. Uno Stato membro può allontanare, a condizione che la misura sia proporzionata, un cittadino di un altro Paese dell'Unione che stesse sul suo territorio esercitando il diritto di soggiorno, per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, ma solo se questi motivi dipendono da un suo comportamento personale.

Questa norma implica che le misure di allontanamento, se adottate per ragioni diverse dal comportamento personale del soggetto interessato dalla misura di allontanamento, sarebbero una misura contraria alla direttiva 38/2004.

Un altro profilo importante della direttiva è che le condanne penali possono essere prese in considerazione dagli Stati membri ai fini di misure di allontanamento, ma non possono costituire un motivo automatico di allontanamento.

Con una previsione alquanto ampia, che richiede poi di essere tradotta in concreto non senza notevoli difficoltà, la direttiva prescrive anche che le misure di allontanamento devono presentarsi motivate dall'esistenza di una minaccia effettiva e sufficientemente grave, che pregiudica un interesse fondamentale dello Stato ospitante. Cosa si debba intendere per "minaccia effettiva e sufficientemente grave, che pregiudica un interesse fondamentale dello Stato ospitante" è una nozione che va poi tradotta in concreto e che non sempre è facile tradurre in concreto, e che ha inevitabilmente un margine notevole di discrezionalità e di indeterminatezza; il concetto di   interesse fondamentale dello Stato ospitante è relativo ai tempi e ai luoghi, quindi occorre considerare una certa difficoltà nel tradurre in concreto questi principi.

La direttiva impone anche allo Stato ospitante di valutare, nell'adottare misure di allontanamento, alcuno elementi: la misura di allontanamento deve essere determinata in modo proporzionato rispetto ad esempio alla durata della residenza del cittadino allontanato sul territorio dello Stato; le misure di allontanamento devono essere improntate a una maggiore facilità di allontanamento per chi da poco risiede sul territorio dello Stato ospitante, e a una maggiore difficoltà quando l'allontanato risiede da parecchio tempo. Altri elementi che la direttiva impone di considerare sono: l'età, lo stato di salute, la situazione famigliare, il grado di integrazione sociale, il legame con il Paese di origine.

Ultimo aspetto, la direttiva dice che, sia laddove un Paese membro allontani dal proprio territorio un cittadino comunitario, sia laddove rifiuti l'ingresso del soggetto allontanato, in entrambi i casi lo Stato membro deve necessariamente notificare alla Comunità la misura adottata, questa misura deve essere motivata e dunque la notifica deve portare a conoscenza della CE anche la motivazione della misura adottata; le stesse notifiche devono essere fatte anche al diretto interessato, che deve ricevere la notifica di un atto motivato, che gli indichi anche i mezzi di ricorso contro il provvedimento previsti dall'ordinamento interno, a chi deve presentare istanza per ottenere una impugnativa, i termini entro cui ha diritto di ricorrere all'autorità giudiziaria. Gli Stati membri sono tenuti a introdurre necessariamente la possibilità di riesame del provvedimento, dopo un certo termine, che deve essere al massimo di tre anni.


Collegati a tutta questa tematica, sono gli artt.61 e ss del Tr che concernono la materia dei visti, dell'asilo, dell'immigrazione e delle altre politiche connesse alla libera circolazione delle persone. L'apertura delle frontiere per i lavoratori, studenti, famigliari e un altro tipo di apertura delle frontiere che pian piano si è creato all'interno del territorio comunitario, prima in forma autonoma tramite l'Accordo di Schenghen, poi a livello comunitario tramite la cd comunitarizzazione dell'acquis di Schenghen, ha cerato la necessità di una disciplina all'interno del Tr in materia dei visti, asilo, immigrazione ecc..

Con il Tr di Amsterdam la materia è stata inserita al titolo IV del Tr.

L'avere trasferito all'interno del Tr CE la materia dei visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse aon la libera circolazione delle persone ha permesso di comunitarizzare queste tematiche e di attribuire una specifica competenza normativa alle istituzioni comunitarie, in particolare al Consiglio.

Il fatto di creare uno spazio unico significa necessità di regole comuni sugli ingressi, a livello comunitario, forse ancora oggi abbiamo Paesi che rappresentano una porta più aperta e Paesi che senza a guardare ai principi del Tr sull'asilo o sull'immigrazione sono molto più chiusi. Tali comportamenti diversi dovrebbero venire meno a mano a mano che il Consiglio adotterà regole comuni. Purtroppo, malgrado il fatto che dal 1 gennaio 2003 alcuni aspetti della disciplina possono essere disciplinati a maggioranza qualificata e che altri aspetti siano stati assoggettati dal Consiglio alla procedura di codecisione, rimane ancora un largo spazio alla unanimità, perchè era una materia inserita soltanto a livello di principi nel Tr UE, poi è stata portata nel Tr CE prevedendo la possibilità non più solo d cooperazione intergovernativa ma di decisioni comuni a livello di Consiglio, poi però gli Stati hanno tenuto larghi spazi all'unanimità per far sì che non si deliberi nulla su certi aspetti più delicati della materia, senza il consenso di tutti i Paesi membri, e questo si traduce poi di fatto in cui passato ampiamente il periodo transitorio dei 5 anni successivi al Tr di Amsterdam ancora oggi siamo in presenza di molti aspetti non disciplinati i a livello comunitario (per cui si ha un diverso trattamento degli immigrati e un diverso regime degli ingressi). Solo i controlli sono almeno sulla carta disciplinati in modo sostanzialmente uniforme.

Tutto ciò si collega a una progressiva apertura delle frontiere, al venir meno anche fisico dei posti di frontiera, al venir meno delle procedure di controllo, degli uffici che è conseguito dapprima fra pochi Stati membri della CE alla firma del Tr di Schenghen, poi alla cd comunitarizzazione dei principi di Schenghen.

Negli anni Ottanta, mentre si cominciava a realizzare pienamente la libera circolazione dei cittadini comunitari, c'era il regolamento del 1978 sulla circolazione dei lavoratori e gli artt.39 e ss del Tr, si stava realizzando sempre più pienamente la libera circolazione e c'era un forte dibattito a livello politico sul punto se la libera circolazione dovesse essere riservata ai soli cittadini europei, o anche ai cittadini non europei una volta entrati regolarmente sul territorio comunitario.

Pian piano si stanno individuando diritti di circolazione e di soggiorno per i cittadini muniti di un documento di identità e di un passaporto valido, per i cittadini lavoratori o studenti i famigliari se in possesso di determinati requisiti, posto che si sta creando un regime di cittadinanza dell'Unione con connessi diritti di circolazione e di soggiorno, questi stessi diritti è il caso di riconoscerli anche a coloro che pur non essendo cittadini dell'Unione sono regolarmente entrati sul territorio dell'Unione, oppure no? Questo era il dibattito di quegli anni. Si tentò in sede di riunioni intergovernative di capi di Stato e di Governo dei Paesi membri di negoziare un modifica del Tr comunitario, del Tr di Roma, nel senso di introdurre anche principi ulteriori in materia di libera circolazione, che prevedessero la parificazione ai fini della libera circolazione fra cittadini originariamente UE e cittadini extra-UE, entrati regolarmente nel territorio comunitario.

Non si raggiunse un accordo, c'erano Paesi contrari, altri favorevoli, altri favorevoli con riserva perchè non si fidavano di altri Paesi della Comunità, delle loro capacità di controllo delle frontiere esterne.

In quegli anni in cui nacque l'accordo di Schenghen c'era un forte dibattito, ed esso era alimentato da questa diversità di posizioni.

Si temeva che l'apertura totale delle frontiere potesse tradursi in un pericolo per l'odine pubblico, per la pubblica sicurezza, perchè a quel punto tutti i controlli si sarebbero concentrati in modo esclusivo solo sulle frontiere esterne, e se qualcuno non fosse in grado di esercitare quei controlli in modo efficace, la cosa avrebbe dei risvolti negativi per la creazione dello spazio di sicurezza e di giustizia.

Nel giugno del 1985 solo alcuni Paesi stipulano un accordo, che inizialmente non ha nulla a che vedere con l'ordinamento comunitario, è semplicemente un accordo internazionale tra Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, firmato nella cittadina dello Stato del Lussemburgo che si chiama Scenghen, è che prevedeva una cooperazione intergovernativa volta a eliminare i controlli nelle sole frontiere reciproche tra quei 5 Paesi e a uniformare i sistemi di controllo sulle frontiere esterne; in altre parole, quei 5 Paesi erano tra tutti i Paesi comunitari i soli 5 che erano favorevoli all'abolizione di controlli nelle frontiere interne e si fidavano reciprocamente l'uno dell'altro. Erano Paesi frontalieri che ritenevano di avere dei sitemi di controllo alle frontiere esterne efficaci ed equivalenti, per cui firmarono un accordo che si muoveva in parallelo rispetto al sistema della libera circolazione della CE, che continua ad essere riservato ai soli cittadini dell'Unione.

Aboliscono i controlli interni, le normative sui controlli alle frontiere esterne difformi, e le sostituiscono con una procedura identica di controllo alle frontiere.

L'accordo del 1985 viene trasferito in una convenzione più articolata del 19 giugno del 1990, che entra in vigore nel 1995.

L'Italia vi aderirà e per essa entrerà in vigore nel 1996.

Con la convenzione del 1990 si crea il cd spazio Schenghen, cioè uno spazio geografico comune, aperto, si decide di adottare quelle norme comuni su visti, diritto d'asilo e controlli alle frontiere esterne che poi verranno trasferite nel Tr UE al titolo VI, e poi nel 1998 col Tr di Amsterdam verrano trasferite nel Tr CE, si stabilisce una serie di misure compensative aventi lo scopo di migliorare il coordinamento fra autorità di polizia e le autorità giudiziarie (diventeranno parte della CGAI), viene creato il cd SIS, sistema informazione Schenghen, che è una banca dati unica e condivisa tra tutti gli Stati dello spazio Schenghen che consente a tutti gli Stati che ne sono parte di scambiare dati relativi alla identità di determinate categorie di persone e di beni, in pratica una banca dati comune delle persone in modo da tenere sotto controllo ingressi e uscite.







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