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L'estinzione del rapporto di lavoro

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L'estinzione del rapporto di lavoro


Il rapporto di lavoro a tempo determinato si estingue con la scadenza del termine o con il compimento del lavoro prestabilito; il rapporto di lavoro sia a tempo determinato, sia a tempo indeterminato, può cessare:

per il venir meno di uno dei due contraenti: morte del prestatore di lavoro o cessazione totale dell'impresa. Nel caso di morte dell'imprenditore, di trasferimento dell'azienda, di fallimento, l'azienda continua rispettivamente con il nuovo titolare, gli eredi o il curatore del fallimento;

per mutuo consenso: quando, cioè, entrambi i contraenti concordano nel porre fine alla loro collaborazione e, quindi,  a far cessare il rapporto. Questo è possibile perché come possono decidere di obbligarsi, così, le parti possono insieme volersi sciogliere reciprocamente dalle relative obbligazioni;



per recesso unilaterale delle parti: il recesso del lavoratore prende il nome di dimissioni, quello del datore di lavoro, invece, licenziamento. Il recesso è l'atto con cui una parte contraente dichiara di volersi ritirare dal rapporto contrattuale. Esso non travolge gli effetti contrattuali per le prestazioni già eseguite o, in caso di esecuzione, perché fa cessare solo gli effetti futuri del contratto (carattere irretroattivo).

Le dimissioni sono libere e non vi sono particolari obblighi a carico del lavoratore, se non quello di dare preavviso al datore di lavoro, affinché possa sostituirlo tempestivamente; tale obbligo, però, non sussiste in presenza di una giusta causa di recesso. A tal proposito, l'art. 2118 c.c. prevede che: "ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte ad un'indennità equivalente all'importo della retribuzione, che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro, nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro". Quest'ultima indennità è dovuta al fatto che, sia in caso di dimissioni, sia in caso di licenziamento, l'interruzione del rapporto di lavoro può causare danni più o meno gravi alla controparte. Una difficile questione che ha visto discordanti dottrina e giurisprudenza è quella relativa alla natura reale o obbligatoria del preavviso. Questa, cioè, può essere considerato termine legale sospensivo dell'efficacia nel negozio di recesso o, viceversa, il recesso, se senza preavviso, può essere ritenuto immediatamente efficace, conurandosi con il amento della conseguente indennità.

La disciplina generale del licenziamento, nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato è contenuta in una serie di fonti legislative, succedutesi nel temo. La prima di esse è la legge n. 604/'66, per i licenziamenti nell'industria, invece, fu introdotta una disciplina, derivante dagli accordi interconfederali del '47 del '50 e, infine, del '65 (che introdusse la tutela obbligatoria). Dopo tali accordi, è intervenuto l'art. 18 SDL (che introdusse la tutela reale). Con la legge n. 108/'90 venne ridefinito il campo di applicazione della tutela reale ed obbligatoria. Il datore di lavoro può recedere dal contratto solo: per giusta causa, per giustificato motivo o con recesso ad nutum.

Il licenziamento per giusta causa (o in tronco): è regolato dall'art. 2119 c.c. per cui: "Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto, prima della scadenza del termine (se il contratto è a tempo determinato) o senza preavviso (se il contratto è a tempo indeterminato) qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo determinato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa, compete un'indennità. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore  o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda". Si pensi, ad esempio, ai furti, percosse verso il datore di lavoro o ai comni di lavoro, abbandono ingiustificato del posto di lavoro,ecc. Il significato del termine "giusta causa" è stato oggetto di diverse interpretazioni di dottrina e giurisprudenza. Secondo l'opinione prevalente era "una qualsiasi causa che non consentiva la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto". Dopo l'introduzione della legge n. 604 però, si afferma una nuova interpretazione giurisprudenziale che collega il concetto di giusta causa a quello di giustificato motivo soggettivo, come "notevole inadempimento" dal quale si differenzia solo per la particolare gravità che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto;

Il licenziamento per giustificato motivo: fu introdotto dalla legge n. 604 e prevedeva la distinzione tra motivo soggettivo ed oggettivo. Il giustificato motivo soggettivo si ha quando si verifica un notevole inadempimento del lavoratore, non così grave, però, da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per il periodo di preavviso. Il giustificato motivo oggettivo è previsto dall'art. 3 della legge n. 604 il quale "esso si deduce da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso". Anche sulla nozione di "giustificato motivo" sono state avanzate più ipotesi, però, quella dominante ritiene che "possa essere ravvisato solo quando non si presenti, al datore di lavoro, alcuna prospettiva di recupero del lavoratore, a mansioni "diverse", cioè equivalenti o inferiori a quelle abitualmente svolte". La prova di tale impossibilità grava sul datore di lavoro;

Nel recesso ad nutum: il datore è del tutto libero di allontanare il lavoratore, purché rispetti l'onere del preavviso (il tempo varia in base all'anzianità di lavoro e alla posizione assunta nell'organizzazione produttiva). Il preavviso non è necessario allorché il licenziamento sia assistito da giusta causa e il mancato rispetto, comunque, non tocca efficacia del recesso: infatti, la parte recedente può sostituire il preavviso con l'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettato per il relativo periodo. Tale recesso opera per: lavoratori domestici, gli sportivi professionisti, i lavoratori in prova, i pensionati (cioè coloro che, oltre ad avere l'anzianità contributiva minima prevista dalla legge, abbiano compiuto 65 anni), i dirigenti, nei confronti dei quali dà l'obbligo di comunicare in forma scritta, nonché la tutela contro il licenziamento discriminatorio.

Si ricordino, poi, le ipotesi di limitazione temporale del licenziamento cioè periodi di conservazione del posto di lavoro, nonostante l'impossibilità temporanea della prestazione. Dopo i periodi previsti dalla legge o dai contratti di lavoro, i lavoratori potranno essere licenziati, solo per giusta causa: lavoratrici madri, infortunio o malattia, chiamata o richiamo alle armi e di chi gode di speciali congedi per motivi di cura familiare o di formazione. L'eventuale licenziamento, privo di giusta causa, avvenuto in tali periodi, purché formalmente e sostanzialmente validi, è "efficace", ma solo alla scadenza dei termini stabiliti. Solo nel caso di: lavoratrici madri (o lavoratori padri), chi gode di motivi di cura familiare o di formazione, o il licenziamento per fini discriminatori o per causa di matrimonio, il licenziamento è "nullo". Per cause di matrimonio, nel caso in cui il tratto di lavoro presenti le cosiddette "clausole di nubilato" che prevedono la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici, in conseguenza del loro matrimonio. Il matrimonio sarà nullo dal giorno della pubblicazione ad un anno dopo la collaborazione del matrimonio. Sarà, invece, "inefficiente" quel licenziamento eseguito contro l'osservanza degli adempimenti formali, previsti dalla legge n. 604. Esso infatti, va comunicato al lavoratore in forma scritta ove essa non sia stata effettuata, il lavoratore può richiederli, entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento e, in tal caso, l'imprenditore deve farne conoscere i motivi, entro 7 giorni dalla richiesta. La legge ha, in più, stabilito che la "prova" della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, incombe su entrambe le parti: il datore dovrà provare i fatti che giustificano l'esercizio del proprio potere vincolato di recesso; il lavoratore licenziato, invece, sarà tenuto a provare i fatti costituitivi del proprio diritto alla stabilità, e dunque, alla tutela reale o obbligatoria. Il licenziamento può essere impugnato anche a mezzo di una semplice comunicazione scritta, fatta pervenire al datore di lavoro entro un termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento. I rimedi contro il negozio di licenziamento illegittimo, operano in ragione delle diverse dimensioni aziendali, per cui è possibile applicare la tutela o reale o obbligatoria.

La tutela reale, in base all'art. 18 SDL, consiste nell'obbligo del datore e nel correlativo diritto del prestatore alla reintegrazione nel posto di lavoro, nel caso di licenziamento illegittimo. Si applica nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di 15 dipendenti nell'unità produttiva, nella quale è occupato il lavoratore licenziato o nell'ambito dello stesso Comune e, in ogni caso, ai datori di lavoro che abbiano globalmente alle loro dipendenze più di 60 lavoratori. Nel computo dei dipendenti dovrà tenersi conto dei giovani assunti con contratto di formazione e lavoratori a tempo parziale; non vengono, invece, computati il coniuge ed i parenti entro il 2° grado del datore di lavoro e i lavoratori con contratto di apprendistato. Oltre alla reintegrazione, il datore di lavoro, è condannato anche al reinserimento del danno subito dal lavoratore, a causa del licenziamento. Il datore dovrà "invitare" il lavoratore a riprendere servizio (per evitare la mora credendi), mentre il lavoratore dovrà, a sua volta, ottemperare, entro 30 giorni, decorsi i quali, il rapporto s'intenderà risolto per dimissioni. L'indennità ha una natura plurifunzionale, non solo risarcitoria del danno subito dal lavoratore, ma anche punitiva dell'inadempimento dell'obbligazione reintegrativa. In aggiunta all'indennità, in ogni caso la legge impone anche il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, relativi al periodo intercorrente tra licenziamento e reintegrazione. Per tutto il periodo di estromissione dal posto di lavoro, il lavoratore reintegrato può risolvere il rapporto e pretendere dal datore in alternativa alla reintegrazione effettiva, il versamento di un'indennità pari a 15 mensilità di retribuzione.

La tutela obbligatoria consiste nella facoltà del datore di lavoro, di scegliere l'alternativa tra riassunzione e il amento di un penale: ciò è previsto nel caso di illegittimità del licenziamento, derivante dalla sua mancata giustificazione. Il datore è, comunque, obbligato a giustificare il licenziamento e, in mancanza di ciò, è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro, entro 3 giorni o, in alternativa, a risarcire un'indennità penale di natura risarcitoria (del danno conseguente al licenziamento illegittimo) e sanzionatorio (dell'inadempimento alla riassunzione). Per definire l'indennità, occorrerà tener conto del numero dei dipendenti e delle condizioni e comportamento delle parti. Il licenziamento, privo di giusta causa o giustificato motivo, cioè illegittimo, in tale ambito non è annullabile: l'effetto di estinguere il rapporto di lavoro è comunque realizzato, salvo che, con un nuovo atto negoziale, il datore di lavoro "riassuma" il lavoratore. Con la legge n. 108/'90 è stato introdotto, poi, nell'ambito della tutela obbligatoria, un tentativo obbligatorio di conciliazione, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale di accertamento dell'illegittimità del licenziamento. Le organizzazioni di tendenza sono quelle che perseguono fini ideologici, rispetto alle quali si è sostenuta l'insindacabilità del licenziamento del dipendente quando esso sia originato da motivi riguardanti gli scopi dell'organizzazione e l'attività del lavoratore sia direttamente collegata al loro perseguimento.





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