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ORIGINI E SVILUPPO DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA - Lo sviluppo dell'integrazione comunitaria europea



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INTRODUZIONE: ORIGINI E SVILUPPO DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA


1. Esperienze di integrazione secondo il metodo della cooperazione intergovernativa.


L'ideale di un'Europa unita risale al XIX secolo. L'origine concreta dell'inizio dell'integrazione europea è da individuarsi alla fine della seconda guerra mondiale. Inizialmente coinvolge solo l'Europa occidentale (gli Stati dell'Europa orientale fanno riferimento infatti all'Unione Sovietica). Dopo il 1989 e 1991 si estende all'intero continente.

L'integrazione dell'Europa occidentale segue due metodi:

- cooperazione intergovernativa (tradizionale)

- metodo comunitario (innovativo)




1) Cooperazione intergovernativa: gli Stati partecipanti cooperano tra loro come soggetti sovrani, creando apposite strutture per organizzare tale cooperazione. Caratteristiche:

- prevalenza di organi di Stati: seguono le direttive degli Stati cui appartengono.

- prevalenza del principio di unanimità: tutti hanno il diritto di veto.

- assenza/rarità del potere di adottare atti vincolanti: le deliberazioni hanno per lo più natura di raccomandazioni.


Questo metodo è stato seguito in diversi settori anche attraverso la creazione di organizzazioni di tipo regionale (hanno inciso sulla nascita e sullo sviluppo dell'Ue):

a) nel settore della cooperazione militare nascono:

- Unione dell'Europa Occidentale (UEO): composta da un totale di 28 Stati (di cui 10 membri a pieno titolo, altri partecipano come osservatori, altri godono dello status di membri associati). Organo principale è il Consiglio composto dai rappresentanti permanenti degli Stati o dai ministri degli Esteri e della Difesa. Rivitalizzata nel 1984 è divenuta lo strumento attraverso cui attuare la componente relativa alla sicurezza e alla difesa comune della PESC (prospettiva abbandonata nel 1991);

- Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO): non è un'organizzazione europea in senso geografico ma il teatro d'operazione più importante è costituito dal territorio degli Stati dell'Europa occidentale. L'organo principale è il Consiglio del Nord Atlantico, composto dai rappresentanti permanenti o dai ministri degli Esteri e Difesa, o dai capi di Stato e di Governo.

b) nel settore dell'integrazione economica nasce:

- Organizzazione europea per la Cooperazione economica (OECE): nasce dall'esigenza di coordinare gli aiuti destinati all'Europa dal Piano Marshall, fra tutti gli Stati beneficiari. L'organo principale è il Consiglio, composto da un rappresentante per ogni Stato membro. Può emanare anche decisioni vincolanti per gli Stati membri. Esauritasi la funzione originaria, l'OECE avrebbe dovuto trasformarsi in una zona di libero scambio: alcuni Stati optano per forme di integrazione ancora più spinte, nascono quindi le tre Comunità europee, mentre altri restano nell'ottica di una semplice zona di libero scambio, istituendo l'EFTA (Stati EFTA + Stati CE formano la SEE, lo spazio economico europeo).

L'OECE si trasformerà in OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): con obiettivi di cooperazione economica globale e non più regionale.

c) nel settore della cooperazione politica, culturale e sociale nasce:

- Consiglio d'Europa: organo principale è il Comitato dei ministri, composto dai ministri degli Esteri degli Stati membri o dai loro rappresentanti permanenti. Strumento di azione principale consiste nel predisporre e favorire la conclusione di convenzioni internazionali tra gli Stati membri (atti che necessitano di ratifica per essere attuati). Le convenzioni concluse in seno a questa organizzazione sono numerose: la più rilevante è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 1950). L'Unione Europea è vincolata al rispetto dei diritti da essa enunciati (ex art. 6,par 2 TUE).


2. L'integrazione secondo il metodo comunitario: le origini.


2)metodo comunitario: risponde all'esigenza di superare il principio dell'unanimità e attribuire maggiore autonomia alle organizzazioni. Caratteristiche:

- prevalenza degli organi di individui: rappresentano se stessi e compiono scelte in modo indipendente (indipendenza sancita nei Trattati istitutivi)

- prevalenza del principio maggioritario: deliberazioni a maggioranza (di solito qualificata). Vincolano anche gli Stati che hanno votato contro l'approvazione.

- ampiezza del potere di adottare atti vincolanti: non solamente atti di natura raccomandatoria ma atti vincolanti che creano obblighi a carico degli Stati membri.

- sistema di controllo giurisdizionale di legittimità: nei confronti degli atti delle istituzioni.


La nascita del metodo comunitario è tradizionalmente fatta risalire al 9 maggio 1950 (Giornata dell'Europa). A quel giorno risale la Dichiarazione Schuman: parla di un'Europa organizzata e vitale che sorgerà attraverso realizzazioni concrete che creino una solidarietà di fatto (c.d. Europa dei piccoli passi). La proposta contenuta nella Dichiarazione Schuman viene accolta:


- nasce la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) istituita con il Trattato di Parigi del 1951.Vi aderiscono Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi e Italia (c.d. Piccola Europa). Essa istituisce un mercato comune del carbone e dell'acciaio (libero scambio, divieto di discriminazioni, divieto di sovvenzioni e aiuti statali alle imprese). Dal punto di vista istituzionale la CECA si basa su quattro istituzioni: l'Alta Autorità (penetranti poteri deliberativi: decisioni,pareri,raccomandazioni), il Consiglio speciale dei ministri (funzioni consultive), un'Assemblea comune (riunisce i rappresentanti dei Parlamenti nazionali, con funzioni consultive) e la Corte di giustizia (controllo giurisdizionale su atti e comportamenti delle istituzioni). Si tratta di un ente sovranazionale, infatti la CECA ha il potere di vincolare oltre gli Stati membri anche soggetti degli ordinamenti interni (imprese del settore carbo-siderurgico).


- nasce la Comunità Europea di Difesa (CED): istituita a Parigi nel 1952. Prevede un organo indipendente (Commissariato) al quale spetta il comando unificato delle forze armate di tutti gli Stati membri. Stesse istituzioni della CECA. Questo avrebbe comportato il trasferimento immediato di sovranità dagli Stati membri alla CED. Tuttavia il progetto è fallito.


- viene firmato a Roma nel 1957 il Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (TCE) e il Trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica (CEEA), detta anche Euratom.(in seguito al Trattato sull'Unione Europea firmato a Maastricht nel '92,il TUE,la denominazione della maggiore delle tre Comunità è mutata in Comunità Europea,CE) Le comunità diventano così tre. Struttura di entrambe le comunità rispecchia quella della CECA (Commissione, Consiglio, Assemblea e Corte di giustizia). Tuttavia diverso è l'equilibrio istituzionale: il TCE è un trattato quadro, le discipline in esso contenute, riguardano tutti i settori dell'economia, pertanto si limita spesso all'enunciazione di obiettivi e principi che devono essere poi attuati attraverso atti normativi. Per cui risulta un potere legislativo delle istituzioni CE (mentre le istituzioni della CECA hanno un potere amministrativo,trattato legge). L'organo principale non può essere un'autorità indipendente (la Commissione) ma è infatti il Consiglio, a cui spetta l'adozione degli atti (normativi soprattutto).


3. Lo sviluppo dell'integrazione comunitaria europea: l'unificazione del quadro istituzionale e l'allargamento a nuovi Stati membri.


Dopo i Trattato di Roma il quadro dell'integrazione comunitaria europea comincia a risultare complesso: tre Comunità distinte ciascuna con proprie istituzioni e regole. Emerge quindi la necessità di semplificare la struttura: l'obiettivo è la fusione delle tre Comunità (ancor oggi non completamente raggiunto). Questo processo di fusione consta di tre tappe:

- nei Trattati di Roma viene anche firmata la Convenzione su alcune istituzioni comuni delle Comunità europee: riguarda Assemblea parlamentare e Corte di giustizia.

- Trattato istitutivo di un Consiglio e una Commissione unici delle Comunità europee firmato a Bruxelles nel 1965.

- scaduto il Trattato CECA (nel 2002) e non essendo stato rinnovato, anche settore carbo-siderurgico rientra nel campo di applicazione del mercato comune generale disciplinato dal TCE.

I tre Trattati istitutivi prevedono una procedura che permette l'adesione di ulteriori Stati europei. Ora sono 27 Stati membri (in partenza erano 6). Emerge la necessità di una riforma istituzionale radicale.


4. Segue: la riduzione del deficit democratico.


L'istituzione dotata di maggiori poteri è il Consiglio, composto dai rappresentanti del Governo degli Stati membri. In esso è rappresentato il potere esecutivo di ciascuno Stato membro (non quello legislativo). La struttura istituzionale comunitaria non risponde ai principi sui quali sono basati gli stati moderni (principio della democrazia parlamentare). Tuttavia il progressivo ampliamento dei poteri dell'istituzione parlamentare europea è avvenuto per tappe: i Trattati di bilancio (Lussemburgo e Bruxelles) hanno avuto l'effetto di attribuire al Parlamento europeo ampi poteri circa l'approvazione del bilancio unificato delle tre Comunità. Nel 1976 viene introdotto il suffragio universale diretto per l'elezione dei membri del Parlamento, che diventa l'unica istituzione comunitaria con legittimazione democratica. Molte sono state le iniziative per favorire una riforma in chiave maggiormente federalista, dal Progetto Spinelli all'Atto Unico Europeo (AUE), del 1986. Quest'ultimo introduce due novità:

a)la procedura di parere conforme, che rende necessario l'assenso parlamentare;

b)la procedura di cooperazione, che permette al Parlamento di influire sulle deliberazioni del Consiglio.

Con il Trattato sull'Unione Europea (TUE), firmato a Maastricht nel 1992 viene introdotta la procedura di codecisione, che in sostanza realizza un sistema bicamerale, nel quale ogni atto è ascrivibile al Consiglio e al Parlamento. Infine con il Trattato di Amsterdam, del 1997 viene esteso il campo di applicazione della procedura di codecisione.


5. Segue: la riemersione della dimensione intergovernativa.


Viene istituito il Consiglio europeo, per far fronte alle difficoltà incontrate dal Consiglio (istituzione comunitaria composta dai ministri) nel risolvere questioni di grande rilevanza politica, che necessitano del consenso delle massime cariche politiche. È la suprema istanza politica incaricata di dare l'impulso necessario allo sviluppo dell'integrazione europea e di definire gli orientamenti politici generali. È composto dai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, assistiti dai ministri degli Esteri e dal Presidente della Commissione. Le riunioni ordinarie sono due. Le deliberazioni (che si estrinsecano nelle conclusioni della Presidenza) sono assunte all'unanimità.

La riemersione della dimensione intergovernativa si è manifestata anche nel campo delle deliberazioni del Consiglio: il TCE prevede numerosi casi in cui il Consiglio deliberi a maggioranza (raramente) semplice o (molto più spesso) maggioranza qualificata. Questo sistema di deliberazione non era applicabile immediatamente ma solo allo scadere di un periodo transitorio. Alla scadenza gli Stati manifestarono resistenze contro il principio maggioritario. La soluzione giunse con il Compromesso di Lussemburgo, nel 1966: qualora un membro del Consiglio invochi la presenza di un'interesse nazionale particolarmente forte riguardo alla proposta, la discussione procede per un ragionevole lasso di tempo per pervenire a soluzioni che possano essere adottate da tutti i membri. La prassi applicativa ha prodotto la rinuncia del Consiglio a deliberare a maggioranza qualificata, tutte le volte che si tratti di questioni di importanza rilevante anche per un solo Stato membro.

Con il Compromesso di Ioannina del 1994 si stabilisce che, di fronte ad una minoranza non sufficiente ad impedire la maggioranza qualificata ma pur sempre importante (tra 23 e 25 voti), il Consiglio non passi subito al voto,ma prosegua la discussione per un tempo ragionevole, al fine di raggiungere una soluzione che raccolga una maggioranza superiore al minimo necessario per l'approvazione.

In conclusione: il principio di maggioranza non è stato rinnegato ma fortemente ridimensionato, al fine di cautelare gli Stati messi minoranza.


6. Segue: dalle Comunità europee all'Unione Europea.


Anche l'introduzione dell'Unione Europea quale realtà che incorpora le Comunità europee e le altre forme di cooperazione tra Stati comunitari, avviene secondo il metodo intergovernativo. Gli Stati membri avvertono progressivamente il bisogno di estendere la loro cooperazione in settori inizialmente non rientranti nel campo di applicazione dei Trattati istitutivi (in molti casi modifiche al TCE, con conseguenti nuove competenze alla CE). Nuovi settori vengono così assoggettati ai principi del metodo comunitario: per ognuno di essi vi sono modalità di esercizio particolari, tuttavia i principi del metodo comunitario sono, almeno in parte, rispettati.

Nel settore della politica estera generale, si assiste a forme di cooperazione tra Stati comunitari, collegate con l'attività della Comunità, ma svolte secondo il metodo della cooperazione intergovernativa. Art. 30 AUE: disciplina la Cooperazione Politica Europea (CPE) in materia di affari esteri. La CPE si svolge in maniera del tutto indipendente rispetto alla cooperazione comunitaria (prevista soltanto una forma di coordinamento tra l'azione comunitaria e l'azione CPE a cura della Presidenza del Consiglio).

Successivamente il TUE trasforma la CPE in Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e le affianca la Cooperazione in materia di Giustizia e affari interni (GAI).

PESC, GAI più le tre Comunità europee (di allora) vengono ricondotte ad una realtà comune, l'Unione Europea, al cui sviluppo le varie componenti sono chiamate a contribuire (Ue composta da tre pilastri: cooperazione comunitaria, PESC e GAI). I tre pilastri sono distinti ma funzionalmente legati: vengono gestiti da un quadro istituzionale unico: Consiglio, Commissione, Parlamento europeo. Queste istituzioni operano nell'ambito di tutti e tre i settori (diverse sono però le modalità di azione per ciascuno di essi).

Con il Trattato di Amsterdam e, seppur in maniera minore, con il Trattato di Nizza prosegue la tendenza volta all'assimilazione dei tre pilastri: trasferimento di molte materie dalla GAI alla cooperazione comunitaria (nella GAI permane la sola Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), l'introduzione parziale nella PESC e GAI di alcuni principi caratterizzanti la cooperazione comunitaria (maggioranza qualificata), assimilazione degli atti GAI a quelli tipici comunitari, introduzione della Corte di giustizia nella GAI.


7. Segue: l'Europa a più velocità.


Purtroppo la progressiva riconduzione al metodo comunitario delle forme di cooperazione che in passato avevano carattere puramente intergovernativo ha avuto come prezzo una certa contaminazione dello stesso metodo comunitario. Nel TCE si sono infiltrate così soluzioni dal sapore chiaramente intergovernativo, in palese contrasto con le caratteristiche originarie. Esempio di ciò è dato dal crescente ruolo che viene riservato nel pilastro comunitario al Consiglio europeo, ma soprattutto, dal ricorso sempre più frequente a forme di cooperazione differenziata, così detta perché applicabile ad un numero ristretto di Stati membri (Europa a geometria variabile,o a più velolcità). Talvolta quindi si preferisce rinunciare all'idea di un'integrazione uguale per tutti e permettere agli Stati che lo volessero, di andare avanti senza gli Stati contrari. Primo esempio del fenomeno si è realizzato in ambito non comunitario. Si tratta dell'Accordo di Schengen (1985), finalizzato a ridurre drasticamente i controlli fisici sulle persone alle frontiere, con misure di accomnamento per coordinare la politica di immigrazione da Paesi terzi e la polizia degli stranieri (vi aderiscono inizialmente solo 5 Stati membri, altri vi aderiranno più tardi). Altro esempio è costituito dall'Accordo sulla politica sociale, con il quale vengono assegnati maggiori poteri in questo campo alle Comunità (opposizione del Regno Unito). Successivi esempi sono forniti dall'Unione Economica Europea (UEM) (alcuni Stati non sono ammessi a causa del mancato rispetto dei parametri, altri non hanno voluto aderire), e altri si sono moltiplicati con il Trattato di Amsterdam: misure comunitarie nel settore dei visti, diritto di asilo,immigrazione e circolazione dei cittadini di paesi terzi (non vincolano Gran Bretagna e Danimarca).

Da segnalare infine, l'istituto della Cooperazione rafforzata, anche questo introdotto dal Trattato di Amsterdam: è un istituto di applicazione generale che permetterà l'adozione di iniziative di integrazione comunitaria limitate ad alcuni Stati membri.


8. Gli sviluppi futuri dell'integrazione europea: il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa.


Si è visto come negli ultimi decenni le riforme dei Trattati si sono succedute in maniera incalzante (AUE nel '86, TUE nel '92, Trattato di Amsterdam nel '97 e il Trattato di Nizza nel 2001). Con il TUE inizia una prassi: inserire in ciascun trattato di revisione una clausola che fissa l'anno di convocazione della CIG per approvare un ulteriore riforma.

Nel Trattato di Nizza, sono allegate due Dichiarazioni:

- Dichiarazione relativa all'allargamento dell'Unione Europea (definisce la composizione di alcuni organi e istituzioni una volta completato l'ingresso dei nuovi Stati membri)

- Dichiarazione relativa al futuro dell'Europa: delinea un percorso per avviare un dibattito più approfondito e più ampio sul futuro dell'Unione Europea (v. punti relativi alle questioni del dibattito). Inoltre stabilisce l'adozione da parte del Consiglio europeo, a Laeken nel dicembre 2001, di una dichiarazione contenente iniziative appropriate.

Dichiarazione di Laeken: documento che si occupa di definire con più precisione le questioni da risolvere. Convoca una Convenzione con il compito di esaminare le questioni essenziali del futuro dell'Unione e ricercare le soluzioni possibili. La Dichiarazione prevede che,terminati i lavori, la Convenzione dovrà redigere un documento finale che costituirà il punto di partenza della Conferenza intergovernativa che prenderà le decisioni finali.

Nel luglio del 2003 la Convenzione trasmette il progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa. Nel giugno 2004 viene raggiunto l'accordo finale su un testo del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa , successivamente firmato a Roma nell'ottobre dello stesso anno. Esso si presenta come un nuovo trattato (quelli precedenti sono formalmente abrogati, ad eccezione del trattato CEEA. Non si è quindi raggiunto l'obiettivo di unificare completamente le Comunità). Il testo è diviso in quattro parti (448 articoli, 36 Protocolli, 50 Dichiarazioni allegate):

1) norme generali (competenze, istituzioni, atti, cittadinanza, vita democratica..)

2) riproduzione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea

3) disposizioni del TCE e del TUE non collocate nella prima parte (vi sono qui modifiche rilevanti, novità anche circa il contenuto)

4) norme generali finali (procedura di revisione ordinaria ed entrata in vigore).


9. Segue: la mancata entrata in vigore della Costituzione.


Art. IV-447 par. 1 Costituzione: 'il presente Trattato è ratificato dalle Alte Parti Contraenti conformemente alle rispettive norme costituzionali'.

Dichiarazione relativa alla ratifica del trattato: 'decorsi due anni dalla firma del trattato e 4/5 degli Stati membri abbiano ratificato mentre uno o più Stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è deferita al Consiglio europeo'. L'ipotesi si è verificata: il Consiglio europeo ha deciso una pausa di riflessione fino al primo semestre del 2007 (in seguito all'esito negativo dei due referendum in Francia e Paesi Bassi).

Possibili soluzioni per superare il voto negativo degli elettori di Francia e Olanda sono:

- rinegoziazione del Trattato, apportando modifiche così da sciogliere le riserve;

- sottoposizione a ratifica della sola prima parte del Trattato;

- entrata in vigore del Trattato solo per gli Stati membri che sono disponibili a ratificarlo.

Tutte ora sembrano impraticabili, tuttavia non è escluso che, decorso un ragionevole lasso di tempo, la prima soluzione possa essere tentata: la convocazione di una nuova CIG, eventualmente preceduta da una nuova Convenzione, dovrebbe però snellire il testo e focalizzarlo sui problemi di urgente risoluzione.




IL QUADRO ISTITUZIONALE


1. Considerazioni generali.


L'Unione Europea si regge su una struttura complessa. Al suo interno si distinguono alcuni organi (istituzioni): Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia e Corte dei conti (la Costituzione ha introdotto alcune varianti riguardo a organi e denominazioni).

L'insieme del sistema è gestito da un quadro istituzionale unico: le istituzioni sono le stesse per la CE quanto per l'UE (art. 5 TUE e art. 7 TCE).

L' art. 3.1 TUE sancisce l'unità del quadro istituzionale.

L' art. 3.2 TUE sancisce il principio di coerenza: il carattere unitario del quadro istituzionale assicura che le azioni svolte nell'ambito dei tre pilastri dell'Unione siano tra loro coordinate. Particolari responsabilità spettano al Consiglio (art. 13 TUE) e Presidenza (artt. 21 e 39 TUE), alla Commissione (art. 27 e 36 TUE) e inoltre al Consiglio europeo (art. 4.1 TUE).

Principio delle competenze di attribuzione: attiene ai rapporti tra le varie istituzioni e impone a ciascuna di esse di rispettare le competenze attribuite dai Trattati alle altre istituzioni (art. 5 TUE e art. 7 TCE). La violazione di tale principio causa un vizio di incompetenza (art. 230.2 TCE) e conseguente illegittimità dell'atto (omonimo principio previsto dall'art. 5.1 TCE, ma esso riguarda la determinazione della competenza tra Comunità e Stati membri, non tra istituzioni della Comunità).

Principio della leale collaborazione (desunto ex art. 10 TCE): le istituzioni devono collaborare lealmente tra di loro e con gli Stati membri. Esso prevede espressamente solo un dovere di cooperazione a carico degli Stati membri (astensione da misure che ostacolino gli scopi del trattato) ma è interpretato come un principio generale, vincolante anche per le istituzioni nei rapporti tra di loro e con gli Stati membri.

Principio del rispetto dell' acquis comunitario (art. 3 TUE): si riferisce all'insieme del diritto comunitario, e in particolare agli atti delle istituzioni che sono stati adottati nel tempo e alla giurisprudenza comunitaria. Impone alle istituzioni di operare rispettando e sviluppando nel contempo l'acquis comunitario (circa i negoziati di adesione, gli Stati candidati devono dare prova di riuscire a rispettare tale principio. Inoltre risulta problematico il rapporto tra tale principio e il principio di sussidiarietà).

Per quanto riguarda le istituzioni politiche dell'Unione Europea, essere sono: Parlamento europeo, Consiglio e Commissione (hanno funzioni di politica attiva, che si sostanzia nell'adozione di atti normativi/amministrativi). Corte di giustizia e Corte dei conti sono istituzioni di controllo.


2. Il Parlamento europeo.


Originariamente denominata Assemblea, assume la denominazione di Parlamento europeo in virtù dell'art. 3 TUE.

I suoi membri sono eletti a suffragio universale e diretto (art. 190 TCE): il passaggio a questo sistema è avvenuto con la decisione n. 76/ 787 cui è allegato l''Atto relativo all'elezione dei rappresentanti nell'Assemblea a suffragio universale e diretto'. (Esso si limita a dettare alcune regole minime relative al regime di incompatibilità, periodo di svolgimento elezioni e spoglio schede elettorali, quindi non detta una procedura elettorale uniforme, che resta affidata in massima parte alla competenza dei singoli Stati. Tuttavia la decisione del Consiglio n. 2002/772 ha introdotto dei principi comuni a tutti gli Stati membri. Due sono le novità: la scelta a favore di un sistema elettorale di tipo proporzionale e il divieto del doppio mandato).

La durata del mandato è di cinque anni (art. 190 TCE).

La composizione (art. 190 TCE) deve essere tale che il numero dei rappresentanti eletti in ciascuno Stato membro garantisca un'adeguata rappresentanza dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità. Attualmente sono 732 (numero massimo previsto ex art. 189 TCE).

Riguardo agli organi del Parlamento europeo:

- Presidente: dirige lavori del Parlamento e lo rappresenta. È assistita da 14 vice-presidenti e da un Ufficio di Presidenza.

- Gruppi politici: in cui sono organizzati i membri del Parlamento (numero minimo è di 19, di almeno 1/5 degli Stati membri).

- Conferenza dei presidenti: composta dai Presidenti dei gruppi e dal Presidente del Parlamento.

Il Parlamento lavora in aula o in commissione, quest'ultime sono di due tipi:

- Commissioni permanenti;

- Commissioni temporanee d'inchiesta.


Le funzioni più importanti del Parlamento europeo possono essere raggruppate in due categorie: 1) controllo politico e 2) partecipazione all'adozione degli atti dell'Unione (parte II). In questa tratteremo solo della prima categoria.

Funzioni di controllo politico: numerosi sono i canali attraverso i quali il Parlamento riceve informazioni sull'operato delle altre istituzioni (anche degli Stati membri e dei privati ma in misura minore) (si parla di canali istituzionali):

- relazioni o rapporti di altre istituzioni/organi: per es. la relazione generale annuale presentata dalla Commissione (art.200 TCE), oltre a relazioni della Commissione su specifici campi e la relazione presentata dal Consiglio europeo sulla propria attività. Inoltre il Parlamento deve essere regolarmente informato,dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione, in merito allo sviluppo della PESC (art. 23.1 TUE);

- interrogazioni: previste solo con riferimento alla Commissione (art. 197.3 TCE) ma nella prassi rivolte anche al Consiglio;

- audizioni: 'a tutte le sedute possono assistere i membri della Commissione e a nome di quest'ultima essere uditi a loro richiesta' (art. 197.2 TCE). La norma ha consentito al Parlamento di richiedere la presenza in aula del Presidente o di un altro membro della Commissione perché siano ascoltati. Anche il Consiglio può essere udito (art. 197.4 TCE).

Il Parlamento trae informazioni anche dall'iniziativa degli individui:

- petizioni: il diritto di presentare una petizione al Parlamento su di una materia che rientra nel campo di attività della Comunità può essere esercitato da qualsiasi cittadino dell'Unione (art. 194 TCE e art. 197.4 TCE) nonché da qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro;

- Mediatore europeo: gli stessi soggetti possono ricorrere ad esso per lamentare casi di cattiva amministrazione nell'azione delle istituzioni o degli organi comunitari (artt. 195 e 21.2 TCE). È una persona indipendente e autorevole, nominata dal Parlamento europeo. Egli riceve ricorso, effettua indagini ed eventualmente si rivolge all'istituzione interessata, che entro 3 mesi deve comunicare il proprio parere. Sulla base delle risposte fornite, il Mediatore elabora una relazione che viene trasmessa al Parlamento e all'istituzione interessata (egli non ha poteri coercitivi autonomi, ma svolge comunque una funzione di prestigio morale, sollecitando l'intervento delle istituzioni);

- denunce: relative all'infrazione o alla cattiva amministrazione nell'applicazione del diritto comunitario riguardo alle quali il Parlamento può decidere di istituire una Commissione temporanea d'inchiesta (art. 193 TCE).

Il Parlamento dispone di strumenti sanzionatori soltanto nei confronti della Commissione: attraverso la mozione di censura (art.201 TCE), la cui procedura è molto complessa. Essa una volta presentata, può essere discussa solo dopo tre giorni, deve essere votata con scrutinio pubblico e approvata dai 2/3 dei voti espressi a maggioranza dei membri. In caso di approvazione i membri della Commissione devono abbandonare collettivamente le loro funzioni.

Il controllo sull'operato del Consiglio riveste carattere meramente morale: Parlamento e Consiglio sono due istituzioni tra di loro perfettamente pari-ordinate e perciò destinate a condividere poteri e non a dipendere l'una dall'altra (il Consiglio non trae dal Parlamento la propria investitura). Tuttavia il Parlamento, per tutelare le proprie prerogative, ha dovuto utilizzare il sistema di controllo giurisdizionale previsto dal TCE, presentando ricorso alla Corte di giustizia contro atti o comportamenti del Consiglio compiuti in violazione dei poteri parlamentari (significativa in proposito la giurisprudenza in materia di ricorsi d'annullamento, art. 230 TCE). La sentenza 22 maggio 1990, Parlamento europeo c. Consiglio, della Corte di giustizia, ha incluso il Parlamento tra i soggetti legittimati all'impugnazione (il Trattato di Nizza attribuisce al Parlamento un diritto generale di ricorso).


3. Il Consiglio.


È un tipico organo di Stati, composto da soggetti che rappresentano i governi dei singoli Stati.

La composizione (art. 203 TCE): 'il Consiglio è formato da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato ad impegnare il Governo di detto Stato membro'.

(Art. 6 legge n. 131/2003: prevede che nelle materie spettanti alla competenza regionale il Capo delegazione può essere anche un Presidente di Giunta regionale o di Provincia autonoma. La designazione spetta comunque al Governo il quale opera sulla base di criteri determinati con un accordo generale di cooperazione tra Governo, Regioni ordinarie e  Regioni speciali stipulato in sede di Conferenza Stato-Regioni. Il processo di formazione della posizione del Governo italiano nel Consiglio è ora oggetto di disposizioni che hanno lo scopo di coinvolgere a) Parlamento, b) Regioni e Province autonome, c) altri enti territoriali, d) parti sociali e categorie produttive. È previsto un obbligo di informazione a carico del Presidente del Consiglio o del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie, soprattutto attraverso la trasmissione ai soggetti sopra menzionati delle proposte di atti comunitari e degli altri documenti preparatori. È previsto inoltre un obbligo di consultazione: nel caso del Parlamento è istituito lo strumento della 'riserva di esame parlamentare' apposta dal Governo in sede di Consiglio. Strumento analogo è previsto per le Regioni e le Province autonome)

Il Consiglio non è organo permanente, infatti si riunisce di volta in volta. Uno Stato membro può quindi designare persone diverse a seconda della riunione. Solitamente viene designato il ministro competente per la materia iscritta all'ordine del giorno (nessun obbligo però). Nella prassi si parla quindi di formazioni specializzate (es. Consiglio Agricoltura, Consiglio Trasporti, Consiglio Ecofin) che hanno una notevole stabilità e agiscono secondo calendari differenziati.

Consiglio Affari generali e relazioni esterne: costituito dai ministri degli Esteri (si occupa di problemi di politica estera e questioni non riferibili a specifici settori).

(In alcune ipotesi però l'art. 203 prescrive che il Consiglio si riunisca e deliberi nella composizione dei capi di Stato e di Governo: es. art. 121 TCE, art. 7 TUE, ovvero in caso di decisioni di tale importanza politica per cui si è preferito coinvolgere le massime cariche degli Stati membri. In altre ipotesi il Consiglio si riunisce in composizione ridotta, es. art. 122 TCE riguardo alla terza fase UEM e art. 44 TUE circa la cooperazione rafforzata. L'art. I-24 della Costituzione accentua le tendenze a differenziare le diverse formazioni del Consiglio, introducendo varianti sia per quanto riguarda la composizione, sia per quanto riguarda le funzioni esercitate. L'articolo prevede direttamente il Consiglio Affari generali e il Consiglio Affari Esteri)

La Presidenza è esercitata a turno da ciascuno Stato membro per una durata di sei mesi (art.203 TCE). Lo Stato membro che detiene la Presidenza svolge un ruolo importante, perché il suo rappresentante assume anche la Presidenza del Consiglio europeo (art. 4.2 TUE) e degli organi la cui composizione riflette quella del Consiglio. Il Presidente convoca le riunioni del Consiglio (art.204 TCE) e ne stabilisce l'ordine del giorno, rappresenta l'istituzione nella sua unità (firma gli atti del Consiglio), tiene i rapporti con le altre istituzioni (importante il suo ruolo riguardo alla PESC, artt. 18, 21 e 24 TUE).


Modi di deliberazione (art. 205 TCE): maggioranza semplice (assoluta), maggioranza qualificata e l'unanimità. Il modo di deliberare da seguire dipende dalla norma dei Trattati dalla quale il Consiglio trae il potere che intende esercitare.

La maggioranza semplice si applica quando la norma dei Trattati non dice nulla, ipotesi che è rara (es. art. 48 TUE: parere favorevole alla convocazione della CIG per la riforma dei Trattati). In origine il sistema più frequente era l'unanimità, tuttavia col susseguirsi delle riforme dei Trattati sono prevalse le delibere a maggioranza qualificata (progresso dato dall'introduzione della procedura di cooperazione e di codecisione, che consentono al Consiglio deliberazioni a maggioranza qualificata).

La maggioranza qualificata viene calcolata attraverso un sistema di ponderazione dei voti: il voto di ciascuno Stato ha un peso differenziato in base all'applicazione di un coefficiente. Il grado di rappresentatività del meccanismo della maggioranza qualificata è stato sensibilmente innalzato dalle modifiche previste dal Trattato di Nizza (emendato dal penultimo atto di adesione: modifiche entrate in vigore il 1s novembre 2004). Nel nuovo regime il raggiungimento della maggioranza qualificata richiede la presenza di tre condizioni (la 3S diviene applicabile solo se ne è richiesta la verifica):

a) raggiungimento di una soglia minima di voti ponderati è pari a 232 (su 321) secondo una tabella di ponderazione nuova (aumento dei voti totali che favorisce gli Stati più grandi i quali passano a 29 voti ciascuno rispetto ai 10 di prima mentre l'aumento dei voti per gli Stati minori è meno significativo). La nuova soglia minima costituisce il 72, 27% circa del totale dei voti (prima 71,26% mentre con l'adesione di Romania e Bulgaria passerà a 73,91%);

b) voto favorevole di almeno la maggioranza dei membri, qualora le deliberazioni in virtù del presente Trattato, debbano essere prese su proposta della Commissione. Qualora non sia richiesta occorre il voto favorevole di almeno 2/3 dei membri;

c) gli Stati membri che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare almeno il 62% della popolazione totale dell'Unione (criterio demografico). La richiesta costituisce un'arma alla quale gli Stati contrari all'adozione di una proposta ricorreranno sistematicamente.

(Vedi anche il progetto approvato dalla Convenzione sul futuro dell'Europa circa il metodo per calcolare la maggioranza qualificata: puntava ad una notevole semplificazione del meccanismo, riducendo a due le condizioni)

Terzo sistema di deliberazione è costituito dall'unanimità: quando è richiesta dai Trattati, il voto contrario di un solo Stato membro è sufficiente ad impedire l'approvazione. Tuttavia le astensioni non costituiscono un impedimento all'adozione delle deliberazioni del Consiglio per le quali è richiesta l'unanimità.

(astensione costruttiva: forma particolare di astensione prevista nell'ambito del II pilastro dall'art. 23 TUE)


Occorre distinguere il Consiglio da altri organi che hanno una composizione simile, se non identica:

- alcune deliberazioni, in base al TCE (es. nomina giudici e avvocati della Corte di giustizia o scelta sede istituzioni della Comunità) sono riservate agli Stati membri nella loro individualità di soggetti di diritto internazionale. Nella prassi accade che i rappresentanti dei governi si riuniscono in coincidenza delle riunioni del Consiglio: è invalso l'uso di indicare queste deliberazioni come decisioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio e pubblicarle in GU (tuttavia non soggette a controllo giurisdizionale, non sono atti comunitari);

- Consiglio europeo: i due organi non hanno nè la stessa composizione nè le stesse funzioni (inizialmente concepito come organo che agisce al di sopra e al di fuori dell'apparato istituzionale dell'Unione,in seguito al TUE e al Trattato di Amsterdam, si è previsto che in alcuni casi il Consiglio europeo interviene con proprie delibere nell'ambito di procedimenti decisionali comunitari: offre al Consiglio le indicazioni politiche necessarie. La sua attività ovviamente non è soggetta al controllo giurisdizionale della Corte di giustizia);

- Comitato dei Rappresentanti Permanenti (COREPER): previsto ex. art. 207 TCE. Riunisce i rappresentanti diplomatici accreditati da ciascuno Stato membro presso l'Unione Europea (composizione identica al Consiglio solo in quanto nazionalità ma non circa la qualità dei membri: sono diplomatici/ministri). Accanto ad essa opera anche una seconda formazione cui partecipano i rappresentanti permanenti aggiunti. Il Consiglio è organo intermittente, mentre il COREPER assicura una notevole continuità di lavoro. La Presidenza spetta al rappresentante permanente (o aggiunto) dello Stato membro che esercita la presidenza di turno del Consiglio. Art. 207: il COREPER è responsabile della preparazione del lavoro del Consiglio e dell'esecuzione dei compiti che il Consiglio gli assegnerà (compito più importante: l'esame preliminare di tutte le proposte che la Commissione vuole sottoporre al Consiglio. Costituisce una sorta di filtro tra Consiglio e Commissione. Una volta esaminata anche dal competente comitato tecnico,il COREPER delibera sulla proposta: se vi è l'accordo unanime la proposta è inserita tra i punti A dell'ordine del giorno del Consiglio e approvata senza discussione,altrimenti le proposte sono inserite tra i punti B, accomnati da relazione COREPER e discussione preventiva del Consiglio).

L'art. 207 TCE, inserito dal Trattato di Amsterdam prevede che per assicurare maggiore unitarietà all'azione esterna dell'Unione è stata individuata la ura che potesse imperniare tale azione. Il Segretario generale del Consiglio è diventato Alto rappresentante per la PESC, mentre i compiti relativi al funzionamento amministrativo del Segretariato generale sono affidati ad un Vicesegretario generale. Le funzioni del Segretario generale sono definite dall'art. 26 TUE: assistenza Consiglio nelle decisioni rientranti nel campo PESC mediante la partecipazione alle decisioni politiche e conducendo eventualmente un dialogo politico con terzi. (La Costituzione fonda la ura dell'Alto rappresentante con quello del membro della Commissione responsabile delle relazioni esterne della Comunità e istituisce la carica di Ministro degli Esteri dell'Unione, art. I-28)


In base all'art.202 TCE il Consiglio ha le seguenti funzioni:

- coordinamento politiche economiche Stati membri: ora una funzione rientrante nel quadro della UEM (art. 99 TCE). L'art. prevede l'adozione da parte del Consiglio degli indirizzi di massima sui quali discute preventivamente il Consiglio europeo;

- potere di decisione: ha una portata vastissima e viene esercitato dal Consiglio adottando propri atti oppure partecipando alle procedure che portano all'adozione congiunta di atti insieme col Parlamento europeo;

- conferimento di competenze di esecuzione alla Commissione: consiste nel delegare alla Commissione l'adozione di atti normativi o amministrativi che danno esecuzione ad atti di primo grado del Consiglio.


4. La Commissione.


È un organo di individui, essendo composta da persone non legate da un vincolo di rappresentanza ad uno Stato membro.

Composizione (art. 213 TCE): 'la Commissione comprende un cittadino di ciascuno Stato membro'. Attualmente sono 27, compreso il Presidente e un numero imprecisato di vicepresidenti (artt. 214 e 217).

(Nel sistema attuale tutti gli Stati membri sono infatti posti su un piede di parità, a differenza del regime precedente, nel quale gli Stati maggiori avevano attribuiti due membri. La tendenza è un ulteriore riduzione dei membri, per mantenere l'efficienza dell'istituzione: il Protocollo sull'allargamento stabilisce che, a partire dal momento in cui l'Unione avrà 27 Stati membri, l'attuale art. 213 sarà sostituito da un nuovo testo. Se il Consiglio deciderà in tal senso alcuni Stati membri potrebbero restare privi di rappresentanza diretta nella Commissione per la durata del turno di rotazione. Anche il progetto approvato dalla Convenzione sul futuro dell'Europa sposava quest'ottica: l'art. 25 prevedeva una Commissione di soli 15 membri e sistema di rotazione, più dei commissari privi di diritto di voto. Proposta solo parzialmente accolta nel testo della Costituzione, cioè nell'art. I-26 che stabilisce un regime transitorio, che mantiene lo status quo, e un regime definitivo, nel quale il numero dei membri corrisponderà ai 2/3 degli Stati membri).

Requisiti membri della Commissione (art. 213 TCE): sono la professionalità e l'indipendenza. Anche gli Stati membri si impegnano a rispettare e non cercare di influenzare i membri della Commissione nell'esercizio del loro compiti. I doveri di indipendenza vanno tenuti presenti anche dopo la cessazione dal mandato (art. 213.3 , par. 2). La Corte di giustizia può, su istanza del Consiglio e della Commissione, pronunciare le dimissioni d'ufficio dei membri della Commissione in caso di violazione dei loro obblighi.

Mandato: i membri della Commissione durano in carica cinque anni (art. 214). Può terminare anticipatamente per: dimissioni individuali o collettive, pronuncia della Corte di giustizia e dimissione d'ufficio, approvazione della mozione di censura da parte del Parlamento (art. 201 TCE).

Procedura di nomina (art. 214 TCE): in passato dominata dagli Stati membri, con il Trattato di Nizza è stata ricondotta nell'ambito istituzionale. Essa distingue tra la posizione del Presidente della Commissione rispetto agli altri membri. Procedura:

- prima fase: designazione del solo Presidente della Commissione compiuta dal Consiglio riunito a livello di Capi di Stato o di Governo, con decisione assunta a maggioranza qualificata;

- seconda fase: approvazione di tale designazione da parte del Parlamento;

- terza fase: deliberazione del Consiglio (in composizione libera) a maggioranza qualificata presa di comune accordo con il Presidente designato con la quale adotta l'elenco delle altre persone che intende nominare membri della Commissione, redatto conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro.

- quarta fase: Presidente e membri designati sottoposti collettivamente ad un voto di approvazione da parte del Parlamento europeo (tuttavia il Parlamento procede ad audizioni separate per ciascuna persona proposta come membro; notevoli innovazioni previste dalla Costituzione circa la procedura)

Presidente della Commissione: ha un ruolo centrale. Posizione di primazia sottolineata (oltre con riferimento alla procedura di nomina) dall'art 217 che gli attribuisce il compito di definire (oltre agli orientamenti della Commissione) anche l'organizzazione interna della Commissione, per garantirne la coerenza, l'efficacia e la collegialità della sua azione. Ad egli spetta determinare le funzioni attribuite ai membri e da esercitare sotto la sua autorità. Inoltre dispone del potere di obbligare un membro a rassegnare le dimissioni, previa approvazione del collegio. Partecipa al Consiglio europeo.

Deliberazioni della Commissione (art. 219.2 TCE): vengono prese a maggioranza del numero dei suoi membri. L'attività della Commissione è suddivisa in varie Direzioni generali, per ognuna delle quali vi è un commissario responsabile (ampia delega di funzioni).

Compiti della Commissione (art. 211 TCE):

- custode della legalità comunitaria: vigila sull'applicazione delle disposizioni del presente trattato e delle disposizioni adottate dalle istituzioni in virtù del trattato stesso. Compito questo esercitato nei confronti degli Stati membri (strumento del ricorso per infrazione, artt. 226 e ss. TCE), nei confronti delle altre istituzioni (ricorsi d'annullamento o in carenza ai sensi degli artt. 230 e 232 TCE), nei confronti delle persone fisiche o giuridiche nella misura in cui ciò sia previsto dal TCE o da atti derivati;

- potere generale di raccomandazione: formula raccomandazioni o pareri in settori definiti dal presente trattato, quando questo lo preveda o quando la Commissione lo ritenga necessario;

- potere autonomo di decisione: (poche ipotesi previste dal TCE) dispone di un proprio potere di decisione e partecipa alla formazione degli atti del Consiglio e del Parlamento europeo alle condizioni previste dal presente trattato;

- competenza di esecuzione di atti del Consiglio (art. 202 TCE): esercita le competenze conferite dal Consiglio per l'attuazione delle norme da esso stabilite (art. 202.3: il Consiglio può sottoporre l'esercizio delle competenze d'esecuzione conferite alla Commissione a determinate modalità che devono rispondere ai principi e alle norme che il Consiglio avrà stabilito in via preliminare. Modalità ora disciplinate dalla decisione n. 1999/468 nota come decisione sulla comitologia).


5. La Corte di giustizia.


La Corte si articola al suo interno in più rami (nonostante l'art. 5 TUE e l'art. 4 TCE menzionino la Corte come un'unica istituzione) dotati di autonomia funzionale (piena) e amministrativa (parziale): Corte di giustizia (in senso proprio), Tribunale di primo grado e Camere giurisdizionali (art. 220.2).

[Art. I-29 della Costituzione distingue esplicitamente tra Corte-istituzione (denominata Corte di giustizia dell'Unione Europea: comprendente Corte di giustizia, Tribunale di primo grado e tribunali specializzati) e Corte-giurisdizione]

Gli organi della Corte di giustizia sono organi di individui, i cui componenti (pur dipendendo da una nomina politica) svolgono le loro funzioni in piena imparzialità e secondo coscienza.

Con decisione unanime della Corte i membri possono essere rimossi qualora vengano meno ai loro obblighi.

Fonti normative che disciplinano l'attività della Corte di giustizia (e i rami in parte):

- TCE (artt. da 220 a 245) e TUE (artt. 35 e 46);

- Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia della Comunità europea, allegato al TCE e richiamato dall'art. 245 TCE (con cui condivide la natura giuridica);

- regolamento di procedura della Corte di giustizia: stabilito dalla Corte stessa,ma necessita però di approvazione a maggioranza qualificata del Consiglio (art. 223.6).

Composizione (art. 221.1): è composta da un giudice per Stato membro ed è inoltre assistita da otto avvocati generali (il numero può essere aumentato dal Consiglio, ex art. 222.1). Tra i giudici viene eletto, per tre anni, un Presidente, il cui mandato è rinnovabile (art. 223.3).

I giudici fanno parte del collegio giudicante, che emette le decisioni. Gli avvocati generali hanno invece una funzione ausiliaria, precisata dall'art. 222.2: presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo statuto della Corte di giustizia, richiedono il suo intervento (la Corte stessa potrà decidere di fare a meno di presentare conclusioni motivate quando ritenga che la causa non sollevi nuove questioni di diritto, ex art. 20.5 Statuto).

Le conclusioni contengono il parere dell'avvocato generale su come la Corte di giustizia, a suo giudizio, dovrebbe decidere la causa: esse non sono vincolanti. La Corte può discostarsene nella sentenza e senza nemmeno l'obbligo di spiegarne le ragioni. (Il carattere non vincolante delle Conclusioni dell'avvocato generale giustifica il rifiuto finora opposto dalla Corte alle richieste delle parti di avere la possibilità di replicare alle conclusioni stesse - v. sentenza Emer Sugar).

Nazionalità avvocati generali: la prassi vuole che vi siano sempre quattro avvocati generali aventi la nazionalità di ciascuno degli Stati membri maggiori (Francia, Germania, Italia e Regno Unito) mentre i posti rimanenti sono ricoperti a rotazione da persone degli altri Stati membri.

(Art. 223.1: stabilisce i requisiti di professionalità e di indipendenza di giudici e avvocati: essi sono scelti tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscono le condizioni richieste per l'esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza)

Nomina: sia i giudici che gli avvocati generali sono nominati di comune accordo dai Governi degli Stati membri (art. 223.1).

Mandato: dura sei anni ed è rinnovabile. Previsto un rinnovo parziale, ogni tre anni e che riguarda metà dei componenti della Corte.

La Corte opera nelle seguenti formazioni di giudizio (artt. 221 TCE e 16 Statuto):

- sezioni: composta da tre o cinque giudici (è la formazione ordinaria);

- grande sezione: formata da undici giudici, tra cui il Presidente e i presidenti delle sezioni a 5. Convocata quando lo richiede uno Stato membro o un'istituzione che è parte giudizio;

- seduta plenaria: ad essa partecipano tutti i giudici. Convocata in ipotesi particolari (rimozione Mediatore, membro della Commissione o della Corte dei conti) e ove la Corte reputi che un giudizio pendente dinanzi ad essa abbia un'importanza eccezionale.

(La procedura dinanzi alla Corte di giustizia è divisa in due fasi: una fase scritta, che può consistere nello scambio o nel deposito di memorie scritte. Una fase orale, che può essere esclusa,consistente in un'udienza con le parti e nella lettura o deposito delle conclusioni dell'avvocato generale. Successivamente vi è la riunione in camera di Consiglio per deliberare, infine la lettura della sentenza in pubblica udienza).

Funzioni della Corte di giustizia:

- natura giurisdizionale (sono le principali - art. 220 TCE): la Corte di giustizia e il Tribunale di primo grado assicurano il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del presente trattato;

- natura consultiva: esprime pareri, che hanno un valore parzialmente vincolante. Il loro contenuto condiziona il comportamento di istituzioni e Stati membri (ipotesi più importante è prevista dall'art. 300 TCE in materia di accordi internazionali della Comunità).


6. Il Tribunale di primo grado e le Camere giurisdizionali.


Fonti normative che disciplinano organizzazione e funzionamento del Tribunale di primo grado:

- TCE (artt. 224 e 225 in particolare);

- Statuto Corte di giustizia (titolo V: funzionamento e giudizi di imputazione dinanzi alla Corte di giustizia);

- regolamento di procedura: approvato dai membri del Tribunale in concerto con la Corte di giustizia e poi sottoposto all'approvazione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata (art. 225 TCE).

(In origine la Corte di giustizia era stata concepita come giudice di prima e ultima istanza ma la necessità di ricorso dinanzi alla Corte di giustizia si rese evidente per due ragioni: a) migliorare il sistema comunitario di tutela giurisdizionale b) alleviare l'onere di lavoro dalla Corte di giustizia e abbreviare così i tempi del giudizio dinanzi ad essa)

Rapporto istituzionale: Corte di giustizia e Tribunale coesistono all'interno della medesima istituzione. Alla Corte spettava tuttavia una posizione di primazia. Il testo previgente dell'art. 225 delineava per il Tribunale il ruolo di organo ausiliario della Corte. Con il Trattato di Nizza viene tuttavia ridimensionata questa posizione di dipendenza: il nuovo testo dell'art. 220 affida alla Corte e al Tribunale il compito di assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del presente trattato.

Rapporto giurisdizionale: il Tribunale è subordinato alla Corte, in quanto le sue decisioni sono soggette ad impugnazione dinanzi ad essa. La previsione del giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale, con riserva di ricorso alla Corte, non introduce tuttavia nell'ordinamento comunitario il principio del doppio grado di giudizio: perché l'impugnazione dinanzi alla Corte (ricorso) non costituisce un giudizio d'appello, esso infatti può solo riguardare motivi di diritto (art. 225.2), ovvero mezzi relativi all'incompetenza del Tribunale, vizi di procedura recanti lesioni di interessi delle parti, nonché violazione del diritto comunitario. Pertanto il giudizio sul fatto si esaurisce dinanzi al Tribunale ed è perciò oggetto di un unico grado.

Termine di ricorso: due mesi a decorrere dalla notifica della decisione impugnata.

Composizione (art. 224. 1): il Tribunale di primo grado è composto di almeno un giudice per Stato membro e il numero dei giudici è stabilito dallo Statuto della Corte di giustizia (art. 48 Statuto: ne stabilisce 27, tuttavia vi è la possibilità, peraltro non ancora sfruttata, di nominarne ulteriori, superando il numero degli Stati membri).

Nomina: i giudici sono nominati di comune accordo dai Governi degli Stati membri (art. 224. 2).

Mandato: dura sei anni. Eletto anche un Presidente, in carica tre anni.

Il Tribunale non dispone attualmente di avvocati generali, tuttavia l'art. 224.1 stabilisce che lo Statuto possa prevedere che il Tribunale sia assistito da avvocati generali.

Requisiti di professionalità: analoghi ai membri della Corte (art. 224.2) ma il livello richiesto è meno elevato.

Formazioni di giudizio

- sezioni: composta da tre o cinque giudici (funzionamento ordinario);

- il regolamento di procedura disciplina i casi in cui il Tribunale si riunisce in seduta plenaria, in grande sezione o giudice unico.

Competenza di primo grado del Tribunale: la sua definizione risulta complessa (rilevanti e ripetute modifiche). Essa incontra due limiti:

a) azioni riservate alla competenza esclusiva e in grado unico della Corte;

b) Tribunale della funzione pubblica dell'UE (TFP) (ad esso spetta la competenza di primo grado sul contenzioso con il personale delle istituzioni e degli organi UE: in questo settore il Tribunale è giudice di secondo grado).

Occupandoci per ora soltanto della ripartizione di competenza tra Tribunale e Corte va da subito precisato che la competenza del Tribunale non copre tutte le azioni sottoposte al giudizio della Corte (alcune cause sono pertanto soggette al giudizio di unico grado della Corte). Per quanto riguarda la c.d. competenza diretta (in seguito alla modifica dell'art. 225 TCE e 51 Statuto), attualmente il Tribunale è competente in primo grado:

a) in generale per ricorsi proposti dalle persone fisiche o giuridiche contro le istituzioni (salvo settori di competenza della camera giurisdizionale);

b) per i ricorsi d'annullamento (art. 230) e per inazione (art. 232) proposti dagli Stati membri contro la Commissione (eccetto atti in materia di cooperazione rafforzata);

c) per i ricorsi d'annullamento proposti dagli Stati membri contro il Consiglio aventi ad oggetto: decisioni adottate ai sensi dell'art. 88.3 (aiuti di Stato alle imprese), atti adottati in forza di un regolamento relativo a misure di difesa commerciale (es. anti-dumping) ai sensi dell'art. 133, atti di esercizio da parte del Consiglio di competenze d'esecuzione ai sensi dell'art. 202.3 (art. 51.1 lett.a).

(Restano riservati alla competenza in unico grado della Corte di giustizia tutti gli altri ricorsi proposti da uno Stato membro: ricorsi contro il Parlamento o contro Parlamento e Consiglio, ricorsi per infrazione rivolti contro altri Stati membri, inoltre tutti i ricorsi proposti da un'istituzione contro uno Stato membro o contro un'altra istituzione)

L'art. 225 par. 3 introduce la possibilità di attribuire al Tribunale anche una competenza pregiudiziale ai sensi dell'art. 234. Lo Statuto tuttavia non prevede ancora alcuna materia nella quale sia stabilita tale competenza, ne consegue che attualmente queste norme non sono applicabili. (L'attribuzione di questa competenza pregiudiziale al Tribunale comporterebbe notevoli difficoltà: prolungamento della durata della fase pregiudiziale e perdita di autorità del giudice comunitario. V. le possibili soluzioni sul libro).


Camere giurisdizionali (art. 220.2): affiancate al Tribunale e incaricate di conoscere in primo grado talune categorie di ricorsi proposti in materia specifiche (art. 225 A). Le camere giurisdizionali sono una novità introdotta dal Trattato di Nizza. Il Consiglio, con delibera unanime, su proposta della Commissione o su richiesta della Corte (previa consultazione del Parlamento, della Corte e della Commissione) può creare un ulteriore articolazione giurisdizionale (appunto le camere giurisdizionali).

Le sentenze delle camere giurisdizionali sono impugnabili davanti al Tribunale di primo grado; la decisione istitutiva di ciascuna camera stabilisce se l'impugnazione è limitata ai soli motivi di diritto o anche a quelli di fatto; il riesame della decisione del Tribunale dinanzi alla Corte di giustizia è previsto solo in casi eccezionali: qualora sussista grave rischio per l'unità e la coerenza del diritto comunitario (art. 225.2 par. 2). In queste ipotesi si avrebbero pertanto tre livelli di giudizio.

In forza del potere conferitogli dall'art. 225 A il Consiglio ha istituito nel 2004 il Tribunale della funzione pubblica dell'UE (TFP): esso è competente in primo grado a pronunciarsi in merito alle controversie tra le Comunità e i loro agenti (artt. 236 e 152 del Tr. CEEA) comprese le controversie tra gli organi e il loro personale, per le quali la competenza è attribuita alla Corte di giustizia (art. 1 - c.d. contenzioso del personale).

(Il TFP è composto da sette giudici, con le stesse garanzie di indipendenza e di professionalità viste per gli altri giudici. Procedimento di nomina: decisione unanime del Consiglio previa consultazione di un comitato composto da ex giudici della Corte e del Tribunale di primo grado. Regime di impugnazione: a simile a quello per le decisioni del Tribunale; termine di due mesi dalla notifica della decisione, impugnazione limitata ex art. 11 Statuto ai motivi di diritto definiti in maniera analoga all'art. 58 Statuto.Riguardo alle decisioni del Tribunale che decidono sull'impugnazione di decisioni del TFP esse sono soggette a riesame da parte della Corte solo in casi eccezionali, ex art. 225.2 par. 2; la proposta di riesame può essere formulata solo dal primo avvocato generale entro un mese dalla decisione del Tribunale. La Corte decide se riesaminare o meno; se accoglie la proposta deve decidere sul riesame con procedura d'urgenza, se constata che la decisione riesaminata pregiudica l'unità/coerenza del diritto comunitario, rinvia la causa dinanzi al Tribunale che risulterà vincolato ai punti di diritto decisi della Corte salvo che la causa non possa essere decisa direttamente dalla Corte. La Corte in caso di rinvio ha la facoltà di indicare gli effetti della decisione del Tribunale da considerarsi definitivi nei riguardi delle parti in causa. Il riesame è pertanto dotato di un carattere straordinario).


7. La Corte dei conti e gli altri organi.


- Corte dei conti: organo di individui, composto (art. 247) da un cittadino di ciascuno Stato membro. I membri sono nominati dal Consiglio con delibera unanime, previa consultazione del Parlamento europeo. Il loro mandato dura sei anni. I requisiti sono analoghi a quelli dei giudici della Corte.

Funzioni (artt. 246 e 248): controllare la legittimità e la regolarità di entrate e spese ed accertare la sana gestione finanziaria. (Atti rilevanti: Dichiarazione presentata al Parlamento su affidabilità dei conti e legittimità operazioni, relazione annuale redatta alla chiusura dell'esercizio finanziario e trasmessa alle istituzioni).


- Altri organi che si inseriscono nel quadro istituzionale dell'Unione, con funzioni consultive o preparatorie, che meritano di essere segnalati sono:

Comitato economico e sociale: strumento di espressione degli interessi delle varie componenti di carattere economico e sociale della società civile organizzata. Conta attualmente 353 membri, nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata e su proposta degli Stati membri. La composizione deve assicurare un'adeguata rappresentanza alle diverse categorie.

Comitato delle regioni: composto da membri rappresentativi delle collettività regionali (353), i quali devono essere titolari di un mandato elettorale nell'ambito di una comunità regionale o locale, oppure politicamente responsabili dinanzi ad un'assemblea eletta (art. 263). Nomina e composizione sono analoghi al Comitato economico e sociale, entrambi inoltre devono essere consultati dal Consiglio o dalla Commissione quando ciò sia previsto dal TCE (parere obbligatorio ma non vincolante) o quando tali istituzioni lo ritengano necessario.

- Vanno poi menzionati gli organi creati dal TUE nell'ambito dell'UEM:

Banca centrale europea (BCE): articolata in Comitato esecutivo (presidente, vicepresidente e 4 membri nominati dai governi degli Stati membri su raccomandazione del Consiglio) e Consiglio direttivo (membri Comitato esecutivo più i Governatori delle Banche centrali nazionali degli Stati membri).

Sistema Europeo Banche Centrali (SEBC): entrambi(BCE e SEBC) sono oggetto del Protocollo sullo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea, allegato al TCE (art. 34: potere regolamentare; art. 249: decisioni della BCE).

Banca Europea degli Investimenti (BEI): disciplinata dagli artt. 266 e 267 TCE e da apposito Protocollo allegato al TCE. La BEI è dotata di propria personalità giuridica distinta dalla comunità: ne sono membri gli Stati membri che ne sottoscrivono il capitale. Funzioni: facilitare il finanziamento di progetti indicati ex art. 267, finalizzati allo sviluppo del mercato comune.



- Agenzie indipendenti: create attraverso atti del Consiglio o, secondo i casi, del Parlamento e del Consiglio. La maggior parte sono state istituite attraverso regolamenti basati su disposizioni del TCE (Autorità europea di sicurezza alimentare e Ufficio di armonizzazione a livello di mercato interno), ma non mancano esempi di organi dello stesso tipo il cui atto istitutivo trova il proprio fondamento in norme del II o del III pilastro (Centro satellitare dell'Unione Europea, Ufficio europeo di polizia,l'Eurojust).




LE PROCEDURE INTERISTITUZIONALI PER L'ADOZIONE DI ATTI

DELL'UNIONE


1. Considerazioni generali


Con il termine procedura interistituzionale si intende la sequenza di atti o fatti provenienti da più di un'istituzione, richiesta dai Trattati affinché la volontà dell'Unione si possa manifestare attraverso determinati atti giuridici (il carattere interistituzionale è dato dal fatto che gli atti giuridici risultano dalla combinazione degli interventi di più istituzioni, in particolare di quelle politiche). I Trattati prevedono numerose procedure interistituzionali. Alcune riguardano soltanto l'approvazione di atti specifici: la procedura di bilancio e la procedura per la conclusione di accordi internazionali. Le procedure più frequentemente utilizzate non si distinguono invece in funzione della natura del potere esercitato dalle istituzioni coinvolte o in relazione al tipo di atti da adottare. Un'identica procedura può risultare pertanto applicabile per atti di varia specie (ad esempio stessa procedura applicabile sia ad atti di portata generale che di portata individuale). La Costituzione corregge questo difetto d'origine prevedendo una ' procedura legislativa ordinaria '.

La distinzione tra le procedure di applicazione generale risulta piuttosto dal ruolo che in essa spetta alle varie istituzioni in particolare al Parlamento (potere consultivo nella procedura di base mentre potere di codecisione nella procedura omonima). Il modello di procedura da seguire influisce anche sui modi di deliberazione delle varie istituzioni (ad esempio quando è applicabile la procedura di codecisione il Consiglio può generalmente deliberare a maggioranza qualificata).

Per stabilire quale procedura vada seguita di volta in volta, occorre definire la base giuridica dell'atto che si intende adottare. Occorre cioè individuare la disposizione dei Trattati che attribuisce alle istituzioni il potere di adottare un determinato atto. Sarà la disposizione così individuata a indicare la procedura decisionale da seguire. La corretta individuazione della base giuridica di ciascun atto è operazione estremamente importante e delicata (conflitti tra istituzioni, in particolare tra Consiglio e Parlamento/Commissione). La corretta individuazione della base giuridica dipende dall'analisi di alcuni elementi oggettivamente rilevabili dall'atto, tra i quali soprattutto lo scopoc e il contenuto. Secondo la Corte di giustizia infatti 'la scelta del fondamento giuridico di un atto non può dipendere solo dal convincimento di un'istituzione circa lo scopo perseguito, ma deve basarsi su elementi oggettivi suscettibili di sindacato giurisdizionale'. Nel caso uno stesso atto persegua una pluralità di scopi o presenti contenuti differenziati la base giuridica va dedotta dal c.d. centro di gravità dell'atto, senza tener conto di scopi o componenti secondari. Qualora non sia possibile determinare il centro di gravità dell'atto esso dovrà avere una base giuridica plurima, consistente in tutte le disposizioni del Trattato corrispondenti ai suoi vari scopi o ai vari contenuti. Se tali disposizioni prevedono procedure decisionali diverse, ai fini della scelta della base giuridica, si dovrà: a) preferire la disposizione di portata più generale;b) evitare di scegliere una base giuridica che pregiudichi i poteri di partecipazione del parlamento alla procedura decisionale. Qualora l'istituzione competente decida di definire in un atto soltanto ' gli elementi essenziali dell' emananda disciplina' (atto di base) e affidi ad un atto diverso le 'disposizioni di attuazione' (atto di attuazione), non è necessario applicare ad entrambi questi atti la procedura decisionale prescritta dall'articolo del Trattato per l'atto di base. L'atto di base può infatti legittimamente disporre che l'atto di attuazione sia adottato attraverso una procedura semplificata affidata alla medesima istituzione o mediante delega alla Commissione.


La procedura di base.


L'art. 250, a differenza degli artt. 251-252, si limita a disciplinare i poteri rispettivi della Commissione e del Consiglio quando il secondo è chiamato dal TCE ad adottare un atto su proposta della prima. La combinazione dell'art. 250 e delle altre disposizioni citate dava pertanto vita ad una sorta di procedura che, può essere detta procedura di base. L'art. 250 trova infine applicazione ogni qual volta il TCE prevede che il Consiglio adotti un atto su proposta della Commissione, ma non prescrive l'utilizzo di una diversa procedura. La procedura di base è anche denominata procedura di consultazione, con riferimento al ruolo del Parlamento che, nei casi in cui applicabile l'art. 250, si limita ad esercitare poteri di tipo meramente consultivo. Tuttavia la consultazione del Parlamento non è sempre prevista, per cui non sempre la procedura di base è anche procedura di consultazione.

(Con l'inserimento nel TCE degli artt. 251 e 252, che disciplinano rispettivamente la procedura di codecisione e quella di cooperazione, si è posto il problema di definire i rapporti tra l'art. 250 e i citati articoli. Secondo la tesi accolta i principi contenuti nell'art. 250 non troverebbero applicazione quando il TCE richiama l'art. 251 o l'art. 252. Tuttavia con riferimento al par. 2, dove si parla di ' procedure che portano all'adozione di un atto comunitario ', la frase sembrerebbe alludere a tutte e tre le procedure decisionali, e ciò renderebbe applicabile anche nell'ambito delle procedure di cooperazione e di codecisione il potere della Commissione di modificare e di ritirare la proposta finché il Consiglio non abbia deliberato definitivamente. Non c'è dubbio invece che il par. 1 non sia applicabile al di fuori della procedura di base).

La procedura si apre con la proposta della Commissione, alla quale il TCE riconosce un potere generale ed esclusivo di iniziativa, essendo considerata portatrice dell'interesse generale della Comunità. La proposta della Commissione fa dunque da contrappeso alla deliberazione del Consiglio, che esprime gli interessi particolari dei singoli Stati membri. L'esclusività del potere di iniziativa della Commissione è andato attenuandosi col tempo essendo stato riconosciuto ad altre istituzioni il potere di sollecitare proposte. L'art. 192. 2 TCE riconosce tale potere al Parlamento europeo (la mancata presentazione di una proposta sollecitata dal Parlamento potrebbe indurlo ad approvare una mozione di censura ai sensi dell'art. 201 TCE). Analogo potere di sollecitazione viene riconosciuto anche al Consiglio dall'articolo 208 TCE. Proposte possono essere sollecitate anche da parte di altri organi, ed in particolare dal Consiglio europeo. Si ricordi che le proposte della Commissione prima di giungere al Consiglio passano attraverso il filtro del COREPER.

L'art. 250, par. 1. TCE limita il potere del Consiglio di modifica della proposta della Commissione. Soltanto il consenso dei rappresentanti di tutti gli stati membri consente al Consiglio di discostarsi dalla proposta della Commissione (dal termine ' emendamento ' utilizzato dall'art. 250 si può desumere la volontà di limitare il potere del Consiglio, nel senso che questi non possa allontanarsi in maniera radicale dalla proposta. Ciò infatti significherebbe deliberare senza proposta della Commissione, quindi violazione di forme sostanziali e conseguente annullabilità mediante ricorso ai sensi dell'art. 230). Il fatto che il Consiglio possa emendare la proposta della Commissione soltanto all'unanimità, potrebbe causare una situazione di stallo (l'art. 250 par. 2 per evitare tale rischio prevede che ' fintantochè il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può modificare la propria proposta in ogni fase delle procedure che portano all'adozione di un atto comunitario '). Tra i poteri riconosciuti alla Commissione dall'art. 250 par. 2 rientra anche il potere di ritirare la proposta.

La fase della consultazione viene prevista da singole disposizioni del TCE, che specificano di volta in volta se, per l'adozione di atti di determinate materie, il Consiglio debba assumere il parere di un'altra istituzione o organo, ed in particolare del Parlamento europeo. Esistono tre tipi di parere: parere facoltativo (l'ipotesi si verifica quando la disposizione in base alla quale il Consiglio intende agire non prevede la consultazione del Parlamento europeo ma il Consiglio ne chiede comunque il parere, il quale è facoltativo e non vincolante potendosene quindi il Consiglio liberamente discostarsene) parere consultivo (la consultazione del Parlamento è richiesta dalla disposizione del Trattato rilevante. Il parere è obbligatorio ma non vincolante) parere conforme (procedura limitata a pochi ma importanti casi, introdotta dall' AUE, in cui il parere del Parlamento è obbligatorio e vincolante. In realtà quando è richiesto il parere conforme del Parlamento, il potere deliberativo non appartiene più soltanto al Consiglio, ma è condiviso con il Parlamento, come avviene nella procedura di codecisione prevista dall'art. 251. Tuttavia nella procedura di parere conforme il Parlamento si limita ad approvare o a respingere l'atto).

La giurisprudenza della Corte di giustizia ha contribuito ad accrescere grandemente l'importanza della consultazione del Parlamento, affermando che essa è lo strumento che consente al Parlamento l'effettiva partecipazione al processo legislativo della Comunità. La consultazione del Parlamento, quando richiesta dal Trattato, deve essere quindi una consultazione effettiva e regolare. Il TCE ammette la possibilità di stabilire un termine per l'emanazione del parere del Parlamento soltanto in materia di accordi internazionali. Al di fuori di questa materia nessun termine è previsto. Tuttavia si deve ritenere che, pur in mancanza di un termine previsto dal TCE, il Parlamento sia tenuto, in osservanza al principio di leale collaborazione con le altre istituzioni, a emanare il parere entro un termine ragionevole e a tenere conto delle eventuali richieste avanzate dal Consiglio per ottenere una delibera urgente. L'esigenza di una consultazione effettiva e regolare si avverte anche qualora il Consiglio intenda deliberare un atto diverso da quello sul quale il Parlamento è stato chiamato ad esprimere il proprio parere, se quindi la consultazione sia sufficiente o si renda invece necessaria una seconda consultazione. Il principio è il seguente: il parere del Parlamento deve essere dato sull'atto poi effettivamente adottato dal Consiglio. Se, pertanto, dopo la consultazione del Parlamento, il Consiglio decide di modificare l'atto nella sostanza o la Commissione ritira la proposta e ne presenta un'altra diversa da quella su cui il Parlamento si è espresso, è necessaria una seconda consultazione.


3. La procedura di cooperazione.


La procedura di cooperazione è disciplinata nell'art. 252 TCE. Essa è stata introdotta nel TCE dall'AUE. Il campo di applicazione è stato notevolmente ristretto, tant'è che oggi si applica soltanto nel campo dell'UEM. (La descrizione tuttavia facilita la comprensione della procedura di codecisione).

Si basa su un sistema per cui la proposta della Commissione è sottoposta ad una doppia lettura da parte del Parlamento e del Consiglio. La prima fase si apre con una prima lettura del Parlamento, il quale emette un parere (consultivo) sulla proposta della Commissione, segue la prima lettura del Consiglio il quale deve limitarsi ad approvare, a maggioranza qualificata, una posizione comune. Si passa quindi alla seconda fase dove si susseguono una lettura del Parlamento e una del Consiglio. Il Parlamento ha tre possibilità: 1) approvare la posizione comune od omettere di pronunciarsi nel termine di tre mesi; 2) respingere la posizione comune; 3) proporre degli emendamenti alla posizione comune. In quest'ultimo caso la Commissione viene nuovamente coinvolta: dovrà formulare una proposta riesaminata che viene trasmessa al Consiglio. Nella seconda lettura, il Consiglio ha più possibilità, a seconda di come il Parlamento ha deliberato. Nel primo caso il Consiglio adotta definitivamente l'atto in questione in conformità della posizione comune. Nel secondo caso il Consiglio può comunque adottare l'atto, ma all'unanimità. Nel terzo caso, infine, il Consiglio ha tre possibilità: 1) a maggioranza qualificata, può approvare la proposta riesaminata dalla Commissione; 2) all'unanimità, può approvare gli emendamenti del Parlamento non accolti dalla Commissione; 3) sempre all'unanimità, può modificare la proposta riesaminata.

Riguardo al ruolo riservato alle varie istituzioni in questa procedura, il potere deliberativo resta saldamente nelle mani del Consiglio. Gli emendamenti parlamentari alla posizione comune hanno effetto solo nella misura in cui essi vengono recepiti dalla Commissione nella proposta riesaminata, dovendo il Consiglio deliberare sempre all'unanimità per modificarla. Il ruolo della Commissione risulta alquanto indebolito rispetto alla procedura di base.


4. La procedura di codecisione.


La procedura prevista dall'art. 251 TCE è nota come procedura di codecisione perché in essa i poteri del Parlamento raggiungono la massima intensità, sino a condurre all'adozione di atti che sono non più solo del Consiglio ma atti del Parlamento e del Consiglio (art. 249 e art. 254). Essa viene disciplinata per la prima volta dal TUE, successivamente il Trattato di Amsterdam ne estende la portata, provvedendo a sostituirla alla procedura di cooperazione, salvo che nell'ambito dell' UEM. Lo stesso trattato modifica, semplificandola, la procedura originaria. Lo scopo degli interventi è di consentire la conclusione anticipata della procedura.

Anche la procedura di codecisione si fonda su un sistema di doppia lettura. La prima fase si apre con la proposta della Commissione, la quale viene indirizzata simultaneamente al Consiglio e al Parlamento. La prima lettura di questa istituzione conduce alla formulazione di un parere (consultivo). Il Consiglio, se approva la proposta della Commissione con tutti gli eventuali emendamenti contenuti nel parere parlamentare, adotta definitivamente l'atto. In caso contrario, il Consiglio adotta, a maggioranza qualificata, una posizione comune.Inizia quindi la seconda fase. Al termine della sua seconda lettura, il Parlamento ha a sua disposizione le stesse possibilità viste nella procedura di cooperazione: 1) approvare la posizione comune o omettere di deliberare entro il termine di tre mesi; 2) respingere la posizione comune; 3) proporre emendamenti. Nel primo caso la procedura ha termine e l'atto si considera adottato 'in conformità della posizione comune'. Anche nel secondo caso la procedura termina perché l'atto si considera non adottato. La seconda lettura del Consiglio segue soltanto nel terzo caso, nel quale la Commissione emette un parere. Il Consiglio, a maggioranza qualificata, può: a) approvare gli emendamenti del Parlamento; b) non approvare tutti gli emendamenti. Nel primo caso l'atto è definitivamente approvato, nel secondo invece si apre la terza fase e viene convocato un comitato di conciliazione, composto dai membri del Consiglio o loro delegati ed altrettanti membri del Parlamento europeo, con il compito di elaborare un progetto comune sulla base della posizione comune e degli emendamenti parlamentari, con la collaborazione della Commissione. Se il comitato non riesce ad approvare un progetto comune entro il termine di sei settimane, l'atto si considera non adottato. Se invece il comitato approva un progetto comune, l'atto dovrà poi essere definitivamente approvato (terza lettura) dal Parlamento ed al Consiglio. In mancanza dell'approvazione di uno dei due l'atto si considera non adottato.

Riguardo al ruolo assegnato le varie istituzioni si osserva che rispetto la procedura di cooperazione il Parlamento gode di poteri notevolmente maggiori. Può infatti bloccare un atto che non corrisponde ai suoi orientamenti (ha due possibilità). Inoltre ha maggiori possibilità di incidere sul contenuto dell'atto nel corso dei negoziati con il Consiglio e la Commissione nell'ambito del comitato di conciliazione, potendo minacciare il rigetto del progetto comune. Il ruolo della Commissione, invece, risulta ancora meno incisivo. D'accordo, il Parlamento e il Consiglio possono approvare un atto che costituisce un emendamento della proposta della Commissione senza ricorrere al voto unanime del Consiglio (derogando al principio del art. 250). Qualora l'accordo non si sia già formato, la Commissione ritorna in gioco, ma soltanto per esprimere un parere, il cui contenuto però condiziona la maggioranza deliberativa in seno al Consiglio. Nella terza fase infine la Commissione svolge un ruolo di semplice mediazione. Occorre segnalare che in origine, la procedura di codecisione era stata legata alla possibilità per il Consiglio di deliberare, almeno in alcuni casi, a maggioranza qualificata. Tuttavia con il Trattato di Amsterdam e soprattutto con quello di Nizza sono state introdotte ipotesi di applicazione della procedura di codecisione, per le quali è prescritto che il Consiglio deliberi all'unanimità in tutte le fasi della procedura.


5. Le procedure del secondo e del terzo pilastro.


Il primo pilastro dell'Unione si distingue nettamente dai pilastri relativi alla PESC e alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale proprio per l'utilizzo del metodo comunitario:

a) ruolo degli organi di individui assai rilevante;

b) principio maggioritario accolto largamente;

c) carattere vincolante di molti atti adottati dalle istituzioni;

d) controllo di legittimità sugli atti produttivi di effetti giuridici vincolanti da parte della Corte di giustizia.

In origine queste caratteristiche erano completamente assenti nei pilastri non comunitari. Con il Trattato di Amsterdam e di Nizza, tuttavia, è avvenuta una certa 'contaminazione' del secondo e del terzo pilastro da parte del primo. Importanti differenze permangono tuttora:

a) delibere del Consiglio prese in prevalenza all'unanimità (le deliberazioni a maggioranza qualificata sono previste per l'adozione di atti di secondo grado). Sono inoltre presenti clausole di salvaguardia, che consentono agli Stati membri contrari di evitare una delibera a maggioranza qualificata;

b) presenza del Consiglio europeo (nella PESC);

c) potere di iniziativa della Commissione non esclusivo e limitata consultazione del Parlamento, diverse tipologie di atti adottabili, competenza della Corte di giustizia quasi inesistente nei due pilastri.


Riguardo alla PESC, il Consiglio europeo non si limita a dettare i principi e gli orientamenti generali di essa, ma adotta anche dei veri e propri atti giuridici: le strategie comuni (art. 13, par.2). Le deliberazioni del Consiglio in ambito PESC sono disciplinate dall'art. 23 TUE. Come regola generale si segue il principio dell' unanimità. Posto che le astensioni non escludono l'unanimità si è cercato di indurre i membri contrari alla proposta ad astenersi, piuttosto che esprimere voto contrario. L'art. 23 introduce l'istituto dell'astensione costruttiva, che consiste in una deroga al principio secondo cui le delibere del Consiglio obbligano tutti gli Stati membri, anche quelli che si sono astenuti. Quindi la delibera del Consiglio è validamente assunta, ma l'atto adottato non vincola lo Stato membro astenuto, che rimane escluso dall'ambito di applicazione personale della delibera (altro esempio di Europa a più velocità). Il meccanismo diviene tuttavia inapplicabile allorquando il numero degli Stati membri che vi hanno fatto ricorso è rilevante (1/3 dei voti secondo la ponderazione di cui all'art. 205).

L'art. 23 par. 2, prevede la possibilità che talune deliberazioni vengano assunte dal Consiglio a maggioranza qualificata, per l'ipotesi in cui manchi la proposta della Commissione (infatti mai necessaria nel settore PESC). Ciò può avvenire in tre casi:

a) quando adotta azioni comuni, posizioni comuni o quando adotta decisioni sulla base di una strategia comune;

b) quando adotta decisioni relative all'attuazione di un'azione comune o di una posizione comune;

c) quando nomina un rappresentante speciale ai sensi dell'art. 18 par. 5.

Le prime due ipotesi riguardano casi in cui si tratta di adottare atti che costituiscono attuazione di un atto adottato all'unanimità (strategia comune adottata all'unanimità dal Consiglio europeo nella prima ipotesi e azione comune o posizione comune adottata autonomamente dal Consiglio all'unanimità nella seconda ipotesi). Analogamente il trattato di Nizza ammette che il Consiglio possa deliberare a maggioranza qualificata anche riguardo agli accordi internazionali, 'quando l'accordo sia previsto per attuare un'azione comune o una posizione comune'.

Peraltro la pur limitata possibilità di assumere le deliberazioni a maggioranza qualificata può essere paralizzata grazie alla clausola di salvaguardia prevista dal secondo comma dell'art 23 par. 2 . Con la dichiarazione di opposizione da parte di un membro del Consiglio, giustificata da importanti motivi di politica nazionale, si impedisce al Consiglio di adottare l'atto a maggioranza qualificata e gli consente soltanto, con la stessa maggioranza, di deferire la questione al Consiglio europeo, il quale delibererà all'unanimità (non è tuttavia da escludere che esso possa spingersi fino all'approvazione formale dell'atto). Per quanto riguarda il ruolo della Commissione l'articolo 27 TCE dispone che essa sia pienamente associata ai lavori nel settore della PESC.Tuttavia il potere di proposta viene condiviso con gli Stati membri, ai sensi dell'articolo 22. Anche il ruolo del Parlamento europeo è molto ridotto: la consultazione è limitata alle sole scelte fondamentali della PESC, pertanto non è sistematica.


Riguardo al pilastro relativo alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, va ricordato che esso originariamente contemplava anche disposizioni relative alla cooperazione nei settori della giustizia civile e degli affari interni, materie ora incluse nel primo pilastro, quindi di competenza della CE. Anche in questo pilastro troviamo alcune delle caratteristiche già evidenziate con riguardo alla PESC, ma a differenza di questa, nel terzo pilastro non viene riconosciuto un ruolo specifico al Consiglio europeo. Analoga è invece la disciplina riguardante le deliberazioni del Consiglio. L'unanimità è la regola di base ed è richiesta per l'adozione di quattro tipi di atti: posizioni comuni, decisioni quadro, decisioni e convenzioni tra gli Stati membri. A maggioranza qualificata sono invece approvate soltanto le misure necessarie all'attuazione delle decisioni.

Come nella PESC il potere di proposta della Commissione è condiviso con gli Stati membri. Il ruolo del Parlamento europeo risulta invece accresciuto rispetto a quanto previsto nella PESC, anche se inferiore al pilastro comunitario. A differenza del pilastro comunitario, il Parlamento europeo esprime il suo parere entro un termine che il Consiglio può fissare; tale termine non può essere inferiore a tre mesi. In mancanza di parere entro detto termine, il Consiglio può deliberare.


6. La cooperazione rafforzata.


Istituto sviluppatosi in occasione del Trattato di Amsterdam. Rappresenta la piena accettazione della concezione dell'Europa a più velocità. Scopo della cooperazione rafforzata è di consentire ad un gruppo di Stati membri di utilizzare le istituzioni, le procedure ed i meccanismi decisionali previsti dal TCE o dal TUE per instaurare tra loro forme di cooperazione non condivise da tutti gli Stati membri. La disciplina dell'istituto è piuttosto articolata. Accanto alle disposizioni generali (articoli 43 a 45 TUE) esistono disposizioni specifiche relative al terzo pilastro e al pilastro comunitario. Il trattato di Amsterdam non prevedeva la cooperazione rafforzata per il secondo pilastro, ma questa lacuna è stata colmata dal Trattato di Nizza. Molti sono i requisiti per istituire una cooperazione rafforzata (vedi libro). La disciplina dell'autorizzazione all'instaurazione di una cooperazione rafforzata diverge da pilastro a pilastro e riflette la ripartizione di ruoli tra istituzioni propria di ciascuno di essi. La composizione delle istituzioni, le modalità deliberative e le procedure decisionali applicabili sono quelle ordinarie. L'unica particolarità riguarda Consiglio, nel quale i membri rappresentanti di Stati membri non partecipanti, non potranno votare. La Costituzione conferma l'istituto della cooperazione rafforzata, e ne introduce uno analogo nell'ambito della politica europea di sicurezza e difesa (PESD), detto cooperazione strutturata.


7. La procedura per la conclusione degli accordi internazionali.


La procedura per negoziare e concludere accordi internazionali della Comunità con Stati terzi o con altre organizzazioni internazionali è disciplinata dall'art. 300 TCE. Il negoziato si apre in seguito ad autorizzazione del Consiglio decisa a maggioranza qualificata, su raccomandazione della Commissione. Esso viene svolto dalla Commissione stessa, la quale deve attenersi alle direttive che il Consiglio può impartire. La firma, l'eventuale applicazione provvisoria, la conclusione e la sospensione dell'accordo sono decise dal Consiglio con le stesse modalità di voto. Non è precisato il tipo di atto necessario per la conclusione. Con l'eccezione degli accordi di politica commerciale comune, il Parlamento è sempre consultato dal Consiglio. Il parere è meramente consultivo, ma assume carattere di parere conforme nei seguenti casi: a) accordi di associazione b) accordi che organizzano procedura di cooperazione c) accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli sulla Comunità d) accordi che implicano una modifica di un atto adottato secondo la procedura di cui all'articolo 251.

Il Parlamento, il Consiglio, la Commissione o uno Stato membro possono domandare il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità di un accordo previsto con le disposizioni del presente trattato.





L'ORDINAMENTO COMUNITARIO


1. Considerazioni generali.


La Comunità Europea è un ente portatore di un proprio ordinamento giuridico. L'ordinamento comunitario infatti si distingue sia dall'ordinamento internazionale sia da quello interno degli Stati membri. Anche l'ordinamento comunitario si fonda su un sistema di fonti di produzione del diritto, all'interno del quale la distinzione fondamentale è quella tra fonti di diritto primario e fonti di diritto secondario o derivato. Fonti di diritto primario sono il TCE le altre fonti cui il TCE riconosce pari natura. Fonti di diritto secondario o derivato sono gli atti che le istituzioni della Comunità hanno il potere di adottare in virtù del TCE. Tra i due livelli si collocano le fonti intermedie, la cui giuridicità deriva dal TCE, ma esse prevalgono sul diritto secondario (categoria assai eterogenea: principi generali del diritto, norme di diritto internazionale generale, accordi internazionali).

Tra le fonti di diritto derivato urano categorie di atti molto diversi, in particolare l'articolo 249 TCE contempla tre categorie di atti vincolanti (regolamenti, direttive e decisioni) ma non prevede alcuna gerarchia tra di loro. Tuttavia molto spesso il TCE specifica, materia per materia, il tipo di atto che può essere adottato, evitando così conflitti tra atti appartenenti a categorie diverse.

Una distinzione importante è quella tra atti di base e atti di esecuzione (o di attuazione), distinzione che rileva non solo dal punto di vista della procedura decisionale applicabile, ma ha anche un valore gerarchico (l'atto di attuazione deve rispettare l'atto di base).

Gli atti di diritto derivato si distinguono anche in funzione dell'istituzione o delle istituzioni dalle quali sono adottati. L'articolo 249 prevede infatti che gli atti delle categorie ivi previste possono essere emanati dal Parlamento, congiuntamente con il Consiglio, dal Consiglio o dalla Commissione (oltre che dalla BCE).

Al di fuori dell'ipotesi di atti che diano attuazione ad atti di base, manca una regola, ancorché implicita, che stabilisca la prevalenza degli atti adottati da un'istituzione rispetto a quelli adottati da un'altra. L'eventuale conflitto tra due atti indipendenti l'uno dall'altro ma adottati da istituzioni diverse andrà pertanto risolto in termini di corretta individuazione della base giuridica di ciascun atto.

(La Costituzione modificherà notevolmente la tipologia delle fonti di diritto derivato, prevedendo non soltanto atti con denominazione e caratteristiche nuove, ma anche introducendo una netta differenziazione tra atti legislativi e atti di altra natura).


2. Le fonti di diritto primario: in particolare il Trattato CE.


Le fonti di diritto primario comunitario sono in massima parte contenute nel TCE, come emendato dai Trattati di revisione e modificato dai Trattati di adesione che si sono succeduti nel tempo. Natura di fonti primarie hanno anche i Protocolli allegati al TCE.(articolo 311 TCE). È da ritenersi che pari natura abbiano anche i Protocolli allegati non soltanto al TCE ma contemporaneamente anche ai trattati CECA e CEEA, nonché quelli allegati al TCE e al TUE insieme. Per prassi, l'atto finale delle CIG, convocate per approvare i Trattati di revisione del TCE e del TUE, reca in allegato alcune Dichiarazioni, aventi ad oggetto una o più disposizioni del Trattato. Ne esistono almeno di tre tipi: a) dichiarazioni della Conferenza, cioè di tutti gli Stati membri; b) dichiarazioni di uno o più Stati membri; c) dichiarazioni di una o più istituzioni. Alle prime può riconoscersi un ruolo importante per quanto riguarda l'interpretazione delle disposizioni alle quali si riferiscono. Esse tuttavia non costituiscono per l'interprete un vero e proprio vincolo. Minore rilevanza hanno le altre due tipologie,tuttavia, non si esclude che anche queste possano essere prese in considerazione dall'interprete(in particolare dalla Corte di giustizia).

Questione centrale nello studio dell'integrazione europea è l'individuazione della natura giuridica del TCE. Il Trattato va considerato:

1) come trattato istitutivo di un'organizzazione internazionale;

oppure

2) come carta costituzionale di un'entità di tipo statuale.

A sostegno della prima soluzione si può addurre che il TCE (come pure i successivi Trattati di revisione, compreso il TUE) è stato concluso nelle forme e secondo i procedimenti propri di un normale trattato internazionale. Gli articoli inoltre sono stati redatti in un linguaggio che risulta essere tipico dei trattati internazionali, prevalendo infatti norme che hanno come destinatari gli Stati membri. In questa prospettiva la Comunità costituirebbe nient'altro che un'organizzazione internazionale tra Stati sovrani, benché di nuovo tipo, considerate le non comuni caratteristiche di autonomia. Gli Stati membri manterrebbero la propria sovranità, il cui esercizio sarebbe soltanto delegato agli organi comunitari. Infatti, ai sensi dell'articolo 48 TUE, il potere di revisione è riservato alla comune volontà degli Stati membri.

Tuttavia non si può negare che il TCE assolve ad una funzione di natura costituzionale, definendo la struttura istituzionale della Comunità, le procedure per l'adozione degli atti di diritto derivato e le caratteristiche di tali atti, nonché i principi e le regole di base applicabili ai vari settori sottoposti alla competenza comunitaria (tuttavia ciò non è sufficiente a trasformare la natura del Trattato in quella di una carta costituzionale di tipo statuale).

Ciò che invece fa del TCE qualcosa di diverso da un mero trattato internazionale sono le caratteristiche dell'ordinamento che dal Trattato trae origine. Le norme di cui l'ordinamento comunitario si compone non si limitano infatti a disciplinare rapporti giuridici tra soggetti di diritto internazionale, ma regolano anche rapporti tra soggetti degli ordinamenti interni degli Stati membri (in altre parole l'ordinamento delineato dal Trattato riconosce come soggetti anche i soggetti degli ordinamenti nazionali).

(Nella nota sentenza 5 febbraio 1963,Van Gend & Loos, la Corte afferma: ' la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale a favore del quale gli Stati hanno rinunciato sia pure in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini').

L'affermazione della soggettività giuridica comunitaria dei soggetti degli ordinamenti interni rende dunque impossibile conurare il TCE come un semplice trattato internazionale.

La Corte di giustizia considera e tratta il TCE come una costituzione ('il trattato CEE, benché sia stato concluso in forma d'accordo internazionale, costituisce la carta costituzionale di una comunità di diritto'). Tale concezione si riflette nei criteri interpretativi seguiti dalla Corte, che si discostano da quelli utilizzati per i trattati internazionali (la Corte tende a dare un rilievo non decisivo al dato testuale delle norme da interpretare e ricorre invece con grande libertà a criteri di tipo contestuale e teleologico: per esempio le norme del Trattato sulle quattro libertà di circolazione sono sempre interpretate estensivamente; mentre le norme che consentono agli Stati membri di adottare provvedimenti derogatori rispetto alle regole generali sono oggetto di interpretazione restrittiva). Un altro criterio interpretativo applicato alle norme del Trattato è quello detto dell'effetto utile. Tra le varie interpretazioni possibili, la Corte preferisce quella che consente di riconoscere alla norma la maggiore effettività possibile, in maniera che gli scopi a cui la norma è rivolta  possano essere raggiunti più compiutamente (esempio di ciò è offerto dalla giurisprudenza che riconosce l'efficacia diretta delle direttive).

Il TCE può essere modificato ricorrendo alla procedura di revisione disciplinata dall'articolo 48 TUE (procedura comune al TCE, al TUE e al trattato CEEA). La procedura si suddivide in due fasi:

1) fase preparatoria: si svolge all'interno dell'apparato istituzionale dell'Unione. Essa ruota intorno al Consiglio, chiamato ad esprimere parere favorevole circa la convocazione di una conferenza tra i rappresentanti degli Stati membri, per deliberare su eventuali modifiche (CIG). Il parere viene reso sulla scorta di un progetto presentato dal Governo di qualsiasi Stato membro o dalla Commissione, sul quale vengono consultati il Parlamento europeo, se del caso la Commissione (iniziativa proveniente da Stato membro) nonché la Banca centrale europea (modifiche istituzionali nel settore monetario). Una volta che il Consiglio abbia espresso parere favorevole, la CIG viene convocata dal Presidente del Consiglio.

2) fase deliberativa: la CIG si svolge secondo le regole classiche delle conferenze internazionali. Non è previsto alcun ruolo per le istituzioni. Le modifiche ai Trattati devono essere stabilite all'unanimità. Esse entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali. L'esito della procedura di revisione è pertanto rappresentato da un nuovo trattato, che entra in vigore soltanto dopo la ratifica da parte di tutti gli Stati membri.

(La prassi ha comportato un certo allontanamento dalla disciplina contenuta nell'articolo 48. Anzitutto le istituzioni giocano un ruolo importante ed attivo durante tutto il corso della procedura. Il Parlamento viene tenuto informato ed esprime un parere sul testo finale adottato dalla CIG, mentre determinanti sono poi gli interventi del Consiglio europeo, il quale approva il testo finale prima di sottoporlo alla firma dei rappresentanti degli Stati membri. Importante novità è costituita dalla decisione presa dal Consiglio europeo di Laeken di convocare una Convenzione sul futuro dell'Europa. Essa segna un importante passo da una procedura di revisione svolta secondo un metodo puramente intergovernativo, ad un metodo più trasparente e democratico. Il metodo convenzionale inaugurato dal Consiglio europeo di Laeken peraltro è fatto proprio dalla Costituzione).

Per quanto riguarda i limiti intrinseci al potere di revisione, l'articolo 48 non prevede nulla a riguardo. Tuttavia secondo la Corte l'introduzione di norme che pregiudichino il sistema giurisdizionale previsto dal Trattato, alterando la funzione giurisdizionale della Corte o restringendo la portata della competenza della stessa , non sarebbe consentita, nemmeno ricorrendo alla procedura di revisione di cui all'articolo 48 TUE. Si ritiene che siano parimenti immodificabili le norme che costituiscono il 'nocciolo duro' dell'ordinamento comunitario quali quelle sulla libertà di circolazione e sulla concorrenza e quelle che sono espressione di principi generali del diritto comunitario. Escludendo i limiti appena citati, la procedura di revisione ha portata generale, potendo quindi essere utilizzata per modificare qualsiasi disposizione dei Trattati. Accanto ad essa, i Trattati prevedono delle procedure semplificate di revisione, applicabili soltanto per la modifica di specifici articoli. L'elaborazione e l'approvazione del testo delle modifiche è riservata al Consiglio o, talvolta, al Consiglio europeo. Il testo così definito entra in vigore soltanto in seguito alla ratifica da parte di tutti i Parlamenti nazionali. (Esempio di procedura di revisione semplificata è offerto dall'articolo 22 TCE, che autorizza il Consiglio con deliberazione unanime, su proposta dalla Commissione e previa consultazione del Parlamento, ad adottare disposizioni intese a completare i diritti spettanti ai cittadini dell'Unione, raccomandandone l'adozione da parte degli Stati membri, conformemente alle loro rispettive norme costituzionali. Accanto alla procedura di revisione ordinaria la Costituzione prevede anche due procedure di revisione semplificate).

Altro modo per modificare i Trattati è previsto dall'articolo 49 TUE, che disciplina la procedura di adesione all'Unione da parte di nuovi Stati. Ai sensi di tale articolo può presentare domanda di adesione all'Unione: a) ogni stato europeo (condizione geografica) b) che rispetti i principi sanciti dall'articolo 6 par. 1 (condizione politica). Anche la procedura di adesione si articola in due fasi:

1) prima fase: si svolge all'interno dell'apparato istituzionale. La domanda di adesione è approvata all'unanimità dal Consiglio, previa consultazione della Commissione e su parere conforme del Parlamento europeo.

2) seconda fase: affidata gli Stati membri. Essa ha il solo scopo di stabilire le condizioni per l'ammissione e gli adattamenti da apportare ai Trattati. In proposito viene concluso tra gli Stati membri e lo stato candidato un trattato di adesione, che deve essere ratificato da tutti gli stati contraenti. Attraverso questa procedura possono quindi essere apportati soltanto degli adattamenti, delle modifiche minoris generis, che normalmente consistono in un ampliamento della composizione delle istituzioni e degli organi per assicurare la rappresentanza del nuovo Stato membro.

(Anche nel caso della procedura di adesione la prassi ha dato vita ad una procedura alquanto diversa da quanto previsto dall'articolo 49. In particolare, le due fasi si svolgono contemporaneamente. Negli ultimi due allargamenti si è affermata una fase preliminare, detta dei negoziati di pre-adesione, nel corso della quale lo Stato candidato deve dimostrare di rispondere ad alcuni criteri. Soltanto quando la Commissione attesta la capacità dello Stato candidato di rispettarli al momento dall'adesione, il Consiglio europeo autorizza l'apertura dei veri e propri negoziati di adesione. I criteri da verificare sono stati fissati dal Consiglio europeo di Copenhagen del giugno 1993. Si tratta di criteri politici, economici e criteri relativi all'acquis comunitario. La procedura di adesione all'Unione disciplinata dalla Costituzione rispecchia molto quella prevista dall'articolo 49. Interessante innovazione consisterà nella possibilità di recesso dall'Unione (unilaterale)).

Per quanto riguarda la modifica dei Trattati al di fuori della procedura di revisione o delle altre procedure previste a questo scopo, se si tiene conto della funzione costituzionale svolta dal Trattato, ne consegue che la procedura prevista dall'articolo 48 TUE non può non essere considerata obbligatoria e che eventuali modifiche che si tenti di introdurre senza rispettarla sono prive di qualsiasi valore giuridico (ad esempio il Compromesso di Lussemburgo sebbene incida sulle norme del TCE va considerato come un accordo di natura esclusivamente politica). La Corte di giustizia non ha mai avuto occasione di pronunciarsi espressamente riguardo ciò, tuttavia è da presumersi che, la risposta della Corte sarebbe negativa. In proposito va ricordata la ripetuta e netta presa di posizione della Corte contro il riconoscimento della possibilità che il Trattato venga modificato da una prassi difforme degli Stati membri o delle istituzioni.


3. I principi generali del diritto.


Tra le fonti intermedie si segnalano anzitutto i principi generali del diritto, comprensivi dei principi relativi alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo. Questi svolgono un ruolo più importante negli ordinamenti di più recente formazione o in quelli nei quali il sistema di produzione di norme è poco efficiente. La tipologia dei principi generali è ampia.


Una prima categoria è costituita dai principi generali del diritto comunitario. Tali principi trovano espressione in determinate norme del TCE, alle quali vengono assegnati grande importanza e carattere assolutamente imperativo e inderogabile.

Un esempio è dato dal principio di non discriminazione, il quale trova specifica applicazione in diverse disposizioni del TCE: l'articolo 12 (vieta le discriminazioni legate alla nazionalità), articolo 13(discriminazioni fondate su sesso,razza,origine etnica,religione etc), articolo 34 e articolo 141. Secondo la Corte di giustizia le disposizioni citate sono specifiche applicazioni del principio generale di non discriminazione e vanno pertanto interpretate in maniera ampia. Riguardo alla definizione della portata della nozione di discriminazione, alle discriminazioni palesi o dirette sono state infatti assimilate le discriminazioni occulte o indirette. Anche il campo d'applicazione del principio di non discriminazione è stato interpretato in senso estensivo. L'aver stabilito che quello di non discriminazione è un principio generale ne consente anche l'applicazione ad ipotesi che non sono espressamente contemplate da alcuna delle norme richiamate (autonomia del principio di non discriminazione). La Corte invece non ritiene che rientrino nel campo d'applicazione del principio generale di non discriminazione, le discriminazioni alla rovescia (situazioni che si creano quando norme di uno Stato membro prevedono per i propri cittadini un trattamento deteriore rispetto quello riservato ai cittadini di altri Stati membri).

Tra gli altri principi generali del diritto comunitario vanno annoverati: il principio di libera circolazione, e il principio della tutela giurisdizionale.

(Sono talvolta considerati tali anche i principi previsti dall'articolo 5 TCE: il principio della competenza di attribuzione, il principio di sussidiarietà, il principio di proporzionalità. In questi casi l'attributo 'generale' serve a sottolinearne l'importanza e l'inderogabilità, ma non significa che tali principi possono trovare applicazione in contesti diversi. Semmai, è possibile considerare alcuni dei principi enunciati dall'articolo 5 come specifiche applicazioni di principi più generali).


Una seconda categoria è costituita dai principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri. Si tratta di principi che vengono desunti non dal diritto comunitario, ma dall'esame parallelo dei vari ordinamenti nazionali. Essi assumono rilevanza nell'intero campo d'applicazione del Trattato e vengono utilizzati soprattutto quando si tratta di verificare la legittimità del comportamento delle istituzioni o degli Stati membri in relazione alla posizione dei singoli. Si segnalano soprattutto alcuni principi inerenti all'idea stessa di Stato di diritto: il principio di legalità, il principio della certezza del diritto, il principio del legittimo affidamento, il principio del contraddittorio, il principio di proporzionalità (questo riveste particolare importanza: implica che gli interventi della pubblica autorità limitativi della libertà o dei diritti dei singoli, per essere legittimi, a) devono essere idonei a raggiunger l'obiettivo di interesse pubblico perseguito e b) devono essere necessari a questo fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui).


4. Segue: i principi attinenti alla protezione dei diritti fondamentali.


Tra i principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri è compresa un'ulteriore tipologia di principi , che data la loro importanza, vengono normalmente trattati come una categoria parte. Si tratta dei principi attinenti alla protezione dei diritti fondamentali dell'uomo. In origine, il Trattato, non si preoccupava di sancire a favore dei cittadini determinati diritti fondamentali e quindi inviolabili, né prevedeva un apposito sistema di protezione.

Una reazione a tale situazione venne dalle corti costituzionali italiana e tedesco-federale (in due pronunce del 1973 e del 1974). Entrambe partono dal presupposto che le norme costituzionali che hanno permesso all'Italia e alla Germania federale di aderire alla Comunità (articolo 11 Cost. per l'Italia), non consentono di derogare a quelle altre norme costituzionali che definiscono e proteggono i diritti fondamentali della persona umana. Tali norme dunque devono essere rispettate anche dagli atti adottati dalle istituzioni comunitarie. (In caso di contrasto le due corti assicurano la prevalenza delle norme costituzionali, impedendo che l'atto comunitario trovi applicazione nell'ordinamento interno).

(Nella sentenza del 1973 la Corte italiana alludeva alla possibilità di dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge recante l'autorizzazione alla ratifica dell'ordine d'esecuzione del Trattato, nella misura in cui tale legge permette l'ingresso nell'ordinamento italiano di un atto comunitario lesivo dei principi fondamentali dell'ordinamento o dei diritti fondamentali della persona umana. La Corte esclude, invece, di poter operare il proprio controllo direttamente sugli atti comunitari in questione, in quanto essi non rientrano nel novero degli atti contemplati dall'articolo 134 Cost. Al contrario la Corte Tedesca allude ad un controllo diretto sull'atto comunitario in causa, sottolineandone tuttavia il carattere provvisorio).

La soluzione prospettata dalle due Corti costituzionali comporta un grave attentato al carattere unitario del diritto comunitario e più in generale essa evidenzia una grave lacuna dell'ordinamento comunitario, che giustifica una sua non piena accettazione da parte dei giudici degli Stati membri.

Sul fronte comunitario, si cerca di porre rimedio a questa situazione in due modi. Da un lato le manifestazioni solenni di adesione ai diritti fondamentali da parte delle istituzioni politiche della Comunità (si segnala la Dichiarazione comune adottata a Lussemburgo nel 1977, che però è priva di valore giuridico). D'altro lato, la Corte di giustizia recupera in via giurisprudenziale una forma comunitaria di tutela dei diritti fondamentali. La soluzione elaborata dalla Corte si basa su due postulati: a) rifiuto di ammettere che la validità di un atto di un'istituzione possa essere vagliata alla luce di norme nazionali, benché di rango costituzionale ('la validità degli atti delle istituzioni può essere stabilita unicamente alla luce del diritto comunitario'); b) la Corte riconduce la tutela dei diritti fondamentali ai principi generali del diritto che le istituzioni comunitarie devono rispettare e la cui osservanza è sottoposta al controllo della Corte.

Secondo l'impostazione della Corte: 1) i diritti fondamentali vanno tutelati nell'ordinamento comunitario in quanto rientranti nei principi generali del diritto; 2) al fine di definire il contenuto di tali diritti e la portata della tutela che deve essere accordata ad essi, la Corte utilizza, quale fonti di ispirazione i) le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e ii) i trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell'uomo.

In quanto mere fonti di ispirazione, le tradizioni costituzionali comuni e i trattati internazionali non hanno valore normativo immediato nell'ordinamento comunitario, non vincolanti quindi direttamente la Corte. Ciò vale anche per quanto riguarda la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950. Benché la Corte l'abbia eletta a riferimento privilegiato e quasi inevitabile per il proprio controllo sul rispetto dei diritti fondamentali, la Convenzione non è in quanto tale vincolante per la Comunità, non essendo la Comunità stessa parte contraente.

(Numerose sono state le proposte miranti a permettere l'adesione alla Convenzione europea di salvaguardia da parte della Comunità, tutte però ci sono arenate La Costituzione supererà la posizione assunta dalla Corte, con una norma che conferirà espressamente all'Unione la competenza a negoziare la propria adesione alla citata Convenzione).

La soluzione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria è stata poi recepita e consacrata dall'articolo 6 TUE. La formalizzazione in una norma di diritto primario del richiamo alla Convenzione europea di salvaguardia non ne comporta il recepimento formale nell'ordinamento comunitario. D'altra parte, la circostanza che soltanto la Convenzione citata sia menzionata nell'articolo 6 par. 2, non può non accrescere l'importanza di tale strumento.

Il fatto di considerare i diritti fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto comunitario comporta che alla Corte è riservato un ruolo determinante. Ad essa spetta il compito non soltanto di individuare quali diritti siano da considerare fondamentali, ma anche di delineare il contenuto e la portata dei diritti così individuati. La circostanza che la Corte non sia tenuta ad applicare un testo scritto, attribuisce un elevato grado di flessibilità ai suoi interventi in materia di diritti umani. Da un lato questo le consente di adattare alla realtà di un ente sopranazionale come la Comunità, norme redatte per essere applicate all'azione di Stati, ma dall'altro accrescere l'imprevedibilità dei risultati cui la Corte perviene di volta in volta. Proprio per ovviare a questo difetto, il Consiglio europeo di Colonia (giugno 1999) decide di promuovere l'elaborazione di una Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che sancisca 'l'importanza capitale e la portata' di tali diritti. La Carta è attualmente priva di valore normativo autonomo, ma la solennità del processo di elaborazione e l'ampiezza di consensi che il suo testo ha riscosso ne fanno comunque uno strumento interpretativo privilegiato per ricostruire la portata dei diritti fondamentali protetti nell'ambito dell'ordinamento comunitario. La giurisprudenza si è mantenuta fedele a questa impostazione. Invero il Tribunale di primo grado ha più volte evocato alcuni articoli della Carta, mentre l'atteggiamento della Corte di giustizia si era caratterizzato in passato per una particolare cautela. Ogni formale richiamo alla Carta veniva infatti evitato. (Secondo gli ultimi precedenti la Carta assumerebbe carattere vincolante non di per sé ma in virtù dell'intenzione espressa dal Consiglio, nel preambolo, di volerla rispettare).

Occorre segnalare come l'impostazione data dalla giurisprudenza della Corte di giustizia al problema della tutela dei diritti fondamentali nell'ordinamento comunitario non sembra avere del tutto soddisfatto le corti costituzionali italiane e tedesco federale e non le ha indotte a rinunciare alla pretesa di assicurare un autonomo controllo sul rispetto di tali diritti da parte delle istituzioni.

La mancata adesione formale della Comunità alla Convenzione europea di salvaguardia solleva inoltre il problema della responsabilità degli Stati membri di fronte a gli organi della Convenzione in conseguenza di attività delle istituzioni comunitarie ovvero di attività poste in essere dagli Stati membri in esecuzione di norme comunitarie. Il problema è stato affrontato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in numerose pronunce. La Corte ha anzitutto ribadito che gli Stati membri i quali abbiano trasferito a un'organizzazione sopranazionale come la CE taluni poteri sovrani non sono sottratti, per quanto riguarda l'esercizio dei poteri sovrani oggetto del trasferimento, all'obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla Convenzione. La Corte tuttavia non intende esercitare il proprio controllo riguardo ad ogni e qualsiasi attività intrapresa da uno Stato in attuazione degli obblighi derivanti dalla sua appartenenza a una tale organizzazione. In proposito la Corte distingue tra a) casi in cui gli Stati membri si limitano ad attuare atti della CE (in questi casi manca ogni discrezionalità in capo agli Stati membri e la Corte considera in linea di principio il suo intervento non necessario. Infatti secondo la Corte, la CE tutela i diritti fondamentali in maniera almeno equivalente a quella della Convenzione. Presunzione tuttavia passibile di prova contraria);b) casi in cui gli Stati membri godono di un certo margine di discrezionalità nel dare attuazione agli obblighi CE (intervento necessario, lo stato risulta essere pienamente responsabile nei confronti della Convenzione).


5. Segue: la funzione dei principi generali del diritto.


Essi assolvono ad una funzione strumentale, in quanto influiscono sull'applicazione di norme materiali derivanti da altre fonti.

I principi generali del diritto vengono in rilievo in primo luogo come criteri interpretativi delle altre fonti del diritto comunitario: tanto le norme del trattato, quanto le norme contenute negli atti delle istituzioni devono essere interpretate alla luce dei principi generali. L'interprete deve ispirarsi ad essi per individuare il corretto significato di ciascuna norma comunitaria. In presenza di più interpretazioni possibili, dovrà scegliere la soluzione più coerente con i principi generali.

In secondo luogo fungono da parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni. Questi possono essere annullati o dichiarati invalidi per violazione dell'uno o dell'altro dei principi innanzi indicati.

In terzo luogo essi operano indirettamente da parametro di legittimità per alcuni comportamenti degli Stati membri. Qualora gli interventi degli Stati membri non siano conformi ai principi generali, essi sono altresì incompatibili rispetto alla norma comunitaria che li autorizza o li prescrive e vanno pertanto disapplicati.

(In genere i diritti fondamentali intesi come principi generali del diritto comunitario, vengono invocati dai singoli per opporsi a provvedimenti assunti dagli Stati membri in violazione di tali diritti e dunque, indirettamente , anche della norma comunitaria che si occupa di provvedimenti statali del genere. Non è però escluso che talvolta i ruoli si invertano e siano gli Stati membri ad invocare i diritti fondamentali per giustificare i propri provvedimenti).

Perché ad uno Stato membro possa essere contestata la violazione di un principio generale, è necessario che sussista un collegamento tra il comportamento dello Stato membro e il diritto comunitario. In mancanza di ciò, l'obbligo per lo Stato membro di rispettare i diritti fondamentali non è ricollegabile ai principi generali del diritto comunitario e la Corte di giustizia non può esercitare la propria competenza per assicurare l'osservanza di tali principi. I comportamenti degli Stati membri confliggenti con i diritti dell'uomo, anche se privi di collegamento con il campo d'applicazione del Trattato, possono nondimeno  essere oggetto della procedura di controllo e sanzione prevista dall'articolo 7 TUE, nel caso di 'rischio di violazione grave' o di 'violazione grave persistente' di uno o più dei principi di cui all'articolo 6 par. 1 dello stesso trattato.

I principi generali del diritto e in particolare quelli relativi alla tutela dei diritti fondamentali valgono anche per il I e II pilastro della UE. Essi pertanto vincolano tanto le istituzioni, quanto gli Stati membri quando agiscono in forza delle disposizioni del Titolo V e del Titolo VI TUE.

(In favore di tale soluzione o può citarsi l'articolo 6 paragrafo 1 e 2 il quale afferma solennemente l'impegno dell'Unione a rispettare i diritti fondamentali, senza distinguere tra le materie del I e quelle del II e del III pilastro. Quanto agli Stati membri può citarsi l'articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali. L'articolo cit. conferma, a contrario, che il rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Carta impone agli Stati membri, quando attuano il diritto dell'Unione, indipendentemente dal se si tratti di atti del I, del II o del III pilastro. Nella misura in cui la sua competenza si estende ad atti diversi da quelli del pilastro comunitario, la Corte di giustizia è chiamata ad assicurare anche in questo ambito il rispetto dei principi generali, in particolare quelli attinenti alla protezione dei diritti fondamentali).


6. Il diritto internazionale generale e gli accordi internazionali.


La Comunità costituisce un soggetto di diritto internazionale autonomo rispetto gli Stati che nessuno membri. In quanto tale, essa gode delle prerogative delle persone giuridiche internazionali. L'articolo 281 TCE, dispone infatti che 'la Comunità ha personalità giuridica'.

In quanto soggetto di diritto internazionale la Comunità è tenuta a rispettare le norme di diritto internazionale generale. Un comportamento delle istituzioni assunto in violazione di una tale norma costituirebbe pertanto un illecito internazionale. È bene precisare che le norme di diritto internazionale generale vincolano la Comunità soltanto nei confronti di soggetti terzi. Gli Stati membri non possono invece invocare tali principi nei loro rapporti reciproci, quando agiscono nel campo d'applicazione del Trattato. La Corte ha più volte affermato che uno Stato membro non può invocare la violazione di un obbligo comunitario da parte di un altro Stato membro per giustificare, a sua volta, la violazione dello stesso o di altri obblighi comunitari (principio inadimplenti non est adimplendum). Le norme di diritto internazionale generale applicabili alla Comunità fanno parte dell'ordinamento giuridico comunitario. Esse sono utilizzate per l'interpretazione delle norme comunitarie, comprese quelle del Trattato. Inoltre costituiscono un parametro per verificare la legittimità degli atti di diritto derivato. In questa duplice funzione esse possono essere invocate dai soggetti degli ordinamenti interni e debbono essere utilizzate dai giudici degli Stati membri quando si trovano a giudicare su controversie che coinvolgono norme comunitarie.


Gli accordi internazionali con Stati terzi che vengono in rilievo rispetto all'ordinamento comunitario sono di tre tipi:

a) accordi internazionali conclusi dagli Stati membri: generalmente non fanno parte dell'ordinamento comunitario, ma assumono rilevanza soltanto nella misura in cui un accordo del genere, può essere invocato dallo Stato membro contraente come causa di giustificazione per il mancato rispetto di obblighi comunitari. Tale possibilità vale anzitutto per quanto riguarda gli accordi conclusi da uno Stato membro con uno stato terzo prima della data in cui il trattato è entrato in vigore rispetto allo Stato membro in questione. Pertanto il trattato concluso da due Stati non può essere emendato, né tantomeno abrogato per l'effetto della successiva conclusione di altro trattato tra due Stati, di cui uno soltanto sia parte anche del primo trattato. Il principio comporta che lo Stato che ha concluso tanto il primo quanto il secondo trattato resta tenuto a rispettarli entrambi. Riconoscendo l'esistenza di tale principio, l'articolo 307 TCE contiene un'apposita clausola di compatibilità. Nel caso di accordi con Stati terzi conclusi anteriormente al Trattato e aventi ad oggetto materie comprese nella competenza esclusiva della Comunità, è stata conurata una sorta di sostituzione della Comunità dei diritti e negli obblighi che gli Stati membri contraenti traevano dagli accordi in questione (fenomeno di sostituzione si è verificato rispetto al GATT e con riferimento alla Carta delle Nazioni Unite). È bene osservare che la clausola di compatibilità consente allo Stato membro interessato di sottrarsi agli d'obblighi derivanti dal Trattato soltanto nella misura strettamente necessaria per permettergli di rispettare gli obblighi assunti nei confronti dello stato terzo;

b) accordi internazionali conclusi dalla comunità con Stati terzi o con altre organizzazioni internazionali: occupano un posto molto importante all'interno dell'ordinamento comunitario. In quanto soggetto autonomo di diritto internazionale la Comunità ha senza dubbio la capacità di concludere accordi internazionali senza dover passare attraverso i propri Stati membri. Tuttavia la competenza esterna della Comunità non ha portata limitata. Essa infatti soggiace al principio della competenza d'attribuzione. Inoltre la soggettività di diritto internazionale della Comunità coesistere con quella degli Stati membri;

c) accordi internazionali conclusi dalla comunità e dagli Stati membri (accordi misti): sono molto diffusi. Questo strumento si è rivelato utile di fronte ad ipotesi di accordi riguardanti anche materie che non rientravano affatto nella competenza comunitaria ovvero materie sottoposte alla competenza concorrente di comunità e Stati membri.

L'articolo 300 paragrafo 7 dispone che gli accordi conclusi sono vincolanti per le istituzioni della Comunità e per gli Stati membri. Le istituzioni non possono quindi adottare atti che non rispettino un accordo concluso dalla Comunità. In caso contrario l'atto confliggente può essere annullato o essere dichiarato invalido. Esiste però un'eccezione all'utilizzabilità degli accordi internazionali per mettere in discussione la validità di atti delle istituzioni: gli accordi allegati all'accordo istitutivo dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC), i quali non sono presi in considerazione a tal fine a causa della loro natura flessibile.


7. Gli atti delle istituzioni.


L'articolo 249 TCE contiene un'elencazione degli atti più importanti delle istituzioni (atti tipici). Alcuni articoli del Trattato prevedono l'emanazione di atti diversi, altri autorizzano le istituzioni ad adottare atti rispondenti ad una delle denominazioni utilizzate dall'articolo 249, ma con caratteristiche proprie (atti atipici). (Es. del primo tipo è costituito dal bilancio della Comunità, es. del secondo l'istituzione di camere giurisdizionali di primo grado).

Accanto agli atti atipici vanno annoverati alcuni tipi di atti alcuni tipi di atti affermatisi soltanto in via di prassi, soprattutto nel settore della disciplina della concorrenza e degli aiuti di Stato alle imprese. In entrambi questi settori la Commissione gode di poteri diretti di controllo e di sanzione, ma anche di un ampio margine di discrezionalità. Per orientare i comportamenti dei destinatari di tali poteri la Commissione pubblica periodicamente delle comunicazioni, le quali, pur non avendo un vero e proprio valore normativo, sono considerate dalla giurisprudenza come atti attraverso cui la Commissione definisce i limiti del proprio potere discrezionale. Ne consegue che la Commissione non può discostarsene nella valutazione dei casi concreti.


Gli atti tipici descritti nell'articolo 249 sono 5: regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Essi si dividono in:

a) atti vincolanti: regolamenti direttive e decisioni. Attraverso i quali le istituzioni hanno il potere di porre nuovi obblighi a carico dei destinatari (istituzioni comunitarie, Stati membri o soggetti degli ordinamenti interni). Gli atti vincolanti si distinguono ulteriormente in atti normativi (producono un'innovazione dell'ordinamento comunitario e negli ordinamenti interni degli Stati membri), tra cui regolamenti e direttive, e atti amministrativi, tra cui le decisioni, che hanno portata individuale e sono utilizzate soprattutto nei settori in cui le istituzioni hanno poteri di gestione diretta.

b) atti non vincolanti: raccomandazioni e pareri. Attraverso i quali le istituzioni mirano ad ottenere che i destinatari orientino spontaneamente il proprio comportamento in una maniera che viene giudicata conforme all'interesse generale della Comunità.

L'art. 249.2 precisa che gli atti vengono adottati dalle istituzioni per l'assolvimento dei loro compiti e alle condizioni fissate dal presente trattato. Questo significa che, per sapere quale tipo di atto le istituzioni possono adottare in una determinata materia, è necessario far riferimento alle singole norme del Trattato applicabili. Talune norme danno alle istituzioni la possibilità di scegliere tra atti di più tipi, altre non forniscono alcuna precisazione al riguardo. In questi casi le istituzioni hanno disposizione l'intero ventaglio di atti previsti dal art. 249, compreso il regolamento.

Le ipotesi in cui è previsto il potere di adottare regolamenti sono numericamente poche, rispetto quelle in cui possono essere emesse direttive. In particolare in nessuno dei settori di competenza comunitaria aggiunti a partire dall'AUE è contemplata la possibilità di emanare soltanto regolamenti.


8. I regolamenti.


Il regolamento viene descritto nel secondo comma dell'art. 249 TCE: 'il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri'.

La caratteristica della portata generale indica che il regolamento ha natura normativa. Esso pone regole di comportamento rivolte alla generalità dei soggetti.

La seconda caratteristica è l'obbligatorietà integrale: il regolamento deve essere rispettato in tutti i suoi elementi, cioè nella sua interezza. Nell'indicare tale caratteristica l' art. 249.2 si rivolge soprattutto agli Stati membri (non possono infatti lasciare inapplicate talune disposizioni del regolamento o limitarne il campo d'applicazione).

L'ultima caratteristica del regolamento è la diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri. Tale caratteristica presenta due profili: a) in primo luogo la diretta applicabilità riguarda l'adattamento degli ordinamenti interni degli Stati membri o meglio i modi attraverso cui l'adattamento deve avvenire. Il TCE ha inteso disciplinare uniformemente tale importante aspetto, prescrivendo che l'adattamento degli ordinamenti interni al regolamento avviene direttamente (immediatamente ed automaticamente), senza che sia necessario e nemmeno consentito agli Stati membri subordinare l'applicazione del regolamento ad uno specifico atto interno di adattamento o di attuazione. Nello stesso momento in cui entrano in vigore nell'ordinamento comunitario, i regolamenti sono applicabili anche all'interno di ciascuno Stato membro. L'eventuale atto nazionale di recepimento sarebbe, non soltanto superfluo, ma anche incompatibile con l'art.249.2. (La diretta applicabilità non esclude però che gli Stati membri siano chiamati ad adottare provvedimenti nazionali integrativi. Talvolta è il regolamento stesso che richiede agli Stati membri l'adozione di misure di questo tipo. Può trattarsi di provvedimenti specifici ovvero di provvedimenti genericamente descritti. In altri casi, la necessità di provvedimenti nazionali integrativi, pur non essendo espressamente prevista, è implicita e discende dal principio di leale collaborazione sancito dal art. 10 TCE);

b) in secondo luogo l'applicabilità diretta dei regolamenti implica la loro capacità di produrre effetti diretti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri (efficacia diretta). Ne discende che il regolamento, alla stregua di qualsiasi fonte normativa di diritto interno, è atto ad attribuire ai singoli dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare.

(Requisiti formali: il regolamento deve essere motivato e fare riferimento alle proposte e ai pareri previsti obbligatoriamente. Esso è firmato dal Presidente del Parlamento e dal Presidente del Consiglio, se adottato congiuntamente da entrambi, ovvero dal solo Presidente del Consiglio, se adottato dal solo Consiglio. È pubblicato nella gazzetta ufficiale dell'europea ed entra in vigore venti giorni dopo la pubblicazione, salvo che sia disposto diversamente).


9. Le direttive.


Art. 249.3 TCE: ' la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e i mezzi'.

La direttiva pur essendo un atto vincolante ha portata individuale. Essa infatti ha dei destinatari definiti in ciascuna direttiva, consistenti in uno più Stati membri. (Spesso la direttiva è rivolta tutti gli Stati membri, in questo caso si parla di direttive generali). In prevalenza le direttive mirano ad ottenere il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in determinate materie. Esse rappresentano uno strumento di normazione in due fasi: la prima accentrata livello comunitario, dove vengono fissati gli obiettivi e i principi generali, la seconda decentrata a livello nazionale, dove ciascuno Stato membro attua, attraverso strumenti normativi completi e dettagliati, gli obiettivi e i principi generali fissati dalla direttiva.

Come il regolamento, essa è obbligatoria in tutti i suoi elementi (obbligatorietà integrale) ma differenza di quello, la direttiva si limita ad imporre agli Stati membri un risultato da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere le misure di adattamento necessarie per realizzare il risultato prescritto.

Quanto alla diretta applicabilità, occorre distinguere tra i due profili individuati a proposito dei regolamenti. La direttiva non gode della diretta applicabilità: il meccanismo descritto nel terzo comma dell'articolo 249 richiede che la direttiva riceva attuazione da parte degli Stati membri attraverso apposite misure. Gli Stati membri sono dunque tenuti ad adattare l'ordinamento interno in modo da assicurare che il risultato voluto dalla direttiva sia raggiunto. In mancanza, l'atto comunitario non è in grado, da solo, di ottenere il risultato voluto. Si tratta quindi di uno strumento che risponde ad una visione internazionalistica dei rapporti tra ordinamenti. Quanto al secondo profilo, perché possa parlarsi di efficacia diretta di una direttiva è necessario che siano soddisfatte alcune condizioni temporali e sostanziali individuate dalla giurisprudenza della Corte. Inoltre l'efficacia diretta delle direttive ha una ridotta portata ratione personarum.

L'attuazione da parte degli Stati membri costituisce quindi un momento centrale e problematico per ciascuna direttiva. L'obbligo di attuazione di una direttiva è assoluto per ciascuno Stato membro al quale la direttiva rivolta (salvo che l'ordinamento interno non sia già perfettamente conforme alla direttiva, unica ipotesi in cui lo Stato membro può omettere di attivarsi). L'obbligo va adempiuto entro il termine di attuazione fissato dalla direttiva stessa, il quale, può variare a seconda dell'importanza della materia oggetto della direttiva e delle difficoltà che gli Stati membri possono incontrare nell'attuazione. Il termine è imperativo è perentorio.



Gli Stati membri sono competenti quanto alla scelta delle forme e dei mezzi di attuazione. La scelta non è peraltro del tutto libera. È infatti anzitutto necessario che gli strumenti scelti dal legislatore nazionale siano idonei a produrre la modificazione degli ordinamenti interni voluta dalla direttiva. Nella scelta si deve quindi tenere conto della gerarchia delle fonti di diritto interno. In secondo luogo, devono essere scelti strumenti di attuazione che garantiscano trasparenza e certezza del diritto (evitando procedure agevolate di attuazione, come circolari o semplici istruzioni rivolte agli uffici amministrativi).

Per quanto riguarda il contenuto delle direttive, come si è visto, il meccanismo previsto dal art. 249 TCE si articola intorno al binomio risultato/ forme e mezzi. Tuttavia determinati risultati non possono essere definiti limitandosi ad indicare obiettivi i principi generali, ma richiedono l'elaborazione di un quadro normativo alquanto dettagliato, che lascia alla libera determinazione degli Stati membri soltanto interventi limitati ad aspetti di secondaria importanza. Si parla a tal proposito di direttive dettagliate, le quali, benché simili nel contenuto e regolamenti, non soltanto mantengono la struttura di qualsiasi direttiva (obbligo d'attuazione e termine) ma si giustificano in base al risultato voluto (adottate fino a gli anni '80, soprattutto nel campo dell'armonizzazione delle legislazioni tecniche, caratterizzate da una disciplina particolarmente precisa e particolareggiata).

(Requisiti formali: sono gli stessi di quelli previsti per i regolamenti. Con una differenza: le direttive a) adottate congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio e b) adottate dal solo Consiglio o dalla Commissione rivolte tutti gli Stati membri sono pubblicate nella gazzetta ufficiale dell'Unione Europea ed entrano in vigore dopo venti giorni dalla pubblicazione. Le altre direttive sono notificate ai loro destinatari e danno efficacia in virtù della notificazione).


10. Le decisioni.


Art. 249.4: 'la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati'.

La decisione coniuga due caratteristiche, l'una propria dei regolamenti e l'altra delle direttive. Come il regolamento è obbligatoria in tutti i suoi elementi, come la direttiva non ha portata generale, vincolando i soli destinatari da essa designati. A differenza della direttiva può essere rivolta non solo agli Stati membri, ma anche ad altri soggetti, compresi i singoli.

Le decisioni rivolte agli Stati membri sono nella sostanza simili alle direttive, qualora impongano un obbligo di facere. Tuttavia l'obbligo di facere è spesso molto più specifico dell'obbligo di attuare una direttiva che lascia quindi allo Stato membro un margine di discrezionalità molto più ristretto. Esistono anche decisioni che si limitano a prescrivere un obbligo di non facere. In questo caso lo Stato membro destinatario è tenuto ad astenersi dall'attività vietata. (Ad esempio le decisioni della Commissione in materia di aiuti statali delle imprese possono avere l'uno e l'altro contenuto).

Le decisioni possono poi essere rivolte ai singoli. I casi più importanti sono rappresentati dalle decisioni che la Commissione adotta nell'ambito della disciplina della concorrenza, e che possono prevedere anche la comminazione di sanzioni pecuniarie a carico delle imprese. In quest'ultimo caso le decisioni costituiscono titolo esecutivo ai sensi dell'articolo 256 TCE (previa apposizione della forma esecutiva da parte dell'autorità designata dallo Stato membro in cui s'intende ottenere l'esecuzione, è quindi possibile procedere alla loro esecuzione forzata).

(Requisiti formali: sono uguali a quelli previsti dal art.254 per le direttive diverse da quelle rivolte a tutti gli Stati membri: sono notificate ai loro destinatari ed hanno efficacia in virtù della notificazione).


11. Gli atti del secondo e del terzo pilastro.


Abbiamo già visto che le istituzioni possono adottare atti anche nell'ambito del secondo e del terzo pilastro. Si tratta di atti, tuttavia, che rispondono a denominazioni e caratteristiche diverse dagli atti previsti dal art. 249 TCE.


Atti del terzo pilastro: presentano analogie più marcate rispetto agli atti comunitari. L'art 34 par. 2 TUE elenca quattro tipi di atti (tutti del Consiglio):

1) posizioni comuni: definiscono l'orientamento dell'Unione in merito ad una questione specifica. Sono atti tipici della cooperazione intergovernativa. Si limitano a fissare le linee direttrici che l'Unione e gli Stati membri devono seguire su una determinata questione.

2) decisioni- quadro: adottate per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Tipo di atto che si ispira chiaramente al modello delle direttive comunitarie. Sussista però un importante differenza, in quanto le decisioni- quadro non hanno efficacia diretta.

3) decisioni: sono vincolanti e non hanno efficacia diretta. Anche le decisioni del terzo pilastro sembrano godere di obbligatorietà integrale. Attraverso una decisione può essere perseguito qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del presente titolo. Non viene invece precisato quali siano i possibili destinatari di esse. Ulteriore differenza tra le decisioni e le decisioni- quadro: mentre le prime vengono attuate mediante misure adottato dal Consiglio, l'attuazione delle decisioni- quadro è affidata agli Stati membri.

4) convenzioni: di esse il Consiglio raccomanda l'adozione agli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali. Non si tratta di un vero e proprio atto dell'Unione: il Consiglio si limita ad approvare nel testo. Per entrare in vigore, la Convenzione deve essere ratificata dai singoli Stati membri. L'entrata in vigore delle convenzioni non è subordinata alla ratifica da parte di tutti gli Stati membri, essendo sufficiente che esse vengano adottate da almeno la metà degli Stati (ovviamente in questo caso l'entrata in vigore è limitata agli Stati ratificanti). Le misure di applicazione di queste convenzioni sono adottate in seno al Consiglio a maggioranza dei due terzi delle Parti contraenti. Ricordiamo che l'art. 24 estende al terzo pilastro la possibilità di concludere accordi internazionali.


Atti del secondo pilastro: sono molto diversi dagli atti comunitari. Sono previste le seguenti tipologie:

1) strategie comuni: previste dal art. 13 TUE. Si tratta di atti decisi dal Consiglio europeo, su raccomandazione del Consiglio, il quale poi le attua. Sono atti di altissima politica, che definiscono le linee guida su cui Unione deve muoversi nel settore della politica estera. Fissano i rispettivi obiettivi, la durata di mezzi che l'Unione e gli Stati membri devono mettere a disposizione.

2) azioni comuni: disciplinate dal art. 14 TUE. Esse affrontano specifiche situazioni in cui si ritiene necessario un intervento operativo dell'Unione. A differenza delle strategie comuni, si estrinsecano in un'azione concreta dell'Unione nel settore della politica estera. Hanno un valore vincolante nei confronti degli Stati membri, i quali non se ne possono discostare nelle loro prese di posizioni e nella conduzione della loro azione.

3) posizioni comuni: previste dal art. 15 TUE. Si limitano a definire l'approccio dell'Unione su una questione particolare di natura geografica o tematica. Non sembrano essere vincolanti (si dice 'gli Stati membri provvedono affinché le loro politiche nazionali siano conformi alle posizioni comuni', quindi la forma verbale 'provvedere' risulta essere sinonimo di non cogenza).

4) accordi internazionali: l'articolo 24 TUE prevede infine la possibilità di concludere accordi internazionali con uno o più Stati od organizzazioni internazionali.


12. Gli atti delle istituzioni nella Costituzione.


Le innovazioni che il progetto di Costituzione introduce riguardo alla tipologia degli atti delle istituzioni sono notevoli. La nuova tipologia è contenuta nell' art. I-33, che elenca le seguenti categorie di strumenti giuridici: legge europea, la legge quadro europea, il regolamento europeo, la decisione europea, raccomandazioni e pareri.

Subito differenzia gli atti legislativi dagli atti di altra. Tale differenziazione si ripercuote anche sulle istituzioni, cui è riservata l'approvazione di atti legislativi e sulla procedura applicabile.

1) atti legislativi: a loro voltasi distinguono in:

a) leggi europee: hanno le stesse caratteristiche degli attuali regolamenti comunitari;

b) leggi quadro europee: corrispondono alle direttive. Essere vincolalo tutti gli Stati membri destinatari. Da ciò potrebbe desumersi    che una legge quadro deve rivolgersi a tutti gli Stati membri e non potrebbe avere come destinatari Stati membri definiti. (Contrariamente al regolamento europeo).

2) atti non legislativi: a loro voltasi distinguono in:

a) regolamenti europei: atti normativi di secondo grado. Hanno portata generale che sono rivolti a dare attuazione agli atti legislativi ovvero a specifiche disposizioni della Costituzione. Può essere conurato come un attuale regolamento comunitario, in questo caso è obbligatorio in tutti su elementi e direttamente applicabile. Può invece essere conurato come un attuale direttiva, in questo caso vincola lo Stato membro destinatario circa risultato da raggiungere. I regolamenti europei possono essere adottati tanto dal Consiglio, quanto dalla Commissione, oltre che dalla BCE, ove previsto. I regolamenti europei delegati sono emanati dalla Commissione in forza di una delega contenuta in una legge europea o in una legge quadro europea. Possono infatti completare o modificare determinati elementi non essenziali della legge o legge quadro. I regolamenti europei d'esecuzione contengono misure necessarie per l'attuazione di atti giuridicamente obbligatori dell'Unione, quando si sia ritenuto che gli stessi richiedano condizioni uniformi di esecuzione. Sono adottati dalla Commissione, su autorizzazione conferita nell'atto da eseguire, o dal Consiglio in casi specificatamente motivati;

b) decisioni europee: obbligatoria in tutti i loro lamenti. A differenza di quelle previste dal art. 249.4 TCE, esse non hanno sempre destinatari specifici. In questo senso la sua obbligatorietà e generale. Qualora invece siano designati dei destinatari, la decisione è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. Possono essere adottate dal Consiglio, dalla Commissione, ma anche dal Consiglio europeo, nei casi specificatamente previsti, e dalla BCE. Le decisioni europee possono essere anche di secondo grado: ciò avviene quando la decisione di base attribuisce alla Commissione o al Consiglio la competenza ad adottare misure uniformi d'esecuzione attraverso una decisione europea d'esecuzione.


Aspetti positivi della nuova tipologia:

- la scelta di distinguere anche dal punto di vista formale gli atti legislativi da quelli di altra natura;

- il riconoscimento di un tipo di decisioni che non hanno nulla a che fare con le decisioni di portata individuale di cui parla l'art.249.4 TCE.

Aspetti negativi:

- la previsione di un unico atto normativo, ma non legislativo (il regolamento europeo);

- la distinzione tra regolamenti delegati e regolamenti d'esecuzione.


13. L'adattamento dell'ordinamento italiano al diritto comunitario.


Come si è visto i Trattati si presentano nella forma di normali trattati internazionali. Più precisamente l'ordine di esecuzione di ciascun trattato è stato dato con la medesima legge con cui il Parlamento ha autorizzatola ratifica del trattato stesso da parte del Capo dello Stato, ai sensi dell'art. 80 Cost. Il ricorso ad una legge ordinaria per eseguire trattati così importanti come quelli europei ha dato luogo difficoltà. La legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3 si limita a dare già per acquisitala partecipazione italiana alla Comunità. Il nuovo art. 117 Cost. stabilisce infatti che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e da gli obblighi internazionali (altri Stati membri hanno invece modificato la propria Costituzione Nazionale, inserendo apposite 'clausole europee'). In assenza di una norma costituzionale specifica, si è ritenuto di poter ricondurre l'adesione italiana alla Comunità e poi all'Unione all'art. 11 Cost. Questa possibilità ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale l'articolo 11 non è solo una norma permissiva, ma è anche una norma procedurale: consente di accettare limitazioni di sovranità, senza necessità di procedere ad una revisione costituzionale.


Più difficile è risultato il compito di assicurare l'attuazione in Italia del diritto comunitario secondario o derivato. In Italia inizialmente si ricorreva allo strumento della delega legislativa al Governo, ai sensi dell'art. 76 Cost. Un nuovo e più efficiente meccanismo di attuazione degli atti comunitari è stato adottato con la legge 9 marzo 1989 n. 86, nota come Legge La Pergola, ora sostituita dalla legge 4 febbraio 2005 n. 11 (sono entrambe leggi ordinarie ed in questo stati loro limite, in quanto possono essere abrogate da leggi ordinarie successive). La novità introdotta dalla Legge La Pergola è l'introduzione di un meccanismo legislativo annuale: ogni anno, il Parlamento approva una legge comunitaria, che contiene provvedimenti volti a rendere conforme l'ordinamento italiano a tutti gli obblighi comunitari, che vengono a maturazione entro l'anno di riferimento. In particolare si tratta degli obblighi che conseguono:

a) all'emanazione di ogni atto comunitario e dell'Unione europea che vincoli della Repubblica italiana ad adottare provvedimenti di attuazione;

b) all'accertamento giurisdizionale, con sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, della incompatibilità di norme legislative e regolamentari dell'ordinamento giuridico nazionale con le disposizioni dell'ordinamento comunitario;

c) all'emanazione di decisioni- quadro e di decisioni adottate nell'ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

(Dopo la riforma del titolo V alcune Regioni hanno introdotto nella rispettivo ordinamento meccanismi analoghi, che prevedono l'adozione di vere proprie leggi comunitarie regionali).

Vengono previsti tre metodi principali, attraverso i quali la legge comunitaria opera per rendere l'ordinamento italiano conforme agli obblighi sopra citati:

1) attuazione diretta: la stessa legge comunitaria abroga o modifica disposizioni statali vigenti. Può essere seguito in due casi:

a) disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi specificati dall' art.1 cit.;

b) disposizioni statali vigenti oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione delle Comunità europee nei confronti della Repubblica italiana. Si tratta del procedimento più dispendioso. Esso viene utilizzato per adempimenti puntuali e di semplice definizione oppure quando vi sono motivi di urgenza.

2) delega legislativa al Governo: ai sensi del art. 76 Cost. la legge comunitaria, può avere (in parte) il contenuto di una legge delega. In questo caso essa prevede i criteri per l'attuazione delle norme comunitarie da parte del Governo, mediante decreti legislativi.

3) attuazione in via regolamentare e amministrativa: rappresenta l'elemento di maggior rilievo introdotto dalla legge La pergola. La legge comunitaria può contenere disposizioni che autorizzano il Governo ad attuare in via regolamentare le direttive a norma del art. 11. Il regolamento emanato in forza della citata disposizione è perciò in grado di modificare norme di legge preesistenti, grazie all'espressa autorizzazione data dal Parlamento nella legge comunitaria. Si opera pertanto la delegificazione delle materie interessate.

La legge La pergola e ora la legge 4 febbraio 2005 n. 11 si occupano anche dell'attuazione del diritto comunitario da parte delle Regioni. L' attuale sistemazione della materia riconosce un ruolo sempre più ampio alle Regioni, salvo restando il principio della responsabilità del solo Stato nei confronti delle istituzioni comunitarie. Le regioni e le province autonome, delle materie di loro competenza provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli atti dell'Unione Europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato, che disciplina le modalità d'esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza (art. 117). In attuazione di tale principio l'articolo 16 della legge n. 11/ 2005 prevede che le regioni e le province autonome, nelle materie di loro competenza, possano dare immediata attuazione alle direttive comunitarie. Esse possono provvedere non appena la direttiva entra in vigore e diventa pertanto obbligatoria per lo Stato. (Ciò non esclude del tutto l'intervento dello Stato. In primo luogo, nelle materie di competenza concorrente, è compito dello Stato la determinazione dei principi fondamentali in secondo luogo gli artt. 117.5 e 120.2 Cost. prevedono a favore dello Stato un potere sostitutivo nel caso di inadempimento regionale riguardante la normativa comunitaria. Per quanto riguarda l'attuazione di atti normativi comunitari, la legge n. 11/2005 ribadisce il sistema precedente, consistente in un meccanismo di sostituzione preventiva. Lo Stato in pratica adotta decreti legislativi o regolamenti di attuazione anche riguardo a direttive che ricadono nelle materie di competenza regolamentare o legislativa delle regioni o delle province autonome. Tali provvedimenti hanno natura cedevole. Una procedura di sostituzione successiva, disciplinata dall'articolo 8, prevede la messa in mora preventiva della Regione che versi in situazione di mancato rispetto della normativa comunitaria, con l'assegnazione di un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari. Decorso invano detto termine, il Consiglio dei ministri provvederà direttamente o nominando un'apposita commissione. Alla riunione del Consiglio, partecipa il Presidente della Giunta regionale o provinciale interessata).





FONTI COMUNITARIE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI


1. Considerazioni generali.


Abbiamo visto come la caratteristica propria dell'ordinamento comunitario, consiste nel riconoscere come titolari di soggettività giuridica non solo gli Stati membri, ma anche coloro ai quali tale soggettività spetta nell'ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri. Tale caratteristica comporta che le norme comunitarie presentano due dimensioni:

- dimensione internazionale: sono di tipo internazionalistico i rapporti giuridici che il diritto comunitario fa sorgere in capo agli Stati membri e alla Comunità. Il contenuto di tali rapporti è costituito da una serie di diritti e obblighi che la Comunità, o lo Stato membro può far valere nei confronti di un altro Stato membro o istituzione. Nell'ambito di tali rapporti, lo Stato membro interessato si presenta in maniera unitaria, analogamente a quanto avviene nell'ordinamento internazionale.

I rapporti di tipo internazionalistico sfociano, in caso di controversia, nei procedimenti giudiziari di soluzione, il più importante dei quali è disciplinato dagli artt. 226 e 227 TCE.

- dimensione interna: appartengono ad una dimensione interna all'ordinamento di ciascuno Stato membro, i rapporti giuridici interessati dal diritto comunitario che coinvolgono soggetti di tali ordinamenti. Talvolta si tratta di rapporti orizzontali (contrapposti sono soggetti privati), più spesso si tratta di rapporti verticali (sorgono tra un soggetto privato e un soggetto pubblico). Il diritto comunitario può intervenire su tali rapporti con intensità variabile.

In primo luogo, può darsi che il diritto comunitario fornisca la disciplina di tali rapporti. Ciò avviene, in particolare, nel campo d'applicazione dei regolamenti, i quali, essendo direttamente applicabili, disciplinano un'intera materia e si sostituiscono alle eventuali norme interne preesistenti (effetto di sostituzione). Tale effetto, seppur su scala più limitata, può derivare anche da altre fonti di diritto comunitario.

In secondo luogo il diritto comunitario può interessare la disciplina di un rapporto giuridico dettando principi o regole che si limitano ad impedire l'applicazione di norme interne ad esse contrarie (effetto di opposizione). In questi casi, la disciplina del rapporto resta soggetta al diritto interno, dal quale vengono eliminate soltanto le norme incompatibili con il diritto comunitario.

In entrambi i casi precedenti si suole dire che la norma comunitaria produce effetti diretti ovvero gode di efficacia diretta negli ordinamenti interni (non è possibile definire a priori il contenuto degli effetti diretti che una norma comunitaria può produrre, essendo questi strettamente legati al contenuto della norma stessa e al contesto in cui la norma è invocata).

L'efficacia diretta di una norma comunitaria implica che il soggetto nei cui confronti la norma produce effetti favorevoli può pretenderne il rispetto da parte dell'altro soggetto del rapporto (efficacia diretta in senso sostanziale). In caso di mancato rispetto, l'efficacia diretta comporta anche l'invocabilità in giudizio: i soggetti favoriti della norma comunitaria possono chiedere al giudice nazionale l'applicazione in giudizio della norma stessa, ottenendone la corrispondente tutela giurisdizionale.

Occorre rilevare che in passato, la Corte usava indistintamente i termini efficacia diretta e applicabilità diretta. In realtà l'applicabilità diretta in senso stretto è riservata dall' art. 249 TCE ai soli regolamenti. L'efficacia diretta è invece una caratteristica che può essere presente anche in altre fonti comunitarie, appare quindi opportuno distinguere le due nozioni ed utilizzare soltanto il termine efficacia diretta per riferirsi all'oggetto della presente Parte.

Non sempre le norme comunitarie presentano le caratteristiche necessarie per produrre effetti diretti (persino di regolamenti).

L'efficacia diretta non costituisce tuttavia l'unica forma attraverso cui le norme comunitarie assumono rilevanza normativa interna. In presenza di norme prive della capacità di produrre effetti diretti, la giurisprudenza ha individuato almeno due forme di efficacia indiretta:

- interpretazione conforme: riconoscere che il diritto comunitario, anche non direttamente efficace, ha un valore interpretativo cogente rispetto alle norme interne. I giudici nazionali sono infatti soggetti ad un obbligo di interpretazione conforme.

- risarcimento del danno: riconoscere che la mancata attuazione di una norma non direttamente efficace fa sorgere, in capo coloro che sono stati danneggiati dalla mancata attuazione, il diritto al risarcimento del danno a carico dello Stato membro responsabile.


2. I presupposti dell'efficacia diretta


Già si è detto che l'efficacia diretta non è una caratteristica propria di ogni norma comunitaria. Pertanto il giudice nazionale, qualora intenda trarre da una norma comunitaria effetti diretti al fine di risolvere una controversia, ha l'onere di verificare d'ufficio se la norma presenti le caratteristiche necessarie, avvalendosi, se del caso, del rinvio pregiudiziale di cui al art. 234 (è una questione infatti che attiene all'interpretazione della norma stessa e rientra pertanto nella competenza pregiudiziale della corte di giustizia).

Per stabilire se una norma comunitaria abbia o meno efficacia diretta, la Corte mira ad individuare nella norma in questione alcune caratteristiche sostanziali che la rendano suscettibile di essere applicata dal giudice. Le caratteristiche richieste sono espresse con formule variabili ma che ruotano sempre intorno al concetto di sufficiente precisione e in incondizionatezza della norma. (V. sentenza Van Gend & Loos).

1)Sufficiente precisione: ha riguardo alla formulazione della norma: essa deve contenere un precetto sufficientemente definito perché i soggetti destinatari possano comprenderne la portata e il giudice possa applicarlo nei giudizi di propria competenza. La norma comunitaria deve specificare almeno tre aspetti:

a) il titolare dell'obbligo;

b) il titolare del diritto;

c) il contenuto del diritto-obbligo creato dalla norma stessa.

(V. sentenza Francovich e sent. CIA Security International).

La diretta efficacia si determina anche in funzione del contenuto del diritto che si intende azionare (v. sentenza Johnston e sent. von Colson).

2) incondizionatezza: attiene all'assenza di clausole che subordinino l'applicazione della norma ad ulteriori interventi normativi da parte degli Stati membri o delle istituzioni comunitarie, ovvero consentano agli Stati membri un certo margine di discrezionalità dell'applicazione (v. sentenza Becker). L'esistenza di norme che consentono agli Stati membri di derogare all'applicazione di un'altra norma per determinati motivi non esclude di per sé l'efficacia diretta di quest'ultima (sentenza Van Duyn).

Inoltre ai fini della verifica dell'efficacia diretta, la destinatarietà formale della norma non ha alcun rilievo. In particolare la circostanza che la norma si rivolga agli Stati membri o alle istituzioni non comporta necessariamente che sia priva di efficacia diretta (v. sentenza Defrenne).

In linea di massima, i presupposti dell'efficacia diretta sono gli stessi qualunque sia il tipo di norma comunitaria rispetto alla quale il problema si pone. Le caratteristiche proprie di ciascuna fonte portano ad alcune differenze di approccio e, talvolta, a soluzioni particolari.

- Disposizioni del Trattato: alcune di esse si riferiscono espressamente singoli. Esempio importante è dato dalle norme in materia di concorrenza (in particolare gli artt. 81 e 82), le quali sono senz'altro direttamente efficaci, nel senso che sono direttamente opponibili alle imprese interessate (v. sentenza Pronumptia e sentenza Manfredi). Quindi anche norme del Trattato formalmente rivolte agli Stati membri possono produrre effetti diretti qualora siano dotate delle caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Van Gend & Loos,Defrenne,Van Duyn e Reyners). Le norme del Trattato producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali, quanto nei rapporti orizzontali. Si parla pertanto di efficacia diretta verticale e di efficacia diretta orizzontale (v. sentenza Angonese e sentenza Deliège).

- Accordi internazionali conclusi dalla Comunità (art. 300): anche per essi si pone il problema dell'efficacia diretta. È infatti possibile che soggetti privati siano interessati a far valere la disciplina contenuta in tali accordi, per contestare la legittimità di comportamenti o di provvedimenti degli Stati membri o delle istituzioni (v. sentenza Kupferberg e sentenza Sevince). La verifica svolta dalla Corte per decidere circa l'efficacia diretta delle disposizioni contenute in accordi internazionali si caratterizza per una particolare attenzione rivolta al contesto. Dapprima occorre dimostrare che la natura e la struttura dell'accordo permettono di riconoscere effetti diretti alle sue disposizioni in generale. Successivamente, è necessario provare che la specifica disposizione invocata presenti le caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Kupferberg).

- Regolamenti: per essi il problema dell'efficacia diretta ha scarsa consistenza. Infatti la caratteristica della diretta applicabilità implica che, normalmente, le disposizioni dei regolamenti siano anche capaci di produrre effetti diretti. Il principio subisce una certa attenuazione nel caso di regolamenti che richiedono l'emanazione da parte degli Stati membri di provvedimenti di integrazione o di esecuzione. In mancanza quindi dei provvedimenti nazionali, non si può fare a meno di verificare che la disposizione regolamentare in questione presenti i presupposti della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Leonesio e sentenza Azienda Agricola Monte Arcosu). Anche i regolamenti producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali (efficacia diretta verticale) quanto in quelli orizzontali (efficacia diretta orizzontale).


3. Segue: il caso delle direttive e delle decisioni.


- Direttive: per quanto riguarda i presupposti sostanziali, anche le direttive per essere direttamente efficaci, devono presentare le caratteristiche della sufficiente precisione ed incondizionatezza (v. sentenza Marshall). Le differenze dai casi precedenti riguardano invece il momento a partire dal quale l'efficacia diretta si produce e i soggetti nei cui confronti può essere fatta valere.

1) portata temporale: per sua natura la direttiva non è concepita come fonte di effetti diretti. La disciplina dei rapporti giuridici interni rientranti nel suo oggetto viene posta dalle norme di attuazione emanate da ciascuno Stato membro (hanno un'efficacia normativa interna meramente indiretta o mediata). Tuttavia, capita spesso che gli Stati membri attuino le direttive in ritardo oppure in forme non corrette o sufficienti, in modo da impedire il raggiungimento del risultato voluto. Solo in casi del genere si pone il problema di stabilire se, nonostante la mancanza o l'insufficienza delle misure nazionali d'attuazione, la direttiva possa produrre effetti diretti. Quindi di effetti diretti di una direttiva non può parlarsi se non dopo la scadenza del termine per l'attuazione concesso agli Stati membri. Prima di questo momento l'unico effetto giuridico che produce è quello di obbligare gli Stati membri ad attuarla. (L'unico caso di efficacia diretta anticipata potrebbe darsi nell'ipotesi di attuazione completa effettuata prima della scadenza del termine. V. sentenza Inter-Environnement Wallonie, sentenza Mangold e sentenza Adeneler).

2) portata soggettiva dell'efficacia diretta di una direttiva: la giurisprudenza ha seguito un percorso argomentativo alquanto vario, ma coerente nel sottolineare il nesso tra efficacia diretta e violazione dell'obbligo d'attuazione che grava sugli Stati membri. (Inizialmente, la Corte ha puntato sul carattere obbligatorio della direttiva, avvicinandola in tal modo al regolamento, ma anche sulla teoria dell'effetto utile, che porta ad interpretare le norme comunitarie in maniera da consentire che esse esplichino i loro effetti nella maggior misura possibile.V. sentenza Van Duyn.- Successivamente la Corte introduce un nuovo argomento che sembra assimilare l'efficacia diretta ad una sorta di sanzione a carico dello Stato membro inadempiente. V. sentenza Ratti). Dal momento che l'efficacia interna della direttiva inattuata è conseguenza dell'obbligatorietà della stessa nei confronti degli Stati membri, si comprende perché la Corte abbia limitato tale l'efficacia ai soli rapporti verticali e, più specificatamente, ai rapporti in cui la direttiva è invocata contro un'autorità pubblica.Ogni autorità pubblica, infatti, è tenuta, nel proprio ambito di competenza, ad attuare la direttiva ai sensi dell'art. 249.3 (ad essa è perciò possibile rimproverare di non averlo fatto). Viceversa, la direttiva inattuata, non può produrre effetti diretti dei rapporti orizzontali o comunque in modo da addossare obblighi ai soggetti privati, i quali non possono essere in alcun modo considerati responsabili della mancata attuazione. La direttiva pertanto ha soltanto efficacia diretta verticale, mentre è priva di efficacia diretta orizzontale (v. sentenza Ratti,sentenza Marshall,Faccini Dori e Pfeiffer).

Di fronte ad una direttiva inattuata , risulta pertanto determinante stabilire se il soggetto nei cui confronti si intende invocare la direttiva è un soggetto pubblico o un soggetto privato. La Corte considera che l'obbligo di attuare la direttiva non incombe soltanto sugli organi dello Stato centrale, ma anche su qualsiasi articolazione della struttura pubblica, indipendentemente dal se si tratti di entità dotate di poteri autoritativi ovvero di entità che agiscano con gli strumenti dell'autonomia privata (v. sentenza Marshall, sentenza Foster, sentenza Ratti,sentenza Johnston e Van Duyn).

Il mero fatto che l'applicazione di una direttiva inattuata comporti effetti sfavorevoli nei confronti di singoli non sempre conduce a classificare la fattispecie come un'ipotesi di efficacia diretta orizzontale. In proposito vi sono tre ipotesi:

a) rapporti triangolari: rapporti in cui un privato invoca l'applicazione di una direttiva inattuata nei confronti di un organo pubblico, a titolo principale, ma anche nei confronti di altri soggetti privati, la cui posizione verrebbe compromessa dall'applicazione della direttiva. In casi del genere, la Corte non sembra considerare l'effetto pregiudizievole indirettamente subito dai soggetti privati controinteressati come circostanza preclusiva alla produzione di effetti diretti da parte della direttiva (v. sentenza Fratelli Costanzo).

b) direttive che prevedono procedure comunitarie di controllo sulle normative degli Stati membri: tali direttive riguardano adempimenti prescritti a carico dei soli Stati membri. In questi casi, la direttiva inattuata non influisce sulla disciplina dei rapporti interprivati, se non indirettamente, nel senso di precludere l'applicazione di una normativa interna emanata in violazione delle procedure di controllo. In casi del genere, la Corte ritiene che la direttiva non crea né diritti né obblighi per i singoli e può dunque essere applicata dal giudice, senza che si possa parlare di efficacia orizzontale (v. sentenza Unilever).

c) successione di norme interne di cui la più recente sia incompatibile con una direttiva: si è sostenuto che in casi del genere la direttiva non comporterebbe di per sé effetti negativi a carico dei privati, dal momento che essa si limiterebbe ad impedire l'applicazione della disposizione interna più recente. La tesi è stata respinta dalla Corte nella sentenza Berlusconi. Tuttavia la sentenza è stata resa con riferimento a casi in cui il riconoscimento di effetti diretti avrebbe comportato un aggravamento della responsabilità penale degli imputati. Tenendo conto che la Corte si è sempre mostrata restia ad attribuire alle norme comunitarie effetti del genere, non è escluso che, in un contesto che non coinvolga conseguenze di tipo penale, la Corte possa accogliere la tesi sopradescritta.

La scelta di negare alle direttive inattuate ogni efficacia diretta in senso orizzontale è stata oggetto di molte critiche (s'è parlato di discriminazione arbitraria).

- Decisioni: raramente la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla loro efficacia diretta. Nella sentenza Grad la Corte occupandosi di una decisione del Consiglio rivolta agli Stati membri, ha riconosciuto la possibilità che tale decisione possa essere invocata non soltanto dalle istituzioni comunitarie, ma anche da qualsiasi soggetto interessato al suo adempimento, anticipando in gran parte gli argomenti che sono stati poi utilizzati a proposito delle direttive nella citata sentenza Van Duyn (la Corte non ha però mai avuto occasione di precisare se le decisioni inadempiute possono avere efficacia diretta anche orizzontale ovvero se anche a questi atti si applicano le stesse limitazioni individuate a proposito delle direttive - v. decisioni in materia di aiuti statali delle imprese).


4. L'obbligo di interpretazione conforme.


Si è visto come esistono numerosi motivi che possono escludere l'efficacia diretta di una norma comunitaria. In ipotesi del genere, occorre domandarsi se la norma comunitaria possa assumere un valore normativo indiretto nell'ordinamento degli Stati membri e debba perciò essere presa in considerazione dal giudice nel risolvere una controversia. L'individuazione di forme di efficacia indiretta del diritto comunitario è stata valorizzata in particolare rispetto alle direttive. Il ricorso alle forme di efficacia indiretta è servito alla Corte per attenuare gli inconvenienti derivanti dalla giurisprudenza sulla mancanza di effetti orizzontali.

Prima forma di efficacia indiretta consiste nell'obbligo di interpretazione conforme: gli operatori giuridici e soprattutto i giudici quando sono chiamati ad applicare norme interne sono tenuti ad interpretarle in conformità con il diritto comunitario, anche se questo non è direttamente efficace. Tale obbligo si ricollega all'obbligo di leale collaborazione.

La differenza tra diretta efficacia e interpretazione conforme risiede nel fatto che, mentre nel primo caso il giudice disapplica la norma interna confliggente con la norma comunitaria, nel secondo egli applica pur sempre la norma interna ma interpretandola in modo aderente a quella comunitaria (la distinzione è sottolineata dalla giurisprudenza, secondo la quale l'interpretazione conforme delle norme interne non può giungere fino al punto che ad un singolo venga opposto un obbligo previsto da una direttiva non trasposta. In caso contrario si avrebbe la produzione di effetti diretti orizzontali). L'obbligo di interpretazione conforme è stato affermato anzitutto quando il giudice nazionale si trova a dover interpretare e ad applicare le disposizioni che uno Stato membro ha specificatamente adottato per attuare una direttiva (sentenza von Colson). Successivamente l'obbligo di interpretazione conforme è stato esteso anche a disposizioni nazionali più antiche rispetto alla direttiva e pertanto prive di qualunque legame funzionale con la direttiva stessa(sentenza Marleasing). Da ultimo la Corte ha chiarito che l'obbligo in questione riguarda tutto il diritto nazionale.

L'obbligo di interpretazione conforme incontro alcuni limiti. In primo luogo esso resta subordinato all'esistenza di un margine di discrezionalità che consenta l'interprete di scegliere tra più interpretazioni possibili della norma interna. Se, invece, la norma interna è inequivocabilmente contraria alla norma comunitaria e questa è priva di efficacia diretta, l'obbligo in esame viene meno (in sintesi l'obbligo di interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale - sentenza Adeneler). Il secondo limite è di carattere temporale: l'obbligo non sorge prima della scadenza del termine di attuazione della direttiva in questione. In terzo luogo la giurisprudenza ha precisato che nel riferirsi al contenuto delle direttive quando interpreta le norme di diritto interno, il giudice deve rispettare i principi generali che fanno parte del diritto comunitario(sentenza Kolpinghuis Nijmegen). La Corte nega pertanto la possibilità che le direttive, finché restano inattuate, possano avere l'effetto, anche solo sotto profilo interpretativo, di aggravare la responsabilità penale degli individui (sentenza Arcaro e precedente cit.).

La Corte ha affermato che tale obbligo sussiste anche riguardo alle decisioni quadro adottate nell'ambito del III pilastro, nonostante che l'art.34 par.2 TUE specifici che tali atti non hanno efficacia diretta (sentenza Pupino).


5. Il risarcimento del danno.


Un'altra forma di efficacia indiretta consiste nel riconoscere che la norma comunitaria, anche se non direttamente efficace, può essere fonte di un diritto al risarcimento del danno. Secondo la Corte il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli in violazione del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato (sentenza Brasserie du Pècheur). Non vi è dubbio che, qualora gli organi di uno Stato membro ledano il diritto attribuito ad un singolo da una norma comunitaria direttamente efficace, provocando un danno, tali organi siano tenuti al risarcimento. In questi casi il diritto al risarcimento costituisce un corollario necessario dell'effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie.

Più problematica è l'ipotesi di mancata attuazione di una direttiva priva di efficacia diretta. In questi casi, il comportamento omissivo degli organi statali impedisce il sorgere stesso del diritto che la direttiva intendeva garantire ai singoli, per cui si può parlare di efficacia indiretta della direttiva, posto che il diritto al risarcimento costituisce un diritto a sé stante (il diritto ad ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza della mancata attuazione di una direttiva non direttamente efficace è stato affermato per la prima volta nella sentenza Franchovich).

Le condizioni dettate dal diritto comunitario perché il diritto al risarcimento sorga sono tre:

1) la norma comunitaria violata deve essere diretta a conferire diritti ai singoli danneggiati, il cui contenuto possa essere individuato in base alla norma stessa;

2) la violazione della norma deve essere sufficientemente grave e manifesta;

3) tra la violazione e il danno deve esistere un nesso di causalità diretto (vedi sentenza Francovich, sentenza Dillenkofer,Brink-mann,Lomas) (si ricordi che non è richiesta la presenza di un particolare elemento psicologico, dolo o colpa che sia, da parte degli organi statali responsabili del danno).

Quanto egli organi che, con il loro comportamento omissivo o commissivo, possono mettere in gioco la responsabilità per danni dello Stato membro, può trattarsi degli organi legislativi di uno Stato, di autorità fiscali, di una cassa di previdenza, di un ente locale, ma anche del potere giudiziario (sentenza Kobler - per gli altri casi vedi sentenze relative).

Condizioni formali sostanziali per l'esercizio del diritto al risarcimento: dipendono dalle varie legislazioni nazionali, salvo il rispetto dei limiti che tali legislazioni devono rispettare quando si applicano ad azioni aventi ad oggetto diritti di derivazione comunitaria (sentenza Francovich cit.).


6. La disciplina processuale della tutela dei diritti di origine comunitaria.


Salvo eventuali interventi di armonizzazione da parte delle istituzioni comunitarie, la definizione degli aspetti processuali spetta all'ordinamento nazionale dello Stato membro nel cui ambito la norma comunitaria è azionata. Tale principio (definito dell'autonomia processuale degli Stati membri) incontra tuttavia alcuni limiti:

1) principio di equivalenza: le modalità definite dal diritto nazionale per l'esercizio di posizioni di derivazione comunitaria non possono essere meno favorevoli di quelle applicate per la protezione in via giudiziaria di posizione analoghe, di origine puramente interna;

2) principio di effettività: le modalità non possono essere tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti di derivazione comunitaria. Le due condizioni sono cumulative (vedi sentenza Rewe,sentenza Peterbroeck,Emmott,Fantask,Santex,Manfredi).

Il principio dell'autonomia processuale degli Stati membri e i limiti a tale principio si applicano anche nel caso di azioni per ottenere il risarcimento del danno imputabile agli organi statali per violazione del diritto comunitario (sentenza Francovich,Traghetti del Mediterraneo,Kobler).


7. Il primato del diritto comunitario.


La capacità del diritto comunitario di produrre effetti diretti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri pone il problema dei conflitti che possono sorgere tra norme comunitarie e norme interne incompatibili. Conflitti del genere sono risolti in base al principio del primato del diritto comunitario: quando la norma comunitaria direttamente efficace incontra una norma interna incompatibile , perché ne impedisce parzialmente o totalmente l'applicazione, il principio del primato impone che la norma comunitaria prevalga su quella interna.

Da un punto di vista logico, il principio del primato si salda con quello dell'efficacia diretta: se l'efficacia diretta non si accomnasse al primato, la norma comunitaria non potrebbe concretamente creare diritti in capo ai soggetti di quegli ordinamenti degli Stati membri in cui fossero presenti norme interne incompatibili. L'efficacia della norma comunitaria varierebbe infatti da uno Stato membro all'altro. Una situazione del genere sarebbe inaccettabile. È infatti un'esigenza fondamentale dell'ordinamento comunitario che le sue norme siano applicate uniformemente in tutti gli Stati membri.

A cedere di fronte al diritto comunitario sono le norme interne di qualunque rango. In caso contrario, l'efficacia della norma comunitaria varierebbe in ragione del diverso rango delle norme interne che regolano, nei vari Stati, la stessa materia oggetto della norma comunitaria (il principio del primato si è affermato in via giurisprudenziale, è stato esplicitato per la prima volta nella sentenza Costa c. Enel: 'se l'efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all'altro, in funzione delle leggi interne posteriori, ciò non metterebbe in pericolo l'attuazione degli scopi del Trattato. La Costituzione riprende il principio del primato in una norma scritta, la cui genericità lo farebbe valere anche per gli atti adottati nelle materie già rientranti nel II e nel III pilastro, cosa che attualmente sembra da escludersi). Secondo la Corte, l'ordinamento comunitario non soltanto impone la prevalenza della norma comunitaria sulla norma interna incompatibile, ma determina altresì le modalità attraverso cui tale prevalenza deve trovare applicazione e in particolare l'organo competente a farlo valere (se l'ordinamento nazionale fosse libero di determinare modalità e procedimenti, il carattere uniforme della norma comunitaria verrebbe meno). La Corte riconosce in particolare, che il giudice nazionale ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale (sentenza Simmenthal). Non possono pertanto essere ammesse le costruzioni normative o le prassi giurisprudenziali che hanno per effetto di sottrarre al giudice ordinario il potere di disapplicare immediatamente le norme interne incompatibili con il diritto comunitario e di riservarlo ad organi diversi. Della sentenza Simmenthal rilevano alcuni passaggi in cui la Corte sembra voler delineare l'esistenza di un rapporto gerarchico tra ordinamento comunitario e ordinamenti degli Stati membri, tale da provocare l'invalidità della norma interna incompatibile con quella comunitaria. Quindi non solo rendere ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie (l'importazione questa che non è stata accettata dalla Corte costituzionale della sentenza Granital e recentemente ridimensionata anche dalla Corte di giustizia nella sentenza IN.CO.GE. - la Corte ha respinto l'idea che l'incompatibilità con il diritto comunitario di una norma di diritto nazionale successiva abbia l'effetto di rendere quest'ultima inesistente).

L'esigenza di assicurare la tutela giudiziaria immediata delle norme comunitarie produttive di effetti diretti implica altresì il potere per il giudice nazionale di emanare provvedimenti provvisori, che comportino la sospensione dell'applicazione di una norma interna, in attesa che sia definitivamente accertato (mediante rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia) l'incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario (sentenza Factortame I).

La circostanza che una norma interna sia incompatibile con il diritto comunitario e vada pertanto disapplicata dal giudice nazionale in forza del principio del primato, norme esime lo Stato membro interessato dal provvedere alla abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica. In mancanza, la permanenza della norma nell'ordinamento dello Stato membro mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità loro garantita di fare appello al diritto comunitario (sentenza 24 marzo 1988, Commissione c. Italia - sentenza San Giorgio, sentenza Provincia autonoma di Bolzano). L'


8. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana.


La piena accettazione del principio del primato da parte della Corte costituzionale italiana è risultata particolarmente difficoltosa. Inizialmente la Corte parte dall'assunto che, secondo l'ordinamento costituzionale italiano, l'unico procedimento attraverso cui una legge in vigore può essere resa inapplicabile è la dichiarazione di incostituzionalità ai sensi dell'art. 134 Cost. (Sentenza Costa c. Enel) L'attenzione della Corte si focalizza sulla legge di esecuzione del Trattato,la quale, come si è visto, è una legge ordinaria. Da ciò la Corte costituzionale deduce che anche le norme del Trattato hanno il rango di legge ordinaria e sono pertanto destinate a cedere di fronte ad una norma di legge successiva (la Corte infatti esclude che la legge contenente disposizioni difformi dal Trattato sia incostituzionale per violazione indiretta dell'art. 11 attraverso il contrasto con la legge esecutiva del Trattato. Ne consegue che deve rimanere saldo l'impero delle leggi posteriori e quindi in caso di legge incompatibile con il Trattato, si pone una mera questione di successione di leggi nel tempo, che deve essere risolta dal giudice di merito e non dalla Corte costituzionale). Il contrasto è netto: secondo la Corte di giustizia il giudice nazionale deve applicare le norme del Trattato, disapplicando qualsiasi norma interna contraria, mentre, secondo la Corte costituzionale, il giudice italiano può applicare le norme del Trattato soltanto se non sia intervenuta una legge interna successiva incompatibile.

Un primo avvicinamento avviene con la sentenza I.C.I.C. La Corte costituzionale, valorizzando maggiormente l'articolo 11 Cost., ne deduce che tale norma non soltanto consente all'Italia di accettare limitazioni di sovranità con legge ordinaria, ma esige altresì che il legislatore rispetti le limitazioni di sovranità così accettate e, in particolare, non ostacoli, attraverso l'emanazione di leggi successive incompatibili o anche meramente riproduttive, la diretta applicabilità dei regolamenti prescritta dall'art. 249.2 TCE. In simili evenienze, la norma di legge è incostituzionale per violazione dell'articolo 11, ma tale vizio non può portare alla sua disapplicazione da parte del giudice ordinario, rendendosi invece sempre necessario l'intervento della Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 Cost.

Riassumendo, il giudice italiano, per effetto del principio della successione delle leggi nel tempo, ha il potere di disapplicare una norma di legge interna contraria al diritto comunitario qualora la legge preceda nel tempo la norma comunitaria, ma non ha il potere di fare altrettanto qualora il rapporto temporale sia inverso: in questo caso il giudice non potrà fare altro che sollevare la questione di legittimità costituzionale e attendere la decisione della Corte costituzionale (la soluzione elaborata dalla Corte costituzionale presenta il seguente vantaggio: le sentenze di incostituzionalità hanno valore generale e privano la norma incostituzionale di efficacia, rimuovendola definitivamente dall'ordinamento; ma anche rilevanti difetti: riduce il ruolo della Corte ad una funzione puramente notarile e inoltre l'intervento della Corte costituzionale ritardava il momento a partire dal quale il giudice poteva applicare direttamente la norma comunitaria).

Il sopravvenire della sentenza Simmenthal (in cui la Corte di giustizia prende posizione proprio contro la soluzione contenuta nella sentenza I.C.I.C.) costringe la Corte costituzionale a modificare nuovamente il proprio orientamento. L'occasione viene fornita dalla sentenza 8 giugno 1984 n. 170, Granital. La novità del ragionamento della Corte costituzionale consiste nel rifiuto di assimilare le norme comunitarie a norme nazionali di legge. Da ciò discende l'impossibilità di applicare ai conflitti tra norme comunitarie e norme di legge i metodi di risoluzione previsti per l'ipotesi di conflitto tra norme entrambe appartenenti all'ordinamento italiano, compresa la dichiarazione di incostituzionalità. Trattandosi di norme di ordinamenti diversi, gli eventuali conflitti vanno risolti in base ad un diverso criterio: il criterio della competenza (l'ordinamento della C.e.e. e quello dello Stato, pur distinti e autonomi sono necessariamente coordinati). Occorrerà pertanto stabilire se la materia disciplinata rientri tra quelle in relazione alle quali l'Italia ha accettato, in conformità con l'articolo 11, di limitare la propria sovranità in favore della Comunità. Tale compito va svolto dal giudice ordinario e non richiede l'intervento della Corte costituzionale. Qualora risulti che la materia rientra effettivamente nella competenza che il Trattato attribuisce alle istituzioni comunitarie, il giudice italiano,accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame e ne applica di conseguenza il disposto, con l'esclusivo riferimento al sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. La soluzione vale soltanto se e quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca in una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno (come nel caso dei regolamenti) (la giurisprudenza successiva ha riconosciuto che il potere del giudice di applicare direttamente le norme comunitarie, lasciando inapplicate le leggi interne incompatibili va esteso a tutte le fonti comunitarie capaci di produrre effetti diretti). La soluzione elaborata dalla Corte costituzionale nella sentenza Granital benché molto vicina a quanto richiesto dalla Corte nella sentenza Simmenthal, lascia sopravvivere alcune differenze (separatezza dell'ordinamento statale rispetto a quello comunitario su cui esiste la Corte costituzionale mentre visione integazionista della Corte di giustizia nella sentenza Simmenthal. Secondo la Corte costituzionale la norma di legge confliggente con la norma comunitaria non è invalida come sostiene la Corte di giustizia, quindi la legge interna resta in vigore ma non interferisce nella sfera occupata da tale atto).

La Corte costituzionale esclude in due ipotesi il potere del giudice di applicare immediatamente la norma comunitaria e di disapplicare l'eventuale legge interna confliggente, esigendo invece che sia sollevata questione di costituzionalità. Si tratta pertanto di casi ancora oggi riservati alla competenza residua della Corte costituzionale:

1) norma comunitaria contraria ai principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e ai diritti dell'uomo: il giudice nazionale chiamato ad applicare una norma comunitaria sospettata di violare i predetti principi, sarebbe pertanto tenuto a sollevare questione di costituzionalità relativamente alla legge di esecuzione del Trattato, in quanto da tale legge deriverebbe l'applicazione in Italia di una norma comunitaria del genere. (La competenza rivendicata dalla Corte costituzionale confligge inevitabilmente con la competenza esclusiva della Corte di giustizia a giudicare della violazione dei diritti dell'uomo da parte di atti delle istituzioni. La Corte peraltro, non esclude che il giudice a quo si rivolga prima alla Corte di giustizia, interrogandola sulla validità dell'atto in questione per violazione dei diritti umani protetti dall'ordinamento comunitario, e sollevi questione di costituzionalità solo in caso di risposta insoddisfacente a tale questione - sentenza FRAGD, sentenza Frontini);

2) norme di legge dirette ad impedire il rispetto dei principi fondamentali del Trattato: (sentenza Granital) dovrebbe trattarsi di casi caratterizzati da particolare gravità e da una comprovata intenzione di impedire l'applicazione in Italia di interi settori del diritto comunitario. In casi del genere la Corte sarebbe quindi chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuni dei limiti della sovranità statale, da esso medesimo posti, mediante la legge d'esecuzione del Trattato in diretto e puntuale adempimento dell'articolo 11 Cost. (La competenza della Corte costituzionale a conoscere di conflitti tra norme comunitarie e norme interne sussiste anche in tutte quelle ipotesi che si pongano al di fuori del giudizio di costituzionalità in via di eccezione. Qualora infatti un conflitto del genere venga in rilievo nell'ambito di una delle sue competenze dirette, la Corte costituzionale è chiamata a risolverlo, rispettando, come tutti gli organi dello Stato, il principio del primato (v. varie sentenze).

Con la riforma del Ttolo V della Costituzione il principio del primato del diritto comunitario su quello interno ha trovato un'esplicita consacrazione nel nuovo testo dell'art. 117.1. (Resta salvo pertanto il potere-dovere del giudice ordinario di disapplicare direttamente la norma interna incompatibile secondo la soluzione delineata a partire dalla sentenza Granital, senza dover ricorrere al giudizio di incostituzionalità in via d'eccezione. Per quanto riguarda invece le competenze dirette della Corte costituzionale l'art. 117 costituisce ormai il parametro di costituzionalità naturale).





IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE


1. Considerazioni generali.


L'ordinamento comunitario comprende un sistema di tutela giurisdizionale che assicura la protezione delle posizioni giuridiche sorte per effetto del diritto comunitario. Tale sistema è ripartito tra il giudice comunitario (Corte di giustizia, Tribunale di primo grado e Tribunale Funzione pubblica) e i giudici degli Stati membri.

Alla competenza esclusiva del giudice comunitario spettano alcune azioni tassativamente enumerate dal TCE, che i soggetti interessati possono proporre direttamente davanti allo stesso giudice comunitario (competenze dirette):

a) ricorsi per infrazione;

b) ricorsi d'annullamento;

c) ricorsi in carenza;

d) ricorsi per risarcimento;

(il TCE attribuisce alla competenza diretta del giudice comunitario anche altre materie minoris generis: controversie tra istituzioni e propri dipendenti, controversie riguardanti la Banca Europea degli Investimenti, controversie derivanti da contratti di diritto privato stipulati dalla comunità, controversie tra Stati membri connesse con l'oggetto del trattato, qualora le parti concludano un compromesso che sottoponga la controversia al giudice comunitario. A queste competenze di tipo contenzioso si aggiungono alcune competenze consultive, tra cui la compatibilità con il Trattato degli accordi internazionali la cui conclusione è prevista dalle istituzioni)

Al di fuori di tali azioni, vige invece la competenza dei giudici nazionali. I soggetti interessati all'applicazione di una norma comunitaria possono infatti rivolgersi ai giudici nazionali e chiedere loro di assicurare la tutela giudiziaria delle posizioni giuridiche loro spettanti.

Per evitare che, nell'applicare il diritto comunitario, i giudici nazionali degli Stati membri possano pregiudicare l'uniformità delle disposizioni di tale diritto, interpretandole come se si trattasse di norme appartenenti al rispettivo ordinamento nazionale, il TCE ha previsto uno strumento di raccordo con il giudice comunitario: la procedura del rinvio pregiudiziale di cui all'art. 234, grazie alla quale il giudice nazionale ha la facoltà o, in alcuni casi, l'obbligo di deferire alla Corte di giustizia le questioni riguardanti il diritto comunitario.

(Con le pronunce su una questione pregiudiziale la Corte esercita una competenza meramente indiretta. Essa infatti conosce solo delle questioni di diritto comunitario deferite dal giudice nazionale, al quale spetta il potere di decidere l'intera controversia, dopo che la Corte si sia pronunciata)

Secondo la Corte di giustizia, il sistema comunitario di tutela giurisdizionale dev'essere completo. L'ordinamento comunitario, infatti rispetta il principio generale del diritto ad un rimedio giudiziario effettivo. Ne consegue che il titolare di una posizione soggettiva di origine comunitaria deve avere la possibilità di esperire un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice competente contro gli atti che violano tale sua posizione (v. sentenza Johnston).

Qualora dovessero darsi delle lacune, nel senso che manchi un rimedio giurisdizionale utilizzabile per ottenere la protezione di determinate posizioni soggettive, la lacuna dovrebbe essere colmata attraverso un'interpretazione evolutiva delle norme applicabili.

Perché si possa parlare di lacune è tuttavia necessario prendere in considerazione i rimedi esistenti tanto a livello comunitario, quanto a livello nazionale. L'insufficienza dei rimedi esprimibili a livello comunitario non comporta violazione del diritto ad un rimedio giurisdizionale effettivo, qualora esista un rimedio adeguato che possa essere azionato davanti ai giudici nazionali. Nell'ipotesi che nessun rimedio giurisdizionale effettivo esista sorge la necessità di colmare la lacuna in via interpretativa (v. sentenza Parti écologiste Les Verts e sentenza Uniòn de Pequenos agricultores).

La disciplina del Titolo V TUE, relativo alla PESC, non predispone alcun tipo di rimedio giurisdizionale. Gli atti adottati in tale ambito sono sottratti a qualunque tipo di controllo di legittimità da parte della Corte di giustizia. Per quanto riguarda il Titolo VI, relativo alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, invece, l'art. 35 TUE attribuisce alla Corte di giustizia alcune competenze (v. sentenza 12 maggio 1988, Commissione c. Consiglio).


2. Il ricorso per infrazione.


Disciplinato dagli articoli 226 e 227 TCE (l'art. 228 definisce portata obblighi e conseguenze violazione).

L'oggetto del ricorso è la violazione da parte di uno Stato membro di uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente trattato.

Per Stato membro va inteso lo stato-organizzazione, comprensivo di tutte le articolazioni in cui è organizzato l'esercizio del potere pubblico sul territorio statale (quindi non solo gli organi facenti capo al Governo nazionale, ma anche poteri indipendenti rispetto a quello esecutivo ed enti territoriali dotati di autonomia e di competenza esclusive - v. sentenza 16 gennaio 2003, Commissione c. Italia). L'oggetto del ricorso può riguardare la violazione di qualsiasi obbligo derivante direttamente dal Trattato o dagli atti adottati in base ad esso (frequenti sono i ricorsi per mancata o non corretta attuazione delle direttive entro il termine).

(L'unica eccezione riguarda il rispetto del divieto di disavanzi eccessivi la cui violazione è sottratta all'applicazione degli articoli 226 e 227. Un ricorso per infrazione non è esperibile nemmeno riguardo al comportamento di uno Stato membro che comporti violazione dei diritti dell'uomo tutelati in quanto principi generali del diritto comunitario, salvo che il comportamento stesso sia stato adottato dallo Stato membro di in attuazione di una norma del Trattato o di un atto delle istituzioni che ne autorizzi o ne richieda l'adozione. Tuttavia per ipotesi di violazione grave persistente da parte di uno Stato membro dei principi di cui all'articolo 6, paragrafo 1, l'articolo 7, paragrafo 2 e successivi TUE prevede una procedura di constatazione affidata al Consiglio, che può sfociare nella fissazione di sanzioni a carico dello Stato membro interessato. Le sanzioni possono consistere nella sospensione di alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro. È prevista inoltre una procedura di pre-allarme).

La violazione è presa in considerazione nel suo obiettivo manifestarsi. Non è pertanto necessario dimostrare la presenza di un atteggiamento psicologico di colpa o di dolo. Lo Stato membro non può addurre giustificazioni (v. varie sentenze).

Il procedimento per proporre un ricorso per infrazione varia a seconda del soggetto che ne assume l'iniziativa. L'art. 226 disciplina l'ipotesi più frequente, che sia alla Commissione,in quanto custode della legalità comunitaria ad aprire il procedimento.L'art. 227 contempla la possibilità che ad agire sia uno Stato membro.

(non è consentito ad altri soggetti, in particolare singoli, aprire il procedimento e, in generale, rivolgersi direttamente alla Corte per far valere la violazione di un obbligo comunitario da parte di uno Stato membro. Essi potranno semmai denunciare la violazione alla Commissione o al proprio Stato membro per sollecitarli ad intervenire).

In entrambi i casi sono previste due fasi:

1) fase precontenziosa: ha due scopi. In primo luogo favorisce la composizione amichevole della controversia riguardante il rispetto delle obblighi del Trattato. Imponendo alle parti di discutere tra di loro si può evitare l'intervento della Corte. In secondo luogo la fase a uno scopo processuale, in quanto il suo svolgimento è condizione di ricevibilità del ricorso della Corte. L'inserimento nell'oggetto del ricorso di contestazione diverse da quelle sollevate nella fase precontenziosa provocherebbe l'irrecivibilità parziale del ricorso. In pratica la fase precontenziosa si articola nei seguenti momenti:

a) invio allo Stato membro di un atto non formale, la lettera di messa in mora, con quella Commissione, dopo aver contestato allo Stato membro determinati comportamenti, gli assegna un termine entro il quale presentare le proprie osservazioni;

b) presentazione delle osservazioni da parte dello Stato membro;

c) emissione di un parere motivato, mediante il quale la Commissione espone in via definitiva gli addebiti mossi allo Stato e lo invita a conformarsi entro il termine fissato.

L'atto finale della fase precontenziosa è costituito da un atto non obbligatorio. Nel sistema del Trattato, infatti, il potere di constatare l'infrazione commessa da uno Stato membro non spetta alla Commissione, ma alla Corte. Quindi lo Stato membro non è obbligato a conformarsi al parere motivato, ma lo farà soltanto se preferisce evitare il ricorso alla Corte di giustizia. Ciò esclude l'impugnabilità del parere ai sensi dell'articolo 230.

Nel caso disciplinato dall'articolo 226 la scelta di dare avvio al procedimento, quella di portarlo avanti e di porre termine spettano alla Commissione, che gode in proposito di un ampio potere discrezionale.

(Non è dunque possibile proporre un ricorso in carenza ai sensi dell'articolo 232 contro l'omessa o ritardata apertura o conclusione del procedimento - v. sentenza Star Fruit e sentenza Commissione c. Max.mobil).

(Nella prassi tuttavia il dialogo tra la Commissione e lo Stato membro è molto più articolato. La durata del procedimento dipende dalla Commissione, alla cui discrezionalità è rimessa la scelta di porvi fine, emanando il parere motivato. Per alcune materie si applica un procedimento speciale, in cui non è necessario esperire la fase precontenziosa prevista dall'articolo 226. Il caso più importante è previsto dall'articolo 88 in materia di controllo sugli aiuti di Stato alle imprese).

2) fase contenziosa: prevede il ricorso dinanzi alla Corte di giustizia e l'emanazione di una decisione giudiziaria.

Il passaggio alla fase contenziosa è possibile soltanto una volta che il termine fissato nel parere motivato sia decorso invano, ai sensi dell'articolo 226.2 TCE. La Commissione non è obbligata a ricorrere alla Corte, né a farlo entro il termine per determinato.

Una volta presentato il ricorso la Corte, invece l'eventuale eliminazione da parte dello Stato membro della violazione contestata non comporta alcuna conseguenza sull'esito del giudizio (salvo che la stessa Commissione non accetti di rinunciare a ricorso): la situazione di infrazione si cristallizza al momento della presentazione del ricorso,eventi successivi pertanto restano i rilevanti (v. sentenza 30 maggio 1991, Commissione c. Germania).

La fase contenziosa termine con una sentenza della Corte. Dall'articolo 228 si evince che, in caso di accoglimento del ricorso, la Corte si limita a riconoscere che lo Stato membro ha mancato ad un obbligo derivante dal Trattato si tratta pertanto di una sentenza di mero accertamento. Lo stesso articolo prevede che lo Stato membro è tenuto a prendere provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta. La sentenza non indica a quali adempimenti lo Stato membro dovrà dar corso e neppure il termine entro cui dovrà provvedere (v. sentenza 13 luglio 1972, Commissione c. Italia). La mancata o ritardata adozione dei provvedimenti necessari a conformarsi alla sentenza può indurre la Commissione ad avviare nei confronti dello Stato membro un secondo procedimento di infrazione per violazione dell'art.228. Per accrescere l'efficacia deterrente del secondo procedimento, il TUE ha previsto una specifica disciplina, contenuta nel nuovo paragrafo 2 dell'articolo 228. La maggiore novità consiste nella possibilità che il secondo procedimento possa condurre alla emanazione, a carico dello Stato membro inadempiente, di una vera e propria sentenza di condanna al amento di una sanzione pecuniaria. Nel caso ritenga che uno Stato membro non ha preso i provvedimenti imposti da una precedente sentenza della Corte, la Commissione, esperita nuovamente la fase precontenziosa, presente alla Corte un ricorso, nel quale può essere indicato l'importo della somma forfettaria o di una penalità (v. varie sentenze).

(L'art. 227 disciplina il procedimento di infrazione avviato su iniziativa di uno Stato membro lo Stato deve rivolgersi alla Commissione chiedendole di agire nei confronti dell'altro Stato membro. La Commissione deve porre in condizione gli Stati interessati di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte. Successivamente la Commissione emette un parere motivato. Se però il parere non è stato formulato nel termine di tre mesi dalla domanda, lo Stato può presentare ricorso direttamente alla Corte. In caso di inerzia della Commissione,quindi,lo Stato membro riacquista la propria libertà di agire e può adire la Corte di giustizia. In caso di accoglimento del ricorso, la sentenza della Corte avrà le stesse caratteristiche di una sentenza emanata a seguito di ricorso della Commissione. Il potere di chiedere la comminazione di una sanzione pecuniaria a carico dello Stato membro in occasione di un secondo procedimento di infrazione è tuttavia di riservato alla Commissione. Per gli Stati membri il ricorso per infrazione ex art. 227 è l'unico mezzo per risolvere una controversia tra di loro circa il rispetto degli obblighi derivanti dal TCE)


3 Il ricorso d'annullamento.


Disciplinato dagli artt. 230 e ss. Costituisce la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità prevista per gli atti dell'istituzioni comunitarie. Esso mira ad ottenere l'annullamento degli atti che risultino illegittimi.

(sono previste altre procedure che consentono alla Corte di effettuare un controllo sulla legittimità degli atti delle istituzioni: l'eccezione di invalidità e le questioni pregiudiziali di invalidità. La pluralità delle procedure attraverso cui può essere contestata la legittimità di un atto delle istituzioni impone il mantenimento di una certa coerenza tra le stesse. Ciò si traduce nell'introduzione di elementi di armonizzazione della disciplina relativa alle varie procedura - v. sentenza 10 dicembre 1969, Commissione c. Francia).

L'art. 230.1 definisce gli atti impugnabili facendo riferimento a tre criteri:



1)autore: possono essere impugnati nell'ordine

i) atti adottati congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio

ii) atti del Consiglio

in) atti della Commissione

iv) atti della BCE

v) atti del Parlamento digitate istituzioni.

Le citate istituzioni e la BCE sono pertanto dotati di legittimazione passiva nell'ambito del ricorso d'annullamento.

2)tipo: l' art. 230 parla genericamente di 'atti' e menziona due delle categorie di atti previsti dall'art. 249, i pareri e le raccomandazioni, alla limitato fine di escluderne l'impugnabilità. Pertanto devono essere ritenuti impugnabili gli atti appartenenti a tutte le altre categorie dell'art. 249 ma anche gli atti atipici delle istituzioni dotate di legittimazione passiva.

3)effetti: permette di limitare l'impugnazione ad atti suscettibili di creare effetti giuridici obbligatori.

(I dubbi sul se l'atto sia destinato a produrre effetti giuridici obbligatori si pongono, in realtà, soltanto nei confronti degli atti atipici mancando una definizione normativa degli stessi, è necessario valutarne, di volta in volta, la natura per dare una risposta - v. sentenza 16 giugno 1993, Francia c. Commissione - Un caso particolare è dato dai c.d. atti preparatori,ovvero atti che esauriscono le varie fasi di un procedimento complesso, destinato a sfociare in un provvedimento finale)

I soggetti legittimati a proporre il ricorso (legittimazione attiva)sono individuati dai commi 2,3,4 dell'art.230. Ciascuno di questi commi prevede condizioni diverse di ricevibilità. Può pertanto parlarsi di tre categorie di ricorrenti.

-prima categoria (ricorrenti privilegiati): comprende Stati membri, Parlamento, Consiglio e Commissione. Il loro diritto di ricorso non è soggetto ad alcun limite. Essi possono proporre ricorso contro qualunque atto che rientri nella definizione di atto impugnabile e non devono dimostrare alcuno specifico interesse a ricorrere, essendo considerati portatori di un interesse generale alla legittimità degli atti comunitari.

(Per Stati membri ai sensi dell'art. 230.2 si intendono le sole autorità di Governo degli Stati membri delle Comunità europee. Di conseguenza una regione che voglia impugnare un atto delle istituzioni deve rispettare le condizioni previste dal quarto comma delle persone fisiche o giuridiche. A norma della Legge la Loggia, si attribuisce alle Regioni o Province autonome se agiscono individualmente un mero potere di sollecitare il ricorso, mentre, attraverso la Conferenza Stato-Regioni, con deliberazione a maggioranza assoluta, tali soggetti possono addirittura obbligare il Governo al ricorso. Si tratterà comunque di un ricorso del Governo e dunque di ricorso di uno Stato membro ai sensi dell'art. 230.1)

-seconda categoria (ricorrenti intermedi): costituita dalla Corte dei conti e dalla BCE. La legittimazione ricorrere di tali organi non è generale, ma specificatamente finalizzata a salvaguardare le loro prerogative.

-terza categoria (ricorrenti non privilegiati): costituita dalle persone fisiche e giuridiche. Le condizioni alle quali è sottoposto il diritto di ricorso spettante a tali soggetti sono definite in maniera particolarmente restrittiva dall'art.230.4. La norma disciplina due ipotesi distinte: a) ( prima ipotesi) una persona fisica o giuridica impugna una decisione di cui il ricorrente sia il destinatario. In questo caso occorre soltanto dimostrare di avere interesse a ricorrere (esempi di tali decisioni si hanno nel campo della disciplina della concorrenza); b) (seconda ipotesi) una persona fisica o giuridica impugna un atto di cui formalmente non è il destinatario, in quanto appare come un regolamento o una decisione rivolta ad altre persone. Per ricorrere contro un atto del genere il ricorrente deve dimostrare che l'atto lo riguarda direttamente ed individualmente. L'identificazione dei casi in cui tale duo più requisito può dirsi soddisfatto costituisce un problema interpretativo dei più difficili e delicati dell'intero diritto comunitario. Conviene affrontare l'esame distinguendo a seconda che l'atto impugnato sia:

a) una decisione rivolta ad altre persone fisiche o giuridiche;

b) un regolamento o una decisione rivolta a uno o più Stati membri.


a) Perché una persona fisica o giuridica possa impugnare una decisione rivolta ad un'altra persona fisica o giuridica, l'onere probatorio non è eccessivo. Basta dimostrare che il ricorrente è portatore di un interesse qualificato all'annullamento dell'atto. Un siffatto interesse è ritenuto implicito nel fatto di aver provocato l'avvio del procedimento che ha portato all'adozione dell'atto impugnato o nell'avervi partecipato, presentando osservazioni che sono state prese in considerazione nell'atto impugnato. In casi del genere, la ricevibilità del ricorso viene ammessa, senza procedere ad un esame differenziato dell'interesse diretto rispetto a quello individuale (soluzione questa seguita in particolare riguardo all'impugnazione delle decisioni di in materia di concorrenza - v. sentenza Metro).

b) Qualora invece l'atto impugnato sia costituito da un regolamento o anche da una decisione rivolta ad uno o più Stati membri, l'onere probatorio è maggiore. Le difficoltà non riguardano tanto l'interesse diretto. Per i regolamenti, considerato che si tratta di atti direttamente applicabili negli Stati membri, l'interesse diretto è in re ipsa. Quanto alle decisioni rivolte a Stati membri, si tratta di provare che le autorità nazionali non dispongono di alcun potere discrezionale riguardo all'applicazione della decisione o che, pur godendo della facoltà di non applicare la decisione o di applicarla parzialmente, hanno già manifestato in anticipo la loro volontà di dare all'atto piena applicazione (v. sentenze Piraiki-Patraiki e von Cramer-Klet). Il vero 'scoglio' è costituito invece dall'interesse individuale. V. sentenza 15 luglio 1963, Plaumann. Ciò che rileva da essa non è che l'atto impugnato colpisca il ricorrente, ma a quale titolo il ricorrente sia colpito. Non basta che ciò avvenga in quanto il ricorrente appartiene ad una categoria di soggetti astrattamente individuata. Occorre invece dimostrare che l'atto ha preso in considerazione proprio la posizione individuale del ricorrente e pertanto a) produce effetti giuridici soltanto sulla sua posizione individuale ovvero b) produce sul ricorrente effetti giuridici diversi (più gravi) rispetto a quelli che si producono a carico di tutti gli altri soggetti. Conviene soffermarsi sui casi in cui l'interesse individuale può essere considerato sussistente:

-smascheramento dell'atto: il ricorrente deve fornire la dimostrazione che l'atto non è quel che appare, ma, in sostanza, è una decisione individuale nei suoi confronti (allo smascheramento si è talvolta pervenuti in casi di impugnazione di regolamenti -v. sentenza International Fruit);

-in altri casi è sufficiente dimostrare che l'atto contiene disposizioni che riguardano in maniera individuale determinati operatori economici (v. sentenze Extramet e Codorniu).

-presenza di un interesse individuale dimostrata dalla circostanza che l'atto impugnato contiene un espresso riferimento a determinati soggetti, ovvero che il comportamento di determinati soggetti sia stato preso in considerazione nel corso del procedimento per l'emanazione dell'atto impugnato (v. sentenza Allied Corporation).

- interesse individuale può derivare anche dalle caratteristiche del procedimento che conduce all'atto impugnato. Qualora sia prescritto che il procedimento coinvolga obbligatoriamente determinati soggetti o sia garantita la partecipazione di altri soggetti interessati, si presume che tutti questi soggetti siano portatori di un'interesse qualificato che consente loro di impugnazione dell'atto finale, indipendentemente dalla sua natura (esempio rilevante di ciò è dato dalle decisioni in materia di aiuti statali delle imprese - v. sentenze Intermills e Cofaz).

-in maniera analoga, l'interesse individuale è provato se l'istituzione autrice dell'atto impugnato è soggetta all'obbligo di prendere in considerazione la posizione giuridica di determinati soggetti (v. sentenza Sofrimport).

Le notevoli difficoltà che le persone fisiche o giuridiche incontrano per dimostrare l'esistenza delle condizioni previste dall'art. 230.4 ha spinto molti a chiedere un'attenuazione del rigore mostrato finora dalla giurisprudenza. In particolare è stato evidenziato il rischio che si producano lacune nel sistema di tutela giurisdizionale in situazioni in cui i soggetti pregiudicati non dispongano di alcun rimedio giurisdizionale effettivo, in alternativa al ricorso diretto ai sensi dell'art. 230.4. Lacune si avrebbero nel caso di regolamenti che non richiedono alcun provvedimento d'esecuzione da parte delle autorità nazionali. In questi casi verrebbe infatti meno anche la possibilità per gli interessati di rimettere in discussione la legittimità del regolamento, impugnando il provvedimento nazionale d'esecuzione e inducendo il giudice nazionale competente a sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 234. Ciò comporterebbe una violazione del diritto fondamentale ad un rimedio giurisdizionale effettivo (v. sentenze Uniòn de Pequenos agricultores e Jego-Quèrè - la Corte sembra mettere, in via di pura ipotesi, che si possano dare situazioni in cui l'ordinamento comunitario non offra ai soggetti direttamente interessati da un regolamento alcun rimedio né diretto né indiretto per ottenere tutela giurisdizionale. Benché la Corte si sforzi poi di dimostrare come situazioni del genere sarebbero rare e improbabili, resta il fatto che la completezza del sistema di tutela giurisdizionale apprestato per i singoli dall'ordinamento comunitario appaia indubbiamente meno assoluta di quanto la Corte ha sempre preteso - la Costituzione prevederà condizioni di ricevibilità meno severe).

L'art. 230.2 elenca i vizi di legittimità, che possono essere fatti valere nell'ambito di un ricorso all'annullamento:

a) incompetenza: può essere interna nel caso in cui l'istituzione di emette l'atto non ha il potere di farlo, perché tale potere spetta ad altra istituzione. E' esterna quando nessuna istituzione ha il potere di emanare l'atto in questione, che non rientra fatto nella competenza comunitaria. (V. sentenza 9 agosto 1994, Francia c. Commissione e sentenza 5 ottobre 2000, Germania c. Parlamento e Consiglio).

b) violazione delle forme sostanziali: sussiste quando non sono rispettati quei requisiti formali di tale importanza da influire sul contenuto dell'atto. Può trattarsi di forme relative al procedimento da seguire per l'emanazione dell'atto. Altre ipotesi attengono all'atto in quanto tale. La più importante è costituita dalla violazione dell'obbligo di motivazione prescritto dall'art. 253 TCE. Tale obbligo risulta violato quando la motivazione è del tutto assente oppure quando è insufficiente. L'estensione che essa deve assumere varia in ragione della natura dell'atto in questione: se l'atto è destinato ad avere effetti individuali, la motivazione dovrà essere più precisa e dettagliata che per un atto destinato ad operare con efficacia generale. Si deve inoltre tenere conto del contesto in cui l'atto è stato adottato (v. sentenza 25 ottobre 2001, Italia c. Consiglio).

c) violazione del Trattato e di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione: è il più frequentemente invocato dal momento che, da un punto di vista logico, ingloba anche l'incompetenza e la violazione di forme sostanziali. È espressione del principio della gerarchia delle fonti comunitarie e può riguardare la violazione di qualunque norma giuridica che sia da considerare superiore rispetto all'atto impugnato.

d) sviamento di potere: si ha quando un'istituzione emana un atto che ha il potere di adottare, perseguendo però scopi diversi da quelli per i quali il potere le è stato attribuito. Riscontrabile in casi molto rari.

A norma dell'art. 230.5 il termine di ricorso è di due mesi. Esso decorre: a) dalla pubblicazione sulla GUCE, se l'atto è stato pubblicato; b) dalla notificazione, se l'atto è stato notificato; c) in mancanza di entrambe, dal giorno in cui il ricorrente ha avuto conoscenza dell'atto.

L'art. 231 TCE disciplina l'efficacia delle sentenze di annullamento. Dal primo comma si deduce che la sentenza ha portata generale e retroattiva: l'atto è nullo erga omnes erga, e la nullità retroagisce al momento in cui l'atto è stato emanato. Il secondo comma prevede un'eccezione alla regola generale, eccezione che è affidata la Corte la quale può limitare discrezionalmente gli effetti della sentenza che annulli un regolamento. Possibilità questa che è stata estesa dalla giurisprudenza anche ad altri atti di portata generale (v. sentenza). Le limitazioni stabilite dalla corte possono avere ad oggetto la portata ratione personarum dell'annullamento: in questo caso l'atto è annullato solo nei confronti del ricorrente. Più spesso la limitazione ha ad oggetto la portata temporale dell'annullamento, stabilendosi che gli effetti vengano fatti decorrere a partire da un momento successivo individuato dalla corte (non quindi ex tunc) ovvero a partire dall'adozione di un nuovo atto da parte delle istituzioni (potere giustificato da esigenze di certezza del diritto e tutela dell'affidamento).

Il controllo sugli atti delle istituzioni esercitato dal giudice comunitario è un controllo di mera legittimità. La sentenza pertanto si limita ad annullare l'atto. L'art. 229 prevede tuttavia che regolamenti del Parlamento e del Consiglio possano attribuire al giudice comunitario anche una competenza di merito, limitata al riesame delle sanzioni previste nel regolamento stesso. In questi casi il giudice comunitario dispone del potere di modificare l'ammontare della sanzione.

L'art. 35,par 6 TUE prevede che la Corte di giustizia eserciti un controllo di legittimità analogo al ricorso all'annullamento di cui all'art. 230 TCE riguardo alle decisioni quadro o alle decisioni adottate nell'ambito del terzo pilastro. Il ricorso può essere promosso da uno Stato membro o dalla Commissione, entro tre mesi dalla pubblicazione dell'atto.


4. Il ricorso in carenza.


Esso è disciplinato dall'art. 232 TCE. Costituisce un'altra forma di controllo giurisdizionale della legittimità del comportamento delle istituzioni. L'oggetto del controllo in questi casi è un comportamento omissivo che si assume illegittimo, perché tenuto in violazione di un obbligo di agire previsto dal Trattato. I presupposti del ricorso sono perciò due:

a) esistenza di un obbligo di agire a carico dell'istituzione in causa: è quindi escluso che si possa ricorrere in carenza contro l'omissione di atti la cui adozione è affidata alla discrezionalità delle istituzioni (non può ad esempio esperirsi ricorso in carenza contro l'omessa emanazione di un parere motivato - v. sentenza Star Fruit,Guèrin e Telecinco);

b) violazione di un obbligo di agire: essa può essere fatta valere tramite un ricorso ai sensi dell'art. 232 a condizione che 1) l'istituzione in causa sia stata previamente richiesta di agire e 2) sia scaduto un termine di due mesi da tale richiesta senza che l'istituzione abbia preso posizione. In mancanza, il ricorso non è ricevibile. Anche l'art. 232, pertanto, prevede una fase precontenziosa obbligatoria.

La richiesta di agire (messa in mora) deve essere formulata in maniera tale che l'istituzione comprenda che, in caso di inerzia, rischia di subire la presentazione di un ricorso. Inoltre, deve indicare con chiarezza e precisione i provvedimenti che l'istituzione è richiesta di adottare. Per interrompere la mora è insufficiente che l'istituzione prenda posizione. Anche un atto di contenuto negativo, ovvero l'adozione di un atto di contenuto non coincidente con la richiesta costituiscono prese di posizione ai sensi dell'art.232.2 e rendono un'eventuale ricorso privo di oggetto. Resta salva la possibilità di impugnare tali atti ai sensi dell'art. 230. La presa di posizione tuttavia dev'essere definitiva. Una comunicazione di carattere meramente interlocutorio lascerebbe sussistere la mora.

Se l'istituzione non prende posizione entro due mesi dalla richiesta, il soggetto che l'ha formulata può presentare ricorso alla Corte di giustizia entro ulteriori due mesi (fase contenziosa). I soggetti contro i quali può essere proposto un ricorso in carenza sono: il Parlamento europeo, il Consiglio, la Commissione e la BCE. I soggetti che possono adire il giudice comunitario sono distinti in tre categorie:

- prima categoria: definiti ricorrenti privilegiati, in quanto dispongono di un diritto di ricorso particolarmente ampio e non soggetto a limitazioni. Essi sono gli Stati membri e le altre istituzioni (anche la Corte dei conti);

- seconda categoria: costituita dalla sola BCE, che può ricorrere soltanto nei settori che rientrano nella sua competenza;

- terza categoria: include le persone fisiche e giuridiche, le quali dispongono di un diritto di ricorso limitato, sono definiti pertanto ricorrenti non privilegiati. (Art. 232.3) Alla disposizione possono essere date due interpretazioni differenti:

1) posto che soltanto le decisioni possono essere emanate nei confronti di una persona fisica o giuridica, la norma legittimerebbe tali persone a ricorrere esclusivamente contro l'omissione di una decisione della quale sarebbero i destinatari formali;

2) la disposizione andrebbe letta alla luce dell'art.230.4. La norma pertanto dovrebbe consentire alle persone fisiche e giuridiche di ricorrere anche contro l'omissione di un regolamento o di una decisione da rivolgere ad altre persone, a condizione di dimostrare che l'atto messo, se emanato, riguarderebbe direttamente ed individualmente il ricorrente. Questa interpretazione ha prevalso il giurisprudenza (v. sentenza T.Port e Telecinco).

Se il ricorso viene accolto, il giudice comunitario emana una sentenza di accertamento. Non spetta alla Corte colmare la carenza, adottando l'atto omesso, e nemmeno condannare l'istituzione responsabile ad un obbligo di facere specifico. La sentenza fa però sorgere a carico dell'istituzione di un obbligo di agire (art. 233.1).


5. Il ricorso per risarcimento di danni.


Ai sensi dell'art. 235 la Corte di giustizia è competente a conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni di cui all'art. 288.2, il quale a sua volta afferma che in materia di responsabilità extracontrattuale, la Comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni. La competenza del giudice comunitario è pertanto limitata a danni derivanti da responsabilità extracontrattuale (riguardo alla responsabilità contrattuale della Comunità, la competenza del giudice comunitario può essere prevista da una clausola compromissoria inserita nel contratto).

Si è tentato di assimilare il ricorso per risarcimento al ricorso d'annullamento e a quello in carenza, con l'obiettivo di estendere anche al ricorso per risarcimento le condizioni di ricevibilità molto restrittive previste dagli artt. 230.4 e 232.3. La Corte non si è prestata a tale manovra, insistendo invece sul fatto che il ricorso per risarcimento è concepito dal Trattato come un rimedio autonomo (v. sentenza Lutticke e Zuckerfabrik Schoppenstedt). La Corte ha precisato che il ricorso per risarcimento differisce dall'azione di annullamento in quanto tende ad ottenere, non già l'eliminazione di un atto determinato, bensì il risarcimento del danno causato da un'istituzione nell'esercizio dei suoi compiti.

È stato inoltre necessario distinguere il ricorso per risarcimento dalle azioni che i soggetti interessati possono esperire dinanzi ai giudici degli Stati membri. Il criterio distintivo è legato anche alla disponibilità di un'azione da proporre dinanzi ai giudici nazionali, che sia in grado di soddisfare pienamente la pretesa stessa. Se un'azione del genere è possibile, la competenza della Corte ai sensi dell'art. 235 è esclusa. Il ricorso per risarcimento si conura pertanto come un rimedio residuale rispetto alla tutela che possono offrire i giudici nazionali (v. sentenza Wagner e sentenza Krohn).

I presupposti della responsabilità extracontrattuale vanno tratti dai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri (art. 288.2). Principi che spetta alla giurisprudenza individuare. Secondo la Corte (v. sentenza Lutticke) ai tre presupposti del danno, del nesso di causalità e dell'illegittimità del comportamento delle istituzioni, altri se ne aggiungono qualora il comportamento delle istituzioni consista nell'esercizio di poteri caratterizzati da un ampio margine di discrezionalità e, in particolare, nell'adozione di atti normativi implicanti scelte di politica economica. In questi casi occorre altresì provare che: a) la norma violata dalle istituzioni sia preordinata a conferire diritti singoli e b) si tratti di una violazione grave e manifesta (v. sentenza Zuckerfabrik,Brasserie du Pecheur,Bergaderm,Rica Foods).

La scelta di subordinare la responsabilità delle istituzioni in caso di esercizio di poteri discrezionalità e, normativi in particolare, a specifici presupposti aggiuntivi discende dalla necessità di evitare che l'istituzione in questione sia ostacolata nelle sue decisioni dalla prospettiva di azioni di danni ogni volta che debba adottare, nell'interesse generale, provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli (v. sentenza Bayerische, sentenza Mulder e sentenza Asteris).

Il diritto al risarcimento dei danni è soggetto ad un termine di prescrizione di cinque anni, a decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà loro origine. (Il termine s'interrompe se viene rivolta istanza di risarcimento all'istituzione responsabile. In casi di rigetto dell'istanza, il ricorso assumerà le forme di un ricorso d'annullamento e andrà proposto l'entro due mesi. In caso di silenzio dell'istituzione, andrà presentato un ricorso in carenza).


6. La competenza pregiudiziale: concetti generali.


Art. 234: la Corte di giustizia può o, secondo i casi, deve essere chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulle questioni riguardanti il diritto comunitario che si pongono nell'ambito di un giudizio instaurato davanti ad una giurisdizione di uno degli Stati membri. In base a tale competenza, la Corte conosce di determinate questioni di diritto comunitario, soltanto in seguito al rinvio operato da un giudice nazionale. Questi richiedere alla Corte di pronunciarsi su determinate questioni perché reputa necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto (art. 234.2). Si tratta quindi di una competenza indiretta, in quanto l'iniziativa di rivolgersi alla Corte non è assunta direttamente dalle parti interessate, ma dal giudice nazionale. Essa è anche una competenza limitata, potendo la Corte esaminare soltanto le questioni di diritto comunitario sollevate dal giudice nazionale. Questi rimane competente a pronunciarsi su tutti gli altri profili della controversia.

Le ragioni che hanno condotto ad inserire una competenza di tipo pregiudiziale sono relative ad alcune caratteristiche tipiche dell'ordinamento comunitario:

a) sistema decentralizzato di applicazione del diritto comunitario, per cui il compito di applicare la normativa comunitaria ai soggetti del di ordinamenti interni è affidato alle autorità di ciascuno Stato membro;

b) efficacia diretta delle norme comunitarie.

Entrambe queste caratteristiche rendono estremamente frequente l'insorgere di controversie, le quali, in quanto non sottoposte dal Trattato alla competenza diretta del giudice comunitario, vanno instaurate dinanzi ai giudici degli Stati membri.

Lo scopo di tale meccanismo è duplice:

a) evitare che ciascun giudice nazionale interpreti e verifichi la validità delle norme comunitarie in maniera autonoma, col rischio di infrangere l'unitarietà del diritto comunitario;

b) offrire ai giudici nazionali uno strumento di collaborazione per superare le difficoltà interpretative che il diritto comunitario può sollevare (v. sentenza Rheinmuhlen).

In quanto garanzia della corretta applicazione e dell'uniforme interpretazione del diritto comunitario, la competenza pregiudiziale ha dato un contributo di inestimabile importanza allo sviluppo di tale diritto. Il meccanismo previsto dall'art. 234 ha infatti coinvolto in prima persona i giudici nazionali, e quindi anche le persone che a tali giudici si rivolgono, nello sforzo diretto a controllare che il diritto comunitario venga correttamente interpretato da applicato da parte degli Stati membri e all'interno degli stessi, moltiplicando in misura esponenziale le occasioni in cui tale controllo può venire (v. sentenza Van Gend Loos). L'importanza della competenza pregiudiziale è ampiamente riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza della corte di giustizia (v. sentenza Simmenthal).

(In forza dell'articolo 68.1 TCE, l'art. 234 si applica alle norme del TCE contenute nel Titolo IV e agli atti adottati dalle istituzioni in base alle norme stesse, secondo condizioni particolari. Per quanto riguarda la PESC non è prevista alcuna competenza analoga a quella disciplinata dall'art. 234. Invece per il III pilastro, l'art. 35 TUE prevede la possibilità per ciascuno Stato membro di depositare una dichiarazione di accettazione della competenza pregiudiziale della Corte - v. sentenza Pupino)

La competenza pregiudiziale viene in rilievo anche sotto il profilo del diritto fondamentale ad un rimedio giurisdizionale effettivo, tutelato dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Infatti omettendo di sollevare una questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia quando invece le circostanze lo richiederebbero, il giudice, pregiudica il diritto dei soggetti interessati ad un rimedio giurisdizionale effettivo o addirittura li distoglie dal loro giudice naturale (v. ordinanza 25 gennaio 2000, Moosbrugger c. Austria).


7. Segue: ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale.


Giudici nazionali e Corte di giustizia svolgono quindi un ruolo complementare al fine di individuare una soluzione al caso concreto che sia conforme al diritto comunitario. Invece l'assenza di un rapporto di tipo gerarchico spiega perché la Corte non eserciti alcun tipo di controllo sulla competenza del giudice nazionale a conoscere del giudizio nel cui ambito le questioni pregiudiziali sono state sollevate (v. sentenza World Wildlife Fund), ovvero sulla regolarità del giudizio stesso e, in particolare, del provvedimento di rinvio (v. sentenza Luigi Spano). Si tratta di aspetti disciplinati solo dal diritto interno del giudice nazionale e pertanto vanno risolti da quest'ultimo.

La Corte ha invece posto dei requisiti riguardanti il contenuto del provvedimento di rinvio. Essa richiede che (soprattutto con riferimento a questioni riguardanti il settore della concorrenza) il giudice nazionale definisca l'ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi almeno le ipotesi di fatto. In mancanza di sufficienti indicazioni la Corte non potrebbe giungere ad un'interpretazione del diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale (v. sentenza Telemarsicabruzzo) e si riserva quindi la possibilità di non rispondere alle questioni pregiudiziali.

Normalmente, la Corte non verifica la necessità del rinvio e la rilevanza delle questioni di diritto comunitario rispetto alla soluzione del caso pendente davanti al giudice nazionale (v. sentenza CILFIT). Di conseguenza, in una prima fase, la Corte riteneva che spettasse al solo giudice nazionale valutare la necessità del rinvio e, in particolare, la rilevanza o la pertinenza delle questioni pregiudiziali. Successivamente un uso talvolta improprio del rinvio pregiudiziale ad opera delle parti e degli stessi giudici nazionali ha indotto la Corte a mutare atteggiamento. Essa si è così riservata il potere di verificare la rilevanza delle questioni pregiudiziali al fine di controllare se essa sia competente a rispondere e se non sussista alcuna delle ipotesi patologiche individuate dalla giurisprudenza. Ovvero:

- questioni poste nell'ambito di controversie fittizie: così definite perché le parti sono d'accordo tra di loro sull'interpretazione da dare alle norme comunitarie e vogliono soltanto ottenere una pronuncia della Corte sul punto che abbia efficacia erga omnes (v. sentenza Foglia);

- questioni manifestamente irrilevanti: in cui la norma comunitaria oggetto della questione pregiudiziale è manifestamente inapplicabile alla fattispecie oggetto del giudizio nazionale (v. sentenza Salgoil);

- questioni puramente ipotetiche: definite in ragione della loro genericità o del fatto che non rispondono ad un effettivo bisogno del giudice nazionale, in vista della soluzione della controversia (v. sentenza Meilicke).

Nella fase attuale, l'atteggiamento della Corte sembra nuovamente orientato verso maggiore prudenza. Valorizzando il principio secondo cui qualora le questioni sollevate dal giudice nazionale vertano sull'interpretazione di una norma comunitaria, in via di principio la Corte è tenuta a scaturire (v. sentenza Laurenço Diàs), la Corte spesso si accontenta che il giudice nazionale abbia indicato i motivi che lo inducono a ritenere necessaria la risposta alle questioni pregiudiziali (v. sentenza Gonzàles Sànchez).


8. Segue: la nozione di giurisdizione.


La competenza pregiudiziale può essere attivata soltanto da un organo che possa essere definito come una giurisdizione di uno degli Stati membri. La Corte si riserva il potere di verificare che l'organo autore del rinvio pregiudiziale rientri effettivamente in tale nozione, considerandola come una nozione comunitaria.

Il primo requisito che un organo nazionale deve soddisfare è che svolga una funzione giurisdizionale, cioè che sia chiamato a statuire nell'ambito di un procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale (v. sentenza Job Centre).

(La Corte non si è mai pronunciata sulla posizione della Corte costituzionale, a differenza della Corte dei conti e del Consiglio di Stato. Essa pur avendo talvolta evocato la possibilità di usare essa stessa il meccanismo del rinvio pregiudiziale, in una più recente pronuncia ha espresso l'opinione che in essa non è ravvisabile quella giurisdizione nazionale alla quale fa riferimento l'art.234. Pertanto è rimesso al giudice comune il compito di rivolgersi dapprima alla Corte di giustizia e solo successivamente, se necessario, alla Corte costituzionale, realizzando il sistema detto della doppia pregiudizialità - v. sentenza Garofalo,Giampaoli, ordinanza Ferrara, sentenza Berlusconi, sentenza Consorzio italiano fiammiferi)

Nei casi dubbi, debbono inoltre essere verificati altri requisiti. La possibilità che un determinato organo effettui un rinvio pregiudiziale dipende da una serie di elementi quali l'origine legale dell'organo, il suo carattere permanente, l'obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l'organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente (v. sentenza Dorsch Consult). Tuttavia l'esame della giurisprudenza rivela come la presenza degli elementi citati sopra non venga verificata in maniera sistematica. Più rigoroso è invece apparso l'atteggiamento della Corte con riferimento al requisito dell'origine legale dell'organo, con particolare riferimento al caso degli arbitri, ai quali ha costantemente negato il potere di sollevare questioni pregiudiziali (v. sentenza Nordsee e sentenza Eco Swiss). L'unica eccezione ammessa riguarda i casi di arbitrato obbligatorio.


9. Segue: facoltà e obbligo di rinvio.


Rispetto al rinvio pregiudiziale, la posizione dei giudici nazionali varia secondo che essi emettano decisioni contro le quali sia possibile proporre un ricorso giurisdizionale di diritto interno oppure no. Nel primo caso, il rinvio è oggetto di una semplice facoltà (art. 234.2) mentre nel secondo caso, il giudice è sottoposto ad un obbligo di rinvio (art. 234.3).

La ratio della distinzione è duplice: a) nel caso di un giudizio dell'ultima istanza, un errore del giudice nel risolvere questioni di diritto comunitario resterebbe senza ulteriore rimedio (quindi costituisce l'estrema forma di tutela); b) l'erronea soluzione data da un giudice di ultima istanza a questioni di diritto comunitario rischia di consolidarsi.

La nozione di giudice di ultima istanza di, dipende dalla possibilità concreta di proporre un'impugnazione contro le decisioni del giudice e non soltanto dal rango che occupa nell'ordinamento giudiziario nazionale. Per stabilire se vi sia possibilità di proporre un rimedio giurisdizionale di diritto interno vanno presi in considerazione soltanto i rimedi ordinari (in Italia i giudici di ultima istanza sono la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato della Corte costituzionale, quest'ultima almeno nell'esercizio delle sue competenze dirette).

La facoltà di rinvio che spetta ai giudici non di ultima istanza di implica che questi sono liberi di scegliere se sollevare o meno le questioni di diritto comunitario davanti alla Corte di giustizia, indipendentemente dalla richiesta delle parti (v. sentenza Salonia). Tale libertà si estende inoltre alla scelta del momento in cui effettuare il rinvio (v. sentenza Irish Creamery).

Nell'interpretare la portata dell'obbligo di rinvio a carico dei giudici di ultima istanza, la Corte ha introdotto alcuni elementi di flessibilità. Essa ha affermato che anche i giudici di ultima istanza dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia sul punto di diritto comunitario onde consentire loro di decidere (v. sentenza CILFIT). La sola circostanza che le parti non abbiano sollevato questioni di diritto comunitario non comporta perciò l'obbligo di rinvio. Inoltre la Corte ha individuato alcune ipotesi in cui, pur in presenza di questioni rilevanti, il rinvio può essere omesso. In casi del genere si può parlare di facoltà di rinvio anche per i giudici di ultima istanza:

- quando la questione sia materialmente identica ad altra questione già decisa in via pregiudiziale (v. sentenza Da Costa);

- quando la risposta da dare alle questioni risulti da una giurisprudenza costante della Corte che risolva il punto di diritto litigioso (v. sentenza CILFIT);

- quando la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (ipotesi dell'atto chiaro - v. sul libro le verifiche che deve compiere il giudice prima di concludere in questo senso).

La distinzione tra giudici di ultima istanza e giudici delle istanze inferiori è stata ulteriormente attenuata, introducendo un'ipotesi di obbligo di rinvio anche per giudici non di ultima istanza. La Corte ha infatti negato che un giudice, anche non di ultima istanza, possa autonomamente accertare l'invalidità di un atto delle istituzioni (v. sentenza Foto-Frost). Da ciò discende che qualora ritenga fondati i motivi di invalidità addotti dalle parti riguardo ad un atto delle istituzioni, il giudice è tenuto a rinviare alla Corte la relativa questione pregiudiziale (v. sentenza IATA- a questo obbligo di rinvio non si applicano le attenuazioni introdotte dalla sentenza CILFIT - v. sentenza Schul).

L'art.68,par.1 TCE limita la possibilità di effettuare un rinvio pregiudiziale riguardante le disposizioni del Titolo (si parla del titolo V: visti, asilo, immigrazione) o gli atti adottati in forza di tali disposizioni, alle sole giurisdizioni di ultima istanza (il par.3 introduce un'ipotesi analoga al rinvio nell'interesse della legge). Invece gli Stati membri che depositano una dichiarazione di accettazione della competenza pregiudiziale della Corte per quanto riguarda il III pilastro (art. 35 TUE) possono scegliere se limitare la possibilità di rinvio ai soli giudici di ultima istanza ovvero se estenderla anche ai giudici delle istanze inferiori. In questo secondo caso è possibile prevedere un obbligo di rinvio a carico del giudice di ultima istanza.


10. Segue: l'oggetto delle questioni pregiudiziali.


Dal testo del art. 234 risulta che la competenza pregiudiziale della Corte può riguardare questioni di interpretazione e questioni di validità.

Le questioni pregiudiziali d'interpretazione possono aver ad oggetto:

a) il trattato: si deve intendere il testo del TCE nella versione applicabile ratione temporis ai fatti della causa pendente davanti al giudice nazionale, compresi protocolli allegati, tenendo conto degli emendamenti intervenuti ai sensi dell'art.48 TUE.

b) atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e della BCE: nozione molto ampia. Essa comprende anzitutto gli atti appartenenti alle categorie di cui all'art. 249 TCE, incluse le raccomandazioni e pareri, ma anche gli atti atipici, gli accordi internazionali e gli atti privi di efficacia diretta (non rientrano invece della competenza pregiudiziale della Corte gli accordi o le convenzioni concluse tra gli Stati membri).

La lettera dell'art. 234 esclude che, nell'ambito di una questione d'interpretazione, la Corte possa essa stessa procedere all'applicazione di norme comunitarie alla fattispecie oggetto del giudizio pendente davanti al giudice nazionale. Tuttavia le risposte fornite dalla Corte vanno spesso al di là di un'interpretazione meramente astratta della norma comunitaria (per esempio nel settore della tariffa doganale comune - v. sentenza Poppe).

Parimenti non è previsto che la Corte possa procedere all'interpretazione di norme degli Stati membri o pronunciarsi sull'incompatibilità di una norma nazionale con norme non comunitarie. Entrambi questi compiti spettano al giudice nazionale che ha operato il rinvio.

Per quanto riguarda eventuali questioni pregiudiziali con cui il giudice nazionale chiede alla Corte un giudizio sulla compatibilità con il diritto comunitario di specifiche norme interne, la Corte, le riformula in modo da fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione che gli consentano di valutare tale compatibilità ai fini della soluzione della causa. In questo modo, si permette che il rinvio pregiudiziale sia utilizzato dai giudici nazionali per ottenere dalla Corte un giudizio, sia pure diretto, sulla compatibilità della norma interna con il diritto comunitario (c.d. uso alternativo del rinvio pregiudiziale - v. sentenze Piageme,Dzodzi,Kleinwort Benson).

Le questioni pregiudiziali di validità possono avere ad oggetto soltanto gli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità o della BCE. Tali questioni consentono alla Corte di effettuare un controllo sulla validità di tali atti.

L'analogia con l'art. 230 comporta che oggetto di una questione pregiudiziale di validità possano essere tutti gli atti contro i quali si può proporre un ricorso d'annullamento. Anche i motivi di invalidità sono gli stessi. Tuttavia la questione di validità che riguardi un regolamento o una decisione rivolta terzi non è sottoposta alle condizioni restrittive di cui all'art.230.4.Parimenti non trova applicazione il termine di due mesi previsto dal quinto comma. Ne consegue che una questione di validità può essere proposta anche a distanza di anni dall'entrata in vigore dell'atto in causa (v. sentenza  TWD Texilwerke Deggendorf).


11. Segue: il valore delle sentenze pregiudiziali.


Le sentenze rese dalla Corte in un procedimento a norma dell'art. 234 vincolano anzitutto il giudice che aveva effettuato il rinvio (v. sentenza Benedetti). Questi non può discostarsene, ma può soltanto, qualora lo ritenga necessario, adire nuovamente la Corte per chiedere ulteriori chiarimenti. Tuttavia la sentenza della corte assume un valore generale: qualunque giudice nazionale, il quale si trovi a dover risolvere questioni il merito le quali la Corte sia già pronunciata mediante sentenza pregiudiziale, deve adeguarsi a tale sentenza, salva la possibilità di rivolgersi nuovamente alla Corte ai sensi dell'art. 234. Il valore generale delle sentenze pregiudiziali di interpretazione risulta da quanto si è detto a proposito dell'obbligo di rinvio di cui all'art.234.3 (v. sentenze BECA,San Giorgio, Granital). Il principio è stato affermato con particolare chiarezza nel caso di sentenze pregiudiziali di validità che dichiarano l'invalidità di un atto delle istituzioni (v. sentenze International Chemical Corporation,Bela Muhle). In linea di principio tutte le sentenze pregiudiziali hanno valore retroattivo. L'interpretazione contenuta in una sentenza pregiudiziale, infatti, chiarisce il significato e la portata della norma quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore (v. sentenza Denkavit).Il valore retroattivo delle sentenze della Corte rese titolo pregiudiziale va tuttavia conciliato con il principio generale della certezza del diritto (v. sentenza Kunhe & Heitz). Inoltre la Corte si riserva il potere di limitare del tempo la portata delle proprie sentenze pregiudiziali tanto interpretative quanto di validità (v. sentenze Defrenne,Roquette Frères) (esigenze di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento). La Corte tuttavia fa generalmente salva la possibilità di invocare la sentenza pregiudiziale da parte di coloro che abbiano proposto un'azione giudiziaria o un reclamo equivalente prima della sentenza stessa (v. sentenza FRAGD).






LE COMPETENZE DELL'UNIONE EUROPEA


1. Le competenze comunitarie: il principio della competenza d'attribuzione.


Art. 5 TCE: norma di grande importanza che sintetizza alcuni principi generali riguardanti la portata delle competenze comunitarie e le condizioni per il loro esercizio.

Il primo comma enuncia il principio d'attribuzione: 'La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato'.

La Comunità non è un ente a finalità e competenza generali. Essa può intervenire soltanto nei settori in cui ciò sia contemplato dal Trattato e soltanto per gli obiettivi che il Trattato stesso indica.

(L'art. I-l1,par.2 della Costituzione sottolinea la natura derivativa delle competenze dell'Unione da un'attribuzione da parte degli Stati membri, nonché la specialità di tali competenze rispetto a quelle degli stessi Stati membri)

La Corte di giustizia ha tuttavia ammesso che, pur in mancanza di un espressa attribuzione di poteri, la Comunità possa essere considerata competente quando l'esercizio di un certo potere risulti indispensabile per l'esercizio di un potere espressamente previsto ovvero per il raggiungimento degli obiettivi dell'ente (teoria dei poteri impliciti). (Ad esempio l'affermazione della competenza comunitaria a stipulare accordi internazionali in materia di trasporti, in forza del c.d. principio del parallelismo dei poteri interni ed esterni - v. sentenza AETS). D'altra parte, il Trattato stesso prevede una sia pur parziale deroga al principio della competenza d'attribuzione, attraverso l'art. 308. L'inserimento di tale norma rivela come gli stessi autori del Trattato fossero coscienti dell'impossibilità di definire in anticipo e con esattezza i poteri di cui la Comunità avrebbe avuto bisogno per raggiungere i fini complessi e variegati descritti nell'art. 2 del Trattato e quindi della necessità di consentire l'assunzione autonoma di nuovi poteri, comprimendo così il principio d'attribuzione.

Le condizioni poste dall'art. 308 per l'esercizio del potere d'esame sono alquanto restrittive. Da un punto di vista procedurale è richiesta una delibera unanime del Consiglio, con coinvolgimento sia della Commissione, che formula la proposta, sia del Parlamento, che viene obbligatoriamente consultato. Da un punto di vista sostanziale occorre:

a) necessità dell'azione in relazione ai fini della Comunità: condizione che comporta un notevole margine di discrezionalità in favore delle istituzioni. La vastità degli scopi previsti dall'art. 2 è infatti tale che qualsiasi azione può essere agevolmente collegata con essi (soprattutto in campo economico). Tuttavia la prassi applicativa dell'art. 308 ha mostrato che, una volta raggiunto l'accordo unanime in seno Consiglio, non ci si preoccupa eccessivamente di chiarire il nesso della nuova azione con gli scopi della Comunità o con il funzionamento del mercato comune;

b) mancata previsione di adeguati poteri da parte del trattato: inizialmente la Corte sembrava volerne sminuire l'importanza (v. sentenza Massey Ferguson) ma di recente ha mostrato un atteggiamento più restrittivo, sottolineando il carattere residuale della norma in esame ed escludendone l'utilizzabilità ogni volta che il Trattato prevede una base giuridica alternativa (v. sentenza Erasmus).

Ci si domanda se esistano dei limiti intrinseci alla possibilità di ricorrere all'art. 308. Risulta infatti evidente che esso costituisce un minus rispetto alla procedura di revisione di cui all'art. 48 TUE. In primo luogo la norma in esame consente nuove azioni, ma non deviazioni o deroghe rispetto alla disciplina materiale fissata dallo stesso Trattato. La stessa soluzione negativa vale per il caso in cui le disposizioni che si vorrebbero fondare sull'art. 308 siano tali da modificare, sia pure direttamente, la struttura istituzionale della Comunità come delineata dal Trattato (situazione che si sarebbe verificata, secondo la Corte, qualora la Comunità, avesse deciso di aderire alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. La posizione assunta dalla Corte risulterebbe superata da quanto prevede l'art. I-9, par.2 della Costituzione. La norma conferisce espressamente all'Unione la competenza a negoziare la propria adesione alla citata Convenzione).

È invece possibile riconoscere alla Comunità nuovi poteri, nel senso di consentirle di intervenire in settori non menzionati espressamente dal Trattato, purché non si vada al di là dell'ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del Trattato ed in particolare di quelle che definiscono i compiti e le azioni della Comunità (v. parere 2/94).

Una limitazione al ricorso all'art. 308 è derivata dall'introduzione del principio di sussidiarietà. Tale principio è infatti sicuramente applicabile ogniqualvolta la sola base giuridica disponibile per l'azione comunitaria è costituita dall'art. 308 (v. parere n. 2/92).

(La Costituzione ha mantenuto una norma analoga all'art. 308, si tratta dell'art. I-l8. Rispetto al testo attuale, il potere in esame non è più esercitabile soltanto in riferimento al funzionamento del mercato comune ma nel quadro delle politiche definite nella parte III)


2. I vari tipi di competenza comunitaria.


Non tutte le competenze attribuite dal Trattato alla Comunità hanno pari natura. Occorre in primo luogo distinguere tra competenze esclusive e competenze concorrenti (distinzione utilizzata dall'art. 5.2 e analogamente dall'art. 11). La distinzione in esame attiene ovviamente ai rapporti tra competenza comunitaria e competenza (residua) degli Stati membri.

Nei settori di competenza esclusiva, la competenza degli Stati membri è preclusa anche qualora la competenza comunitaria non sia stata ancora esercitata pienamente. In siffatta ipotesi, gli interventi degli Stati membri hanno carattere transitorio e debbono essere autorizzati dalla Comunità (v. sentenza 5 maggio 1981, Commissione c. Regno Unito).

Nei settori di competenza concorrente, invece, almeno inizialmente Comunità e Stati membri possono ciascuno esercitare i propri poteri. Situazione questa che potrebbe modificarsi nel tempo a favore della Comunità. Infatti a mano a mano che questa agisce, diminuisce corrispondentemente lo spazio d'azione degli Stati membri. In forza del principio di leale collaborazione di cui all'art. 10, gli Stati membri non potrebbero adottare provvedimenti in materie già oggetto di una disciplina comunitaria completa e dettagliata. Ne risulta che, l'estensione e finanche la sopravvivenza stessa della competenza degli Stati membri dipendono dai tempi e dai modi con cui la competenza comunitaria viene esercitata. La Comunità può infatti scegliere di esercitare pienamente la propria competenza, precludendo così agli Stati membri qualsiasi intervento. Al contrario, la Comunità può preferire lasciare a lungo inutilizzati i propri poteri, facendo così sopravvivere la competenza concorrente degli Stati membri (v. i vari pareri della Corte).

Il Trattato non precisa se una determinata competenza comunitaria è esclusiva o soltanto concorrente. Il problema di come classificare una determinata competenza va risolto in via interpretativa, dando rilievo soprattutto agli scopi perseguiti dal Trattato nell'attribuire alla Comunità determinati poteri. Così la Corte ha considerato come esclusiva la competenza comunitaria nel settore della politica commerciale comune di cui agli artt. 133 e ss. del Trattato (v. parere n. 1/75 e sentenza 5 maggio 1981, Commissione c. Regno Unito). Mancano affermazioni giurisprudenziali circa l'esclusività della competenza comunitaria in altri settori. In particolare la semplice circostanza che un determinato settore sia oggetto di una 'politica comune' (oltre alla politica commerciale comune, agricoltura e trasporti) non implica che si possa parlare di competenza esclusiva.

(Le norme del Trattato relativa all'agricoltura, ad esempio, prevedono che i prodotti agricoli siano sottoposti ad una politica agricola comune. Tuttavia potrebbe diventare esclusiva qualora fosse esercitata da prevedere una disciplina completa e dettagliata tale da non lasciare alcun profilo alla disciplina degli Stati membri - v. sentenza Galli,Grosoli,Roelstraete e British American Tobacco)

Il Trattato prevede inoltre un terzo tipo di competenze. In taluni settori, infatti, viene precisato che la competenza comunitaria deve essere esercitata in parallelo con la competenza degli Stati membri, attraverso azioni destinate a sostenere, coordinare o integrare quelle degli Stati membri e senza che la competenza comunitaria possa, nemmeno in prospettiva, sostituirsi a quella degli Stati membri (es. nuove azioni e politiche attribuite alla competenza comunitaria a partire dall'AUE)

(La distinzione tra i vari tipi di competenza è definita in maniera particolarmente articolata dall'art. I-l2 della Costituzione. Accanto alla competenza esclusiva e a quella concorrente esso parla anche di competenza per svolgere azioni di sostegno, di coordinamento e di completamento rispetto all'azione degli Stati membri. A queste si aggiungono la competenza per il coordinamento delle politiche economiche e occupazionali e quella in materia di politica estera e di sicurezza comune, considerata a parte)


3. Il principio di sussidiarietà.


È previsto dall'art. 5: 'Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni degli effetti e dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario'.

Ha assunto un'importanza centrale nell'economia dell'intero Trattato e costituisce un punto di riferimento obbligato quando si affronta il problema dei rapporti tra Comunità e Stati membri. Ciò risulta evidente, osservando che il principio è richiamato anche nel preambolo e dell'art. 2.2 TUE, e che ad esso è dedicato un apposito Protocollo allegato al TCE. Le stesse istituzioni hanno concluso tra di loro un accordo interistituzionale in proposito (Lussemburgo, 1993) e infine va ricordato il documento approvato dal Consiglio europeo di Edimburgo nel 1992 ('Impostazione generale dell'applicazione da parte del Consiglio del principio di sussidiarietà e dell'art. 3 B del trattato sull'Unione Europea').

Il principio in esame si pone ad un livello successivo rispetto al principio d'attribuzione. Esso presuppone infatti che il Trattato abbia conferito alla Comunità la competenza in un certo settore e si preoccupa di regolarne le modalità d'esercizio. L'art. 5.2 specifica il campo d'applicazione del principio di sussidiarietà. Esso vale soltanto nei settori che non sono di competenza esclusiva comunitaria (peraltro in numero esiguo). Considerando che, nei settori di competenza concorrente, la sopravvivenza della competenza statale dipende dalla maniera con cui la competenza comunitaria viene esercitata, il principio di sussidiarietà costituisce una garanzia per gli Stati membri che le loro competenze in settori di competenza concorrente comunitaria non vengano limitate o addirittura cancellate quando ciò non si giustifichi in relazione alla maggiore efficienza dell'azione comunitaria rispetto a quella autonoma degli Stati membri.

In astratto il principio potrebbe essere considerato come neutrale. La scelta di dare la preferenza all'azione statale ovvero a quella comunitaria dovrebbe dipendere da un esame obiettivo, mirante a stabilire quale delle due azioni assicuri migliori risultati.

(Per come risulta formulato e per come esso viene inteso dagli Stati membri, invece, il principio di sussidiarietà sempre esprimere un favor per l'azione statale. Quest'ultima va preferita si assicura il raggiungimento degli obiettivi prescelti benché solo in misura sufficiente, mentre l'azione comunitaria può essere scelta soltanto se ne garantisce il raggiungimento ad un livello superiore. Inoltre la maggiore efficienza dell'azione comunitaria rileva come criterio capace di farla preferire all'azione statale solo se essa dipende dalla dimensione e dagli effetti dell'azione in questione. Si deve trattare infatti, di affrontare una questione che presenta aspetti trasnazionali, in mancanza dei quali l'azione comunitaria è esclusa a priori)

Il principio di sussidiarietà dà luogo a non pochi problemi in sede d'applicazione. Le istituzioni sono pertanto preoccupate soprattutto di stabilire garanzie procedurali che favoriscano il rispetto di tale principio in occasione dell'approvazione dei vari atti: in particolare la Commissione deve procedere ad ampie consultazioni proposito, prima di proporre atti legislativi e motivare specificatamente sul punto.

Si è a lungo discusso se il rispetto del principio di sussidiarietà possa esser oggetto di controllo giurisdizionale. Pur avendo accettato di estendere il proprio sindacato al rispetto del principio in esame, la Corte ha operato con estrema prudenza, tenendo conto che la scelta di considerare un atto comunitario conforme al principio di sussidiarietà appartiene a quella sfera di discrezionalità politica che deve essere riservata alle istituzioni e nella quale il giudice non intende intromettersi, salvo il caso di travalicamento dei limiti della discrezionalità o di errore manifesto. In un primo tempo la violazione del principio di sussidiarietà è stata invocata dalle parti come vizio della motivazione (v. sentenze 13 maggio 1997, Germania c. Parlamento e Consiglio e 9 ottobre 2001, Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio). Successivamente la Corte è stata chiamata a verificare l'esistenza della violazione del principio in esame in quanto vizio autonomo. Ciò ha dato modo la Corte di precisare che la verifica del rispetto del principio di sussidiarietà va effettuata sotto due profili distinti: occorre esaminare in primo luogo a) se l'obiettivo dell'azione progettata potesse essere meglio realizzato a livello comunitario e b) che l'azione comunitaria non abbia oltrepassatola misura necessaria per realizzare l'obiettivo cui tale azione diretta (v. sentenza British American Tobacco).

(Il principio di sussidiarietà è ripreso con accresciuta enfasi nella Costituzione, in particolare nell'art. I-l1, par.3. L'unica differenza di rilievo riguarda il riferimento al livello regionale locale accanto quello centrale: entrambi vanno presi in considerazione per valutare se gli Stati membri siano o meno in grado di raggiungere sufficientemente gli obiettivi dell'azione prevista. Un apposito Protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità è stato allegato alla Costituzione per rafforzare il rispetto di tali principi. È prevista la facoltà per ciascun Parlamento nazionale o camera di un Parlamento nazionale di formulare, entro sei settimane dalla trasmissione di un progetto di atto legislativo europeo, un parere motivato di non conformità della proposta stessa ai suddetti principi. Inoltre è previsto un apposito tipo di ricorso d'annullamento ai sensi dell'art. III-365 in caso di violazione del principio di sussidiarietà proposto da uno Stato membro. Anche il Comitato delle regioni può proporre un ricorso del genere)


4. Il principio di proporzionalità.


Previsto dall'art. 5.3: ' L'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato'.

Anche questo principio attiene alle modalità d'esercizio delle competenze comunitarie. In tutti i tipi di competenza, l'intervento della Comunità, una volta che sia stato deciso, deve infatti essere limitato a quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato. Il principio ha pertanto la funzione di tutelare gli Stati membri da interventi comunitari di portata ingiustificatamente ampia. Gli Stati membri non hanno infatti esitato ad utilizzare il principio di proporzionalità per contestare la legittimità di atti delle istituzioni giudicate eccessivamente invasivi delle loro competenze (v. sentenza 9 novembre 1995, Germania c. Consiglio, sentenza 12 novembre 1996, Regno Unito c. Consiglio e sentenza 13 maggio 1997, Germania c. Parlamento e Consiglio). La Corte tuttavia, limita il proprio riesame alle ipotesi di errore manifesto, sviamento di potere o manifesto travalicamento dei limiti della discrezionalità.

L'esigenza di rispettare la proporzionalità comporta restrizioni per quanto riguarda tanto la scelta del tipo di atto da adottare, quanto il contenuto di quest'ultimo. Circa il primo aspetto, le direttive dovrebbero essere preferite regolamenti e le direttive quadro a misure dettagliate (punto 6 del Protolcollo). La Impostazione generale cit. afferma che ove possibile dovrebbero essere preferite misure non vincolanti, quali le raccomandazioni. Quanto al contenuto dell'atto le misure comunitarie dovrebbero lasciare il maggior spazio possibile alle decisioni nazionali, purché sia garantito lo scopo della misura e siano soddisfatte le prescrizioni del trattato (punto 7 del Protocollo).

Infine riguardo al rapporto tra il principio di proporzionalità cui all'art. 5.3 e il principio generale omonimo, incluso tra i principi generali del diritto comunitario: quest'ultimo si è inizialmente affermato come strumento di protezione dei singoli nei confronti delle istituzioni comunitarie ovvero delle autorità degli Stati membri, quando queste ultime agiscono in un settore retto dal diritto comunitario. Il principio esige infatti che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposte singoli siano a) idonei a raggiungere l'obiettivo perseguito e b) necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui. Il principio di proporzionalità di cui all'art.5.3 riguarda invece il rapporto tra le competenze comunitarie e quelle degli Stati membri. Costituisce pertanto una garanzia specificamente prevista per questi ultimi. Tuttavia i criteri utilizzati sono gli stessi di quelli propri del principio generale.


5. La competenza a concludere accordi internazionali.


Particolarmente complessa si rivela la definizione e la classificazione della competenza della Comunità per quanto riguarda la conclusione di accordi internazionali (c.d. competenza esterna). La competenza esterna della Comunità non ha portata illimitata. Essa infatti soggiace al principio della competenza d'attribuzione (v. parere 2/94). Inoltre la soggettività di diritto internazionale della Comunità coesiste con quella degli Stati membri (ciò ha dato luogo a frequenti controversie sulla portata della competenza esterna comunitaria).

I casi in cui la Comunità è dotata di competenza esterna appartengono due categorie:

a) competenza esterna normativamente prevista: si tratta dei casi in cui il Trattato dispone espressamente che la Comunità può concludere accordi internazionali (in origine solo accordi in materia di politica commerciale comune e di associazione. Successivamente si sono aggiunte altri settori);

b) competenza esterna parallela: la Corte di giustizia ha stabilito che la Comunità può concludere accordi internazionali anche in tutte le altre materie per le quali disponga del potere di adottare atti sul piano interno (principio del parallelismo dei poteri comunitari interni ed esterni). Essa può essere esercitata tanto dopo che la Comunità abbia già provveduto all'adozione di atti sul piano interno (competenza parallela successiva) (v. sentenza AETS di ), quanto quando la competenza interna è attivata proprio in occasione della conclusione di un accordo internazionale (competenza parallela preventiva) (v. parere n. 1/76). Questo secondo caso è da considerarsi eccezionale: secondo la Corte è necessario dimostrare che la partecipazione della Comunità all'accordo internazionale in questione è indispensabile per tre la realizzazione di uno degli obiettivi della Comunità stessa (v. parere n. 1/94 e sentenza 5 novembre 2002, Commissione c. Danimarca).

(La circostanza che la Comunità abbia concluso, anche nella forma di un accordo misto, un accordo con Stati terzi, esercitando così la propria competenza esterna, preclude agli Stati membri che siano parti dell'accordo accanto alla Comunità, di utilizzare tra di loro i procedimenti per la soluzione delle controversie predisposti dall'accordo stesso, trattandosi di controversia relativa all'interpretazione o all'applicazione del presente trattato ai sensi dell'art. 292 TCE, attribuita pertanto alla competenza esclusiva della Corte di giustizia - v. sentenza 30 maggio 2006, Commissione c. Irlanda).


Questione più delicata è stabilire se la competenza esterna comunitaria ha natura esclusiva o concorrente. Si tratta di determinare se la possibilità di che la Comunità concluda un accordo internazionale in un certo campo impedisce agli Stati membri di concludere a loro volta un accordo nel medesimo campo in alternativa alla Comunità o a fianco della stessa (accordi misti). Occorre fare alcune distinzioni:

a) competenza esterna originariamente esclusiva: nelle materie in cui la Comunità ha competenza esclusiva sul piano interno essa ha anche competenza esclusiva sul piano esterno. Così la Comunità è l'unica a poter concludere accordi internazionali nel campo della politica commerciale comune (v. parere n. 1/94) nonché nel campo della conservazione delle risorse biologiche del mare (v. sentenza Kramer).

b) competenza esterna esclusiva derivata: in tutti gli altri casi la competenza esterna della Comunità è concorrente e sopravvive a fianco di quella degli Stati membri. La scelta di chi debba concludere l'accordo potrebbe essere dettata da considerazioni di ordine politico. Si previsto tuttavia come la competenza (interna) concorrente degli Stati membri può risultare limitata o addirittura preclusa in conseguenza dell'esercizio della competenza (interna) concorrente della Comunità. Ciò avviene anche per quanto riguarda la competenza esterna. In particolare la competenza esterna degli Stati membri nei settori di competenza concorrente non può estrinsecarsi nella conclusione di accordi internazionali il cui contenuto a) sia incompatibile con norme comunitarie adottate sul piano interno o b) incida sulla loro applicazione (v. sentenza AETS).

(Delle due condizioni innanzi indicate che di fatto trasformano in esclusiva la competenza comunitaria, la seconda, ovvero l' incidenza dell'accordo su norme comunitarie, è quella che viene invocata molto più spesso. La verifica di tale condizione pone dei problemi interpretativi particolarmente delicati - v. sentenza 5 novembre 2002, Commissione c. Danimarca e parere n. 1/03)

Le conclusioni di cui sopra trovano applicazione anche per quelle (nuove) materie in relazione alle quali il Trattato prevede espressamente la competenza esterna comunitaria, ma ne evidenzia la natura concorrente, specificando che gli Stati membri possono concludere autonomamente accordi internazionali (artt. 111, 174.2, 181.2,181 A). In questo senso la Dichiarazione n. 10, allegata all'Atto finale relativo al TUE, precisa che secondo la Conferenza, tali disposizioni non ledono i principi risultanti dalla sentenza della Corte di giustizia della causa AETS.

(I risultati cui è giunta la giurisprudenza trovano riscontro, almeno in parte, in due articoli della Costituzione che si occupano di competenza esterna, gli artt. I-l3 e III-323 par.1).


6. Le competenze dell'Unione nel II e nel III pilastro.


Il TUE non contiene norme paragonabili all'art. 5 TCE. Manca pertanto un inquadramento generale del problema delle competenze dell'UE diverse da quelle rientranti nel pilastro comunitario. La Corte ha potuto dare sinora un contributo meramente episodico e parziale in questa materia. Tuttavia è possibile trarre da specifici articoli dei Titoli I, V, VI e VIII o dal contesto di tali Titoli alcuni principi che è opportuno mettere in risalto.

Il principio della competenza d'attribuzione: non vi è dubbio che esso si applichi anche in questi ambiti. L'art. 2.3 implica che le istituzioni godono soltanto dei poteri e delle competenze specificamente loro attribuite dal TUE e che tali poteri competenze possono essere utilizzati soltanto per proseguire gli obiettivi che il TUE fissa agli artt. 2,11 par.1(PESC) e 29(cooperazione del III pilastro). Manca peraltro una clausola di flessibilità come l'art. 308 TCE che consenta un'autonoma assunzione di poteri da parte delle istituzioni in caso di assenza di poteri adeguati per perseguire gli obiettivi del trattato (v. sentenza Yusuf).

Quanto al tipo di competenze la classificazione è difficile da seguire per quanto guarda il II e il III pilastro. Si può dire che non vi sono in questo ambito settori di competenza esclusiva dell'Unione. Al più può parlarsi di competenza concorrente. In molti casi si tratta di competenza del terzo tipo (competenze di coordinamento). La sola previsione della competenza dell'Unione in un certo settore, per perseguire determinati obiettivi, non preclude affatto agli Stati membri di agire autonomamente nei medesimi ambiti, fino a quando l'Unione non abbia esercitato i propri poteri.

(Non essendovi nell'ambito del II e del III pilastro competenze del tipo esclusivo, il principio di sussidiarietà previsto dall'art. 5.2 è applicabile all'intero settore della PESC e a quello della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. È quanto stabilisce esplicitamente il richiamato art.2.2 TUE)

La categoria della competenza concorrente è sicuramente presente nel III pilastro. In questo ambito la loro libertà d'azione diviene sempre più limitata man mano che l'Unione esercita le proprie competenze in materia di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Ciò si verifica quantomeno allorché il Consiglio adotta decisioni quadro per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali, ai sensi dell'art. 34 par. 2 lett. b. È riconosciuto anche nel campo d'applicazione del III pilastro un obbligo di leale collaborazione da parte degli Stati membri.

Quanto al pilastro PESC, la categoria della competenza concorrente trova riscontri soltanto parziali. Potrebbe forse parlarsi di competenza concorrente per le materie che possono formare oggetto di azioni comuni ai sensi dell'art. 14. L'adozione di un'azione comune fa scattare uno specifico obbligo di leale collaborazione, previsto dall'art. 11 e comporta a carico degli Stati membri una limitazione dei loro poteri, non potendo essi tenere comportamenti o emanare misure in contrasto. Tuttavia le azioni comuni hanno un obiettivo alquanto limitato quanto al contenuto e alla durata. Esse non possono pertanto avere lo stesso effetto di svuotamento della competenza statale che normalmente deriva dall'esercizio di una competenza concorrente di tipo normativo.

Piuttosto la competenza dell'Unione nel settore della PESC presenta alcune caratteristiche delle competenze di terzo tipo, soprattutto della competenza di coordinamento. Dall'art. 11 par.2 si evince che l'adozione di misure sempre più numerose ai sensi del Titolo V da parte dell'Unione Europea non comporta un corrispondente svuotamento della competenza degli Stati membri a condurre una propria politica estera di sicurezza, ma impone loro soltanto un obbligo di coerenza e un obbligo di coordinamento.

L'obbligo di coerenza si ricava da numerose disposizioni del Titolo V (artt. 11 par. 2 cit., 14 par. 3, 15). Gli ultimi due articoli postulano che gli Stati membri continuino a svolgere una politica estera nazionale, con il solo limite di evitare comportamenti difformi dalla linea adottata dall'Unione.

Quanto all'obbligo di coordinamento gli Stati membri si formano reciprocamente e si consultano in sede di Consiglio in merito a qualsiasi questione di politica estera e di sicurezza di interesse generale in modo da realizzare un'efficace azione convergente (artt.16,19,20).

In conclusione la competenza nel settore della PESC è da considerarsi sui generis e pertanto non classificabile secondo le categorie applicabili nel pilastro comunitario (il carattere sui generis è confermato dalla Costituzione che vi dedica una disposizione speciale: l'art.I-l6).

È opportuno infine accennare al problema della delimitazione di competenza tra i vari pilastri. Si è già visto come la Corte di giustizia si consideri competente a verificare, in sede di ricorso d'annullamento contro atti del Consiglio basati sulle disposizioni del III pilastro, che tali atti non invadano le competenze che le disposizioni del Trattato CE attribuiscono alla Comunità (v. sentenza 12 maggio 1998, Commissione c. Consiglio). La stessa soluzione dovrebbe valere anche in caso di atti basati su disposizioni del II pilastro. Anche in questo caso, infatti, trova applicazione il principio previsto dall'art. 47 TUE. Si è anche visto come, per esercitare tale compito, la Corte accerta se la base giuridica prescelta per l'atto impugnato è stata individuata correttamente, cioè in funzione di criteri oggettivi, in particolare lo scopo e il contenuto dell'atto. Pertanto il rispetto della delimitazione tra, da un lato, il pilastro comunitario e, dall'altro il II o il III pilastro è garantita da un rimedio giurisdizionale.

Dalla scarsa giurisprudenza finora emanata a riguardo, sembra però emergere una tendenza a considerare che le competenze del III pilastro abbiano una funzione residuale e possano essere legittimamente utilizzate soltanto se non sia disponibile una base giuridica adeguata all'interno del TCE (v. sentenza 13 settembre 2005, Commissione c. Consiglio). Quanto al rapporto tra pilastro comunitario e II pilastro, merita accennare al principio di coerenza (artt. 301 e 60 TCE), secondo cui è possibile utilizzare atti adottati in forza del TCE per perseguire obiettivi propri della PESC (v. sentenza Yusuf).







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