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PROCESSO A COGNIZIONE PIENA ED ESAURIENTE (di 1° grado) - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

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PROCESSO A COGNIZIONE PIENA ED ESAURIENTE (di 1° grado) - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

Le forme di tutela a cognizione piena sono le forme di tutela classica perché sono quelle destinate a prestare tutela a tutta una serie di diritti, sono quelle forme di tutela che si concludono con la sentenza cioè con un provvedimento che è idoneo a disciplinare una volta per tutte il rapporto fra le parti. Nell'ambito di queste forme di tutela a cognizione piena esistono delle distinzioni, infatti abbiamo:

il processo ordinario di cognizione piena (che tutti possono utilizzare per la tutela dei diritti in generale);

il processo del lavoro;



il processo delle locazioni;

il processo che si svolge davanti al giudice di pace.

Il processo a cognizione piena tende a fare accertare in maniera completa la situazione. Possiamo dire tale processo è distinto in 3 fasi: la fase introduttiva (fase inevitabile); la fase istruttoria (fase non essenziale, perché può accadere che il processo non debba accertare alcuna situazione di fatto); la fase decisoria (che potrebbe non esistere se il processo dovesse avere una conclusione diversa dalla sentenza).

Fase introduttiva

Gli atti introduttivi sono la citazione (atto con il quale l'attore propone una domanda e che viene ad esistenza giuridica nel momento in cui viene notificato al convenuto) ed il ricorso (atto anch'esso con il quale l'attore propone una domanda ma che viene ad esistenza giuridica prima della notifica al convenuto, cioè con il deposito). Per quanto riguarda la citazione, fino al 1950 nella citazione dell'attore non vi era l'indicazione dell'udienza, successivamente (dal 1950 in poi) il sistema cambia; infatti l'attore nella citazione deve indicare la data dell'udienza (anche se probabilmente non sarà quella effettiva). Il contenuto della citazione è disciplinato dall'art.163 c.p.c. (numeri 1,2,3,4,5,6,7). La domanda può essere divisa in tre parti:

La prima parte che è costituita dalla chiamata in giudizio del convenuto, vocatio in ius, deve contenere (secondo l'art.163 numeri 1,2,7): l'indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta; l'indicazione delle parti (attore e convenuto); l'indicazione del giorno dell'udienza di izione.

La seconda parte, edictio actionis, serve a determinare l'oggetto del giudizio (cioè il diritto per il quale si agisce) e deve contenere (secondo l'art.163 numeri 3,4): la determinazione della cosa oggetto della domanda (cioè il petitum che può essere immediato o mediato); l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni (cioè la causa pretendi che a seconda che soi tratti di diritti eterodeterminati o autodeterminati può essere determinante o meno ai fini della validità della domanda).

La terza parte serve a formare il convincimento del giudice (quindi non è richiesta a pena di validità della domanda) e deve contenere (secondo l'art.163 numeri 5,6): l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi ed in particolare dei documenti che offre in comunicazione (questo è un aspetto che potrebbe intervenire anche successivamente nel processo); il nome ed il cognome del procuratore e l'indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata (la presenza del procuratore è necessaria).

Secondo l'art.163-bis c.p.c., poi, la citazione (che abbiamo esaminato nelle sue parti) vale quando viene notificata al destinatario dall'ufficiale giudiziario (che gli consegna una copia dell'originale). Affinché il convenuto abbia tempo per poter apprestare la sua difesa il legislatore prevede che vi sia un termine minimo tra la data della notificazione e la data dell'udienza (indicata nell'atto di citazione); questo termine minimo (uniformato nel 1990) dev'essere di 60 giorni.

La notificazione della citazione (che è il momento in cui si realizza il contraddittorio) ha, sul processo, sia effetti di natura processuale che effetti di natura sostanziale (che incidono cioè sul diritto che si fa valere in giudizio). Per quanto riguarda gli effetti di natura processuale della notificazione della citazione bisogna dire che essa determina: la pendenza del processo (con la notificazione anche se l'ufficio giudiziario non è stato ancora coinvolto e si è avuto solo un contatto tra attore e convenuto il processo può dirsi iniziato ed è da questo momento che si determinano giurisdizione e competenza); acquisizione della qualità di parte (la notificazione fa acquistare all'attore ed al convenuto la qualità di parte); la determinazione dell'oggetto del processo (la notificazione fa si che si determini l'oggetto del processo con riferimento alla domanda giudiziale, cioè al petitum ed alla causa pretendi dell'atto di citazione).




Per quanto riguarda gli effetti di natura sostanziale della notificazione della citazione, questi attengono: alla prescrizione (la notificazione fa interrompere il termine di prescrizione fino al passaggio in giudicato della sentenza, momento in cui la prescrizione si trasforma da breve in decennale; c'è da dire però che l'effetto sospensivo viene meno se non c'è una sentenza, nel senso che se il processo si estingue la prescrizione riprende dall'evento interruttivo); alla decadenza (la decadenza dall'esercizio di un diritto in alcuni casi può essere impedita con un atto stragiudiziale, in questi casi rimane impedita per sempre; in altri casi può essere impedita con un'azione giudiziale, ovvero con l'atto di citazione, in tali casi però affinché la decadenza venga impedita è necessario che si arrivi ad una sentenza; più precisamente se si tratta di una decadenza che poteva essere impedita con un atto stragiudiziale, anche l'atto giudiziale la impedisce per sempre, altrimenti è necessario che il processo si concluda con una sentenza); al divieto di anatocismo (infatti l'art.1283 c.c. stabilisce che in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi).

L'art.318 c.p.c. prevede che anche per quanto riguarda il procedimento che si svolge davanti al giudice di pace l'atto introduttivo è l'atto di citazione per il quale è previsto lo stesso contenuto dell'art.163 c.p.c.; qui però la differenza è che il termine a ire è ridotto alla metà di quello previsto dall'art.163-bis c.p.c., cioè a 30 giorni anziché a 60 giorni.

Per il processo del lavoro (così come per quello delle locazioni) è previsto come atto introduttivo il ricorso; sappiamo che esso ha la caratteristica di essere depositato prima in cancelleria del giudice competente quindi il primo contatto è quello che si ha tra una parte (l'attore) ed il giudice, mentre il contatto tra attore e convenuto si ha in un secondo momento, con la notifica del ricorso e del decreto del giudice. Dal ricorso in questione va distinto il ricorso in cassazione che in realtà è un atto di impugnazione. La disciplina del ricorso non prevede che l'attore indichi l'udienza perché in questo caso è compito del giudice farlo. Il contenuto del ricorso è disciplinato dall'art.414 c.p.c. e dall'art.415 c.p.c.; questi articoli prevedono le stesse parti che abbiamo individuato nella citazione (vocatio in ius, edictio actionis e convincimento del giudice), con la differenza che nel ricorso non è l'attore che indica l'udienza ma è il giudice che la fissa ed inoltre il termine minimo a ire non è più di 60 giorni ma di 30 giorni. Quindi il procedimento si svolge in questo modo: il ricorrente deposita il ricorso in cancelleria, il giudice entro 5 giorni dal deposito fissa con decreto l'udienza (che deve svolgersi almeno 30 giorni dopo la notificazione del decreto e del ricorso al convenuto), l'attore deve poi recarsi in cancelleria per procurarsi le copie del ricorso e del decreto per notificarle al convenuto. Nel ricorso sono contenuti in pieno l'edictio actionis e la parte che mira al convincimento del giudice, ma a differenza della citazione la vocatio in ius è spaccata perché è contenuta in parte nel ricorso ed in parte nel decreto del giudice. Nel rito del lavoro inoltre anche se sono previste le decadenze il giudice non è tenuto ad avvisare il convenuto che se non e esse (le decadenze) si verificano. A causa dei due momenti (proposizione della domanda con il ricorso ed instaurazione del contraddittorio con la notificazione del ricorso e del deposito) si discute sul momento in cui si verificano gli effetti della domanda nei processi che iniziano per ricorso. In ogni caso il deposito del ricorso determina alcuni effetti di natura processuale ed altri effetti di natura sostanziale.




Gli effetti di natura processuale del deposito del ricorso sono: la pendenza del processo (il deposito del ricorso costituisce il momento in cui vengono in contatto la parte ed il giudice e si ha la proposizione della domanda che ha l'effetto di determinare l'oggetto del giudizio, quindi è da questo momento che pende il processo); la determinazione della giurisdizione e della competenza (col deposito del ricorso si ha l'individuazione del giudice e quindi è in quel momento che devono sussistere la giurisdizione e la competenza); l'assunzione della qualità di parte per il solo attore. Gli effetti di natura sostanziale del deposito del ricorso sono: l'impedimento della decadenza (il deposito del ricorso determina l'impedimento della decadenza); l'interruzione della prescrizione (qui è necessario che l'atto introduttivo sia notificato alla controparte); l'assunzione della qualità di parte del convenuto (anche questa avverrà solo con la notificazione del  ricorso e del deposito, perché solo in quel momento il convenuto viene ad essere parte del processo, infatti è solo in quel momento che si realizza il contraddittorio). Nel processo del lavoro il momento della pendenza del processo e quello dell'instaurazione del contraddittorio sono spaccati. Per quanto riguarda la nullità dell'atto di citazione la disciplina, anche dopo la riforma del 1990, è contenuta nell'art.164 c.p.c.; questo articolo, che originariamente era composto da due soli commi, è stato ampliato. Prima della riforma la disciplina della nullità era unitaria per tutti i vizi dell'atto di citazione. Vizi di nullità erano considerati innanzitutto quelli che riguardavano il n.1 "indicazione del giudice", il n.2 "indicazione delle parti" e il n.3 "indicazione dell'oggetto; poi costituiva anche un vizio l'assegnazione di un termine a ire minore di quello stabilito dalla legge ed infine era un vizio la mancanza dell'indicazione della data dell'udienza di izione davanti al giudice istruttore. La nullità, inoltre era rilevabile d'ufficio dal giudice ed il processo si concludeva, questo a meno che il convenuto non si costituiva in giudizio, quindi la costituzione del convenuto sanava ogni vizio della citazione perché questa anche se viziata aveva raggiunto il suo scopo (quello di chiamare il convenuto in giudizio); in questo caso però gli effetti della domanda non si producevano dal momento della notificazione perché la domanda era nulla ma si producevano dal momento della costituzione in giudizio del convenuto, ovvero dalla "sanatoria" della domanda. La disciplina esistente prima della riforma creava vari problemi anche perché venivano sottoposti alla stessa disciplina sia i vizi inerenti all'edictio actionis (numeri 3 e 4) che quelli inerenti alla vocatio in ius (numeri 1, 2 e 7). Il problema si poneva rispetto alla nullità della notificazione che veniva disciplinata diversamente dalla nullità dell'atto di citazione, in quanto se vi era un vizio di nullità nella notificazione il giudice secondo il legislatore doveva: o ritenere sanata la notificazione viziata da nullità quando il convenuto si fosse costituito in giudizio e quindi l'atto avesse raggiunto lo scopo oppure disporre la rinnovazione (cioè che fosse rinotificato l'atto); se invece vi era un vizio di nullità dell'atto di citazione per vocatio in ius (disciplinata in maniera uniforme agli altri vizi dell'atto di citazione) anche qui il giudice doveva o dichiarare la nullità o, quando il convenuto si fosse costituito, ritenere sanato il vizio di nullità della citazione, in questo caso però la "sanatoria" non aveva effetti retroattivi e produceva effetti dalla costituzione in giudizio. Ciò che creava dei dubbi era questa contrapposizione tra effetti retroattivi della sanatoria per la nullità della notificazione o della rinnovazione degli atti (in entrambi i casi gli effetti della domanda si producono a far data dal primo atto di notificazione) ed effetti irretroattivi della sanatoria per la nullità dell'atto di citazione; in sostanza la disciplina della nullità della notificazione, rispetto a quella della nullità della citazione, si mostrava molto più liberale nei confronti dell'attore che aveva sbagliato.


Il primo aspetto controverso (dubbio) consisteva appunto nel fatto che non ci si spiegava questa differenza di discipline.

Il secondo aspetto controverso era dovuto alla mancata previsione della nullità nell'ipotesi della causa pretendi che per determinati diritti (diritti eterodeterminati) è essenziale.

Il terzo dubbio era costituito dal fatto che non ci si spiegava perché il legislatore aveva dato una disciplina unitaria (quella che prevedeva la sanatoria sia pure ex nunc, irretroattiva) per tutti i tipi di vizi (in realtà la disciplina si riteneva inappropriata per determinati vizi, ad esempio se il vizio riguardava la causa pretendi ed il petitum ed il convenuto si costituiva in giudizio, la sanatoria faceva continuare il processo nel quale però non era chiaro l'oggetto perché il convenuto al momento della sua costituzione non era in grado di determinare l'oggetto ed il titolo).

Infine un quarto dubbio era costituito dal fatto che la disciplina della nullità dell'atto di citazione non prevedeva la rinnovazione e questo in via del tutto eccezionale.

I dubbi aumentarono nel 1973 con il processo del lavoro dove a causa della scissione in ricorso e decreto del giudice non si capiva quale disciplina applicare. Dopo la riforma, è stato il nuovo art.164 c.p.c. a dissipare i dubbi suddetti. Questo nuovo articolo si basa sulla distinzione tra vizi che attengono alla vocatio in ius (disciplinati nei primi tre commi) e vizi che attengono all'edictio actionis (negli ultimi commi); inoltre viene ben distinta l'ipotesi in cui il convenuto si costituisce dall'ipotesi in cui il convenuto non si costituisce. Infatti vediamo che il legislatore del 1990 dispone che:

Se il convenuto non si costituisce in giudizio il giudice deve rilevare d'ufficio la nullità dell'atto di citazione e ordinare la rinnovazione dell'atto di citazione, quindi l'attore deve rinotificarlo (prima novità) e se l'attore non rinnova la citazione il processo si estingue; inoltre gli effetti retroagiscono al momento della notificazione della prima citazione nulla, quindi la sanatoria diventa ex tunc (seconda novità).

Se il convenuto si costituisce si ha una sanatoria del vizio che ha efficacia ex tunc (terza novità).

Possiamo concludere che oggi la disciplina dettata per la nullità della citazione per vizi attinenti alla vocatio in ius è uguale alla disciplina dettata per la nullità della notificazione. Per quanto riguarda invece i vizi relativi all'edictio actionis l'art.164 c.p.c. considera non solo il vizio che riguarda l'oggetto (petitum), ma anche il vizio che riguarda il titolo (causa pretendi) che non era previsto prima del 1990 (quarta novità). Il legislatore stabilisce che se il convenuto non si costituisce il giudice deve rilevare la nullità ed ordinare la rinnovazione della citazione nulla; al contrario se il convenuto viene previsto che tale costituzione non ha efficacia sanante perché il vizio riguarda la stessa determinazione del diritto, in questo caso (anche se il convenuto si è costituito e quindi l'atto di citazione ha raggiunto lo scopo) il giudice deve ordinare all'attore di integrare l'atto di citazione.

Nel momento in cui il legislatore ha separato la disciplina della nullità della citazione attinente ai vizi della vocatio in ius da quella attinente ai vizi dell'edictio actionis è possibile adattare la disciplina della nullità al ricorso. Quindi avremo che: se il ricorso è valido ed il vizio è nel decreto quel vizio sarà sanato senza pregiudizio alcuno perché l'efficacia sanante retroagisce al momento del deposito; se il vizio riguarda il ricorso si applicheranno gli ultimi commi dell'art.164 con il giudice che comunque dovrà ordinare la rinnovazione.

Sviluppo della fase introduttiva: la disciplina della fase introduttiva del 1940 è stata oggetto di varie modifiche, prima nel 1950, poi nel 1990 ed infine nel 1995. Vari aspetti di tale disciplina sono però rimasti immutati.

FASE INTRODUTTIVA

L'attore affinché avvenga la notifica si reca dall'ufficiale giudiziario e gli porta l'originale dell'atto di citazione e tante copie quanti sono i destinatari dell'atto.

L'ufficiale giudiziario consegna l'atto di citazione alla controparte e da notizia dell'avvenuta notificazione attraverso la relata di notifica.

L'attore poi ritira l'atto dall'ufficiale giudiziario (l'originale dell'atto insieme agli eventuali documenti che l'attore ritiene di esibire vengono inseriti nel fascicolo di parte) e deposita l'intero fascicolo di parte nella cancelleria del tribunale insieme ad un modulo prestampato che serve per l'iscrizione a ruolo; questo deposito rappresenta la costituzione in giudizio dell'attore e dev'essere effettuato entro 10 giorni dalla notificazione (art.165 c.p.c.).

Il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio, che contiene il fascicolo dell'attore e che accomna la causa fino alla fine (perciò si dice che il fascicolo d'ufficio rappresenta la storia della causa), e lo trasmette al presidente del tribunale.

Il presidente del tribunale assegna la causa ad una sezione ed il presidente della sezione del tribunale assegna la causa ad un giudice istruttore (se il tribunale è piccolo, ovvero costituito da una sola sezione, è il presidente del tribunale ad assegnare la causa direttamente ad un giudice).

Poiché ogni inizio dell'anno si forma un calendario che individua i giudici ed i giorni in cui tengono udienza può capitare che la data dell'udienza indicata nell'atto di citazione non coincide con quella in cui il giudice designato tiene udienza; in tal caso secondo quanto stabilisce l'art.168 c.p.c. la causa dovrà essere trattata nell'udienza tenuta dal giudice designato che sia immediatamente successiva alla data indicata nella citazione (questo è un rinvio d'ufficio dell'udienza). Il giudice poi può, con decreto da emettere entro 5 giorni dalla presentazione del fascicolo, differire la data della prima udienza fino ad un massimo di 45 giorni (in tal caso lo spostamento dell'udienza viene comunicato alle parti dal cancelliere). L'udienza indicata nell'atto di citazione è detta udienza edittale, mentre quella stabilita in base al calendario di cui sopra, al rinvio, allo spostamento del giudice oppure ad esigenze interne all'ufficio è l'udienza effettiva (ai fini della costituzione del convenuto si tiene conto dell'udienza edittale).

Abbiamo così indicato la parte della disciplina della fase introduttiva che è rimasta (più o meno) invariata dal 1940 ad oggi. Ora vediamo l'evoluzione del resto della disciplina.


Il convenuto deve costituirsi 5 giorni prima dell'udienza con una sa in cui deve prendere posizione in ordine ai fatti in causa inoltre, secondo l'art.167 c.p.c. deve: proporre le difese o le eventuali domande riconvenzionali, indicare i mezzi di prova, formulare le conclusioni, chiamare un terzo (entro la prima udienza). È importante dire che l'art.171 c.p.c. prevede la possibilità per una parte di costituirsi fino all'udienza se l'altra parte ha rispettato il termine assegnatole per la costituzione; questa norma in realtà di riferisce al convenuto perché il primo a costituirsi è necessariamente l'attore; all'attore non conviene non costituirsi nei dieci giorni dalla notificazione dell'atto perché così facendo lascerebbe tutto nelle mani del convenuto che non si costituirebbe impedendogli così la successiva costituzione (in tal caso processo si estingue perché nessuna delle parti si può costituire fuori dal termine), più probabile è che l'attore si costituisce entro il termine dei dieci giorni mentre il convenuto che non ha interesse si costituisce all'udienza che dovrà sicuramente essere rinviata affinché l'attore esamini la difesa del convenuto.

Il codice del 1940 prevedeva gli artt.183 e 184 c.p.c. venivano a creare un sistema di preclusioni in quanto le parti potevano proporre domande, eccezioni e conclusioni solo nei primi atti (atto di citazione per l'attore e sa per il convenuto), in realtà però il giudice per fini di giustizia finiva con l'estendere l'applicazione dell'art.184 c.p.c. che ammetteva l'introduzione di novità nel corso ulteriore del giudizio (infatti l'eccezione prevista da tale articolo avrebbe dovuto applicarsi solo quando vi erano realmente gravi motivi).


Il legislatore nel 1950 modificando gli artt.183 e 184 c.p.c. ha disposto che fosse sempre possibile produrre documenti, chiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova, proporre eccezioni ecc.; in sostanza veniva data alla parte la possibilità più o meno illimitata di modificare la domanda (qui non di proporne un'altra; infatti in questo caso il giudice avrebbe dovuto rifarsi alla reazione dell'altra parte e ammettere la nuova domanda solo in assenza di una contestazione da parte di questa).


Nel 1973 viene riformato il processo del lavoro con la creazione di un rito del lavoro differente da quello ordinario. Il sistema del processo del lavoro è caratterizzato da preclusioni che obbligano le parti a specificare la loro posizione sin dai primi atti. L'art.416 c.p.c. stabilisce che il convenuto deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell'udienza dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. La costituzione del convenuto si effettua mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio; inoltre nella memoria difensiva il convenuto deve prendere posizione senza limitarsi a contestare i fatti affermati dall'attore, deve indicare a pena di nullità i mezzi di prova di cui intende avvalersi, deve eventualmente chiamare in causa il terzo. Nel processo del lavoro il convenuto è costretto ad effettuare una serie di atti ("a scoprire le sue sectiune") sin dal primo momento. Nel processo del lavoro si hanno:

RICORSO dell'attore e DEPOSITO in cancelleria

DECRETO del giudice

NOTIFICA di entrambi da parte dell'attore al convenuto

COSTITUZIONE DEL CONVENUTO almeno 10 giorni prima dell'udienza con una memoria difensiva

Secondo l'art.420 c.p.c. anche qui se ricorrono gravi motivi le parti possono modificare le domande, proporre eccezioni e conclusioni già formulate, previa però autorizzazione del giudice. Tale articolo si limita a prendere in considerazione l'ipotesi di modifiche basandosi fortemente su un sistema di preclusioni; l'unica nuova attività consentita nel processo del lavoro è quella relativa alle prove, in tal caso si deve comunque dare la possibilità alla controparte di replicare alle prove richieste. Nel 1973 il sistema introduttivo del processo del lavoro è completamente diverso rispetto a quello presente nel processo ordinario perché in quest'ultimo era consentito alle parti di proporre nove domande, nuove eccezioni ecc. (anche attraverso la scappatoia, della contestazione della proposizione della nuova domanda, trovata dalla dottrina). Il sistema introduttivo nel processo ordinario cambia ulteriormente nel 1990.


CITAZIONE

NOTIFICAZIONE

COSTITUZIONE DELL'ATTORE (entro 10 giorni dalla notificazione), nomina del giudice istruttore e quindi fissazione dell'udienza

COSTITUZIONE DEL CONVENUTO con una sa (20 giorni prima dell'udienza)

Nel 1990 si ritenne che la posizione del convenuto era troppo compressa perché mentre l'attore aveva tutto il tempo per preparare l'atto di citazione, il convenuto aveva solo 40 giorni per preparare le sue difese. Tale critica fa si che la riforma del 1990 venga rinviata al 1993 quando entra in vigore solo in parte; essa entra poi in vigore completamente 1995.


Con la controriforma del 1995 restano invariati alcuni aspetti: la citazione, i dieci giorni dalla notifica per la costituzione dell'attore, la designazione del giudice istruttore. La novità consiste nell'introduzione di un'udienza di prima izione, art.180 c.p.c., tra la costituzione del convenuto e l'udienza di prima trattazione. In base poi al nuovo art.167 c.p.c. il convenuto nella sa di risposta deve (a pena di decadenza) solo proporre domande riconvenzionali e chiamare in causa il terzo. Dopo si arriva all'udienza di prima izione dove il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio ed eventualmente pronuncia alcuni provvedimenti (quelli ex artt.102, 164, 167, 182, 291); qui la trattazione è orale ed al convenuto viene assegnato un termine perentorio non inferiore a 20 giorni per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. Quindi l'udienza dell'art.180 c.p.c. viene rinviata all'udienza dell'art.183 c.p.c. e 20 giorni prima di quest'ultima il convenuto deve proporre le eccezioni (non rilevabili d'ufficio). Con questa riforma si è spaccata l'attività del convenuto in quanto egli deve fare alcune attività prima dell'udienza di izione ed altre prima dell'udienza di trattazione. Il sistema delle preclusioni non viene eliminato ma viene solo spostato in avanti per dare più tempo al convenuto. L'udienza dell'art.180 c.p.c. in realtà è nulla e comporta solo un ritardo dell'inizio del processo; si può dire che tale norme costituisce solo un rimedio per gli errori degli avvocati. Per quanto riguarda l'art.183 c.p.c., quindi l'udienza di trattazione, è prevista la presenza delle parti (così come nel processo del lavoro in base  all'art.420 c.p.c.) perché il giudice deve interrogarle. Il giudice qui può interpretare negativamente l'assenza di una parte. Inoltre il giudice può concedere un doppio termine perentorio non superiore a 30 giorni per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni e per la replica a tali precisazioni o modificazioni. Il giudice può anche chiedere dei chiarimenti sui fatti di causa. Con l'udienza dell'art.183 c.p.c. si chiude la fase introduttiva del processo ordinario mentre con nell'art.420 si ha la chiusura della fase introduttiva del processo del lavoro. Per quanto riguarda il giudizio che si svolge dinanzi al giudice di pace la situazione è molto più semplice perché non c'è un sistema di preclusioni; mentre l'art.318 c.p.c. indica il contenuto dell'atto di citazione, l'art.319 c.p.c. fissa le regole in tema di costituzione delle parti. Nel processo davanti al giudice di pace l'attore si può costituire anche all'udienza direttamente; in realtà tale affermazione va precisata infatti ci potrà essere un'udienza in quanto l'attore si sia costituito in precedenza. La norma di cui all'art.319 c.p.c. dice solo che l'attore si può costituire in cancelleria fino al giorno indicato come udienza nell'atto di citazione. Ciò significa che non ci sono preclusioni perché se l'attore si può costituire fino all'ultimo momento è chiaro che il convenuto non sapendo cosa farà l'attore non può a sua volta anticiparlo e quindi le parti dovranno inevitabilmente esporre le loro ragioni all'udienza. Arrivati all'udienza il giudice potrà fissare una sorta di termine per le parti, per venire a precisare le rispettive posizioni; in questo caso non vi sono preclusioni perché nell'art.320 c.p.c. non è detto a pena di decadenza. La cassazione ha ritenuto invece che la prima udienza sia un'udienza-limite oltre la quale non sia possibile andare, anche se l'attore si costituisce, viene fissata l'udienza, il convenuto si costituisce nella prima udienza e l'attore deve avere la possibilità di replicare.

Possiamo concludere che nel giudizio dinanzi al giudice di pace c'è una maggiore elasticità che consente alle parti di effettuare la propria attività non solo nella prima udienza ma anche in quella successiva. Dopo aver analizzato i tre diversi modi di introdurre il processo (processo del lavoro, processo ordinario e processo innanzi al giudice di pace) bisogna dire che una volta chiusa la fase introduttiva si apre la fase istruttoria dove si ha l'udienza di cui all'art.184 c.p.c. Dobbiamo trattare brevemente della contumacia: se le parti non si costituiscono si ha la contumacia ; essa è un istituto che si differenzia dall'assenza, perché l'assenza è la mancata partecipazione della parte all'udienza, ma comunque in questo caso si presuppone che la parte si sia costituita. La contumacia nel processo ordinario può riguardare tanto l'attore quanto il convenuto, perché l'attore potrebbe notificare l'atto di citazione ma non costituirsi. Nel processo del lavoro invece la contumacia può riguardare solo il convenuto perché l'attore si costituisce depositando il ricorso. Il legislatore tratta delle ipotesi di contumacia nell'art.290 c.p.c. per l'attore e nell'art.291 c.p.c. per il convenuto. La contumacia dell'attore è poco frequente, infatti si presuppone che avendo proposto la domanda l'attore abbia interesse a costituirsi; tuttavia se accade che egli non si costituisce mentre il convenuto si (condizione necessaria perché il processo vada avanti), quando il giudice accerta che l'attore non si è costituito può: fissare un'altra udienza, se il convenuto vuole andare avanti (teniamo presente che poiché è l'attore che deve provare i fatti costitutivi, se questi non si costituisce il convenuto ha vinto in partenza), oppure disporre la cancellazione della causa dal ruolo e quindi estinguer il processo, se il convenuto non ha interesse alla prosecuzione della causa. Per quanto riguarda la contumacia del convenuto, questa è più frequente della prima; essa viene accertata alla prima udienza di izione dove il giudice, se verifica che il convenuto non si è costituito, deve capire il perché; infatti se il giudice rileva un vizio che importi la nullità della notificazione della citazione deve fissare un termine perentorio all'attore per rinnovarla, se invece non ci sono tali vizi il giudice deve dichiarare la contumacia del convenuto. La contumacia del convenuto non esonera l'attore dal dover fornire la prova dei fatti costitutivi della sua domanda; in altri ordinamenti invece c'è l'istituto della fictio confessio che in caso di contumacia del convenuto ritiene ammessi i fatti costitutivi della domanda. Una peculiarità del processo contumaciale è costituita dal fatto che determinati atti vanno personalmente notificati al convenuto; questi atti vengono indicati dall'art.292 c.p.c. e sono (a parte la sentenza finale) l'ordinanza che ammette l'interrogatorio formale, l'ordinanza che ammette il giuramento, nonché le se contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte (a seguito si alcuni interventi della Corte costituzionale va notificato personalmente al convenuto contumace anche il verbale nel quale si dà atto della produzione di un nuovo documento). La notifica personale di atti non sarà possibile se la parte contumace è deceduta dopo la dichiarazione di contumacia, in tal caso il processo si interrompe (questa è un'ipotesi eccezionale di interruzione del processo perché normalmente il processo stesso è indifferente alle sorti del contumace). È sicuramente possibile la costituzione tardiva della parte contumace fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, ma in tal caso le possibili attività del convenuto saranno limitate. Per il contumace c'è la possibilità di essere rimesso in termini. L'istituto della rimessione in termini consente alla parte caduta in decadenza di poter chiedere di essere ammessa a quelle attività altrimenti precluse, ma per far ciò il contumace deve dimostrare che non si è costituito per causa a lui non imputabile, per caso fortuito o per nullità della citazione o della notificazione.






Riassumendo:

Nell'atto di citazione bisogna indicare:

il giudice (ad esempio: 'davanti al tribunale di Foggia');

i soggetti;

l'esposizione dei fatti;

il petitum (in sostanza la richiesta);

l'indicazione dell'udienza (ad esempio: 'all'udienza del 16 dicembre 2002);

l'avvertimento (di costituirsi entro il termine di 20 giorni se non si vuole incorrere nelle decadenze).

Nella sa di risposta (che è un atto più semplice perchè si poggia su quello che è stato scritto nell'atto di citazione) bisogna indicare:

il giudice;

la sa di costituzione e risposta;

l'indicazione dei soggetti;

la procura (a margine a destra rilasciata solo per un grado di giudizio, a meno che non sia una procura speciale).

Questi atti introduttivi del processo ordinario di cognizione sono bollati (£ 20.000 per quattro facciate e anche per la ,marca di scambio: non solo i propri atti ma anche gli atti che si danno all'avversario). L'attore con l'atto di citazione deposita tante copie quanti sono i destinatari; il convenuto quando deposita tutto, deposita tanti atti quante sono le altre parti e ognuno di questi atti scambiati viene bollato. Oggi c'è la volontà di abolire le marche da bollo per fare un deposito forfettizzato, cioè are all'inizio della causa una somma con un bollettino di conto corrente per non mettere più marche da bollo per tutta la causa (questa legge però viene rinviata di continuo).

Nel ricorso non ci sono grosse differenze rispetto alla citazione, tranne nella parte finale dove c'è l'indicazione del giudice; inoltre non ci sono marche da bollo perché per le cause di lavoro non c'è un onere di natura tributaria. Nel ricorso c'è: l'indicazione delle parti (ma non tutte, solo l'attore), la procura a margine, l'esposizione dei fatti, l'esposizione in diritto delle norme che si ritengono violate e quella che dovrebbe essere la procedura, l'esposizione del petitum.


Terzo

Poiché la sentenza fa stato solo tra le parti verrebbe da chiedersi perché il legislatore si preoccupa di un soggetto che non è parte (il terzo) disciplinando il suo intervento nel processo e dandogli la possibilità di esercitare un impugnazione particolare quale l'opposizione di terzo. La risposta a questi interrogativi è data dal fatto che i rapporti giuridici non vivono separati gli uni rispetto agli altri, infatti esistono una serie di connessioni per cui una sentenza che si pronuncia su un determinato rapporto giuridico può influenzare di fatto rapporti giuridici collegati. In sostanza una sentenza può avere una certa influenza sui diritti del terzo che perciò viene tutelato dal legislatore. L'istituto dell'intervento del terzo nel processo è previsto per disciplinare è regolare inserimento del soggetto che non era parte all'interno del processo. Il terzo nel momento in cui interviene acquista la qualità di parte e perde la posizione di terzo, quindi la sentenza avrà piena inefficacia anche nei suoi confronti. La disciplina dell'intervento è contenuta nell'art.105 c.p.c.; invece le modalità di intervento del terzo sono disciplinate per il processo del lavoro dall'art.419 c.p.c. per il processo ordinario dagli artt.267 e 268 c.p.c.



L'ingresso del terzo nel processo si può avere in vari modi:

Intervento volontario del terzo che, non sollecitato da nessuno ma a seguito di una sua autonoma valutazione, decide di intervenire e di entrare in un processo promosso da un soggetto nei confronti di un altro soggetto per tutelare la sua posizione giuridica. La dottrina (nell'ambito dell'intervento volontario) individua tre ure di intervento:

l'intervento principale si ha quando un terzo vuole far valere un diritto nei confronti di tutte le parti quindi un diritto che è autonomo ed incompatibile ma ugualmente connesso (per l'oggetto o per il titolo) rispetto a quello fatto valere nel processo entrambe le parti;

l'intervento litisconsortile (o intervento adesivo autonomo) si ha quando la causa è iniziata tra attore e convenuto e successivamente vi è l'ingresso nel processo di un altro soggetto che è portatore di un altra causa connessa a quella discussa nel processo per il titolo o per l'oggetto, qui in sostanza il terzo interviene nel processo per far valere un suo diritto compatibile con quello fatto valere in giudizio nei confronti di una delle parti e quindi si affianca all'altra parte;

l'intervento adesivo dipendente si ha quando un terzo non vuole far valere un diritto ma un interesse perché non propone una vera e propria domanda, infatti interviene nel processo affiancando una delle parti per sostenerne le ragioni poiché se venisse accolta la domanda della controparte egli subirebbe un pregiudizio.

Queste tre ure di intervento si distinguono a seconda della situazione sostanziale che il terzo vuole fare valere. In genere nel litisconsorzio facoltativo l'intervento è ammesso solo nel 1° grado del giudizio (nel grado d'appello non è possibile proporre una nuova domanda). Per ciò che riguarda il momento dell'intervento, è previsto che il terzo per intervenire deve costituirsi presentando in udienza o depositando in cancelleria una sa a norma dell'art.167 c.p.c.

Intervento coatto del terzo che viene costretto ad assumere la posizione di parte:

su istanza di parte (infatti ogni parte può chiamare in causa il terzo se ritiene che la causa sia comune se pretende di essere garantito),

su ordine del giudice (infatti a seguito di una sua valutazione il giudice può ordinare alle parti presenti di citare il terzo al quale la causa è comune).


Si è detto che la fase preliminare del processo si apre con la citazione o con il ricorso e si conclude, nel processo ordinario, con l'udienza di trattazione ex art.183 c.p.c. dove il giudice può concedere un doppio termine (per le memorie di precisazione o di modificazione e per le repliche) o, nel processo del lavoro, con l'unica udienza di discussione ex art.420 c.p.c. dove le parti dovranno presentare le domande, le eccezioni e le conclusioni. Infatti nel processo ordinario inoltre abbiamo due momenti separati: la prima fase di allegazione che termina con l'udienza di trattazione e la seconda fase delle prove che opera successivamente; nel processo del lavoro invece i due momenti coincidono perché le preclusioni operano sia per i fatti che per le prove.

Fase istruttoria

Le norme sulla fase istruttoria non esistono solo nel codice di procedura civile, ma anche nel codice civile. Nel codice civile ci sono una serie di norme che fissano delle regole in ordine all'ammissibilità e in ordine alla rilevanza dei mezzi di prova previsti dal nostro ordinamento mentre nel codice di procedura civile troviamo le regole relative all'assunzione dei mezzi di prova che vengono chiesti dalle parti.

Nel processo ordinario di cognizione (ma anche nel processo del lavoro e anche nel processo davanti al giudice di Pace) non è sempre detto che la fase istruttoria ci sia; essa è una parte importante nel processo ma non è una parte essenziale (potrebbero esserci solo la fase introduttiva, la fase decisoria e quella finale). Tuttavia nel processo civile la fase istruttoria è molto frequente e ciò è normale, infatti essa è diretta a formare il convincimento del giudice. Per quanto riguarda le regole generali in tema di prove contenute nel codice civile, norma generale è l'art.2697 c.c., relativo all'onere della prova, che stabilisce: al 1° comma che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono fondamento (questo vale per l'attore) e al 2° comma che chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto sia modificato o estinto deve provare i fatti (estintivi, modificativi o impeditivi) su cui l'eccezione si fonda (questo vale per il convenuto). La norma in questione fissa quella che è la regola in tema di prova, chi deve provare e che cosa bisogna provare (Onere della prova significa che la parte deve fornire la prova di quei fatti, altrimenti questi non saranno provati; infatti il giudice ritiene quei fatti come non esistenti, quindi la mancanza di prove è equiparata in tutto e per tutto alla non esistenza di quel fatto . La regola che vige nel nostro sistema è la cd. norma non aliquet, cioè non esiste nel nostro ordinamento l'assoluzione per insufficienza di prove nel civile, prima esisteva nel penale ora non più, infatti anche nel penale oggi vi è o la sentenza di condanna o la sentenza di assoluzione non c'è una terza strada; una volta che la sentenza è passata in giudicato il discorso è chiuso, non è più possibile mettere in discussione la sentenza). Nel nostro sistema le parti devono comunicare le prove a pena di decadenza, è chiaro che il convenuto dovrà comunque dare la prova non sapendo quello che farà l'attore. La regola dell'art.2697 c.c., quella dell'onere della prova a carico dell'attore, non è una regola assoluta perché possibile che vi sia la cd. inversione dell'onere della prova, cioè che sia il convenuto a dover fornire la prova dei fatti (a questo punto sarà l'attore a dover fornire la prova dei fatti modificativi, impeditivi ed estintivi della condizione assunta; questo avviene ad esempio nel caso di licenziamento per giusta causa in cui è il datore convenuto a dover provare la giusta causa). Nell'art.2698 c.c. (patti relativi all'onere della prova) viene poi stabilito che sono nulli i patti con i quali è modificato l'onere della prova, quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l'inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l'esercizio del diritto. Quindi la regola generale è che l'attore deve provare gli atti costitutivi ecc., l'eccezione invece è l'inversione che è sottoposta a delle condizioni, ovvero non si può mai avere onere della prova nell'ipotesi di diritti indisponibili, non si può avere l'effetto dell'inversione dell'onere della prova quando si rende difficile o impossibile provare o esercitare il diritto. Una regole generale che troviamo nel codice di procedura civile è l'art.115 c.p.c.; questo articolo fissa la regola della disponibilità delle prove ("salvi i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento delle decisioni le prove proposte dalle parti o dal p.m."), secondo il principio che nel nostro sistema le prove sono richieste dalle parti (p.m., attore e convenuto). Il principio in questione non è assoluto, perché proprio l'art.115 c.p.c. nomina "altri casi previsti dalla legge" e molto spesso i codici indicano in parentesi una serie dì norme che potrebbero essere delle ipotesi nelle quali il legislatore fa riferimento. In questi casi accade che il giudice può porre a fondamento delle sua decisione prove che non sono state richieste dalle stesse parti ma che il giudice applica, cioè dispone d'ufficio (questa eccezione riguarda il mezzo di prova, non riguarda invece i cd. fatti; in quanto nel processo civile relativamente all'inserimento dei fatti storici e relativamente alla loro allegazione vi è il coinvolgimento assoluto delle parti e c'è il divieto per il giudice di portare nel processo conoscenze di fatti acquisiti in altro modo).

Ad esempio l'art.421 c.p.c. in materia di processo del lavoro stabilisce che il giudice può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio (che è riservato esclusivamente alla parte).

Nel processo del lavoro la regola è il principio inquisitorio con l'eccezione del principio dispositivo, mentre nel processo ordinario la regola è il principio dispositivo con l'eccezione del processo inquisitorio. Le prove hanno sempre ad oggetto i fatti, questi fatti entrano nel processo tramite le parti, il giudice non può mai introdurre nel processo circostanze di fatto acquisite in altro modo (ad esempio leggendo il giornale). L'art.116 c.p.c. contiene una valutazione delle prove; qui vi è una tripartizione in base alla loro efficacia proibitoria. Quindi possiamo avere:

Prove legali, quando il giudice non può valutare il risultato delle prove ma deve prendere quel risultato per vero e decidere la causa in conformità al risultato della prova (ad esempio il giuramento, la confessione ecc.); qui il giudice è vincolato dalla prova.

Prove libere, quando il giudice non è vincolato e deve valutare il risultato della prova (ad esempio la prova testimoniale).

Argomenti a prova, quando il giudice non ha una vera e propria prova ma ha qualcosa che serve per interpretare le prove libere, cioè a rafforzare il suo convincimento (ad esempio il comportamento delle parti o le risposte che le parti danno al giudice nell'interrogatorio libero).  

La differenza tra una prova ed un argomento di prova è che la prova è sufficiente per decidere una causa, mentre anche molti argomenti di prova non sono sufficienti per decidere una causa se non c'è almeno una prova. Per quanto riguarda l'efficacia delle prove possiamo dire che: le prove legali vincolano il giudice, le prove libere vengono valutate liberamente dal giudice ed infine gli argomenti di prova servono per rafforzare le prove libere. Abbiamo poi altri tipi di prove:

Prove orali, che si formano davanti al giudice (ad esempio il giuramento e la testimonianza);

Prove scritte (ad esempio l'atto pubblico);

Prove precostituite, che esistono prima e al di fuori del processo (ad esempio l'atto pubblico);

Prove costituende, che si formano nel processo e se fatte fuori dal processo non hanno valore (ad esempio il giuramento e la testimonianza).

Un'altra distinzione per quanto riguarda le prove è quella tra prove tipiche (previste dalle legislatore) le prove atipiche (non previste dal legislatore). Dobbiamo ora vedere quali sono le regole generali in tema di assunzione di prove; tale regola nel processo ordinario è indicata dall'art.184 c.p.c. Il processo si snoda per udienze, infatti abbiamo: una prima udienza di izione con delle attività limitate; poi l'udienza di trattazione (in cui ci può essere un'attività limitata, se il processo è semplice, oppure vi può essere la produzione di nuove domande da parte dell'attore se vi sono state eccezioni del convenuto), questa udienza è quella indicata nell'art.183 c.p.c. e determina il thema decidendum. L'art.184 c.p.c. è la norma considerata dal legislatore per quanto riguarda il meccanismo delle prove, cioè la fase relativa all'assunzione delle prove. Secondo l'art.184 c.p.c. 1° comma: il giudice, se ritiene che siano ammissibili e rilevanti, ammette di mezzi di prova proposti, ovvero, l'istanza di parte rinvia ad altra udienza assegnando un termine entro il quale le parti possono indicare nuovi mezzi di prova, nonché l'altro termine per l'eventuale indicazione di prova contraria.


Nell'udienza dell'art.184 c.p.c. le parti non chiedono subito le prove ma chiedono al giudice un doppio termine: un termine per le prove dirette ed un altro termine per le prove contrarie. Quindi il giudice rinvia ad un'altra udienza, l'udienza per l'ammissione dei mezzi probatori. I termini concessi dal giudice sono termini perentori. il 1° comma dell'art.184 c.p.c. prevede due soluzioni:

La prima soluzione riguarda il caso in cui le parti hanno proposto già negli atti introduttivi tutte le prove per loro importanti, le parti cioè non hanno da dire altro (noi sappiamo che tanto l'attore quanto più convenuto devono indicare negli atti introduttivi le prove ma possono anche non farlo); in questo caso il giudice ammetterà i mezzi di prova.

La seconda soluzione sia nel caso in cui le parti non hanno chiesto tutti i mezzi di prova che vorrebbero; in questo caso si potrà chiedere al giudice di fissare un doppio termine: uno per l'indicazione delle prove dirette e l'altro per l'indicazione delle prove contrarie (questi termini sono perentori, cioè una volta scaduti non è più possibile per le parti chiedere nuovi mezzi di prova).

Il thema probandum viene ad essere determinato non dall'udienza ex art.184 c.p.c., ma alla scadenza del secondo termine (quando le parti non possono più chiedere altri mezzi di prova) il giudice deve compiere prima un giudizio di ammissibilità e di rilevanza dei mezzi di prova richiesti. L'ammissibilità è la rispondenza dei mezzi di prova allo schema legale prevista dalla legge per quei determinati mezzi di prova (ad esempio la prova testimoniale non si può chiedere per provare un fatto per il quale è richiesta una forma scritta). La rilevanza è l'importanza che quella prova ha nella decisione della causa (teoricamente tutte le prove sono rilevanti ma in alcuni contesti non lo sono). Per quanto riguarda il processo del lavoro, l'art.420 c.p.c. dal 5° comma all' 8° comma disciplina la telematica relativa alle prove nell'udienza di discussione (che è l'udienza nel processo del lavoro). Secondo il 5° comma art.420 c.p.c. il giudice ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e ammette anche i mezzi che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti. La parte può chiedere i mezzi di prova all'udienza. Il giudice dispone con ordinanza l'immediata assunzione dei mezzi di prova. Secondo il 7° comma art.420 c.p.c. se vengono ammessi nuovi mezzi di prova la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione a quelle ammessi, con l'assegnazione di un termine perentorio di 5 giorni. Il giudice, se i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte sono rilevanti, provvede alla loro assunzione. Se all'udienza di discussione una delle parti chiede determinati mezzi di prova che siano ritenuti ammissibili il giudice deve dare alla controparte un termine di 5 giorni affinché questa possa indicare i mezzi di prova; questo è il contraddittorio. Il giudice poi fissa un'udienza in cui avviene l'assunzione delle prove. Il giudice decide sulle prove (se ammetterle o non ammetterle) con una ordinanza. L'ordinanza in questione non ha natura decisoria e non è impugnabile se non quando il giudice e mette la sentenza. Nel 1990 è stato introdotto nell'art.184 c.p.c. il 3° comma che stabilisce che caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi. Le prove una volta ammesse devono essere introdotte nel processo, cioè assunte (se io chiedo di assumere una prova testimoniale e all'udienza non vado la legge prevede che il giudice d'ufficio dichiari la parte decaduta dall'assunzione di quella prova, a meno che la controparte non la voglia assumere). L'art.184-bis c.p.c. è stato introdotto con la riforma del 1990; tale articolo tratto della rimessione in termini.


La rimessione in termini è un istituto generale che opera in tutti i casi in cui vi è una preclusione e la parte non ha compiuto una certa attività per una causa a lei non imputabile; in questi casi scatta la possibilità di essere rimesso in termini, ossia il giudice può assegnare alla parte un nuovo termine per compiere delle quelle attività che non ha potuto compiere per una situazione esterna. La rimessione in termini non vale solo per decadenze della fase istruttoria ma anche per quelle della fase introduttiva.


Prove

Passiamo ad esaminare i vari tipi di prove. Tra le prove documentali (cioè scritte) più importanti abbiamo l'atto pubblico, la scrittura privata e le scritture contabili. L'art.2699 c.c. definisce l'atto pubblico con l'atto formato da un pubblico ufficiale (o da un notaio) autorizzato a porre in essere quel determinato atto. L'atto è pubblico solo quando viene posto in essere da un soggetto nell'esercizio delle sue funzioni. L'atto pubblico fa piena prova fino a querela di falso. La querela di falso è un procedimento diretto ad accertare la falsità dell'atto per eliminarlo dal mondo giuridico (tale querela in se non ha conseguenze penali ma ha solo un fine civilistico). L'unico strumento per togliere efficacia probatoria all'atto pubblico e la querela di falso. L'atto pubblico fa piena prova della provenienza dell'atto stesso dal pubblico ufficiale che la formato, delle dichiarazioni che le parti fanno dinanzi al notaio e di ciò che è avvenuto dinanzi a lui. L'atto pubblico fa piena prova di ciò che appare ma non di ciò che il contenuto interno dell'atto (se le parti hanno dichiarato di voler effettuare una compravendita ma le loro intenzioni erano diversi in quanto volevano effettuare una donazione non si può fare la querela di falso). La querela di falso serve solo a colpire una difformità dell'atto rispetto a quanto accaduto (ad esempio il notaio dichiara che è so dinanzi a lui un soggetto che in realtà non gli si è presentato innanzi). Per l'atto pubblico possiamo avere due tipi di falsità: la falsità ideologica, quando il notaio attesta qualcosa di diverso rispetto a quanto accade dinanzi a lui; la falsità materiale, cioè la materiale contraffazione di un atto che viene modificato ho alterato. L'art.2701 c.c., che tratta della conversione dell'atto pubblico, stabilisce che il documento formato da un ufficiale pubblico incompetente, incapace oppure senza l'osservanza delle formalità prescritte, se è stato sottoscritto dalle parti, si trasforma in una scrittura privata. Pubblico ufficiale per eccellenza è il notaio, ma in genere è pubblico ufficiale qualsiasi soggetto ritenuto tale dalla legge. La scrittura privata è un documento sottoscritto da soggetti privati senza che vi sia la presenza di un pubblico ufficiale che attribuisca fede pubblica a quello che è il contenuto della scrittura. La scrittura privata fa piena prova fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni di chi la sottoscritta se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione o forse questa è considerata come riconosciuta. Anche la scrittura privata incontra un limite che e la querela di falso. Affinché la scrittura privata abbia efficacia di prova nel processo sono necessari degli elementi: un primo elemento necessario è la sottoscrizione delle parti (una scrittura privata non sottoscritta non ha efficacia di prova e potrebbe essere considerata dal giudice come argomento di prova); un secondo elemento necessario è il riconoscimento. La scrittura privata deve essere riconosciuta oppure deve essere considerata legalmente riconosciuta. Si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata da un pubblico ufficiale o da un notaio; in questo caso la scrittura privata ha anche l'efficacia probatoria. L'art.214 c.p.c. e l'art.215 c.p.c. ci dicono come avviene il riconoscimento della sottoscrizione all'interno del processo. Secondo l'art.214 c.p.c. è onere della parte contro la quale la scrittura è prodotta disconoscere la sottoscrizione; a seguito di tale disconoscimento si toglie qualsiasi efficacia alla scrittura privata.

Non sempre però si può disconoscere la propria sottoscrizione (per esempio quando la propria sottoscrizione è vera). L'art.215 c.p.c. stabilisce che la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta in 2 casi: se la parte contro la quale la scrittura è prodotta è contumace oppure se la parte contro la quale la scrittura è prodotta non la disconosce. L'art.215 c.p.c. disciplina il c.d. riconoscimento tacito che si ha quando la parte non disconosce alla sua sottoscrizione, cioè non dice nulla, oppure quando la parte è contumace. Se parte intende avvalersi della scrittura privata tutto dipenderà dalla controparte; infatti se la controparte disconosce la scrittura le toglie efficacia, mentre se ne la controparte non disconosce tale scrittura significherà che quella scrittura è data per riconosciuta. La scrittura privata per aver efficacia piena fino a querela di falso deve essere sottoscritta e deve essere autenticata o riconosciuta espressamente o tacitamente. La scrittura privata fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura stessa e fatte dal soggetto che la sottoscritta. Se si vuole contestare la validità quella scrittura privata è necessario fare la querela di fatto. Se la parte disconosce la sottoscrizione scrittura privata perde efficacia. Il legislatore prevede un particolare procedimento diretto ad accertare la provenienza della sottoscrizione (cioè ad accettare se il soggetto l'ha effettivamente sottoscritta oppure no). L'art.216 c.p.c., poi, stabilisce che la parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiedere la verificazione, producendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di izione; inoltre l'istanza per la verificazione può anche proporsi in via principale con citazione, quando la parte dimostra di avervi interesse, se poi il convenuto riconosce la scrittura le spese sono poste a carico dell'attore. L'ipotesi più frequente è che l'istanza di verificazione viene proposta in via incidente (nel corso di un processo); ad esempio si produce una scrittura privata che viene disconosciuta quindi si propone l'istanza di verificazione. L'interesse della parte ad ottenere la verificazione è dato da due elementi:

il disconoscimento, che è anche il presupposto (nel caso in cui non ci fosse disconoscimento non si avrebbe la verificazione);

la rilevanza della scrittura ai fini della decisione della causa (quel documento deve essere essenziale per poter aver ragione, in tal caso la parte avrà interesse alla verificazione).

L'ipotesi più rara è che l'istanza di verificazione si ha in via principale con citazione; questa è un'ipotesi di azione di accertamento che non ha ad oggetto un diritto ma un fatto, cioè la provenienza della sottoscrizione da quel determinato soggetto. Qui il problema è quello dell'interesse, o meglio il problema è capire che interesse ha la parte proporre un'azione autonoma per ottenere la verificazione della sottoscrizione (quindi possiamo vedere che esiste la possibilità di fare istanza di verificazione in via principale con citazione, ma in tal caso la parte deve dimostrare di avere interesse). La parte quando chiede al giudice la verificazione della sottoscrizione deve fornire i mezzi di prova. I mezzi di prova più importanti sono le scritture di azione con le quali il giudice (quasi sempre con l'aiuto di un consulente tecnico) può desumere se effettivamente la sottoscrizione appartiene a quel soggetto oppure no. Il giudice può anche invitare la controparte a scrivere sotto dettatura per verificare la provenienza della sottoscrizione da quel soggetto. Questo procedimento incidente tale ha natura probatoria (non natura autonoma); qui competente sarà sempre il giudice della causa, sia esso giudice di pace o tribunale. Invece il problema, di capire dinanzi a chi si propone la domanda, si pone in quei rari casi in cui si ammette la verificazione in via autonoma; in questo caso si deve vedere il valore della scrittura privata: se il valore è minore di 5 milioni competente sarà il giudice di pace, mentre se il valore è maggiore di 5 milioni competente sarà il tribunale (in composizione monocratica).


Prima il giudice se con sentenza dichiarava che quella sottoscrizione apparteneva a quel soggetto che l'aveva disconosciuta poteva condannare quest'ultimo ad una pena pecuniaria (non inferiore a 4.000 e non maggiore di 40.000). Il procedimento di verificazione si conclude con una sentenza; questa è un'eccezione dal momento che in materia di prove il giudice pronuncia sempre un'ordinanza (mentre la sentenza darebbe una maggiore certezza perché se non viene impugnata passa in giudicato e viene risolta definitivamente la questione). Il procedimento di verificazione si può concludere in due modi:

con una sentenza che accerta che la sottoscrizione appartiene a quel soggetto (quella scrittura fa piena prova fino a quella di falso);

con una sentenza che accerta che la sottoscrizione non è di quel soggetto (quella scrittura viene eliminata dalla processo, non ha più alcuna efficacia).

A differenza dell'atto pubblico, una scrittura privata (art.2703 c.c.) non fa piena prova in ordine alla data perché essa non viene formata alla presenza di un pubblico ufficiale ma fa piena prova solo della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta. Il legislatore ha cercato di indicare gli elementi utili per individuare la data della scrittura. L'art.2704 c.c. detta una disciplina che non è tassativa e serve per l'individuazione di una data certa nella sottoscrizione del documento. L'ipotesi più semplice è l'autenticazione che è un modo per avere la certezza della data. Un altro modo per avere la certezza della data è la morte della persona che ha sottoscritto il documento, infatti il legislatore considera come data certa quella della morte. Infine un altro modo di determinazione della data si ha nel caso in cui la scrittura in questione venga richiamata in un atto che ha fede pubblica. Tutti questi elementi non sono tassativi perché si può individuare un qualsiasi altro elemento o un fatto che stabilisce in modo certo la data di quella scrittura. Nella prassi è diffuso lo strumento del timbro postale che si ritiene dia certezza; non bisogna però pensare al timbro postale apposto sulla busta e non dentro la scrittura perché altrimenti la scrittura senza busta sarebbe senza data. Il modo infatti è quello di autospedirsi o di spedire all'altra parte il foglio piegato in tre e avente da un lato l'atto scritto e dall'altro un foglio bianco. In questo modo si ha la certezza della data perché sulla parte del documento c'è la data del timbro postale; quindi si ha la certezza di quando è stato spedito un foglio, non si avrà invece la certezza che nel momento in cui è stato spedito era stato anche effettivamente sottoscritto. Possiamo concludere che il timbro postale non dà la certezza che in quella data si è fatto quel contratto perché il timbro non è messo alla fine della scrittura ma sull'altro lato del foglio (qui nel momento in cui l'ufficiale appone il timbro stesso, non verifica che quel foglio e pieno; il foglio potrebbe essere anche bianco). A tal proposito la giurisprudenza non è stata molto attenta. La scrittura privata fa piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni, ma affinché ciò accada è necessario che sia sottoscritta e che la sottoscrizione sia autenticata oppure riconosciuta in maniera espressa o tacita o ancora, se è stata disconosciuta, è necessario che sia stata poi dopo verificata. In riferimento alla scrittura privata, non essendoci un pubblico ufficiale l'unico tipo di falsità che si può avere e quella materiale e non quella ideologica. Sia l'atto pubblico che la scrittura privata fanno piena prova fino a querela di falso. L'atto pubblico fa piena prova della provenienza, delle dichiarazioni e della data; mentre la scrittura privata fa piena prova solo della provenienza delle dichiarazioni da chi le ha sottoscritte. Per la scrittura privata, la quella di falso pone una serie di problemi che non si presentano nel caso dell'atto pubblico. Il primo problema attiene al caso in cui la scrittura privata sia sottoscritta ma non riconosciuta; in tal caso ci si chiede se tale scrittura possa essere oggetto di querela di falso. Partiamo dall'ipotesi in cui venga fatta valere una scrittura privata sottoscritta e la controparte proponga subito la querela di falso perché ritiene che essa sia stata falsificata.

In questa ipotesi la cassazione ha ritenuto che la parte possa far valere la querela di falso saltando il passaggio del riconoscimento. Questa posizione della cassazione però è stata criticata dalla dottrina che ha detto che la scrittura solo sottoscritta non fa piena prova (fino a querela di falso) ma è necessario il riconoscimento o l'autenticazione. Successivamente la cassazione ha detto che per poter proporre la querela di falso la scrittura deve essere prima riconosciuta in modo espresso o tacito. Il secondo problema attiene al caso in cui si voglia proporre la querela di falso contro la scrittura privata verificata. L'art.221 c.p.c dice che la querela di falso si può proporre fino a quando la verità del documento non sia stata accertata con una sentenza passata in giudicato. Siccome la verificazione si conclude con una sentenza che può passare in giudicato, ci si chiede se quella sentenza precluda la possibilità di proporre la querela di falso. La risposta è negativa perché quella sentenza non accerta la verità del documento ma solo della provenienza di quella scrittura da quel soggetto e che l'ha sottoscritta (quindi se la controparte ritiene che quel documento provenga da lui ma sia falso può proporre la querela di falso dopo averlo riconosciuto; mentre se vuole contestare la provenienza deve disconoscerlo e poi ci sarà l'istanza di verificazione). I due istituti, quello della verificazione e quello della querela di falso, hanno obiettivi diversi; inoltre dobbiamo precisare che la scrittura verificata può essere oggetto di querela di falso. Il terzo problema attiene all'abuso del foglio bianco. Esiste la prassi di dare ad alcune persone il compito di risolvere una certa questione ed in tal caso lo si fa firmando in bianco un determinato foglio; gli effetti si produrranno in capo alle parti perché queste hanno firmato e accettato preventivamente l'eventuale decisione. Qui sorgono dei problemi che sono:

l'abuso del mandato conferito, quando si è andati oltre i patti;

il riempimento del foglio in bianco, in assenza di patti, senza mandato.

La giurisprudenza ha detto che nel primo caso non vi è materia per la querela di falso; è possibile impugnare per vizi della volontà. Nel secondo caso quando non c'è mandato c'è la possibilità di proporre la querela di falso. La querela di falso e un procedimento diretto ad accertare la falsità materiale e ideologica (se si tratta di atto pubblico) o solo materiale (se si tratta di scrittura privata). La querela di falso si può proporre tanto in via principale quanto in corso di causa, in ogni stato e grado del giudizio (di regola essa viene proposta in via incidentale, però vi può essere l'esigenza di proporla in via principale). Il giudice competente in questa materia è sempre il tribunale civile. La querela di falso si può proporre in ogni stato e grado del processo, cioè si può proporre in 1° grado, in appello ed anche per la prima volta in cassazione ma con riferimento a quei documenti che si sono formati dopo il giudizio d'appello. Nel procedimento per querela di falso deve intervenire necessariamente il p.m. e sappiamo che nel momento in cui deve intervenire obbligatoriamente il p.m. la causa verrà decisa dal collegio perché tra le ipotesi in cui è competente il collegio a decidere troviamo le cause nelle quali interviene obbligatoriamente il p.m. Nel proporre la querela di falso la parte deve farlo personalmente o a mezzo di un procuratore con atto di citazione ed inoltre deve indicare a pena di nullità gli elementi e le prove della falsità. Se la querela di falso viene proposta nel corso del processo non scatta subito il procedimento incidentale, perché è necessario che il giudice faccia una verifica. Il giudice deve interpellare la parte che ha prodotto il documento per chiederle se vuole comunque avvalersi di quel documento nonostante la minaccia di proporre la querela di falso. Se la parte dice che non vuole avvalersi di quel documento, il documento viene eliminato dal processo; se la parte invece dice che vuol avvalersi di quel documento, nonostante la minaccia di querela di falso, il documento rimane nel processo ma il giudice deve fare un'altra indagine per verificare se quel documento è rilevante ai fini della decisione della causa.

Solo dopo aver accertato che la parte vuole avvalersi di quel documento e che esso è rilevante si ammette la querela di falso e si apre effettivamente il procedimento che, con tutti i mezzi di prova che richiederanno alle parti, sarà diretto ad accertare che quel documento è falso oppure no. Il procedimento in questione si chiude con una sentenza che ha efficacia erga omnes, cioè che ha efficacia anche al di fuori dal processo e quindi anche nei confronti delle persone che non hanno partecipato al processo (infatti se la sentenza accerta che quel documento è falso, lo elimina dal mondo giuridico e, se il documento non esiste più, nessuno potrà più utilizzarlo; al contrario se la sentenza accerta la verità di quel documento, per tutti esso sarà tale e nessuno potrà mettere in dubbio la sua verità). Poiché il giudice di pace e la corte d'appello non sono i giudici competenti a decidere sulla querela di falso, dobbiamo chiederci cosa succede se il problema viene posto dinanzi a tali giudice. In questi casi bisogna dividere il procedimento: per la fase preliminare (cioè l'interpello e la rilevanza) saranno competenti i giudici della causa (che possono essere il giudice di pace o la corte d'appello), mentre per la fase successiva (che si ha nel caso in cui i giudici della causa la sospendono perché ritengono che il documento di cui la parte intende avvalersi, nonostante la minaccia di querela di falso, sia rilevante) sarà competente il tribunale (che deciderà sulla querela di falso). Intervenuta la sentenza sulla querela di falso la parte interessata (cioè quella che ha vinto) riassume il processo davanti al giudice di pace o alla corte d'appello. La sentenza che conclude il giudizio sulla querela di falso può essere: una sentenza di accertamento, se accerta la veridicità del documento (in questo caso il documento era e rimarrà vero) oppure una sentenza costitutiva, se accerta la falsità del documento (in questo caso il giudice elimina, estingue, quell'atto). Le scritture contabili: I libri e le scritture contabili delle imprese, che sono soggette a registrazione, fanno piena prova contro l'imprenditore. Tuttavia chi vuole trarre vantaggio da tali documenti non può scinderne il contenuto. Una scrittura fa prova contro e non a favore dell'imprenditore. Un imprenditore non può usare le sue scritture private contro chi non è imprenditore. Nel processo ingiuntivo invece il creditore-imprenditore può far valere le sue scritture anche nei confronti di chi non è imprenditore. Per quanto riguarda le fotocopie, è possibile che nel corso del giudizio la parte produca delle fotocopie relativamente ad una scrittura. La cassazione ha detto che le fotocopie hanno la stessa efficacia degli atti autentici: nel caso in cui la conformità all'originale è attesta da un atto pubblico ufficiale o nel caso in cui tale conformità non è stata disconosciuta dalla controparte (infatti se la controparte disconosce la fotocopia la parte è tenuta ad esibire l'originale; se invece a controparte non disconosce quella fotocopia, essa è perfettamente efficace). Per quanto riguarda la prova testimoniale, bisogna dire che essa è una prova libera, cioè non è soggetta alla libera valutazione del giudice. La prova libera consiste nella dichiarazione che un terzo (quindi un soggetto che non è parte del processo) compie in ordine ai fatti di causa (ovviamente in ordine a quei fatti che sono a sua conoscenza). Nel nostro ordinamento non è ammissibile la testimonianza della parte. La prova testimoniale è sottoposta ad una serie di limiti sia di natura oggettiva (indicati nel codice civile) che di natura soggetti (indicati nel codice di procedura civile).

Tra i limiti di natura oggettiva (che sono per lo più condizioni di ammissibilità) abbiamo:

Il limite individuato nell'art.2721 c.c.; tale articolo stabilisce che la prova per testimoni dei contratti non è ammessa quando il valore dell'oggetto eccede le lire cinquemila. Tuttavia la stessa norma al 2° comma stabilisce che l'autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Quindi a livello pratico possiamo dire che la norma è superata (infatti nella pratica avviene che mai nessun giudice ha negato l'ammissibilità della prova testimoniale perché il valore del contratto era superiore a lire cinquemila, così come mai nessun avvocato ha sollevato un'eccezioni di inammissibilità ai sensi del 1° comma dell'art.2721 c.c.).


Un altro discorso va fatto per quanto riguarda i c.d. patti aggiunti  la cui disciplina è contenuta negli artt.2722 e seguenti. Infatti l'art.2722 c.c. stabilisce che la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea. Quindi la parte può provare il patto aggiunto o contrario solo per iscritto. Quindi in conclusione se si fanno i patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, non ci si può limitare al fatto verbale, sia pure alla presenza di testimoni, è necessario che il patto venga redatto per iscritto perché solo in questo mondo se ne può provare l'esistenza in giudizio. Per quanto riguarda i patti aggiunti o contrari ma successivi, l'art.2723 c.c. stabilisce che qualora si alleghi che, dopo la formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, l'autorità giudiziaria può consentire la prova per testimoni soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte con modificazioni verbali. Il legislatore infatti ritiene che sia ammissibile il patto aggiunto o contrario in forma verbale se successivo; in questo caso spetterà al giudice valutare se è verosimile che il patto verbale sia stato effettivamente raggiunto, tenendo anche in considerazione la natura del contratto, la qualità delle parti e ogni altra circostanza. In conclusione la prova testimoniale per i patti aggiunti o contrari posteriori non è esclusa a priori, ma e assoggettata ad una valutazione che deve compiere il giudice della causa.

Un altro limite oggettivo alla prova testimoniale è indicato nell'art.2725 c.c.; tale articolo stabilisce che gli atti per i quali la legge richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem non possono essere approvati attraverso la prova testimoniale. In questo caso è prevista un'eccezione che è quella di consentire la prova testimoniale in quei casi in cui la parte senza colpa ha perso il documento scritto.

In genere i limiti imposti dal legislatore all'ammissibilità della prova testimoniale trovano eccezioni nell'art.2724 c.c.; quest'articolo individua tre eccezioni per le quali la prova testimoniale deve essere ammessa: in ogni caso quando vi è un principio di prova per iscritto, quando il contraente è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta (caso in cui il contraente è debole), quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (in questo caso il contraente che vuole utilizzare la prova testimoniale dovrà fornire la prova che non solo era stato fatto un atto scritto ma anche che ha perso per causa lui non imputabile tale atto). Tra i limiti di natura soggettiva (che riguardano la capacità a testimoniare) vi sono varie norme (alcune sono venute meno):

Un limite era quello contenuto nell'art.247 c.p.c. che prevedeva il divieto di testimoniare per il coniuge, i parenti, gli affini in linea retta e coloro che erano legati da un vincolo di affiliazione. Questa norma è stata dichiarata incostituzionale sia perché in contrasto con l'art.24 Cost. sia perché le realtà la prova testimoniale è sempre soggetta alla libera valutazione fatta del giudice che potrà valutare l'attendibilità o meno del testimone.

Un altro limite era quello contenuto nell'art.248 c.p.c. che prevedeva la possibilità che i minori di anni quattordici potessero essere chiamati a testimoniare solo quando la loro audizione era resa necessaria da particolari circostanze. Anche questa norma è stata dichiarata incostituzionale.

Un ultimo limite di natura soggettiva è quello previsto dall'art.246 c.p.c. (che in realtà è l'unico limite soggettivo alla prova testimoniale rimasto nel nostro ordinamento). L'art.246 c.p.c. stabilisce che non possono essere chiamate a testimoniare le persone aventi interesse della causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio; in questo caso l'elemento che rende incapaci di terzo è l'interesse, non l'interesse materiale ma giuridico.

Nel nostro ordinamento si è posto un problema di coordinamento tra la norma di legge e la sentenza con la quale la corte costituzionale ha dichiarato nel 1974 l'incostituzionalità dell'art.247 c.p.c. Nell'ambito del processo del lavoro vi è una norma, l'art.421 c.p.c., che in materia di poteri istruttori del giudice nel processo afferma che il giudice stesso ora lo ritenga necessario, può ordinare la izione, per interrogarle liberamente sui fatti di causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell'art.246 c.p.c. o a cui sia vietato a norma dell'art.247 c.p.c. Quindi nel processo del lavoro (a differenza che nel processo ordinario) il giudice, pur non potendo in alcuni casi accettare la prova testimoniale di alcuni soggetti, aveva la possibilità di sottoporre tali soggetti ad un interrogatorio libero e desumere dalla loro risposte argomenti di prova che potessero servire ad interpretare le altre prove troppo. Come possiamo notare si viene a creare una diversità tra il trattamento di alcuni soggetti nel processo ordinario è il trattamento degli stessi soggetti nel processo del lavoro. Inoltre ci si chiedeva se, dopo la sentenza della corte costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale l'art.247 c.p.c., i parenti potevano essere chiamate testimoniare nel processo del lavoro oppure per effetto della previsione dell'art.421 c.p.c. (che non era stata toccata dalla pronuncia della corte costituzionale) potevano essere solo interrogati liberamente. In sostanza si è finito per considerare la sentenza della Corte costituzionale estesa anche quella parte della norma che faceva riferimento all'art.247 c.p.c. Circa il problema della diversità di trattamento per i soggetti che rientrano nell'art.246 c.p.c. (cioè quelli che hanno interesse nel processo) il professore ritiene che in realtà la disparità di trattamento non può considerarsi incostituzionale e in quanto tale disparità attiene a diverse situazioni. L'attuale situazione è che: nel processo ordinario di terzi interessati non possono essere sentiti come testimoni e non possono neppure essere liberamente interrogati, mentre nel processo del lavoro gli stessi soggetti non possono essere sentiti come testimoni ma possono essere interrogati liberamente dal giudice. Per quanto riguarda le modalità di assunzione della prova testimoniale bisogna fare riferimento all'art.244 c.p.c. che stabilisce che quando la parte chiede la prova testimoniale deve indicare le persone che vuole sentire (i terzi) ed i fatti in maniera specifica operando una separazione per moduli. È importante che la prova testimoniale abbia ad oggetto i fatti, mentre non può aver ad oggetto la valutazione giuridica di tali fatti. Secondo l'art.245 c.p.c. il giudice, dopo che le parti hanno chiesto la prova testimoniale secondo le modalità previste dall'art.184 c.p.c., ammette la prova con ordinanza e con la stessa può ridurre le liste dei testimoni ed eliminare i testimoni che non possono essere sentiti per legge. Quando il giudice ha ammesso la prova testimoniale è obbligo delle parti intimare i testimoni a ire all'udienza fissata dal giudice per la loro audizione. L'intimazione si fa materialmente con un atto che viene notificato al testimone e che deve essere notificato almeno 3 giorni prima dell'udienza (è dovere del testimone ire e rendere la testimonianza, infatti se non e si può chiedere anche che venga accomnato dalla forza pubblica). Nel caso in cui il testimone si presenti e si rifiuti di giurare senza giustificato motivo oppure nel caso in cui vi fosse fondato sospetto che egli non ha detto la verità o ancora nel caso in cui sia stato reticente, il giudice istruttore lo denuncia al p.m., al quale trasmette copia del processo verbale; in questa norma è stata eliminata l'ultima parte che dava la possibilità al giudice civile di ordinare persino l'arresto del testimone. Ai sensi dell'art.257 c.p.c. la prova testimoniale può essere disposta d'ufficio quando uno dei testimoni si era riferito ad altri soggetti che possono essere conoscenza dei fatti.




Inoltre la prova testimoniale può essere disposta d'ufficio anche in base all'art.281-ter c.p.c. che disciplina il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e prevede che il giudice possa disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i moduli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità; questa norma si riferisce al tribunale in composizione monocratica e non a quello in composizione collegiale, quindi nel caso in cui è il tribunale collegiale a dover decidere, questi non deve tener conto della prova testimoniale ammessa erroneamente dal giudice istruttore. Il limite entro il quale il giudice può ammettere d'ufficio la prova testimoniale, per alcuni è lo stesso che hanno le parti (cioè il 2° termine dell'udienza ex art.184 c.p.c.) mentre per altri il giudice può ammettere la prova testimoniale in tutto il corso del processo (opinione condivisa dal professore). Passiamo ad esaminare la confessione. L'art.2730 c.p.c. stabilisce che la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte. Anche in questo caso la confessione deve avere ad oggetto fatti e non valutazioni. La confessione a differenza della prova testimoniale ha come soggetto la parte. Anche per la confessione ci sono dei limiti di natura soggettiva e dei limiti di natura oggettiva. Per quanto riguarda i limiti di natura soggettiva innanzitutto l'art.2731 c.c. dispone che la confessione per essere efficace deve provenire da una persona capace di disporre del diritto a cui i fatti contestati si riferiscono; quindi deve trattarsi di una persona che aveva la capacità di agire nel senso che la parte che confessa deve essere titolare del diritto cui si riferiscono fare i fatti di causa.

La confessione è una prova legale, essa cioè ha un'efficacia predeterminata dal legislatore nel senso che il giudice non può valutare quelle dichiarazioni ma deve prenderle per venire. Quindi in sostanza i limiti di natura soggettiva alla confessione sono: la capacità d'agire, la capacità di disporre del diritto cui si riferiscono i fatti di causa e la titolarità dello stesso. Per quanto riguarda i limiti di natura oggettiva bisogna dire che, secondo l'art.2733 c.c., la confessione fatta piena prova contro colui che l'ha fatta se verte su fatti e diritti disponibili. Da ciò deriva che il limite oggettivo alla confessione è costituito dai diritti indisponibili. L'art.2732 c.c. dispone che la confessione può essere revocata se vi è stato l'errore di fatto o violenza. La confessione di regola è una prova legale tuttavia vi sono dei casi in cui essa diviene prova libera; questi casi sono:

quello individuato dall'art.2733 c.c. e che prevede il caso in cui siano soltanto alcuni dei litisconsorti necessari a confessare;

quello individuato dall'art.2735 c.p.c. che prevede il caso di confessione resa alla parte, ad un terzo fuori dal giudizio oppure in un testamento;

quello individuato dall'art.2734 c.p.c. che prevede il caso di dichiarazioni aggiunte alla confessione (in questo caso in funzione del principio dell'unitarietà della dichiarazione, il giudice deve vedere cosa pensa la controparte e quindi se questa accetta anche le dichiarazioni aggiunte, favorevoli a chi confessa, tutta la confessione vale come prova legale; nel caso contrario invece la confessione vale come prova libera).

La confessione può essere stragiudiziale o giudiziale; quella giudiziale di regola è una prova legale, quella stragiudiziale invece ha efficacia di prova libera se è fatta ad un terzo o in un testamento mentre a efficacia di prova legale se è fatta alla parte. La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni se verte su un soggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge. La confessione giudiziale viene resa nel processo è può essere orale oppure scritta. La confessione può essere: spontanea (se la parte fa spontaneamente dichiarazioni a se sfavorevoli) o provocata (quando la confessione viene provocata con l'interrogatorio formale). L'interrogatorio formale è disciplinato dall'art.230 c.p.c. che afferma che l'interrogatorio deve essere dedotto per articoli separati specifici. Il giudice istruttore ammette l'interrogatorio formale con ordinanza ed in seguito sente la parte cui è stato deferito l'interrogatorio. La parte può assumere diverse posizioni: non si presenta; si presenta rendendo dichiarazioni sfavorevoli; si presenta rendendo dichiarazioni favorevoli; si presenta rendendo dichiarazioni complesse. Se la parte non si presenta il giudice può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio; questa sarà cioè una prova libera perché entra in gioco la valutazione del giudice; se la parte si presenta ma si rifiuta di rispondere le conseguenze saranno le stesse; infine nei casi in cui la parte fa dichiarazioni a se sfavorevoli ma favorevoli alla controparte si avrà una confessione. L'interrogatorio formale è un istituto che ha lo scopo di conseguire una confessione; tale istituto viene utilizzato soprattutto quando la controparte è un ente pubblico che non può rilasciare un mandato per essere rappresentato in un interrogatorio formale e quindi dalla mancata izione dell'ente pubblico derivano conseguenze favorevoli all'altra parte. L'interrogatorio libero è quello che legislatore prevede come interrogatorio obbligatorio all'udienza di discussione nel processo del lavoro e all'udienza di trattazione nel processo ordinario. L'interrogatorio libero, a differenza di quello formale, è uno strumento nelle mani del giudice (infatti è solo il giudice che può disporre tale interrogatorio che è previsto all'inizio della causa anche se il giudice potrebbe disporlo in ogni momento del processo). L'interrogatorio libero alla finalità di avere chiarimenti sui fatti di causa, quindi è più probabile che venga disposto più o meno nella fase istruttore. Di solito attraverso l'interrogatorio libero si perviene solo ad argomenti di prova.

Un'altra prova è il giuramento, cioè una dichiarazione che la parte fa della verità dei fatti di causa. Il giuramento richiede soltanto che la parte faccia una dichiarazione che s'intende come vera (non come nella confessione dove si richiede che la dichiarazione sia sfavorevole a se è favorevole alla controparte). In sostanza il giuramento è una sorta di sfida che una parte lancia all'altra invitandola a giurare sulla verità di un fatto. Il giuramento è una prova legale, quindi quando si deferisce il giuramento si rimette la decisione alla parte che giura. Se la parte giura ha efficacia non solo il giuramento ma anche l'eventuale accertamento di natura penale che consegue al giuramento falso. Se successivamente alla sentenza viene accertata la falsità del giuramento, la sentenza penale che accertata tale falsità non potrà essere utilizzata per ottenere la revocazione della sentenza civile ma potrà solo consentire alla parte di ottenere un risarcimento dei danni. Il giuramento può essere decisorio (quello che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa) o suppletorio (quello che viene deferito d'ufficio dal giudice al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate). Il giuramento decisorio si distingue in due tipi: quello de veritatae (quando la parte giura su fatti propri) e quello de scientia (quando la parte giura su fatti altrui e non propri ma dei quali è a conoscenza).






I limiti di natura soggettiva del giuramento sono gli stessi previsti per la confessione (l'art.2737 c.p.c. rinvia all'art.2731 c.p.c.): capacità di agire, capacità di disporre del diritto. I limiti di natura oggettiva invece sono costituiti da alcune previsioni: non si può giurare sul fatto illecito; non si può giurare relativamente ad un fatto contenuto in un atto pubblico; non si può giurare riguardo l'esistenza di un contratto per il quale la legge richiede la forma scritta ad substantiam. Secondo l'art.233 c.p.c. il giuramento decisorio può essere deferito davanti al giudice istruttore in qualunque stato della causa (a fondamento di ciò basti pensare agli artt.345 e 394 che stabiliscono che il giuramento può essere deferito in appello e nel giudizio di rinvio, cioè quello successivo a quello della cassazione). Il giuramento, oltre che deferito, può essere riferito; il riferimento è una sorta di rinvio all'avversario che ha deferito il giuramento (art.234 c.p.c.). Per ciò che riguarda la revoca, più che il giuramento, può essere revocato il referimento. Il legislatore attribuisce efficacia: alla situazione in cui la parte cui è stato deferito il giuramento non si presenta; alla situazione in cui si presenta e si rifiuta di giurare; alla situazione in cui si presenta e giura. È importante dire che nelle prime due ipotesi il giudice considera negativamente tali situazioni ed il comportamento della parte. La logica del giuramento è cambiata, infatti mentre in passato esso si basava su una sorta di senso morale e religioso oggi si fonda sull'utilità della parte di esperire l'ultimo tentativo per risolvere a suo favore il processo (infatti il giuramento decisorio può essere deferito in qualsiasi momento del processo). Il giuramento decisorio può essere deferito anche alla parte contumace così come l'interrogatorio formale; in questi casi, il verbale in cui il giudice ammette l'interrogatorio formale o il giuramento va notificato personalmente alla parte contumace che può ire per rendere l'interrogatorio formale o il giuramento senza costituirsi. Il giuramento suppletorio è quello deferito dal giudice alla parte a condizione che vi sia la semiplena probatio (cioè la prova non completa) che si ha quando al termine della fase istruttoria il giudice non ha raccolto prove sufficienti per la decisione. Il giuramento suppletorio è un eccezione alla regola di cui all'art.2697 c.c., infatti mentre tale articolo stabilisce che se non si raggiungono le prove la domanda deve essere rigettata, l'art.240 c.p.c. permette il giuramento suppletorio facendo si che il giudice (anziché rigettare la domanda) rimetta ad una delle parti la decisione della causa. Non essendoci nessun criterio di scelta della parte alla quale deve essere deferito il giuramento, la dottrina e la giurisprudenza hanno affermato che tale scelta deve ricadere sulla parte che ha fornito la semiplena probatio che inoltre non potrà rifiutarsi. La parte non può impugnare la sentenza adducendo che la controparte ha giurato il falso; tuttavia si può impugnare la sentenza contestando il requisito della semiplena probatio. Possiamo concludere che il giudice ha un potere pieno per ciò che riguarda il deferimento del giuramento suppletorio e la scelta della parte a cui effettuarlo.

Ora dobbiamo analizzare altri mezzi di prova utilizzati nella pratica:

L'art.118 c.p.c. disciplina l'ispezione: un mezzo di prova che può essere disposto d'ufficio dal giudice. L'ispezione può essere compiuta sulle persone (sia come parti che come terzi) e sulle cose. Il giudice può disporre l'ispezione, facendo riferimento ad altri mezzi chiesti dalle parti o che egli stesso può disporre, solo se essa è indispensabile per conoscere i fatti di causa non produrre. Una volta disposta l'ispezione se la parte si rifiuta di sottoporre la propria persona o le proprie cose all'ispezione stessa il giudice, da tale rifiuto, può desumere argomenti di prova; mentre se è che il terzo che si rifiuta il suo comportamento non può avere riflessi in ordine al processo (il terzo infatti non fa parte del processo) e la conseguenza sarà una pena pecuniaria non superiore a 10.000 lire. L'ispezione viene disposta dal giudice con un'ordinanza nella quale vengono fissati: il tempo, il luogo ed il modo della relativa ispezione. All'ispezione il giudice può procedere personalmente ma di solito si avvale di un consulente tecnico (soggetto esperto nominato dal giudice) che deve redigere una relazione che il giudice stesso valuterà.

L'art.210 c.p.c. disciplina l'esibizione: un mezzo di prova collegato (dalla stessa norma) all'ispezione e che consiste nell'ordine che il giudice può rivolgere sia alla parte che al terzo con la differenziazione, rispetto all'ispezione, che in questo caso l'ordine ha ad oggetto solo cose (di solito documenti). L'esibizione può essere anche chiesta e sollecitata dalla parte. Mentre l'ispezione rientrano tra i poteri ufficiosi del giudice, l'esibizione richiede sempre l'istanza di parte (quindi il giudice non potrebbe mai d'ufficio disporre l'esibizione di cose o di documenti). Un altro elemento di differenziazione rispetto all'ispezione è che l'esibizione non deve essere indispensabile ma è sufficiente che sia necessaria. Nella disciplina dell'esibizione prevista una certa tutela del terzo, infatti l'art.211 c.p.c. prevede che il giudice, quand'ordina l'esibizione ad un terzo, deve cercare di conciliare l'interesse della giustizia con i diritti del terzo (quindi il giudice prima di ordinare l'esibizione può disporre che il terzo sia citato in giudizio assegnando alla parte istante un termine per provvedervi).



Un'altra prova molto importante è la consulenza tecnica che non può essere disposta per esentare la parte dal fornire la prova; infatti sono necessari degli elementi di giudizio per poter disporre su di essi una consulenza tecnica. La disciplina della consulenza tecnica è contenuta in parti diverse del codice di procedura civile, ad esempio l'art.61 c.p.c. disciplina la ura del consulente. La consulenza tecnica aiuta il giudice nella determinazione di alcuni elementi della causa; essa può essere richiesta dalle parti ma può anche essere disposta d'ufficio dal giudice, così come è previsto in un'altra parte del codice di procedura civile e cioè negli artt.191 e seguenti. È prevista anche la nomina di consulenti di parte, in tal caso all'attività del consulente tecnico si affiancherà quella del consulente di parte che potrà anche egli redigere una consulenza tecnica di parte. Per il fatto che il consulente tecnico ricopre una posizione decisiva nella causa, valgono per lui le stesse situazioni viste per il giudice (non vi dev'essere nessun coinvolgimento nella causa o in rapporti con le parti); il consulente tecnico infatti  può sia astenersi che essere ricusato. L'attività del consulente tecnico si conclude sempre con una relazione con cui si deve dar conto dell'attività svolta e delle conclusioni. La relazione del consulente tecnico non vincola il giudice nella decisione della causa; infatti avviene che il giudice recepisce le conclusioni del consulente tecnico senza andare a riesaminare tutti i fatti che hanno portato il consulente tecnico a quelle conclusioni. Tuttavia si ritiene che nel momento in cui il giudice si discosta dalle conclusioni del consulente tecnico deve motivare le ragioni per le quali ritiene di non seguire tali conclusioni e manifestare un orientamento differente.

Fino adesso abbiamo esaminato le prove tipiche (il giuramento, la confessione, la prova testimoniale, le scritture private e contabili, l'atto pubblico, la consulenza tecnica, l'esibizione è l'ispezione), per quanto riguarda invece le prove atipiche è la dottrina che negli ultimi anni ne ha individuate alcune. Si ritiene che possono essere considerate prove atipiche: le dichiarazioni di terzi formulate per iscritto (per molti non sono consentite perché si andrebbe a violare il principio, in tema di testimonianza, secondo il quale il terzo per fare delle dichiarazioni deve essere citato in giudizio e rendere tali dichiarazioni oralmente); le prove che sono state assunte in maniera irregolare; le prove raccolte in un processo differente (questa previsione vale però solo per il processo penale in quanto lo prevede l'art.238 c.p.p.; mentre per i processo civile l'art.310 c.p.c. stabilisce che le prove raccolte in un processo dichiarato estinto valgono nel processo successivamente promosso sulla stessa domanda come argomento di prova, teniamo presente che in quest'ultimo caso ci troviamo nell'ambito della stessa domanda, dello stesso diritto). Possiamo dire in conclusione che nel nostro sistema non c'è spazio per le prove atipiche, le prove ammesse nel processo uno solo quelle previste nel codice civile e nel codice di procedura civile.

Sempre nella fase istruttoria del processo ricorrono le presunzioni che trovano loro disciplina positiva nel codice civile. Nel nostro ordinamento le presunzioni possono essere: legali assolute, legali relative e semplici. L'art.2721 c.c. descrive le presunzioni come quelle conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto non noto.

Per quanto riguarda le presunzioni legali assolute il legislatore, poiché è probabile che un fatto sia indice di un altro fatto, finisce per trasformare il fatto secondario da prova del fatto principale in fatto principale e quindi da prova diventa più semplice. Qui le presunzioni hanno la funzione di facilitare al livello processuale un adempimento probatorio.

Per quanto riguarda le presunzioni legali relative il legislatore da un fatto certo (costitutivo) presume l'esistenza di un altro fatto (secondario). Qui la conseguenza al livello processuale è l'inversione dell'onere della prova, cioè è la controparte edile provare l'inesistenza del fatto secondario (ad esempio la proposta e l'accettazione si presumono conosciute al momento in cui arrivano a destinazione; in questo caso bisogna dimostrare che anche se la proposta è arrivata al destinatario questi non l'ha conosciuta; nell'esempio specifico il fatto certo è che la proposta è giunta al destinatario ed il fatto secondario, presunto, è che tale proposta è stata conosciuta).

Per quanto riguarda le presunzioni semplici, esse si hanno quando da più fatti si può risalire ad un fatto non noto; questa situazione secondo l'art.2729 c.c. viene conosciuta e decisa dal giudice con prudenza, infatti il giudice deve ammettere solo le presunzioni gravi, precise e concordanti.






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