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RAPPORTO TRA L'UNIVERSALITA' DEL DIRITTO COMUNE (diritto universale) E I DIRITTI PARTICOLARI (iura propria)



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RAPPORTO TRA L'UNIVERSALITA' DEL DIRITTO COMUNE (diritto universale) E I DIRITTI PARTICOLARI (iura propria)

Abbiamo visto come i giuristi dell'Italia centro-settentrionale arrivano, con molta fatica, a giustificare la potestà normativa degli ordinamenti particolari.

Com'è possibile che i comuni si possano dare delle norme se le norme le può fare solo l'imperatore? I glossatori all'inizio fanno un po' di fatica, pensando ai pacta o alla consuetudo costantiniana, poi dalla teoria della permissio in avanti c'è un vero e proprio sistema di idee che giustifica questa potestà normativa.

Lo stesso problema lo abbiamo anche la sud, dove c'è un grande elemento differenziatore rispetto al nord, che è il regnum, in particolare i regni di due grandi sovrani (Ruggero II fondatore del regno di Sicilia e Federico II, il più grande sovrano svevo che è stato anche imperatore).

Al nord il problema si pone soprattutto per quello che riguarda gli statuti, perché gli statuti sono quelle norme che vengono prodotte dagli ordinamenti comunali.



Al sud, dove non ci sono gli statuti, ci sono solo delle consuetudini locali, le quali, al limite, vengono approvate dal sovrano. Quindi, la vera importanza al sud è delle LEGGI REGIE, cioè le ASSISE di Ariano, promulgate nel 1140 da Ruggero II e, nel 1231 il LIBER COSTITUTIONUM (raccolta organica di leggi regie fatta da Federico II).

Le leggi regie di Ruggero II e di Federico II sono norme universali o norme particolari? Sono norme particolari, perché il regnum anche se è un territorio più grande del comune, però concettualmente, rispetto all'impero, è la stessa cosa, perché è particolare rispetto all'impero: il diritto universale è solo quello imperiale  pontificio. LA LEGGE DEL REGNO E' UNO IUS PROPRIUM, TRA I TANTI IURA PROPRIA che in quel momento sono presenti in Italia e in Europa.

Dal punto di vista della scienza giuridica del tempo il diritto universale è sempre uno: il diritto comune (o utrunque ius).

Quindi, concettualmente come risolvevano il problema?

Al nord si creano gli studia e il primo studium è quello di Irnerio (1100). Negli anni in cui muore Irnerio, Ruggero II diventa re di Sicilia.

In questo periodo al sud non si studia il diritto come al nord, perché la prima università meridionale è quella del 1224 a Napoli, fondata da Federico II.

Tra il 1130 e il 1224 però ci sono dei funzionari, come sempre, che hanno un po' di cultura giuridica e aiutano il sovrano nella sua attività legislativa. Comunque, in questi anni ci sono dei personaggi importanti che sono dei giuristi, che vediamo però in veste di giudici, o in veste di collaboratori del re, ecc. = in altre parole, sono quel gruppo di funzionari che aiutano il re ad esprimere la sua volontà legislativa.

A livello locale, vediamo un esempio molto importante che è BARI: attorno al 1200 vi è la redazione per iscritto delle consuetudini, fatta da privati, in particolare due giudici baresi ANDREA, il quale mette per iscritto le consuetudini di matrice latina, e SPARANO, il quale mette per iscritto le consuetudini longobarde (sempre in latino).

Quindi, anche se nel sud l'università è stata fondata nel 1224, non vuole assolutamente dire che nel sud non ci siano scuole giuridiche, perché la produzione di norme giuridiche ci fa pensare che ci siano dei funzionari ben istruiti: inoltre, guardando poi le norme normanne e sveve, vediamo che sono spesso intrise di diritto romano, il che vuol dire che bene o male il diritto romano lo conoscevano.

La conoscenza del diritto romano è presente nel meridione d'Italia, anche se non ufficialmente, cioè non abbiano tracce sensibili.

Abbiamo anche visto come ha funzionato la dominazione normanna . . I normanni arrivano al sud, conquistano, poi quando fanno il regno cercano di farsi la loro legittimazione, chiedendola al papa, poi un po' litigano con la chiesa, ma poi si mettono d'accordo. Un accordo importante è con le città, le quali avevano la loro autonomia e bisognava riconoscergliela: questo tipo di accordo è detto CARTE DI RESA, cioè una carta con la quale le città si arrendono al sovrano e il sovrano promette di rispettare le istituzioni locali, le leggi locali (in particolare, le consuetudini), i commerci locali, ecc. E' dubbio se i re, poi, mantengono queste promesse, però LA CARTA DI RESA E' UN ACCORDO DIPLOMATICO CON CUI LE CITTA' E IL RE COMINCIANO A STABILIRE I LORO RAPPORTI.

(re = garante delle libertà altrui: non sono i sovrani assoluti).

Questo si trova espresso anche nelle Assise di Ariano del 1140, dove si afferma il programma di tutela delle libertà:

"reformare . iustitie simul et pietatis itinera, ubi videmus eam et mirabiliter esse distortam" Vogliamo riformare i percorsi, simultaneamente, della giustizia e della pietà, dove vediamo che pietà e giustizia sono state straordinariamente distorte: il re vede che ci sono delle cose che non vanno bene, allora dice che il suo compito è di eliminare il distorcimento della giustizia e della pietà.

Ma questi sono solo i principi: la carta di resa dice che bisogna rispettare le città, nel 1140 il re vuole riformare la giustizia e la pietà.

Cosa succede, però, se confliggono il diritto regio con le consuetudini? Questo è già un primo problema, ed è soprattutto un problema all'interno degli iura propria: il conflitto tra una legge regia ed una consuetudine è un conflitto tra due iura propria, anche se il diritto regio è più ampio. Ovviamente il sovrano risolve il problema dando la prevalenza al diritto regio, però non può cancellare le consuetudini e vediamo:

"Leges a nostra maiestate noviter promulgates . generaliter ab omnibus precipimus observari, moribus, consuetudinibus, legibus non cassatis pro varietate populorum nostro regno subiectorum, sicut usque nunc apud eos optinuit, nisi forte nostris his sanctionibus adversari quid in eis manifestissime videatur" = comandiamo che siano osservate le leggi promulgate da poco dalla nostra maestà, da tutti in generale, insieme alle consuetudini stesse, leggi pregresse degli ordinamenti pregressi, sempre che non siano state cassate, secondo la varietà dei tanti popoli a noi soggetti, che fino ad adesso sono state ottenute, a meno che, per qualche ipotesi, sembri che contrastino con le nostre leggi, in qualche cosa, in modo assolutamente evidente.



Quindi: in primo luogo si applicano le leggi del re; se manca una legge del re si possono applicare le consuetudini locali, ma a condizione che queste consuetudini locali non contrastino maniera evidente con la legge del re. Qui stiamo parlando, però, di ipotesi di lacuna della legge del re, cioè se la legge del re non prevede la fattispecie, allora si può applicare la consuetudine locale, però quella consuetudine locale non deve avere una ratio che sia assolutamente contraria alla legge del re.

Possiamo vedere molto bene come, in questo caso, le sectiune di resa non sono state osservate, perché non è vero che il re osserva pedissequamente le consuetudini locali: anzi, bisogna dire che le osserva solo in secondo grado.

Federico II ci dice la stessa cosa, nella CONSTITUTIO PURITATEM del 1231ed è una norma riferita ai giustizieri e ai camerari, cioè i funzionari provinciali del re che vanno in giro a giudicare nelle terre e gli si chiede quale diritto applicheranno:

" . quod secundum constitutiones nostras et, in defectu earum, secundum consuetudinas approbatas, ac demun secundum iura communis, longobarda videlice et romana, prout qualitas litigantium exegerit, iudicabunt" giudicheranno secondo le nostre costituzioni (quelle del 1231); in mancanza di quelle, in caso di lacuna normativa, si giudicherà secondo le consuetudini locali che siano state approvate dal sovrano; al terzo posto, se manca la consuetudine, applicheremo gli iura communia . (gli iura communia non possono essere usati al plurale, perché lo IUS COMMUNE è solo uno, perché è un diritto universale: probabilmente questa espressione è stata inserita da dei pratici, dopo Federico II, che si riferiscono alle consuetudini territoriali e sono diventate leggi generali in un determinato territorio).

Quindi: al primo posto si applicano le leggi di Federico II; al secondo posto, le consuetudini da lui approvate; se mancano, ci si può rivolgere alle consuetudini orali del luogo, che possono essere, o quelle longobarde, o quelle romane.

Per concludere . "iura communia" è un'espressione impropria, che non va attribuita a Federico II e ci indica la persistenza territoriale di consuetudini longobarde, generali, nel senso che si sono territorializzate (sono generali rispetto ad un determinato territorio).

Infine, ultima citazione - ADDITIO (=glossa alla glossa) DI NICCOLO' RUFOLO, allievo di Benedetto d'Isernia:

"Audivi dominum Benedictum dicentem quod multum displicuit domino imperatori ut ita puniretur qui cum telo ambularet sicut qui homine, interficeret , et tunc interrogavit eum cum alios legistas ibi astantes, inter quos erat iudex Manbrus de Baro, que fuit racio que movit legislatore hoc facere. Qui predictus Manbrus de Baro respondit: racio fuit ut tolleretur materia delinquenti. Unde, cum displiceret ei, precepit quod ex hac materia fieret constitutuionem in qua cavetur quod alio modo puniatur qui portaret, alio qui extraret, alio qui percuteret" = Ho ascoltato il mio maestro, Benedetto, che diceva che dispiaque molto al signor imperatore (Federico II) che fosse punito allo stesso modo sia colui che gira con una spada, sia colui chi ammazza un uomo. Allora interrogò il maestro Benedetto, insieme agli altri giuristi che stavano lì, tra i quali giuristi c'era anche un giudice (Mambro di Bari), qual era la ratio che mosse il legislatore a fare quella norma. Sennonché Mambro da Bari risponde così: la ratio fu togliere la materia di delinquere, cioè la causa del reato. All'imperatore quella ratio non piacque, allora comandò che, di questa materia, fosse fatta una nuova costituzione nella quale si stabilisse che, in un modo venisse punito chi portava la spada, in un altro modo quello che la estraeva per minacciare e in un altro modo ancora quello che percuoteva, cioè quello che affondava la spada.

Quindi, da una norma che puniva tutto, ne fa tre, perché questa ratio intera a lui non piace.

Allora qui capiamo a cosa servono i giuristi: se il giurista è un giudice, deve applicare la constitutio puritatem, primo le leggi regie, secondo le consuetudini approvate e terzo il diritto longobardo e romano. Ma il giurista non è solo un giudice: il giurista può essere anche un legislatore e insieme all'imperatore e qui, Benedetto e Mambro di Bari sono legislatori e, in questo senso, usano il diritto romano, perché sanno questi meccanismi delle rationes.

Federico II fa l'università perché vuole dei funzionari per il suo lavoro di legislatore.

Il legislatore si fa studiando le rationes del diritto romano: il diritto romano non è solo un diritto da applicare, ma il diritto romano è una fucila di rationes, di principi e di istituti.





Concludiamo il discorso sul rapporto tra ius commune e iura propria, vedendo i giuristi più importanti e, in particolare, BARTOLO DA SASSOFERRATO, uno dei più grandi giuristi di tutti i tempi, il quale vive alla metà del 1300, ed è il più grande commentatore, proprio perché porta una particolare maturità a tutto questo discorso, che all'inizio era molto complesso per i glossatori.

Prima di Bartolo, però, prendiamo in considerazione un altro giurista che si era posto questo problema, ma senza riuscire a risolverlo: GIOVANNI BASSANO, allievo di Bulgaro e maestro di Azzone e Accursio (siamo alla fine del 1100, quindi si tratta di un glossatore).



Giovanni Bassiano cerca di risolvere questo problema riferendosi ad un esempio in particolare, che è quello della PARS FILII = la parte del lio: secondo il diritto romano i li, finché sono tali, non hanno nessuna autonomia giuridica e, ancora meno, hanno autonomia patrimoniale. Quando si riscopre il diritto romano, con Irnerio, ci sono esigenze diverse, perché nascono le città, i comuni, c'è una crescita commerciale, demografica, ecc.: quindi, i li, in questo contesto, hanno perfetta autonomia patrimoniale, perché spesso sono agenti dell'azienda familiare e, naturalmente, devono avere capacità patrimoniale. Questo vuole dire che nel patrimonio della famiglia, ai tempi di Bassiano, i li hanno una parte di patrimonio familiare, cioè la PARS FILII = parte di patrimonio familiare gestito autonomamente dai li, nel medioevo mercantile.

Come possiamo vedere c'è una frattura netta con il diritto romano, perché il diritto romano ci fa vedere i li dipendenti dal padre senza autonomia, mentre nel medioevo la pars filii è un'altra cosa. Da notare, però, che la pars filii non è un istituto giuridico particolarmente elaborato, ma è la realtà: la realtà e la vita del medioevo vedono i li impegnati, se non al pari del padre, ma certamente con forte autonomia, nell'esercizio di attività commerciali, fondiarie, imprenditoriali, finanziarie, ecc. Sta di fatto che il giurista si trova dei giovani, nell'alto medioevo,  che gestiscono un proprio patrimonio, senza che il diritto romano preveda delle norme che regolino questo aspetto. E questo è un problema grosso.

Di solito i giuristi risolvono il problema dei fatti della vita con le quaestiones: di regola si parte da un fatto della vita non regolato dal diritto romano. Però qui è una cosa diversa, perché si tratta di un istituto, ma più che altro è una realtà quotidiana, economica e commerciale che, non solo non è regolata dal diritto romano, ma a volte può anche contrastare con la visione del pater familias, previsto da Giustiniano.

Allora Bassiano va in profonda crisi, nel senso che non riesce bene a qualificare questa pars filii: il suo tentativo potrebbe essere definito un po' "rozzo", perché pur di giustificare la pars filii, o istituti del genere, che non sono previsti dal diritto romano, si inventa un termine che non esiste da nessuna parte, ma che secondo lui vuole trarre dal diritto romano, cioè il QUODDAM IUS NATURALE PRIMAEVUM = un certo diritto naturale primordiale: Bassiano dice che è vero che cose come la pars filii non ci sono nel diritto romano, però dal diritto romano si può dedurre che esista una sorta di diritto naturale primordiale, che precede lo stesso diritto naturale previsto dal diritto romano, nel quale si fanno rientrare queste cose che non sono espressamente previste. Quindi, si tratta di una sorta di principi che vengono da sempre e che ci aiutano a incasellare questi istituti.

E' solo un tentativo di Bassiano che nessun giurista, dopo di lui, riprenderà più.

Vediamo che, poi, dell'autonomia patrimoniale dei li troviamo spesso riferimento negli statuti cittadini, i quali a volte ci parlano dei li come soggetti dotati di una certa autonomia patrimoniale: quindi, un appoggio normativo in realtà c'è, ma è negli statuti, non nel diritto romano.

Come mai Bassiano, alla fine del 1100, invece che inventarsi questa teoria non si rivolge agli statuti comunali della sua epoca? Per il principio che troviamo nella compilazione giustinianea, il quale stabilisce che solo l'imperatore può fare le leggi, cioè il principio della LEX ROMANA DE IMPERIO: il primo imperatore è Augusto e prima di lui la legislazione spettava al popolo e la senato: ad un certo punto Augusto, l'imperatore, diventa tale perché si fa delegare il potere dai comizi popolari e dal senato per fare delle leggi. Da quel punto in poi la legge passa all'imperatore: questa impostazione è passata nella compilazione giustinianea e da qui i glossatori sono vincolati, in quanto sono glossatori e guardano al significato della litera, non guardano ancora alla ratio. Quindi, se si trovano la pars filii negli statuti devono fare finta di niente, inventandosi questa categoria che per loro è tratta dal diritto romano, pur di non dire che c'è lo statuto e che è lo statuto che regola questo istituto, perché non possono fare un ragionamento del genere, perché per loro lo statuto non è norma giuridica.


Dopo Bassiano, prima di Bartolo, abbiamo i cosiddetti "giuristi orleanesi", cioè REVIGNY, BELLEPERCHE, ricordati come giuristi dialettici (che usano la dialettica): questi facevano un'estensione analogica della norma.

Ad esempio, DURAND GUILLAUME (Guglielmo Durante) tira fuori la quota legittima ereditaria, dicendo che siccome i li hanno diritto a una legittima quando il padre muore, quindi si considera la pars filii come una sorta di legittima anticipata, pertanto nel possono disporre.

Questo modo di vedere il diritto, e il diritto romano in modo particolare, è detto SISTEMA LEGUM = le leggi del diritto romano interagiscono tra di loro: se questo sistema  ha una lacuna, si estende una legge analogicamente per colmare la lacuna = corpo di leggi organizzato sistematicamente in cui le eventuali lacune sono colmate da una interpretazione estensivo-analogica delle singole norme.


Questo è un primo passo e Bartolo fa un successivo passo che avrà un successo enorme.

BARTOLISMO = dura da dopo Bartolo sino a quasi il 1700 ed era attribuito a Bartolo da Sassoferrato.

Bartolo muore nel 1357 (piena epoca dei commentatori).



Con Bartolo abbiamo la piena risoluzione di questo problema. Egli eredita l'aequitas (come principi della giustizia di Dio) e, infatti, nel suo sistema abbiamo la presenza forte dell'aequitas, anche se non centrale: ha ereditato anche la dialettica, che usa per il suo fine, con moderazione. E'un maturo esponente del commento: è un allievo di Cino da Pistoia, quindi sa bene come si usa il commento.

Il sistema legum a Bartolo sta troppo stretto, in quanto è sempre un sistema di leggi, e riesce ad andare avanti.

Per spiegare il rapporto tra ius commune e iura propria Bartolo usa una metafora: lui si immagina la terra e il sole. Il rapporto tra questi due astri è che il sole non ha vita, ma da la vita: la terra ha la vita, ma non avrebbe la vita senza il sole che la scalda.

Quindi: sole = diritto romano    - terra = diritto statutario: il diritto statutario non potrebbe esistere se non ci fosse il diritto romano a dargli vita.

La formula di Bartolo è: VERITAS IURIS CIVILIS PER IMAGINEM IURIS STATUTORUM OBUMBRARI NON POTEST = la verità del diritto civile (romano) non può ricevere l'ombra dall'immagine del diritto degli statuti. La veritas è una: quella degli statuti è un'immagine, si tratta di un fantasma, anche se ha la vita.

ESEMPIO: siamo a Modena, dove c'è lo statuto di Modena. Per Bartolo lo statuto è la terra, un'immagine che non può dare ombra al sole, però ha la vita: quindi, per applicare il diritto prendiamo lo statuto di Modena.

Dallo statuto vediamo questa norma: "tutti i cittadini modenesi devono are le tasse". Per noi questa norma è chiara, ma per Bartolo questa norma non è chiara: lo statuto non ci da una definizione di cittadinanza (cittadino), che troviamo nel diritto romano; inoltre "devono are le tasse", ma non c'è nemmeno la definizione di tassa e di imposta e non è detto da cosa si distingue la tassa rispetto al prezzo di una compravendita, perché è sempre denaro che si da ad una persona, e anche queste definizioni ci vengono date dal diritto romano.

Quindi, è vero che lo statuto ha la vita, però Bartolo ci dice che non si può applicare nemmeno una virgola dei diversi statuti, se non si hanno ben presenti le categorie, le ure, i principi, le rationes, le griglie interpretative, che fornisce il diritto romano.

Allora capiamo anche il perché Federico II ha fondato un'università dove si studia il diritto romano, in un regno dove non si applica il diritto romano: il motivo è lo stesso che troviamo in questo caso, perché il diritto romano, per questa generazione, non è il diritto positivo: poteva esserlo per il glossatori, ma quando tutto è già più maturo e più complesso e il sistema è ormai perfettamente delineato, si sa benissimo che il diritto romano non può essere direttamente applicato e quando è direttamente applicato sono ipotesi rare, cioè succede quando gli statuti permettono l'applicazione del diritto romano in ultimo grado, se manca lo statuto, o la consuetudine, in terza istanza. Però se si considera il diritto romano come una fucina di categorie logico-giuridiche (cittadinanza, imposte, proprietà, locazione, ecc.) il giurista ha la possibilità di interpretare, non lo statuto di quella determinata città, ma qualsiasi norma ha a disposizione, perché le categorie sono sempre le stesse.

Con Bartolo non siamo più nel sistema legum, ma siamo nel SISTEMA IURIS.

La differenza: il sistema legum ci fa vedere il corpo di leggi sempre come un sistema, ma un sistema che si muove allargando e restringendo le leggi, considerandole come singole unità; il sistema iuris è visto come un unico corpo vivente in cui non sono tanto le leggi che si espandono o si restringono, ma sono i principi, le rationes, le categorie generali, che danno vita al sistema.

La differenza pratica: con il sistema legum si possono spiegare le cose che mancano nel corpus iuris di Giustiniano, ma spiegando, però, solo le lacune interne del sistema, mentre non può spiegare gli statuti; il sistema iuris, invece, ha una virtù espansiva, perché va fuori del sistema.

Considerando il diritto romano un sistema iuris, non è più solo un sistema che spiega le lacune interne al diritto romano, ma un sistema capace di espandersi al di fuori e di spiegare gli altri sistemi.

Tutti adotteranno questo sistema, perché è un sistema applicabile per qualsiasi tipo di legislazione.


Il codice è senz'altro un sistema legum, perché il legislatore l'ha pensato come sistema legum: il codice può diventare un sistema iuris? Sì.  Il codice nasce come sistema legum: per diventare sistema iuris, non lo può fare il legislatore, ma, perché da sistema legum un corpo di leggi diventi sistema iuris, occorre il giurista e l'interpretazione. Da sistema legum a sistema iuris non si può passare senza il giurista, ed è questa l'operazione storica e culturale che c'è tra Bassiano e Bartolo: una nuova consapevolezza del giurista. Il giurista non è più così strettamente vincolato dalla imponenza del corpus iuris. I principi vengono fuori, perché c'è una SCIENTIA di giuristi.







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