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LA QUESTIONE MERIDIONALE

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LA QUESTIONE MERIDIONALE

È trascorso, ormai, circa un secolo e mezzo dall'unificazione d'Italia e molte sono state le trasformazioni avvenute nel nostro Paese. Alcune zone della penisola, però, hanno ereditato negli anni una sorta di circolo vizioso innescato tempo addietro ed evidenziato al momento dell'unificazione: il Mezzogiorno italiano. È a partire dal 1860, infatti, che si studia la questione meridionale, per dare una spiegazione ai fenomeni, alle scelte politiche e agli elementi che hanno profondamente segnato la storia del Sud d'Italia arrestandone lo sviluppo. Da notare, che il divario tra le regioni della penisola era presente anche prima del 1860. La pianura padana era caratterizzata da terre impiegate seguendo il metodo capitalistico, quindi con una grande miseria contadina, ma anche con delle colture intensive, tecniche di coltivazione avanzate ed un livello di vita molto alto, che influenzava anche l'area circostante elevandone il livello di sviluppo civile: a cominciare dalla diffusissima istruzione di base. Per contro il Meridione era ancora ancorato al sistema feudale, che di fatto era stato abolito nell'800, i poteri giurisdizionali dell'aristocrazia eliminati e le terre feudali frammentate e vendute. Dalla frammentazione è sorta una nuova classe, quella della borghesia terriera, che ha, di fatto, continuato ad agire come i vecchi signori feudali invece di intraprendere la via capitalistica e cioè di utilizzare rotazioni più razionali per le colture, investire in tecnologie più avanzate al fine di aumentare la produttività; fino al principio dell'800 invece la produzione aumentava solo estendendo il coltivo. Il modello economico in uso al Sud era quello del latifondo cerealicolo-pastorale e le condizioni della classe contadina erano molto misere. Ad aggravare la posizione di questa classe aveva largamente contribuito l'abolizione dei diritti feudali (gli usi civici di semina, di pascolo, di legnatico). Non meno duri erano i contratti agrari, che si conuravano come semplici modificazioni dei tradizionali rapporti feudali. La scarsa propensione ad investire capitali nella terra si rovesciava nel mero ricavo della rendita dai terreni. Questo modo d'agire tenuto dalla classe borghese veniva appoggiato dai borboni, anch'essi restii nell'investimento e nell'inno-vazione perché timorosi delle migliorie apportate dalla tecnologia. Lo Stato borbonico, infatti, non mise in atto nessuna opera pubblica (canali, bonifiche, ecc.) ed accezione di alcune linee ferroviarie nella Campania che servivano ad agevolare gli spostamenti tra le Regge Reali e i possedimenti per le battute di caccia. Per quel che riguarda le altre vie ci comunicazione erano pressoché inesistenti, fatta eccezione solo per i tratturi che consentivano il passaggio dei greggi di pecore dalle Puglie agli Abruzzi.



Al momento dell'unificazione la questione meridionale andò aggravandosi. Lo sviluppo capitalistico non toccò il Sud, schermato da una sorta di velo rappresentato dai residui feudali. Si ebbero, con il nuovo Stato, riforme nelle politiche doganali - rappresentate dall'abbattimento dei dazi doganali fino all'80%, che finirono per dare il colpo di grazia alla poche industrie presenti al Sud che si videro disarmati di fronte alla concorrenza dei prodotti esteri che, di fatto, invasero il mercato - e nel regime fiscale - si adottò infatti in tutto il territorio italiano il regime fiscale già in vigore in Piemonte, che rispetto al regime fiscale borbonico accresceva notevolmente la pressione fiscale nelle camne; inoltre l'unificazione del debito pubblico finì per ripartire gli oneri delle guerre piemontesi e gli oneri relativi alla costruzione di reti ferroviarie ed altre vie di comunicazione (allo scopo di unificare il mercato nazionale) tra tutte le regioni d'Italia.

L'adozione del libero scambio, nel primo ventennio unitario, favorì in qualche modo l'agricoltura meridionale, promuovendo l'espansione del settore delle colture pregiate, rivolte all'esportazione (vite, agrumi, olivo, ecc.). Ma questi risultati rimasero limitati per la permanenza di rapporti agrari e sociali arretrati. La scarsa propensione all'investimento nelle terre trova giustificazione nelle grande difficoltà di reperire ulteriori risorse finanziarie, drenate o quasi prosciugate per l'acquisto delle terre demaniali o ecclesiastiche.

I problemi di carattere politico-sociale, sfociarono dopo l'unificazione nel brigantaggio che, in forma di guerriglia, sconvolse le province meridionali per un lungo quinquennio. Espressione della profonda crisi della società meridionale, acuita sul piano politico dal crollo del regime borbonico ed esasperata da una delle ricorrenti crisi economiche che, per la scarsità del raccolto, inaspriva ulteriormente il carovita, la pur violenta rivolta dei contadini meridionali si conurava come un esteso movimento di massa alimentato dalla profonda solidarietà della popolazione rurale.

Ulteriore causa del sottosviluppo meridionale è stato il passo indietro fatto dalla città di Napoli che fino all'unificazione era ritenuta una città capitale. Lo sviluppo delle comunicazioni ferroviarie e stradali sull'asse Nord-Sud ha portato le città italiane a gravitare non più esclusivamente su Napoli, ma verso le città settentrionali. La rapida costruzione della nuova direttrice adriatica Lecce-Bari-Ancona-Bologna-Milano, indirizzò, longitu-dinalmente, verso Nord gli interessi della ricca agricoltura pugliese da secoli tributata nel mercato napoletano. Ben più lenta sarebbe stata la costruzione di una rete ferroviaria trasversale nel meridione, come denunciato dalla pubblicistica napoletana.

Questa serie di problemi portarono a delineare una corrente culturale e politica che prenderà il nome di MERIDIONALISMO. Le "Lettere Meridionali" inviate nel marzo del 1875 da Pasquale Villari (che sarà il primo esponente di questa corrente) al giornale moderato "l'Opinione" segnano la nascita del Meridionalismo Liberale: l'inizio della riflessione critica sulle condizioni del Mezzogiorno all'interno dello Stato italiano. Dopo Villari ci furono altri personaggi che cercarono di analizzare la realtà del Sud, come Franchetti, Sonnino, Fortunato, ecc..

Franchetti e Sonnino nel 1876 diedero vita ad una fase più avanzata nell'analisi della realtà economica e sociale del Mezzogiorno con l'Inchiesta in Sicilia. Dall'inchiesta siciliana vengono in piena luce i caratteri fondamentali dell'ordinamento fondiario, i particolari rapporti di classe che vedono la società ancora sostanzialmente dominata dalla grande proprietà latifondista di origine feudale che mantiene i tradizionali rapporti di produzione, rendendo difficile qualsiasi processo di trasformazione dell'agricoltura in senso moderno.

Fortemente legato alle tradizioni risorgimentali e unitario fino in fondo Giustino Fortunato fu spinto dalla lettura delle analisi di Villari a collaborare alla "Rassegna Settimanale" , l'importante rivista di Sonnino e Franchetti apparsa a Firenze nel 1878, con una serie di corrispondenze dal Sud. Carattere essenziale della sua indagine è il forte realismo di stampo positivistico, attento a considerare soprattutto l'ambiente naturale e quindi la terra: la particolare composizione del suolo, l'influenza del clima, la conurazione topografica, la collocazione geografica, ecc..

Nel primo ventennio unitario il divario strutturale tra Nord e Su non si era particolarmente aggravato perché l'agricoltura del Sud aveva visto progredire la sua produzione dal punto di vista quantitativo, qualitativo e degli scambi internazionali. D'altra parte l'industria non aveva ancora un ruolo importante nell'economia italiana e quindi le differenze tra il Nord ed il Sud non erano ancora pronunciate in questo settore. Il divario verrà accentuato nel decennio 1877-l887 a fronte della crisi agraria, conseguenza dell'avvenuta unificazione del mercato mondiale resa possibile dalla discesa dei costi di trasporto per lo sviluppo delle comunicazioni ferroviarie e della navigazione a vapore.

Le trasformazioni strutturali avviate negli anni 80, con la riduzione del ruolo centrale e finora predominante dell'agricoltura e con la crescita di un settore industriale moderno, segneranno profondamente e positivamente i caratteri della società italiana grazie all'introduzione del protezionismo e dal ruolo propulsivo svolto dalle grandi "banche d'investimento". Grandi vittime del protezionismo furono le colture di esportazione e soprattutto la viticoltura, che si era diffusa nelle Puglie specialmente durante gli anni della crisi agraria. Il blocco all'esportazione del vino, per la "guerra doganale" con la Francia, ed in genere delle colture pregiate, specie prodotti ortofrutticoli, seguito dalla crisi dell'olivicoltura apriva un periodo di grandi difficoltà per tutto il settore più moderno dell'agricoltura meridionale.

Tra i sostenitori del protezionismo troviamo Colajanni. Unico meridionalista protezionista egli espresse posizioni molto avanzate sul ruolo dello Stato e della spesa pubblica ai fini dell'accelerazione di un processo di sviluppo fondato sull'espansione industriale. Inoltre, egli sostenne posizioni molto aspre contro la politica del governo e della corona in fondamentali momenti della svolta politica, come la crisi di fine secolo e la lotta dei Fasci Siciliani.

I fasci lavoratori siciliani rappresentavano un vasto movimento di braccianti, mezzadri e piccoli proprietari di tutte le province siciliane, scesi in lotta per il continuo e crescente disagio economico e sociale aggravato dalla crisi agraria.

Antonio de Viti de Marco fu, invece, uno fra i più tenaci avversari della politica protezionista. La svolta del 1887 aveva ridotto, a suo giudizio, il Mezzogiorno ad una sorta di Mercato coloniale, al quale veniva aggravata o addirittura impedita sia la possibilità di vendere sul mercato internazionale i prodotti della sua agricoltura intensiva che di acquistare dall'estero manufatti industriali a minor costo. Egli si limita a criticare l'intero processo di industrializzazione che non prevedeva alcun tipo di intervento o sostituzione dello Stato all'iniziativa dei privati. Finiva quindi per prospettare al Sud un futuro di solo sviluppo agricolo: una società fondata sull'esportazione di derrate agricole e l'importazione di manufatti industriali; in altre parole si sarebbe trattato di scegliere volontariamente la strada del sottosviluppo.

All'aprirsi del '900 il Mezzogiorno può essere definito come una grande disgregazione sociale. La società meridionale è un grande blocco agrario costituito da tre strati sociali: la grande massa contadina, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale ed infine i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in continuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare un'espressione centralizzata alle loro aspirazione ed ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dai contadini le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari terrieri in campo politico e i grandi intellettuali in campo ideologico, controllano e dominano tutto questo complesso di manifestazioni. Fondamento e pilastro del blocco agrario era, come già accennato, il latifondo cerealicolo-pastorale. La coltivazione estensiva del grano e l'allevamento specialmente bovino erano diffusi sulle pianure, spesso ancora malariche, dove si andava estendendo l'azienda capitalistica, definita dalla presenza di una forza lavoro salariata, piuttosto che dalla ridotta quota di capitale investita nel miglioramento delle colture.

Caratteristica del meridione era la diffusione di forme estreme di possesso: la grande proprietà e la polverizzazione dei già piccoli appezzamenti di terra. Secondo Manlio Rossi-Doria il limite alla trasformazione del sistema economico del Sud non era solo posto dalle condizioni climatiche; egli infatti sottolineava: "la difficoltà delle condizioni naturali riduce i limiti di convenienza alla trasformazione, ma che li annulla del tutto e costringe all'immobilità è il fatto che la proprietà fondiaria, con l'attuale sistema di rapporti, è in grado di ricavare rendite superiori a quelle che si otterrebbero con qualsiasi altro metodo di conduzione delle terre".

Il più ampio processo di trasformazione capitalistica nell'agricoltura meridionale si era determinato, proprio al principio del secolo, nell'area pugliese compresa tra il Tavoliere foggiano, l'area interna della terra di Bari ed il circondario di Taranto. S'era qui diffusa la grande azienda granifera, gestita dall'imprenditore capitalista, nella forma diretta del proprietario oppure del fittavolo, che veniva ad affiancarsi al più antico processo di coltivazione intensiva di vite, olivo e altre colture pregiate. Caratteristica dell'area pugliese, per la diffusione dell'azienda capitalistica, era l'accelerato processo di polarizzazione sociale che vedeva la popolazione addetta all'agricoltura composta per 3/4 da braccianti.

Gli scioperi agrari del 1901-l902, del 1907-l908, del 1912-l913 rappresentano l'espressione più elevata del malessere delle masse contadine del Sud. La forma dura delle lotte agrarie pugliese era la naturale risposta al pesante dominio esercitato dalla gretta classe degli agrari pugliesi con il diretto sostegno dell'esercito, dislocato con forti contingenti nelle zone calde per garantire un controllo sociale che non si era in grado di garantire altrimenti.

Per quel che concerne la parte tirrenica della penisola, caratteristica della Campania era la consistente presenza industriale accentuate dagli effetti della legge speciale del 1904. Grande aziende metalmeccaniche occupavano a Napoli decine di migliaia di operai, mentre il Salernitano era il centro di un'importante e diffusa produzione tessile e Torre Annunziata rimaneva la capitale dell'arte bianca con oltre sessanta mulini e pastifici. Un forte impulso alla modernizzazione della struttura e dei valori sociali viene in questi anni dall'organizzazione e dalle lotte del movimento operaio. Tra parziali vittorie e gravi sconfitte il movimento operaio campano conoscerà, nel primo quindicennio del secolo, un forte sviluppo.

Con l'aprirsi del nuovo secolo anche la Sicilia mostra una rinnovata capacità d'espansione economica in rapporto con le crescenti richieste di colture pregiate provenienti dal mercato internazionale. La guerra, arrestando la favorevole congiuntura internazionale, interromperà questo pur lento processo di ammodernamento della società siciliana, ponendo nuovamente in risalto la fragilità e la contraddittorietà della struttura economica isolana.

Verso il Sud non si espandeva beneficamente né lo sviluppo capitalistico, né la politica liberale. La tutela dei diritti dei lavoratoti, la libertà di sciopero non era garantita dai governi liberali nei confini del Sud perché qui vigeva la legge del dominio repressivo assicurato dalla proprietà terriera. Visti tali presupposti, da tutte le regioni meridionali, in connessione con la crescente richiesta di forza-lavoro proveniente dal mercato internazionale, si mise in moto un processo di esodo in massa che assunse dimensioni bibliche. Gravi conseguenze sulla struttura demografica delle province meridionali derivarono da questa partenza in massa dei giovani. L'emigrazione meridionale venne però utilizzata a sostegno del meccanismo economico nazionale e della produzione capitalistica. Così nella grande crisi del 1907 le rimesse degli emigrati costituirono la base monetaria essenziale con cui il sistema finanziario italiano risolse le pesanti difficoltà e incrementò l'ulteriore espansione dell'apparato industriale settentrionale.

Il Mezzogiorno si presenta, comunque, al drammatico appuntamento con la guerra mondiale con un ritmo di sviluppo complessivamente lento e con un divario con l'altra parte del Paese che si va sempre accentuando. La guerra quindi alimenta un flusso ininterrotto di trasferimento della ricchezza del Paese sulla direttrice Sud-Nord, attraverso l'utilizzazione del risparmio accumulato al Sud per finanziare le grandi industrie pesanti (in quel periodo molto produttive per la richiesta massiccia di armi per la guerra) del Nord.

Anche la crisi del dopoguerra ebbe conseguenze particolarmente pesanti al Sud dove l'inflazione fece volatilizzare il capitale dei piccoli risparmiatori depositato nei mille uffici postali del Sud. Agli scioperi urbani per l'inflazione ed il carovita si accomnarono, nel dopoguerra, fenomeni di occupazione delle terre. Così nel 1919 fu emanato il decreto Visocchi che consentiva a cooperative di contadini poveri di occupare terre incolte o mal coltivate della proprietà latifondista.

Ma, la reazione agraria giunta al potere con il fascismo ottenne subito l'annullamento del decreto Visocchi e la restituzione ai grandi proprietari anche di quei terreni incolti. Nei primi anni '20, durante la fase liberista del costituendo regime fascista, la favorevole congiuntura del commercio internazionale aveva favorito gli ultimi sprazzi di espansione dei prodotti specializzati dell'agricoltura siciliana nei mercati mondiali ed il proseguimento del processo di intensificazione delle colture nell'area campana definita dalle basse valli del Volturno e del Sele.

La svolta deflazionistica del 1926, con la fine della politica liberista, rilanciava l'importanza del mercato interno. Negli anni '30 si sarebbe sviluppato un processo di ristrutturazione del sistema capitalistico italiano, orientato al deciso rafforzamento dell'apparato industriale del Nord. Per il Mezzogiorno agricolo gli anni 30 sono particolarmente duri perché si sommano gli effetti della crisi mondiale, il continuo incremento demografico, la caduta dei prezzi agricoli e l'aggravamento dei contratti. Il tentativo più rilevante di modernizzazione delle camne meridionali fu invece perseguito con i progetti di bonifica integrale elaborati dai tecnici agrari riformisti formati alla scuola di Portici. La bonifica comportava quindi la divisione del latifondo e la formazione di piccole proprietà, in un panorama di scelte produttivistiche e di riforma agraria che non poteva non incontrare l'opposizione della grande proprietà terriera, che avrebbe dovuto partecipare a questo programma con i suoi capitali; così anche i progetti di bonifica non furono mai attuati.

A metà degli anni '30 il regime fascista aveva orientato la sua politica sul piano delle guerre espansionistiche anziché sul piano della moder-nizzazione. La corsa agli armamenti sostituiva i progetti irrealizzati di trasformazione dell'agricoltura meridionale. L'arretramento complessivo delle regioni meridionali durante il periodo fascista è indicato dalla riduzione del reddito nel decennio 1928-l938 che passa da 1.802 lire a 1.718 lire per abitante, con il punto minimo in Calabria con un reddito di 1.521 lire.

In seguito la guerra, il crollo de fascismo e la caduta della monarchia seguiranno, per il Mezzogiorno, la crisi definitiva del blocco agrario, del blocco sociale e dei rapporti di potere garanti del controllo del Sud per l'intero arco del regime unitario. Il Mezzogiorno esce dalla guerra colpito: nella miseria e nella fame delle camne dove si accendono focolai di rivolta; nei bombardamenti sulle città che fra l'altro distruggono il 60% della più avanzata industria campana con ingentissimi danni monetari. Particolarmente grave quindi, nel '45, appariva la condizione delle regioni meridionali per le crescenti difficoltà economiche, per l'aumento della disoccupazione e dei prezzi, per il diffondersi di spinte reazionarie e di tumulti ribellistici.

La fondazione della Repubblica, che toglieva di mezzo il pilastro più rappresentativo del vecchio ordine conservatore, e lo sviluppo dei grandi partiti di massa (che collegava le popolazioni meridionali, per la prima volta nella storia unitaria, alla lotta politica nazionale) costituirono fondamentali elementi di novità e di rottura delle tradizionali forme di organizzazioni sociali e politiche nelle regioni del Sud. Sulla scia della vittoria repubblicana sorgevano nel Mezzogiorno centri politici di coordinamento delle attività democratiche che raccoglievano dai comunisti ai liberali di sinistra. Fondamentale appariva lo spostamento a Sinistra di masse contadine e di gruppi di intellettuali che, per la prima volta, si collegavano ai grandi partiti nazionali. Le occupazioni della terre diffusesi con forza tra l'autunno del 1949 e la primavera del 1950 crearono una situazione di grande tensione anche per il ripetersi della triste tradizione meridionale dell'eccidio dei contadini. Di fronte all'esplodere delle lotte e di occupazioni delle terre nell'intero Mezzogiorno il governo emanò dei provvedimenti, la legge Sila e alcune leggi 'stralcio' di riforma che avevano lo scopo di espropriare terreni alla grande proprietà assenteista e di assegnarli in piccoli lotti alla famiglie contadine, con l'obbiettivo di formare un ampio strato di piccoli proprietari coltivatori di orientamento politico moderato.

Rossi-Doria e Sereni svolgeranno un ruolo di primo piano nella definizione delle strategie politiche ed economiche per le camne meridionali. Sereni punterà sull'organizzazione e la mobilitazione democratica e rivoluzionaria delle masse contadine,. Rossi-Doria mirerà allo sviluppo della media azienda capitalistica di tipo anglosassone, in una prospettiva di modernizzazione democratica. Gli sviluppi successivi, segnati dalla mancata riforma generale e, soprattutto, dall'esodo inarrestabile dei contadini, bloccheranno la realizzazione di entrambe queste ipotesi di profonda trasformazione agraria della società meridionale.

Nel 1946 nasceva la SVIMEZ (associazione per lo sviluppo dell'in-dustria del Mezzogiorno). Le nuove ipotesi di industrializzazione del Mezzogiorno si congiungeranno così alle esperienze di programmazione e di intervento dello Stato nella direzione dei processi economici che erano apparse le risposte vincenti delle economie capitalistiche più avanzate alla crisi internazionale del 1929 e alla difficoltà che si era diffuse negli anni 30 ponendo precisi problemi di ristrutturazione economica e politica. I maggiori avversari sarebbero stati la CONFINDUSTRIA e gli ambienti industriali del Nord, decisamente schierati su posizioni liberiste e polemici contro ogni ipotesi di creare al Sud doppioni di industrie settentrionali.

Dopo il 1950 la proprietà terriera non esiste più come classe dominante e si aprirà quindi una nuova fase nella storia del Mezzogiorno che vedrà definirsi nuovi equilibri politici e sociali che non avranno più al centro la terra e le camne.

La decisione più rilevante dei governi centristi a direzione democratica fu l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, con la legge del 10 agosto 1950. Per la prima volta il governo italiano decideva di intervenire con un progetto, complessivo di legislazione speciale, nell'area meridionale. Ambizioso traguardo di questa nuova forma di intervento speciale era l'avvio nel Mezzogiorno di un meccanismo di sviluppo autonomo e autopropulsivo, caratterizzato quindi da larghi e preminenti investimenti produttivi. Era così abbandonato il punto essenziale della secolare riflessione liberal-democratica e rivoluzionaria sul Mezzogiorno: che non si trattava di un problema locale e settoriale risolvibile con interventi parziali, ma di questione nazionale che andava affrontata con un mutamento complessivo della direzione politica ed economica dello Stato italiano. La Cassa per il Mezzogiorno era il nuovo e moderno strumento istituzionale che si presentava come ente acceleratore e propulsore di un sistema di intervento caratterizzato dalla pianificazione pluriennale dei programmi, gestita appunto da un ente speciale e 'nuovo' rispetto all'apparato statale. Per il primo quinquennio la Cassa si occupò quasi esclusivamente di opere pubbliche: dalle infrastrutture civili alle bonifiche e irrigazione per l'agricoltura. Scarsissimi furono in questa fase i finanziamenti agevolati all'industria, mentre già cominciava ad apparire che l'intervento straordinario, invece che aggiuntivo, si conurava come sostitutivo della spesa pubblica ordinaria.

Il blocco rurale recentemente formato con la legge stralcio ed i primi interventi della Cassa in agricoltura si sfasciò di fronte alla richiesta massiccia di forza-lavoro proveniente dalle economie in forte espansione dell'Europa e del Nord d'Italia. L'esodo dal Sud toccò vette mai raggiunte.

Una seconda fase della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno si aprì quindi con la legge del 1957 sulle aree ed i nuclei di industrializzazione e con l'obbligo verso le imprese a partecipazione statale, di collocare nel Mezzogiorno il 60% dei nuovi impianti. Finanziamenti agevolati e facilitazioni fiscali dovevano poi servire a diffondere l'installazione di piccole e medie industrie meridionali. Ma, dopo alcuni anni di stallo, questi incentivi furono estesi alla grande industria, privata e pubblica, che nel Sud realizzò alcuni grandi impianti siderurgici e petrolchimici e poi la grande impresa meccanica di Pomigliano d'Arco.

L'ultima fase, aperta negli anni '70, all'insegna dei progetti speciali, per il riassetto delle maggiori aree urbane in via di disfacimento, si chiude nella totale inadempienza.

Lo svuotamento progressivo delle camne e delle zone interne provoca il rigonfiamento delle città, specie costiere, definite da prevalenti funzioni terziarie e burocratiche, largamente speculative e parassitarie. La politica degli interventi ha creato nel Mezzogiorno grandi impianti industriali, e quindi un'industria moderna, ma dipendente da centri esterni al Mezzogiorno sia nel campo dell'industria privata che nel campo della diffusa presenza delle aziende a partecipazione statale. Accanto all'esodo massiccio delle camne e alla costruzione di impianti industriali ad alta intensità di capitale e la relativa scarsa occupazione, il terzo carattere fondamentale della società meridionale nei decenni più recenti appare l'espansione del settore terziario: attraverso le consistenti assunzioni nell'amministrazione pubblica e negli enti locali attraverso le quote crescenti dei trasferimenti pubblici alle famiglie nella forma prevalente delle pensioni di invalidità.

In connessione con la crisi del capitalismo internazionale accentuata dai problemi energetici e con la crisi del modello capitalistico sono stati fenomeni caratterizzanti negli ultimi anni la larghissima disoccupazione giovanile e la diffusione della attività precarie e marginali. Da questione agraria il Mezzogiorno di è trasformato il questione essenzialmente urbana. L'isolata arretratezza del Mezzogiorno contadino è un ricordo del passato. Ma il processo di trasformazione in atto non e giunto ad incidere radicalmente sulla struttura della produzione, innescando appunto quel meccanismo di sviluppo tante volte evocato a fondamento della politica di intervento straordinaria.

Nonostante la consistente riduzione, è presente ancora nel Mezzogiorno il 55% dell'occupazione agricola italiana. È questo un indice di arretratezza non solo in termini quantitativi, ma anche cela al suo interno larghe fasce di sottoccupazione e di occupazione precaria. L'occupazione industriale nel Mezzogiorno costituisce solo il 22% del totale nazionale, scesa al 18% tra il 1951 ed il 1977. Questo calo nell'occupazione industriale è dovuto soprattutto alla diminuzione degli investimenti nell'industria meridionale che sono passati da 11.500 miliardi di lire nel periodo 1951-l973 a 4.250 miliardi di lire nel periodo 1974-l977. L'occupazione rimane il problema più grave del Mezzogiorno che, per la sua debole struttura economica, rimane esposto a tutte le ricorrenti crisi dell'economia nazionale ed internazionale. L'indice ufficiale di disoccupazione fissato sul 10% per il Mezzogiorno (rispetto al 6% del Centro-Nord) la dice lunga riguardo la drammaticità del fenomeno.

Il Mezzogiorno non è mai stato un'unica realtà compatta, né un secolo fa, ne tantomeno lo è oggi. Le modificazioni più consistenti si sono realizzate sul piano dei comportamenti socio-culturali, grazie alla diffusione crescente dell'istruzione e delle comunicazioni di massa.

Così il Mezzogiorno presenta il quadro inedito di una camna ormai spopolata dei suoi antichi abitanti e di città sempre più congestionate e invivibili, percosse da masse giovanili escluse da un fisiologico ingresso nei vari rami del mercato del lavoro.












Bibliografia essenziale

Francesco BARBAGALLO, Mezzogiorno e questione meridionale (1860 - 1980), Guida Editori, Napoli, 1980;

Pietro BORZOMATI, La questione meridionale - studi e testi, Editore SEI, Torino, 1996;

R. VILLARI, Il Sud nella storia d'Italia. Antologia della questione meridionale, Laterza, Bari, 1978;

L. FRANCHETTI - S. SONNINO, Inchiesta in Sicilia, 1876, Vallecchi, Firenze, 1974;

M. ROSSI DORIA, 10 anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Laterza, Bari, 1958;








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