ePerTutti


Appunti, Tesina di, appunto economia

La figura di erede e di legatario nell'ambito del diritto successorio - Gli effetti dell'institutio ex re certa

ricerca 1
ricerca 2

I N D I C E





Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..p. 4



modulo I

La ura di erede e di legatario nell'ambito del

diritto successorio . . . . . . . . . . . . . . . .." 8


I.1. La nozione di "erede" . . . . . . . . . . . . . . . " 9

I.2. L'individuazione del soggetto chiamato a succedere



universitas iuris: la qualità di erede nella successione

legittima e nella successione testamentaria . . . . . . .." 24

I.3. Disposizioni a titolo universale e disposizioni a titolo particolare: la distinzione tra eredità e legato (ex art. 588,

1° co., c.c.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . " 40

I.4. Gli effetti conseguenti all'attribuzione della qualità di

erede o di legatario . . . . . . . . . . . . . . . . ." 50



modulo II

Il 2° comma dell'art. 588 c.c. e l'institutio ex re certa: contenuto ed estensione della norma codicistica. . . . " 53


II.1. La qualità di erede a titolo universale e l'istituzione in

quota ex re certa: le problematiche sollevate dal 2° co.

dell'art. 588 c.c . . . . . . . . . . . . . . . . . . " 54

II.2. L'institutio ex re certa quale novità introdotta col

codice del 1942 . . . . . . . . . . . . . . . . .." 67

II.3. La qualità di erede in re certa: non agevole distinzione

rispetto alla designazione di legatario . . . . . . . . .." 78

II.4. La necessità di una valutazione congiunta del 1° e del

2° co. dell'art. 588 c.c.: il valore ermeneutico di tale disposizione complessivamente considerata . . . . . . . " 90


modulo III

Erede in re certa ed accertamento della volontà

del de cuius: i singoli canoni interpretativi delle

disposizioni testamentarie . . . . . . . . . . . . p. 97


III.1. Problemi generali relativi all'interpretazione del

testamento: l'applicazione analogica dei criteri

interpretativi valevoli in materia di autonomia

contrattuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . " 98

III.2. La valutazione della "quota" nei canoni di

interpretazione oggettiva delle disposizioni

testamentarie . . . . . . . . . . . . . . . . . ." 106

III.3. Istituzione di erede ex re certa e criterio

interpretativo basato sulla volontà del testatore . . . . " 116

III.4. I limiti alla ricerca della volontà testamentaria: il

rapporto intercorrente tra interpretazione soggettiva

e forma solenne . . . . . . . . . . . . . . . . " 127



modulo IV

Gli effetti dell'institutio ex re certa . . . . . . . . .." 140


IV.1. Gli effetti conseguenti alla istituzione ex re certa: problematiche connesse con la necessaria

appartenenza al testatore dei beni determinati . .. . . . " 141

IV.2. Le garanzie per evizione concesse all'erede in re

certa nell'ambito della divisione fatta dal testatore:

possibile estensione delle garanzie prestate in caso di

scioglimento della comunione ordinaria . . . . . . " 150

IV.3. La capacità espansiva dell'institutio ex re e sue

possibili conseguenze: coesistenza tra istituzione di

erede in re certa, successione legittima e divisione fatta

dal testatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . " 160

IV.4. Institutio ex re e revocazione tacita delle disposizioni testamentarie: possibile applicazione analogica

dell'art. 686 c.c . . . . . . . . . . . . . . . . .." 172




Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..p. 180



Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .." 187

Dottrina . . . . . . . . . . . . . . . . . . " 187

Giurisprudenza. . . . . . . . . . . . . . . . " 197






























PREMESSA




Il presente lavoro di tesi è incentrato sulla ura dell'erede ex re certa, alla quale è dedicato il 2° co. dell'art. 588 c.c.. Si tratta di una ura che, seppure si inserisce nella generale e complessa situazione giuridica - composta da una pluralità unificata di rapporti attivi e passivi - che prende il nome di "eredità", è propria della successione testamentaria ex art. 588, 1° co., c.c.. In particolare, il rigido criterio previsto da quest'ultima disposizione, che fonda la distinzione tra eredità e legato su di una valutazione obiettiva, a secondo che vi sia stata o meno l'attribuzione dell'universalità o di una quota dei beni del de cuius, subisce, con l'institutio di erede ex re certa, un'attenuazione, in quanto il 2° co. dello stesso articolo - affermando che "l'indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio" - introduce un criterio suppletivo di carattere soggettivo, fondato cioè sulla volontà del de cuius.

Ed è proprio nel conurandosi come eccezione che una tale istituzione dà luogo ad interessanti problematiche - discusse più o meno ampiamente, sia in sede dottrinale che giurisprudenziale - relative, non solo al contenuto ed all'estensione della norma codicistica che prevede l'attribuzione ex re certa, ma anche ai criteri di accertamento della volontà del testatore, nonché agli effetti cui deve soggiacere l'erede a titolo universale di cosa determinata.

Con l'intento di chiarire tutti questi punti, la dissertazione che segue, tratta, in un primo modulo introduttivo, della ura di erede e della ura di legatario, nell'ambito del più ampio diritto successorio, al fine di evidenziare le caratteristiche salienti - e quindi: le rispettive nozioni, la distinzione di esse in seno alla successione legittima ed alla successione testamentaria, gli aspetti salienti che contraddistinguono le due ure e gli effetti che derivano dalla diversa qualificazione - dell'istituzione ereditaria a titolo universale e dell'attribuzione a titolo particolare.

Solo con tali premesse, in un secondo modulo, può essere affrontata l'institutio ex re certa, quale attribuzione prettamente testamentaria che presenta delle note comuni alla eredità, perché si conura a titolo universale, ed al legato, perché attributiva di cosa determinata e non di una quota dell'intero asse ereditario.

Poiché, con l'introduzione di tale institutio, il codice civile del '42 non ha fatto altro che dare rilevanza alla volontà del testatore, affiancando a criteri di interpretazione oggettiva criteri di interpretazione soggettiva, un terzo modulo propone, in maniera sintetica, le singole regole ermeneutiche utilizzate per valutare quale sia l'effettiva portata di quelle disposizioni testamentarie di non facile comprensione.

Gli aspetti più interessanti dell'argomento sono poi racchiusi in un conclusivo quarto modulo, il quale, non solo considera gli effetti che vengono a prodursi nella sfera giuridica dell'erede in re certa, ma anche se l'istituito ex re possa usufruire sia delle regole valevoli in caso di legato di cosa altrui (art. 651 c.c.), sia delle garanzie per evizione prestate in caso di scioglimento della comunione ordinaria. Ampiamente dibattute, e quindi meritevoli di un'attenta disamina, sono, infine, l'applicabilità all'institutio in oggetto della c.d. "capacità espansiva" valevole nei confronti dell'erede "in quota", nonché l'estensione analogica dell'art. 686 c.c., il quale, coniato per le disposizioni a titolo particolare, prevede la revocazione tacita delle disposizioni testamentarie nel caso di alienazione o di trasformazione (e anche di perimento) della cosa legata.






























CAPITOLO I


La ura di erede e di legatario nell'ambito

del diritto successorio





I.1. La nozione di "erede".


I.2. L'individuazione del soggetto chiamato a succedere universitas iuris: la qualità di erede nella successione legittima e nella successione testamentaria.


I.3. Disposizioni a titolo universale e disposizioni a titolo particolare: la distinzione tra eredità e legato (ex art. 588, 1° co., c.c.).


I.4. Gli effetti conseguenti all'attribuzione della qualità di erede o di legatario.













I.1. La nozione di "erede".


Nel libro secondo del codice civile, dedicato alla materia delle successioni, manca una definizione esplicita della ura di "erede", così come non è rintracciabile una vera e propria specificazione di cosa debba intendersi per "eredità". Il valore di questi concetti appare, tuttavia, senz'altro acquisito al lessico normativo, facendosene uso per delineare compiutamente la vicenda della successione per causa di morte. Tale vicenda si svolge, infatti, intorno e, potrebbe dirsi, attraverso i due termini che ne rappresentano i principali punti di riferimento rispettivamente soggettivo ed oggettivo [1].

La disciplina positiva, nel regolare gli accadimenti conseguenti sul piano giuridico alla morte della persona fisica, prevede come momenti essenziali la delazione (art. 457 c.c.) e l'acquisto (art. 459 c.c.) dell'eredità, ed ancora all'eredità fa riferimento quando individua le modalità di accettazione, la rinunzia, la giacenza e la divisione; col termine erede designa, invece, colui che, chiamato all'eredità (ex artt. 460. 461, 485, 487, 528 cc.), l'abbia accettata, distinguendo poi l'erede "puro e semplice" (artt. 485 e 488 c.c.) dall'erede "con beneficio d'inventario" (art. 491 c.c.); inoltre, fa riferimento al "titolo" (art. 475 c.c.) ed alla "qualità" (artt. 476, 533, 588 c.c.) di erede e considera, altresì, l'erede apparente (art. 534 c.c.) [2].

Nella legislazione successiva all'emanazione del codice civile vi é pure ampia traccia dei termini in oggetto, ma tale numerosa presenza non aiuta a delinearne il valore positivo, giacché nella legislazione c.d. speciale la menzione dell'erede (e più in generale il verificarsi di una vicenda successoria) vale solo ad individuare un centro di riferimento soggettivo degli effetti stabiliti dalle varie normative e, quindi, dà già per risolto il profilo di qualificazione

della fattispecie [3].

Per altro, quando si rilevi, in una prospettiva per il momento solo terminologica, che il referente normativo al riguardo più significativo è costituito dal testo del 1° comma dell'art. 588 c.c., là dove precisa che le disposizioni comprendenti l'universalità o una quota dei beni del defunto sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede , è agevole cogliere la correlazione reciproca tra i due termini, dei quali l'uno appare il riflesso dell'altro


Se la riflessione giuridica intorno alle due nozioni è, dunque, da considerarsi parallela, va tuttavia subito avvertito che il complesso di questioni prospettate nella teoria (e meno nella prassi) attiene si alla razionalizzazione dei due concetti, ma riguarda soprattutto l'esatta valutazione del meccanismo successorio. A tale riguardo, pur essendo stata sottolineata da più parti la ratio politica sottesa alla ura dell'erede ed alla considerazione dell'eredità - ponendosi entrambe come espressione di una ben precisa ideologia legislativa che lega la disciplina della successione per causa di morte, da un lato, all'istituto della proprietà e, dall'altro, all'attenzione verso il nucleo familiare - non può dimenticarsi che siffatte valutazioni risultano utili a comprendere la collocazione (nonchè le correlazioni) degli istituti di diritto successorio rispetto al sistema complessivamente considerato, ma non sono idonee, di per sé, a risolvere il problema ricostruttivo, problema che resta di stretto diritto positivo [7].

Il sistema civilistico prevede che i rapporti giuridici patrimoniali (in una accezione ampia del termine e con esclusione di quei rapporti che, ex se, si sottraggono all'influenza del meccanismo successorio, come, ad esempio, le fattispecie menzionate negli artt. 448, 979, 1026, 2284 c.c.) sia attivi che passivi, non si estinguono a seguito della morte del titolare, giacché nella posizione di questi "succede" un altro soggetto, per la cui individuazione sono dettate regole specifiche.

E' proprio nel dar conto di questo subentrare non solo nelle posizioni attive ma anche in quelle passive facenti prima capo al defunto che i concetti di "eredità" e di "erede" hanno svolto e svolgono un ruolo ben preciso, venendo ad assumere connotazioni differenti a seconda del diverso valore che si attribuisce loro nel tracciare la struttura del fenomeno successorio [8].

Da un lato, infatti, utilizzando il dato letterale offerto dall'art. 588 c.c.. ma soprattutto richiamando una tradizione esegetica che rinvia alle fonti romane, viene posto l'accento sull'elemento oggettivo della vicenda successoria, riconoscendo nell'eredità una universitas iuris, tale cioè da comprendere il complesso di tutti i rapporti patrimoniali del defunto unitariamente considerati; l'individuazione di tale unità intellettuale, astratta, del patrimonio appare idonea a spiegare come con un unico atto possa il chiamato subentrare in quanti rapporti giuridici patrimoniali facevano capo al defunto, ponendosi l'universitas quale oggetto dell'acquisto dell'erede [9].

La posizione dell'erede perde, in questa prospettiva, specifica autonomia, risultando null'altro che una qualificazione a posteriori di colui che è chiamato a subentrare nell'universalità o nella quota del patrimonio [10].

L'attenzione al profilo soggettivo è invece diretta a riconoscere alla ura dell'erede un ruolo centrale nella successione a causa di morte [11], individuando nel conseguimento di una posizione originaria il momento significativo della fattispecie, sufficiente a determinare il presupposto causale dell'acquisto dei beni trasmessi ed idoneo a porsi quale elemento unificatore dei diversi effetti determinati dalla legge. Risulta, in tal modo, privo di concreto valore il richiamo alla concezione dell'eredità quale astratta universalità, giacché i vari profili della vicenda successoria possono spiegarsi senza ricorrere ad alcuna finzione .

Tali puntuali prese di posizione, oltre ad essere indicative della centralità del concetto di erede e di quello di eredità riguardo all'esatta valutazione del fenomeno successorio, appaiono così emblematiche di quale influenza gli studi di storia del diritto (e segnatamente quelli romanistici) abbiano avuto sull'atteggiamento dei giuristi più attuali rispetto al problema [13].

Vanno ancora tenute presenti, sempre a testimonianza della logica interrelazione determinata nell'analisi dei due concetti, sia quelle posizioni che, ripudiando il principio dell'hereditas-universitas, respingono altresì il rilievo dato alla ura dell'erede, preferendo richiamarsi al concetto pur esso mediato dalla riflessione storica di successio in locum et ius [14], sia quelle più recenti notazioni attente soprattutto alle peculiarità del regime giuridico

qualificante la fattispecie [15].

A fronte dell'una o l'altra di tali opinioni si pone il ricco ed articolato dibattito sviluppatosi in ambito giurisprudenziale. Sulla precisazione del significato dei due termini e sul ruolo concettuale ad essi assegnato rispetto alla esatta comprensione del modo di operare del fenomeno successorio, la giurisprudenza offre, però, solo un riflesso di quelli che sono gli orientamenti dottrinali, giacché nell'attenzione alle fattispecie concrete ha ben di rado mostrato di esprimere una determinazione consapevole o di condividere un'univoca concezione.

Decisioni legate al disposto dell'art. 588 c.c. richiamano, infatti, il concetto di universalità (di beni del patrimonio) quale criterio ermeneutico per l'individuazione della istituzione di erede [16]; nelle sentenze attinenti all'azione ex art. 533 c.c. si fa, invece,

indifferentemente riferimento alla sussistenza di uno status di erede , ovvero di una qualità ereditaria , qualità che, secondo una massima "cristallizzata" , non è tuttavia necessariamente legata all'acquisto dei beni .

La giurisprudenza, in realtà, non ha fornito in materia contributi di largo spessore, limitandosi a recepire in prospettive circoscritte proposizioni elaborate dalla dottrina e solo di rado affrontando problemi ricostruttivi [21]: l'unico settore rispetto al quale può rinvenirsi una certa ricchezza di apporti è quello attinente al profilo della pretermissione del legittimario . Rilevando che il legittimario pretermesso, non solo non è chiamato all'eredità come erede ma neppure diviene tale attraverso l'esperimento vittorioso dell'azione di riduzione, in quanto ciò che il legislatore ha inteso realizzare è solo il conseguimento a suo favore di una parte dei beni del defunto , la giurisprudenza si pone in antitesi con la comune opinione dottrinale che riconosce ai legittimari la qualità di eredi condizionata al positivo esperimento dell'azione di riduzione .

Solo grazie a tali accenni del tutto preliminari, circa il ruolo che la ura dell'erede svolge in ordine alla esatta considerazione del fenomeno della successione a causa di morte, si può ora procedere speditamente all'esame del profilo positivo di colui che del fenomeno successorio costituisce il necessario termine di riferimento soggettivo.

La questione centrale da affrontare al riguardo resta pur sempre quella di stabilire la portata ed il valore di tale ruolo, giacché su che cosa o, per meglio dire, chi debba intendersi per erede vi è generale consenso: erede è, infatti, colui che succede al defunto nel complesso dei rapporti giuridici (trasmissibili), ovvero in una quota .

In questo senso lo spessore della ura si coglie per contrasto con l'altra ura del legatario, giacché per questi l'apertura della successione determina solo il subentro in determinati rapporti giuridici. Il profilo di differenziazione rileva tuttavia non soltanto sul piano quantitativo, bensì su quello qualitativo, considerando, al di là del diverso operare della successione nei debiti ereditari, da un lato che all'erede è ascrivibile una astratta potenzialità a succedere in tutti i rapporti giuridici del de cuius; dall'altro che solo rispetto all'erede può esattamente conurarsi una successione nei rapporti giuridici, risultando quello del legatario, come si dirà meglio in seguito, un

acquisto a titolo derivativo [26].

Rimane, invece, da chiarire se con il termine erede sia possibile individuare un concetto giuridicamente preciso, connesso cioè ad una determinata situazione giuridica soggettiva ovvero se la nozione rimanga soltanto descrittiva e valga cioè a definire chi nel concreto succede al defunto.

L'intuizione dell'erede quale titolare di una situazione giuridica soggettiva definita con il termine "qualità" nasce sul terreno della critica alla nozione di eredità concepita come universitas iuris, ed è determinata dal rilievo che la ura assume rispetto alla vicenda della successione per causa di morte. L'individuazione nella qualità giuridica, nel titolo di erede messo a disposizione del chiamato con la delazione, della causa immediata dell'acquisto del patrimonio ereditario è basata, nel precisarne il significato ricostruttivo, su specifici dati normativi, rappresentati da un lato dalla precipua azione posta a difesa della qualità ereditaria (art. 533 c.c.); dall'altro dalla disciplina della vendita dell'eredità (art. 1542 c.c.) nella quale la distinzione logica tra assunzione della qualità di erede ed acquisto dei singoli diritti ed obblighi, contenuto dei rapporti giuridici ereditari, appare testualmente ribadita [27].

Tale riconoscimento del ruolo centrale svolto, nell'ambito del contesto successorio, dalla qualità di erede, prius logico dell'acquisto del patrimonio ereditario, situazione giuridica autonoma, originaria ed intrasmissibile che non trova riscontro in una analoga posizione giuridica del de cuius, appare tuttora pregnante malgrado le critiche mossele [28]. Si tratta, infatti, di critiche che, a ben vedere, in quanto dirette ad addurre una portata solo descrittiva del termine , non risultano sufficientemente argomentate , mentre, se legate alla constatazione della priorità dell'acquisto del patrimonio rispetto al conseguimento del titolo di erede , trovano puntuale smentita in

diverse fattispecie nelle quali il legislatore ha mostrato di avere autonoma considerazione della qualità giuridica di erede (art. 542 c.c.), ovvero all'acquisto di una quota di patrimonio del de cuius non ha ricollegato il conseguimento del titolo di erede (art. 550, 1° co., c.c.) [32].

La ura così delineata e l'individuazione, nell'acquisto della qualità di erede, di una unitaria causa giustificatrice della successione sia nel lato attivo che nel lato passivo dei rapporti facenti prima capo al defunto, consente peraltro di risolvere la complementare questione sul valore giuridico da assegnare al termine eredità, nella ulteriore consapevolezza che se anche vengono separatamente considerati i profili relativi ai modi di acquisto, alla rinunzia, alla vendita dell'eredità, questi attengono nella sostanza a vicende che tuttavia nella accennata qualità giuridica trovano il proprio immediato referente .





I.2. L'individuazione del soggetto chiamato a succedere universitas iuris: la qualità di erede nella successione legittima e nella successione testamentaria.


Se alquanto discussa si presenta la delimitazione della ura di erede i cui caratteri devono essere rintracciati in seno al complessivo sistema successorio, per l'individuazione del soggetto chiamato a succedere si può contare su di un ben preciso dato normativo. All'uopo, infatti, si presenta fondamentale l'art. 457 c.c., rubricato "Delazione dell'eredità", secondo il quale "L'eredità si devolve per legge o per testamento. / Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria. / Le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari .

L'articolo in oggetto pone, così, la precettiva determinazione dei modi di delazione dell'eredità, anche se poi è nell'ambito di ciascuno di essi che va cercato il criterio idoneo ad individuare

l'erede rispetto ad una specifica fattispecie successoria, criterio del resto unitario - tanto nella successione testamentaria che in quella legittima [35] - espresso com'è dall'enunciato del più volte richiamato art. 588, l° co., c.c..

L'attribuzione ad opera della legge o per volontà del testatore dell'intero complesso (universalità) o di una quota dei beni del de cuius permette, infatti, di individuare l'erede, di identificare cioè il soggetto a favore del quale opera la delazione dell'eredità [36].

La regola non sembra presentare di per sè problemi applicativi, trattandosi di volta in volta di interpretare la dichiarazione testamentaria ovvero di rilevare la disciplina positiva che determina l'ambito quantitativo della delazione [37].

L'acquisizione della qualità di erede risulta in tal modo legata all'esplicita dizione delle norme, ove facciano riferimento alla delazione nell'intero (cfr. art. 583 c.c.) o in una frazione comunque

indicata (metà, eguali porzioni, un terzo, due terzi, ecc.: cfr. artt. 569, 568, 579, 582 c.c.), ovvero alle espressioni usate dal testatore nel disporre dei propri beni, espressioni che - come si vedrà analiticamente nel prosieguo del presente lavoro - la giurisprudenza mostra di interpretare nella sostanza in termini obiettivi [38].

La delazione, che segue l'apertura della successione, si risolve nell'offerta dell'eredità a persone che, ove vogliano, possono accettarla. Il principio generale in materia è che nessuno può essere erede ove non lo voglia e che una volta acquisita la relativa qualità si conserva per sempre (donde l'imprescrittibilità dell'azione di petizione ereditaria, a fronte della prescrittibilità del diritto di accettare) e nei confronti di tutti [39].

Pur rappresentandone un presupposto, la delazione dell'eredità non è di per sé sola sufficiente all'acquisto della qualità di erede, perché, per ottenere un tale effetto, è necessaria anche, da parte del

chiamato, l'accettazione mediante aditio oppure per effetto di pro herede gestio, oppure per la ricorrenza delle condizioni di cui all'art. 485 c.c., il quale contempla una fattispecie complessa di accettazione ex lege della eredità di cui sono elementi costitutivi l'apertura della successione, la delazione ereditaria, il possesso dei beni ereditari e la mancata tempestiva redazione dell'inventario [40]. Pertanto colui che deduce l'avvenuta accettazione dell'eredità come presupposto della domanda azionata, facendo valere un credito contro un chiamato all'eredità del debitore, quale erede ope legis ai sensi dell'art. 485 c.c., ha l'onere di provare, in applicazione del generale principio di cui all'art. 2697 c.c., la verificazione di tutti gli elementi di quella fattispecie, ed in particolare del possesso dei beni ereditari da parte del detto chiamato, senza possibilità d'invocare al riguardo presunzione di sorta .


L'onere di provare la qualità di erede, gravante sul soggetto che in tale veste agisca in giudizio, viene meno qualora la controparte abbia sollevato contestazioni in proposito solo con la sa conclusionale di primo grado, dopo aver accettato il contraddittorio senza alcuna eccezione al riguardo, sì da rendere non controversa la predetta qualità [42].

I soggetti che, quali eredi, propongono un'azione giudiziaria, hanno l'onere di provare tale loro qualità, ma il mancato adempimento di tale onere, ove non sia sorta contestazione nel giudizio conclusosi con la sentenza passata in giudicato, non può essere eccepito in sede esecutiva, quando gli eredi costituitisi nel giudizio siano i medesimi che agiscano per ottenere l'esecuzione della sentenza [43].

Deve sottolinearsi ancora che la delazione ereditaria può avvenire solo per testamento o per legge, senza, quindi l'ipotizzabilità di un tertium genus come il patto successorio che, ponendosi in contrasto con il principio fondamentale (e pertanto di ordine pubblico) del nostro ordinamento della piena libertà del testatore di disporre dei propri beni fino al momento della sua morte , è per definizione non suscettibile della conversione ex art. 1424 in un testamento, poiché mediante questa si realizzerebbe proprio lo scopo, vietato dall'ordinamento, di vincolare la volontà del testatore al rispetto di impegni, concernenti la propria successione, assunti con terzi .

Nel diritto vigente, la successione testamentaria può si coesistere con quella legittima ma solo nel senso che, se attraverso le disposizioni testamentarie non è esaurita l'intera massa dei beni di cui il testatore può disporre, la parte restante - salva diversa volontà

del testatore - si trasferisce agli eredi legittimi [46].

Il soggetto istituito erede universale per testamento non può ignorare la propria delazione testamentaria, dichiarandosi erede legittimo e chiedendo sic et simpliciter la quota legittima dell'eredità, poiché la delazione legittima è conurabile soltanto in difetto di quella testamentaria. Tuttavia, se non intende accettare la propria istituzione testamentaria ma far valere altri diritti in relazione alla medesima successione, è tenuto a reagire alla delazione testamentaria o mediante rinunzia, o - se riveste anche la qualità di legittimario - mediante l'esercizio dell'azione di riduzione delle contrastanti disposizioni testamentarie o delle donazioni, a tutela della quota riservata [47].

Qualora i chiamati all'eredità convengano di non far valere il testamento del de cuius e di ripartirsi l'asse ereditario in parti uguali secondo la successione legittima, ne deriva un atto di disposizione delle relative quote che, ove comportante il trasferimento di beni immobili da uno degli eredi favorito in base alle disposizioni testamentarie all'altro erede, deve rivestire la forma scritta ad substantiam e non soltanto ad probatiionem, senza che possa esser provato a mezzo di atti scritti successivi (nella specie, vendita di beni ereditari) che lo presuppongono. Nè può ritenersi che tale forma scritta possa essere costituita dalla denuncia di successione, con cui le parti abbiano dichiarato essere stata l'eredità devoluta secondo legge, atteso che la denuncia di successione - atto di rilevanza puramente fiscale - è una dichiarazione di scienza che ha la sola funzione di portare a conoscenza della pubblica amministrazione i dati di fatto necessari per la riscossione dei tributi .

Infine, deve sottolinearsi che, quando un legittimario sia chiamato dal testatore nella quota che gli è riservata, non si verifica un'ipotesi di vocazione ex lege, bensì un'ipotesi di vocazione testamentaria, senza che, di fronte ad una inequivoca manifestazione di volontà in tal senso da parte del testatore, si possa operare un'interpretazione della disposizione testamentaria tendente ad accertare se il disponente si sia determinato liberamente oppure soltanto perché la legge gli impediva di disporre altrimenti della quota di riserva [49].

Ma, a prescindere dalle particolari situazioni che si possono verificare in seno alla vicenda successoria, la delazione, sia essa legittima o testamentaria, presuppone naturalmente la preventiva individuazione della persona a cui l'eredità è offerta, cioè a dire del chiamato all'eredità. Tale individuazione talvolta può essere dubbia e, comunque, poiché se il chiamato non è nel possesso dei beni il diritto all'accettazione si prescrive in dieci anni, è possibile che, nel complesso di rapporti attivi e passivi già facenti capo al de cuius, non subentri immediatamente un successore. Anzi, può dirsi che la soluzione di continuità dal punto di vista degli eventi temporali è la regola ed essa è eliminata solo una volta intervenuta l'accettazione e grazie ad una fictio iuris, consistente nel considerare, dal punto di vista giuridico, retroattivi gli effetti dell'accettazione al momento dell'apertura della successione [50].

L'ordinamento giuridico interviene per regolamentare i rapporti pendenti nel periodo che intercorre tra l'apertura della successione e l'accettazione dell'eredità, da un lato fissando i poteri del chiamato e, dall'altro, in via alternativa, disciplinando la c.d. eredità giacente. Quest'ultima soluzione presuppone che l'incertezza sulla sorte dell'eredità sia grave e possa prolungarsi per molto tempo. Ecco perché se il chiamato all'eredità è nel possesso dei beni è escluso il ricorso alla curatela: il chiamato, infatti, avrà, in base all'art. 485, 3° co., c.c., un tempo assai breve per decidere se accettare o rinunciare [51].

L'interesse del chiamato, nella fase che precede l'accettazione, è chiaramente solo quello di mantenere inalterata la situazione di

fatto esistente al momento dell'apertura della successione ed evitare che essa possa deteriorarsi. Giuridicamente parlando egli è titolare di una vera e propria aspettativa di diritto la cui tutela è provvisoria, in via d'urgenza ed a carattere cautelativo. Il chiamato, dunque, può innanzi tutto esercitare le azioni possessorie, senza bisogno di materiale apprensione dei beni (art. 460, 1° co., c.c .). Egli può, inoltre compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea e può farsi autorizzare dall'autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio (art. 460, 2° co., c.c.) [52].

In dottrina si discute se il chiamato possa o debba amministrare: secondo taluni egli risponderebbe anche delle omissioni dannose [53], mentre, secondo altri , egli risponde solo se amministra il patrimonio. Si tende poi ad avvicinare la posizione del chiamato all'eredità a quella del gestore di affari con la conseguenza di ritenerlo legittimato a compiere anche atti di straordinaria amministrazione in via d'urgenza. Parimenti, secondo le regole della gestione di affari, si ritiene che debbano essergli liquidate dall'eredità le spese sostenute per il compimento degli atti previsti dall'art. 460, qualora sopravvenga una sua rinunzia all'eredità (art. 461) .

Il chiamato all'eredità, ma solo se è nel possesso dei beni ereditari, ha anche l'onere di formare l'inventario entro un termine brevissimo (tre mesi rinnovabili), a garanzia dei terzi (art. 485, 1° co., c.c.). Infatti, almeno per quanto riguarda i beni mobili, può essere motivo di confusione il fatto che il chiamato ne sia possessore, in tal modo potendo apparire all'esterno (e comunque potendo assumere di esserne) proprietario. Così sentita è tale esigenza che, trascorso il termine di legge senza che l'inventario sia stato compiuto, il chiamato all'eredità è considerato, ai sensi dall'art. 485, 2° co., c.c., erede puro e semplice, con tutte le conseguenze sul piano della responsabilità patrimoniale. Egli, quindi, non solo risponderà di tutti i debiti del de cuius, ma sarà responsabile anche al di là del valore dell'attivo, ossia anche ultra vires hereditatis [56].

Pertanto, il chiamato, proprio per questa sua speciale condizione, ha, durante la formazione dell'inventario, non solo tutti gli ordinari poteri ex art. 460 c.c. (può esercitare azioni possessorie, compiere atti conservativi e di amministrazione temporanea, può farsi autorizzare a vendere i beni che non possono essere conservati), ma anche la facoltà (non già l'obbligo) di rappresentare l'eredità, qualora essa sia convenuta in giudizio, ad esempio da un creditore per l'accertamento del rapporto obbligatorio. Se egli non intende ire, l'autorità giudiziaria provvede alla nomina di un curatore all'eredità con l'esclusivo compito di rappresentarla in giudizio (art. 486 c.c.) [57].

Nulla ha a che vedere questo curatore con il curatore dell'eredità giacente, il quale non viene nominato in caso esista un chiamato all'eredità nel possesso dei beni perché non avrebbe alcun

compito da svolgere. Il chiamato possessore, ha tutti i poteri di amministrazione temporanea dell'eredità, deve decidere celermente se accettare o rifiutare, e, soprattutto, ha la rappresentanza processuale che permette ai terzi di instaurare liti. Il curatore ad lites ha solo il compito di non obbligare il chiamato possessore a seguire processualmente tutte le controversie [58].

Se il chiamato non è stato identificato o non si sappia se è mai esistito e dunque se sia in vita (ipotesi questa diversa dalla ssa prevista dall'art. 70 c.c. in cui non vi è incertezza circa l'esistenza) ovvero se egli non ha ancora accettato l'eredità e non è nel possesso di beni ereditari (cosicché ha dieci anni per decidere se accettare o meno), il pretore del luogo ove si è aperta la successione, su istanza delle persone interessate (ad esempio un creditore, un legatario, un chiamato all'eredità di grado successivo) o anche d'ufficio, nomina un curatore dell'eredità (art. 528 c.c.) che cessa dalle sue funzioni solo quando l'eredità è stata accettata (art. 532 c.c.).

Il curatore non rappresenta peraltro il futuro erede ma è un amministratore del patrimonio (che non dà vita ad un ente a sé stante) in funzione sostanzialmente conservativa [59].

Il curatore è tenuto a procedere all'inventario dell'eredità, ad esercitarne e promuoverne le ragioni, oltre a rispondere alle istanze proposte contro la medesima, ad amministrarla, a depositare il denaro relitto ovvero ricavato dalle vendite dei beni e, da ultimo, a rendere il conto della propria amministrazione (art. 529 c.c.) .

Va segnalato, infine, che le norme sui poteri del curatore dell'eredità giacente si applicano anche - in caso di successione testamentaria - nei confronti dell'amministratore preposto all'eredità in caso di eredi nascituri (art. 643 c.c.), oppure nelle ipotesi in cui l'erede sia istituito sotto condizione sospensiva o non presta la dovuta garanzia per le ipotesi di sussistenza di condizione risolutiva o di condizione sospensiva o a termine (art. 641 c.c., il quale rinvia

esplicitamente agli artt. 639 e 640 c.c.) [61].
































I.3. Disposizioni a titolo universale e disposizioni a titolo particolare: la distinzione tra eredità e legato (ex art. 588, 1° co., c.c.).


Per descrivere le modalità di realizzazione del fenomeno della successione a causa di morte si fa riferimento ad una successione "a titolo" universale ed una successione "a titolo" particolare: la diversa qualificazione si suole fondare sul fatto che, nel primo caso, la vocazione si indirizza alla generalità dei rapporti già facenti capo al de cuius, assumendo, il chiamato che accetti (artt. 470, 476 ss. c.c.), la qualità di erede; nella seconda ipotesi invece la stessa riguarda soltanto rapporti specifici e determinati ed il soggetto beneficiario acquista (ex art. 649 c.c.) la qualità di legatario [62].

La distinzione tra erede e legatario è utile non solo con riguardo alla successione testamentaria, ma anche per la successione legittima, e con riferimento ai diritti dei legittimari. Succede a titolo universale ed assume la qualità di erede il soggetto cui sia devoluta l'universalità o una quota dei beni del defunto, per quota intendendo una frazione aritmetica del patrimonio (la metà, un terzo, oppure tutti gli immobili, e così via). Succede a titolo particolare e riveste la qualità di legatario il soggetto cui sia attribuito un bene determinato o un complesso di beni.

Fuori del caso dell'erede nella successione alla persona defunta non ricorrono altre ipotesi di successione universale, e tra vivi non si dà altra successione che quella a titolo particolare. L'ipotesi della fusione, nella quale una persona giuridica assorbe un'altra persona giuridica (fusione per incorporazione) o più enti danno vita ad un ente nuovo in cui perdono la loro individualità (fusione in senso stretto), talvolta indicata come ipotesi di successione universale non

riducibile allo schema della successione a causa di morte, riguarda in realtà un fenomeno non diverso da quello che si realizza per effetto della morte della persona fisica. Di singolare nell'ipotesi della fusione di persone giuridiche, rispetto alla vicenda ereditaria (e condizioni in parte analoghe possono farsi per la scissione) vi è questo, che qui l'estinzione dell'ente segue alla operazione di fusione, mentre per la persona fisica la sostituzione di un soggetto ad un altro (sostituzione in cui si risolve la vicenda successoria) segue all'evento fisico della morte [63].

Decisiva in ogni caso, perché possa verificarsi successione universale, appare la circostanza che si estingua il soggetto da cui prende impulso la vicenda, il dante causa o autore della successione, come suole dirsi [64].

Nonostante, quindi, abbracci un contesto più ampio di quello a cui viene di solito riferita, la distinzione fra successione a titolo universale e particolare è contenuta fra le disposizioni generali che regolano le successione testamentaria [65].

Nel 1° comma dell'art. 588 c.c. è disposto, infatti, che,

qualunque sia l'espressione o la denominazione utilizzate dal testatore, le disposizioni testamentarie sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede se comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore; ogni altra disposizione è a titolo particolare e attribuisce la qualità di legatario [66].

Questa formulazione costituisce la sintesi di due disposizioni del codice del 1865: dall'art. 760 c.c. abr. è stato ricavato, senza aver subito alcuna modifica, il criterio distintivo delle disposizioni e dall'art. 827 c.c. abr. si è recuperato il principio, lì ambiguamente espresso, dell'irrilevanza di formule sacramentali per l'istituzione di erede o di legato [67].

Specifica tuttavia il 2° comma del vigente art. 588 c.c. che l'indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio. Senza entrare nello specifico di quest'ultima disposizione che, riguardando l'istituzione di erede ex re certa, sarà ampiamente analizzata in seguito, può sottolinearsi che, proprio in base ad essa, anche nel sistema positivo odierno, l'attribuzione formalmente espressa nel testamento del titolo di erede o di legatario non è decisiva nè ex se funzionale per la qualificazione della natura di una disposizione giacché lo stesso legislatore pone subito in evidenza, a questi fini, la tendenziale irrilevanza delle espressioni terminologiche utilizzate dal de cuius [68].

Per converso, le disposizioni patrimoniali più significative

sono diversificate soltanto in funzione delle modalità dell'attribuzione e del loro modo di incidere sul patrimonio del defunto. In particolare, quanto alle modalità di attribuzione, "l'eredità si acquista con l'accettazione" (art. 459 c.c.), mentre "il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare" (art. 649, 1° co., c.c.) [70].

Per ciò che concerne, invece, l'incidenza sul patrimonio del defunto, in considerazione del rapporto in cui si succede, l'eredità riguarda tutto il patrimonio della persona defunta, abbraccia, cioè, come si è detto, tutti i rapporti patrimoniali del defunto, sia attivi che passivi, (fatta eccezione, beninteso, dei rapporti estintisi con la morte del titolare e dei rapporti fatti oggetto di disposizioni a titolo particolare); il legato, invece, riflette uno o più determinati rapporti patrimoniali, esclusivamente attivi. Nel primo caso la pluralità dei rapporti è unitariamente considerata dal diritto; nel secondo, invece, il rapporto o i rapporti giuridici, oggetto dell'attribuzione, sono

considerati nella loro specifica individualità [71].

Solo tenendo conto di tali peculiarità si può descrittivamente affermare, in linea generale, che la qualità ereditaria (e dunque la successio in locum et ius defuncti) è sempre ricollegata all'esistenza

di disposizioni che comprendono l'universalità dei beni o una quota di essi; il conferimento della qualifica di legatario si realizza, invece, attraverso disposizioni che hanno ad oggetto beni determinati nella loro singolarità e che non siano comunque ricomprensibili nell'ambito di quelle qualificate a titolo universale [72].

Tendenzialmente la determinazione della "qualità" da conferire al chiamato non implica particolari questioni allorquando la successione è devoluta per causa di morte: in tal caso la chiamata avviene di regola a titolo universale o particolare a seconda della volontà del de cuius, anche se non mancano residue ipotesi di legato

inter vivos

Né d'altra parte dovrebbero insorgere gravi incertezze classificatorie laddove, trattandosi questa volta di successione testamentaria, il contenuto oggettivo dell'atto (rectius, ossia la modalità con cui il testatore ha provveduto a manifestare la sua volontà in ordine alla destinazione del suo patrimonio ed all'identificazione dei beneficiari) sia tale da consentire un'immediata applicazione del "criterio distintivo" di base, posto

nella prima parte del l° comma dell'art. 588 c.c. [74].

Ed infatti, stante l'irrilevanza del solo nomen iuris utilizzato dal testatore per qualificazione un qualsiasi beneficiario (il testatore potrebbe, in effetti, avvalersi di terminologie eventualmente

contrastanti, come ad esempio: "lego metà del mio patrimonio", "dono tutti i miei beni", ecc.) [75], saranno da qualificarsi sempre come disposizioni a titolo universale quelle che attribuiscono indistintamente, o in porzioni aritmetiche differenziate fra loro, tutto il patrimonio a più soggetti (con eventuali ipotesi di coeredità in parti uguali o diseguali) e/o quelle disposizioni che conferiscono tutti i beni appartenenti al testatore o una "frazione astratta" di essi ad un solo soggetto .

Oltre ai modi di attribuzione ed alla specificazione dei rapporti in cui si succede, eredità e legato si contraddistinguono anche per altri aspetti.

La successione ereditaria, infatti, è per il legislatore fenomeno necessario, nel senso che alla morte di ogni soggetto vi dovrà sempre

essere un erede e questo sarà, in ultima istanza, lo Stato quale successore ex lege (cfr. art. 586). Il legato, invece, è fenomeno meramente eventuale in quanto la sua mancanza lascia impregiudicato il fenomeno successorio mortis causa in sé considerato [77].

Un'ultima distinzione riguarda il termine: la successione a titolo universale non può aver luogo ad tempus (semel heres semper heres: art. 637 c.c.), mentre il diritto del legatario, può essere limitato nel tempo, ossia può avere un termine sia iniziale che finale (argomentando dagli artt. 637 e 640 c.c.) [78].


















I.4. Gli effetti conseguenti all'attribuzione della qualità di erede o di legatario.


All'assunzione della qualità di erede e all'acquisizione della qualifica di legatario vengono ricollegati effetti fra loro notevolmente diversi [79].

L'erede, infatti, subentra nella "totalità" dei rapporti trasmissibili che facevano capo al de cuius al momento della sua morte, compresi quelli di cui neppure il defunto conosceva l'esistenza o che addirittura sono sorti dopo che, trattandosi di successione testamentaria, la chiamata era stata formulata [80]. Ed è in forza di ciò che egli può esperire la petitio hereditatis (art. 533 c.c.) .

Il legatario, invece, succede in uno o più diritti determinati; è tenuto all'adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto

entro i limiti del valore della cosa legata [82].

Proprio in considerazione di quanto appena sottolineato, dal punto di vista degli effetti, una fondamentale distinzione tra erede e legatario riguarda, sul piano della disciplina positiva, ciò che concerne i debiti ereditari. Il legatario, poiché non è successore se non in uno o più rapporti attivi determinati, "non è tenuto a pagare i debiti ereditari" (art. 756 c.c.). Ed anche quando il pagamento gli sia stato imposto dal testatore (la norma dell'art. 756 è dispositiva), egli non è successore in tali debiti perché verso i terzi risponderà sempre l'erede (art. 754 c.c.), salvo rivalsa [83]. Inoltre, il legatario non è tenuto a questo pagamento e, più in generale, all'adempimento dell'onere eventualmente impostogli, se non entro i limiti di quanto conseguito (art. 671 c.c.), vale a dire intra vires legati .

Quanto, infine, al possesso, questo continua nell'erede con effetto dall'apertura della successione (art. 1146, 1° co., c.c.); il legatario, invece, non subentra nel possesso del defunto, ma inizia un nuovo possesso, al quale "può unire quello del suo autore per goderne gli effetti" (art. 1146, 2° co., c.c.) [85].






































CAPITOLO II


Il 2° comma dell'art. 588 c.c. e l'institutio ex re certa: contenuto ed estensione della

norma codicistica




II.1. La qualità di erede a titolo universale e l'istituzione in quota ex re certa: le problematiche sollevate dal 2° co. dell'art. 588 c.c.


II.2. L'institutio ex re certa quale novità introdotta col codice del 1942.


II.3. La qualità di erede in re certa: non agevole distinzione rispetto alla designazione di legatario.


II.4. La necessità di una valutazione congiunta del 1° e del 2° co. dell'art. 588 c.c.: il valore ermeneutico di tale disposizione complessivamente considerata.













II.1. La qualità di erede a titolo universale e l'istituzione in quota ex re certa: le problematiche sollevate dal 2° co. dell'art. 588 c.c.


L'art. 588 c.c., come si è già detto, pone la distinzione tra le disposizioni a titolo universale e quelle a titolo particolare. Ma dopo aver stabilito, nella prima parte, che le disposizioni testamentarie, qualunque sia l'espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede se comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore, e che le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario, aggiunge nel suo capoverso che l'indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio [86].

In  altri termini, nell'ambito della sola successione

testamentaria, l'assegnazione di una quota dei beni, in base al 2° co. dell'art. 588 c.c., "può anche avvenire attraverso l'indicazione di beni determinati o di un complesso di beni quando risulti che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio" .

Ad una ben netta differenziazione e contrapposizione tra eredità e legato (così come espressa nel 1° co. dell'art. 588) - tra situazione che vede il realizzarsi del subentrare pieno ed indiscriminato dell'erede nella situazione patrimoniale, globalmente considerata, del de cuius e situazione che comporta una successione solo in singular res, limitata cioè a specifici rapporti [88] - il disposto di cui al 2° co. dell'articolo in oggetto affianca una particolare e non del tutto chiara institutio, detta ex re certa, su cui, da sempre, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate per valutare se, in tale ipotesi, il successore può essere qualificato erede o legatario .

Possono, infatti, insorgere delicate questioni ermeneutiche allorquando in un testamento siano contenute disposizioni che abbiano ad oggetto l'assegnazione di res determinate, sia singolarmente che come complesso omogeneo od eterogeneo di beni. In questi casi, l'impossibilità di una immediata qualificazione è in certo senso conseguente al fatto che l'indicazione determinata - che secondo il dato legislativo espresso nel 1° co. dovrebbe, sia pure indirettamente, costituire un elemento significativo per l'attribuzione della qualità di legatario - può non escludere un'istituzione di erede, sempre che sia dimostrato che il testatore intese considerare le res certae in funzione di quota e cioè nel loro rapporto col tutto [90].

Il capoverso dell'articolo in esame sembra fare eccezione alla regola generale secondo la quale si ha la ura di erede allorché il testatore ha attribuito in capo ad un soggetto l'universalità o una quota di beni ; nello stesso tempo considera, così come si desume dal suo dato testuale - e in particolare dall'espressione "quando risulta che il testatore ha inteso assegnare" -, non solo il contenuto del testamento, ma soprattutto la volontà intrinseca del de cuius, affiancando - come si vedrà meglio nel prosieguo del presente lavoro - ai criteri di interpretazione obiettiva legati all'atto di ultima volontà, criteri interpretativi soggettivi, mediante i quali risalire alle vere intenzioni del testatore

L'interprete, cioè, nell'analisi della scheda testamentaria, deve compiere un'indagine di fatto, volta a controllare se il testatore, nonostante l'univocità dei termini usati nella compilazione del testamento, abbia inteso dar luogo o meno alla istituzione di erede [93].

Accanto al criterio meramente obiettivo, da desumersi dalla disposizione testamentaria, viene così a profilarsi anche il criterio soggettivo della volontà del testatore, il quale però non può essere inteso nel senso che la legge abbia qui un carattere suppletivo e che la qualità di erede o di legatario dipenda esclusivamente dalla volontà del testatore [94], sebbene nel senso precisamente opposto, e cioè che la volontà privata incontra qui - come nella formazione di ogni altro negozio - i limiti che l'ordinamento giuridico pone per stabilire gli estremi costitutivi del rapporto che si vuole creare, e non può quindi prescindere dal concetto di quota intesa come parte ideale del patrimonio, che, a norma di legge, è un elemento indispensabile per aversi successione a titolo universale .

Tutto il discorso ruota attorno alla specificazione della "quota", la determinazione della quale, se non espressamente indicata nel testamento, deve pertanto risultare in modo non dubbio dalle espressioni adoperate dal testatore, e per aversi istituzione di erede deve comunque emergere che si sia voluto attribuire quella parte di beni coi medesimi caratteri dell'intero, sì che in essa ricadano, nella stessa proporzione, le attività e le passività che costituivano l'intero patrimonio del testatore [96].

E' precisamente in questi sensi che la questione, da sempre dibattuta, deve ritenersi ormai risolta [97].

Nella prima parte dell'art. 588 vi è il richiamo al criterio oggettivo di quota, che non può non consistere in un rapporto aritmetico tra i beni assegnati ed il tutto. La quota è, quindi, il risultato di una divisione, sia pure ideale.

Adottando tale criterio si ha istituzione di erede, oltre che nella ipotesi che il tutto sia lasciato ad una sola persona, sia quando la vocazione rifletta una o più persone istituite in quota con l'astratta indicazione della frazione dell'intero così assegnata, sia quando più persone siano congiuntamente istituite nella totalità dei beni senza però alcuna precisazione di quote, perché allora la frazione aritmetica non ha importanza e la quota viene ad essere necessariamente determinata dall'eguale concorso di tutti, così come indubbiamente il testatore si era prospettato [98].

Quando invece - ed è l'ipotesi contemplata dal 2° co. dell'art. 588 - non ricorrano tali estremi e si abbia attribuzione di determinati beni o di un complesso di beni (c.d. istituzione ex re certa) senza che venga con ciò esaurito l'intero patrimonio, soccorre allora il criterio, considerato come meramente suppletivo , della volontà, onde l'interprete deve indagare se il testatore abbia o meno inteso di assegnare quei beni come quota, se cioè abbia voluto distaccarli dal tutto e attribuirli come una frazione di esso, tanto che la disposizione debba ritenersi costituita, in misura proporzionale, di una quota parte delle attività e delle passività che costituivano l'intero patrimonio. Ed è soltanto in tal caso che può ritenersi sussistere la qualità di erede .

Ma è chiaro che in tal modo la legge non prescinde, come accade per il 1° comma della disposizione in oggetto, neppure qui dal concetto obiettivo di quota che è indispensabile per aversi istituzione di erede. Il criterio sussidiario della volontà - indicato unicamente per poterne stabilire nei casi dubbi la sussistenza, nonché contraddire - è perfettamente aderente alla regola stabilita nella prima parte dell'art. 588, per cui se in tali casi non si è inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio, non vi è disposizione a titolo universale, ma legato .

Secondo la dottrina maggioritaria [102], si procede ad una tale valutazione a prescindere dal criterio della ricostruzione a posteriori del valore proporzionale dei beni rispetto all'intero patrimonio ereditario, che condurrebbe in ogni caso alla determinazione del rapporto aritmetico. E ciò è fattore affatto irrilevante se il testatore abbia inteso assegnare i beni a titolo di legato.

Resta, da ultimo, stabilire da quali elementi l'interprete deve desumere la intenzione del testatore di assegnare determinati beni come quota del suo patrimonio, e a qual epoca debba riferirsi la valutazione di tali beni ai fini della determinazione della quota ereditaria che essi rappresentano.

Sulla prima questione, risulta dalla relazione del Guardasigilli al Libro delle Successioni (n. 63) che la volontà deve essere desunta mediante i comuni criteri d'interpretazione della volontà testamentaria, ma non è pure detto se questa debba necessariamente ricavarsi dal testamento o possa desumersi anche da elementi estranei. Si afferma che la volontà debba risultare dal contesto dell'atto [103], stante il carattere in certo modo eccezionale del principio che ammette il criterio sussidiario della volontà per accertare la qualità di erede o di legatario; ma in verità non si vede la ragione di una simile deroga ai principi relativi all'interpretazione della volontà testamentaria, che può essere tratta anche da elementi che sono estranei all'atto .

L'asserita eccezionalità del principio di cui al capoverso dell'art. 588 non produce, infatti, una situazione diversa da quella che si verifica in ogni altro caso in cui debba interpretarsi la volontà del testatore.

Deve però sottolinearsi che, anche se la legge ammette, sia pure in via eccezionale, il ricorso alla volontà, non per questo deve derogarsi ai consueti principi probatori e negare, così, una dimostrazione la quale risultasse da altri atti che provengono dallo stesso testatore, o anche da testimoni, i quali ad es. riferissero ciò che costui avesse dichiarato, a chiarimento, dopo la confezione dell'atto [105].

Nè vale opporre in contrario che l'indole incerta della prova testimoniale mal si concilia con la importanza dell'accertamento in esame, giacché questa può essere una ragione di una più rigorosa valutazione della prova orale, non della sua esclusione.

D'altra parte, se la volontà testamentaria può essere desunta dal contesto dell'atto o, altrimenti, perfino quando si tratti di accertare l'identità della persona nominata dal testatore (in base all'art. 625, 1° co., c.c., la disposizione testamentaria ha effetto anche quando la persona dell'erede o del legatario è stata erroneamente indicata, sempre che dal contesto del testamento o altrimenti risulta in modo non equivoco quale persona il testatore voleva nominare), a maggior ragione ciò dev'essere consentito quando l'istituito sia certo, ma si tratti soltanto di stabilire se egli rivesta la qualità di erede o di legatario; il che costituisce manifestamente un minus di fronte alla ipotesi di erronea indicazione della persona [106].

Sulla seconda questione, è indubbiamente esatto ritenere che la valutazione a posteriori dei beni, che si accertino essere quota ereditaria, va fatta, o di accordo o in via giudiziaria mediante perizia, con riferimento al tempo della morte del testatore, e ciò perché è possibile che la volontà da costui espressa nel testamento sia stata modificata fino all'epoca della morte, ed è quindi a tal epoca che va rapportato il valore della quota ereditaria che egli, con la istituzione in re certa, ha inteso attribuire.

Da ultimo, deve sottolinearsi che tale valutazione - come è stato esattamente osservato [107] - ha carattere pregiudiziale nel giudizio che sia intentato da un creditore contro l'istituito in re e contro altri coeredi.
















II.2. L'institutio ex re certa quale novità introdotta col codice del 1942.


Se queste sono le linee salienti, le problematiche sottese all'istituto de quo e gli orientamenti tuttora invalsi, deve specificarsi che il rilievo attribuito dal legislatore a questo ulteriore modo di designazione dell'erede, comunemente espresso nella formula "institutio ex re certa", costituisce una novità introdotta col codice civile del 1942 .

Con la codificazione della eccezione alla regola sancita dal 1° co. dell'art. 588 si intese positivamente prendere atto di un'opinione, elaborata in dottrina ma poi recepita anche da alcuni autorevoli interventi della giurisprudenza, che prospettava la possibilità di una rafurazione del concetto di quota, come si è già ribadito, non soltanto nell'astratto rapporto aritmetico della parte col tutto, predeterminato (in modo espresso o tacito) dal disponente nel testamento, ma anche in un'individuazione specifica di beni che - pur non risolvendosi nell'indicazione di una frazione aritmetica dell'universalità - poteva essere ugualmente valutata, dopo l'apertura della successione, in rapporto alla totalità dell'intero asse, una volta dimostrato peraltro che quell'attribuzione era stata voluta dal testatore "in funzione di una divisione del patrimonio da lui idealmente concepita" (c.d. valutazione a posteriori della quota) [109].

In realtà, il legislatore, mantenendo fermo il criterio sancito dal già richiamato art. 760 c.c. abrogato - secondo il quale l'istituzione di erede presuppone che l'istituito, qualunque sia l'espressione o la denominazione usata, sia chiamato nella universalità dei beni, o in una parte indeterminata di essi, considerata in funzione di quota del patrimonio ereditario - non ha inteso escludere a priori che, in base alla semplice interpretazione letterale delle espressioni della scheda testamentaria, allorquando il testatore abbia attribuito ad un unico onorato beni specificatamente indicati, la disposizione possa definirsi a titolo universale, cioè attributiva della qualità di erede.

In considerazione di una tale disposizione, durante il vigore del codice abrogato, ci si era domandato se, nell'ipotesi in cui il testatore avesse assegnato un determinato fondo, un determinato immobile urbano, tutti i suoi beni mobili, ecc., le attribuzioni così fatte escludessero la qualità di erede ovvero se, non essendo prescritta dalla legge la precisazione di una frazione (un terzo, un quarto, ecc.) potessero intendersi quelle attribuzioni quali quote, salvo a determinarne successivamente l'entità. Per lungo tempo dominò nella dottrina e nella giurisprudenza l'opinione che attribuiva la qualità di erede all'istituito in re certa (ad es. nei beni rustici siti in una data provincia) [110] e ciò in rispondenza anche alla tradizione derivante dal code civil francese (art. 1100) e dal codice napoletano (art. 964) che espressamente consideravano come disposizione a titolo universale il lascito di tutti gli immobili o di tutti i mobili .

Questo indirizzo veniva però vivacemente combattuto da parte della dottrina [112], la quale sostenne che per aversi istituzione di erede fosse necessario il requisito della quota corrispondente ad una frazione aritmetica numericamente espressa dell'universum jus.

Data l'autorità dalla quale proveniva una tale posizione, la tesi veniva accettata dalla giurisprudenza e ciò sino all'unificazione delle Corti di Cassazione [113]. La Cassazione, a sezioni unite, però, introduceva un temperamento ed affermava che la parola "quota" indica bensì un rapporto astratto con il tutto, ma un tale rapporto non può non corrispondere, se non addirittura ad una frazione aritmeticamente espressa, per lo meno ad una divisione idealmente concepita .

Il D'Amelio [115], che aveva presieduto le sezioni unite, illustrava in sede dottrinale la decisione della Cassazione, negando che nella legge vi sia alcuna disposizione che esiga un rapporto di proporzione aritmetica, nel senso che la quota dei beni con la quale viene istituito l'erede rappresenti una frazione del patrimonio; cosicché l'interprete non deve soffermarsi unicamente ad esaminare se le espressioni usate dal testatore ("i miei beni rustici", "i miei possedimenti in provincia di") siano sufficienti a designare la quota, ma deve indagare altresì se il testatore ebbe presente alla mente la totalità del patrimonio e la frazione che ne distaccava per la istituzione di erede. Se il risultato è affermativo - aggiungeva l'insigne giurista e Capo della Magistratura - l'indagine della volontà integra e sorregge l'espressione non adeguata del testatore. Quello che l'interprete non può fare è abbandonarsi ad esaminare liberamente che cosa abbia voluto intendere il testatore e se egli ebbe in animo di istituire un erede o un legatario, senza tener conto del processo logico con cui vi pervenne.

Un passo indietro faceva la Cassazione del 1931 [116] affermando che attribuisce la qualità di erede soltanto la disposizione testamentaria che assegna all'erede la universalità dei beni del testatore o una quota ideale, donde l'istituzione ex re certa era da considerarsi legato. Tale sentenza era in relazione ad un vasto dibattito che si era svolto in dottrina a favore dell'una o dell'altra tesi e veniva criticata da Coviello , il quale auspicava che, nella riforma del codice, venisse contenuto il seguente principio: "Vi è istituzione di erede non solo se la quota sia stata fissata numericamente nel testamento, ma anche se può successivamente determinarsi, con la valutazione dei beni assegnati, ove dal testamento risulti che si volle disporre dell'intero patrimonio con l'esclusione di ogni altro erede" .

L'insigne civilista napoletano osservava non esservi dubbio che si possa disporre a titolo di eredità prestabilendo le quote astratte come frazioni numeriche e componendo poi le singole quote con determinati cespiti, ma nulla vietava che il testatore, dopo aver fatto le assegnazioni concrete, espressamente aggiungesse che gli onorati si intendevano istituiti quali eredi in ragione del valore risultante dietro stima dei beni assegnati. Se tale clausola è efficace, non vi è ostacolo alcuno per ritenere non soddisfatte le aspettative della legge che richiede l'istituzione in quota, quando la frazione aritmetica sia una conseguenza necessaria della disposizione testamentaria, avendo questa per obiettivo l'attribuzione della totalità del patrimonio a favore soltanto di determinate persone. Se l'assegnazione concreta di beni è in funzione di quota, una volta fissata la proporzione in seguito alla stima del patrimonio al momento della morte, essa avrà la stessa efficacia del criterio proporzionale che fosse stato aritmeticamente stabilito col testamento [120].

Si perveniva, così, nell'ambito del nuovo codice civile, al 2° comma dell'articolo in esame che, nel suo costante e non trascurabile rapporto col 1° comma dell'art. 588, era il frutto di opinioni oramai quasi del tutto concordi [121], le quali finalmente sottolineavano come l'introduzione dell'institutio ex certa re si era tradotta in un "temperamento" della regola enunciata in via prioritaria per la determinazione della natura delle disposizioni testamentarie .

E ciò ovviamente non nel senso che con tale disposizione si prospettava una possibilità di prescindere, nell'attribuzione della qualità ereditaria, dall'assegnazione al chiamato dell'universalità o di

una quota dei beni del de cuius, quanto, semmai, nel fatto che la rilevanza accordata all'institutio come modo di designazione dell'erede finiva con l'attenuare l'immediatezza operativa della regola fondamentale di distinzione enunciata nel comma di apertura dell'articolo [123].

Ed infatti: se la presenza di lasciti che avessero ad oggetto l'universalità o una "sua quota", imponeva all'interprete di prendere atto in modo immediato e diretto del tipo di disposizione testamentaria attribuendole, al contempo, carattere universale, in quanto espressione di una volontà dispositiva manifestata secondo modalità prioritariamente e inderogabilmente funzionali a determinare quel tipo di inquadramento, per altro verso l'attribuzione in certis rebus, poiché potenzialmente suscettibile di qualificazioni fra loro differenziate (a titolo di eredità o di legato), poteva rilevare

come modo di istituzione di erede soltanto se ed in quanto la valutazione del dato testuale fosse anche sorretta dai risultati conseguiti attraverso un'indagine ermeneutica che, effettuata secondo i comuni canoni della volontà testamentaria, confermasse le intenzioni del de cuius - che pure avesse disposto singulatim di quei beni - era comunque quella di prendere in considerazione gli stessi in funzione di quota e quindi a titolo di "apporzionamento" dell'istituito [124].

Anche l'indirizzo che in giurisprudenza prevalse, dopo l'entrata in vigore del nuovo codice civile esemplifica nella sostanza, in massime uniformi e costanti, le osservazioni precedenti: i giudici, infatti, ribadirono che, nella valutazione del carattere delle disposizioni patrimoniali, era comunque necessario svolgere un'indagine ermeneutica complessa che, quando si trattava in particolare di stabilire i termini di rilevanza di un'institutio ex certa re, doveva essere condotta in modo più intenso ed approfondito di quella che normalmente si effettuava se il disponente avesse dettato disposizioni con riferimento ad una quantità indeterminata di beni .


























II.3. La qualità di erede in re certa: non agevole distinzione rispetto alla designazione di legatario.


All'interno di queste generali linee di approccio al nuovo istituto introdotto col codice del '42, è dall'analisi dei dati giurisprudenziali più significativi che può constatarsi la coordinata operatività della regola enunciata dall'art. 588 c.c., regola che - affiancando un canone di interpretazione soggettiva a quella che è la volontà oggettivamente desumibile dal contenuto delle disposizioni testamentarie - ha portato a qualificare di volta in volta l'attribuzione patrimoniale come disposizione "a titolo universale" o come disposizione "a titolo particolare" .

Ma una tale qualificazione non è affatto semplice soprattutto nel caso di attribuzione di beni determinati, in quanto una tale attribuzione può condurre sia all'istituzione di erede (2° co. dell'art. 588), sia a quella di legatario (1° co. dell'articolo de quo), con una

diversità di effetti che non può essere affatto sottovalutata [127].

Soprattutto in tal caso, al fine di stabilire se si è nel campo dell'eredità o del legato, la giurisprudenza soccorre, con le sue massime, dettando delle regole desunte dai singoli casi concreti .

In primo luogo, è necessario accertare se i beni lasciati siano stati considerati dal testatore quale pars aliquota del patrimonio, e cioè proprio come se il de cuius avesse astrattamente disposto di una quota. In tale eventualità, il particolare modo di designazione dell'erede, attraverso l'attribuzione di una res certa, oltre ad esplicare una obiettiva funzione di apporzionamento dell'istituto, vale altresì a stabilire l'effettiva quota di partecipazione del chiamato ai pesi e debiti ereditari, oltre che alla communio incidens relativamente ai beni costituenti l'asse ereditario [129]: occorre cioè accertare se il testatore abbia inteso assegnare, o meno, quei beni come quota delle attività e delle passività che rappresentano l'intero patrimonio, perché solo in questo casso l'istituito acquista la qualità di erede .

In secondo luogo, al fine dell'indagine in parola, il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, quali, ad esempio, la mentalità e la cultura del testatore, costituisce uno strumento ermeneutico meramente sussidiario, utilizzabile soltanto se la volontà testamentaria rimanga oscura, e non pure quando questa risulti chiaramente manifestata nella scheda, valutata nel suo complesso .

In terzo luogo, la disposizione con la quale il testatore esaurisce il patrimonio ereditario, attribuendo tutti i beni mobili ad un chiamato e tutti i beni immobili ad un altro, non esclude, di per sé, la correlativa istituzione di erede, in quanto non è avulsa dal concetto di quota richiamato dall'art. 588 c.c., comportandone la non difficile determinazione mediante il raffronto dei beni con l'intero patrimonio, nè trova ostacolo nell'essere una delle attribuzioni in nuda proprietà, non essendo questa un diritto parziario, rispetto alla proprietà piena, ma lo stesso diritto di proprietà temporaneamente compresso è destinato a riacquistare la sua naturale espansione alla fine dell'usufrutto [132].

Deve, poi, innanzitutto considerarsi il contenuto della disposizione, cioè il modo di attribuzione dei beni secondo il criterio stabilito dalla legge (ex art. 588 c.c.), mentre l'attribuzione formale del titolo di erede (o di legatario) può essere valutata solo come elemento confermativo del risultato delle indagini condotte sull'obiettiva consistenza della disposizione [133].

Inoltre, l'assegnazione di beni determinati (institutio ex re certa) può essere interpretata come disposizione a titolo universale solo qualora risulti che il testatore, pur avendo indicato beni determinati, abbia in effetti inteso assegnare questi come quota del patrimonio ereditario. A tal fine l'indagine, di carattere obiettivo circa il contenuto dell'atto - nel senso dell'attribuzione della universalità dei beni o di una quota aritmetica di essi, oppure dell'attribuzione di un bene o di un complesso di beni determinati - e di carattere soggettivo sull'intenzione del testatore, deve essere più completa e penetrante di quella necessaria quando invece il de cuius detta le disposizioni con riferimento alla quantità indeterminata dei suoi beni [134].

Sempre in base alle specificazioni dettate in sede giurisprudenziale, occorre stabilire se la disposizione sia stata fatta dal disponente in relazione al complesso del suo patrimonio, ossia all'universum ius, oppure mediante una specifica individuazione dell'oggetto attribuito, in sé considerato e senza alcuna relazione alcuna con l'intero e globale patrimonio stesso. Pertanto, quando l'attribuzione di quota del patrimonio, anche se individuata in relazione al suo aspetto materiale in tutti i suoi componenti, avviene per classi o gruppi di beni (come ad esempio: tutti i mobili, o tutti gli immobili, o quote di essi) è da ritenere, se altri elementi intrinseci non depongono chiaramente il contrario, che l'attribuzione stessa abbia luogo a titolo universale, onde il beneficiario acquista la qualità di erede e non già quella di legatario [135].

Ed ancora: deve accertarsi, sulla base di elementi oggettivi e soggettivi e limitatamente al modo in cui il testatore ha inteso individuare i beni oggetto della disposizione stessa, la natura intrinseca della formulazione adottata, se cioè essa abbia riguardo alla universalità o ad una quota dei beni del de cuius, ovvero se l'indicazione che cada su beni specificatamente individuati conduca egualmente ad un intendimento di volerli considerare come quota del patrimonio [136].

Infine, il testatore, nell'istituire gli eredi per quote o mediante attribuzione di determinati beni, che rappresentano quote ideali del patrimonio (heredis institutio ex re certa), può disporre delle proprie

sostanze o di parte di esse diversamente dal lascito di legato, che potrebbe avere per oggetto anche beni non propri, sicchè quando si istituissero eredi, disponendo di cespiti parzialmente altrui, il testamento sarebbe nullo per difetto di requisito della "possibilità" dell'oggetto e perché l'unicità del "piano successorio" non permetterebbe di ipotizzare il mantenimento della disposizione della sola parte dei beni in proprietà del disponente [137].

Da tali importanti orientamenti può evincersi che alla institutio ex re certa possono applicarsi i seguenti corollari:

può esservi istituzione di erede ex re certa anche se questa non costituisce una quota rilevante del patrimonio del testatore [138];

colui al quale il testatore ha attribuito un bene determinato come quota dell'eredità, come si vedrà meglio in seguito, non perde la qualità di erede, anche se il bene medesimo non si rinviene nell'asse ereditario per essere stato alienato dallo stesso testatore [139];

nei casi dubbi, non si può concepire una istituzione di erede mediante l'attribuzione di beni determinati o di un complesso di beni in funzione di una quota del patrimonio, alla quale non faccia riscontro altra chiamata, sempre a titolo universale, sia essa testamentaria o per successione legittima, in misura corrispondente alla quota o alle quote rimanenti [140];

la disposizione testamentaria attributiva della qualità di erede è soltanto quella che comprende l'universalità dei beni o una parte determinata di essi considerata come quota dell'asse ereditario, mentre ogni altra disposizione è a titolo particolare ed attribuisce la qualità di legatario [141];

per quota di beni, il cui lascito importa istituzione di erede, si deve intendere una parte astratta, ideale, e più precisamente una frazione dell'universalità del patrimonio, determinata dal testatore espressamente o tacitamente [142].

In base a tali corollari è stato, pertanto, deciso che deve ritenersi disposizione a titolo universale:

a) l'attribuzione di tutti i beni mobili del de cuius [143];

b)    il lascito generico del residuo dei beni dopo il prelievo di quelli di cui si sia particolareggiatamente disposto [144];

c) l'attribuzione fatta al lio, cui il padre abbia lasciato metà di due cespiti determinati nonché ogni altra sua proprietà immobiliare [145];

d)    l'attribuzione conseguente all'aver utilizzato, nell'ambito del testamento, l'espressione "lascio quanto possiedo", in difetto di espressa volontà di esclusione di beni futuri seguita dall'indicazione di tutta la sostanza posseduta [146];

e) la chiamata in tutti i beni di una determinata specie che non costituiscano universalità, archivi o collezioni; essa può essere, di per sè sola, istituzione di erede, trattandosi non di lascito di cosa determinata ma di una quota di patrimonio [147];

f)  ove il testatore abbia lasciato a tutti i suoi li, in quote uguali, un immobile il cui valore comprende per la quasi totalità il valore del compendio ereditario (i li, pertanto, debbono considerarsi eredi e non legatari) [148].

Non si conura una istituzione di erede ex re certa ma un'attribuzione a titolo particolare nel caso in cui il testatore disponga delle proprie sostanze con lasciti aventi ad oggetto beni specifici ed individuati, sia pure assorbenti l'intero asse, ma li consideri come beni determinati e singoli, cioè come legati e non in funzione di quote ideali del suo patrimonio [149].

Per completezza, sono da considerare altre due ipotesi che non concretizzano istituzione ex re certa, sebbene non siano ascrivibili neppure nell'ambito della successione a titolo particolare.

Poiché, come già osservato, la caratteristica dell'heredis institutio ex re è da rinvenirsi nell'attribuzione di beni determinati intesa dal testatore in funzione di quota - da determinarsi a posteriori - e dunque, in sostanza, anche nella mancanza, nell'atto, di un'indicazione espressa di una frazione aritmetica che astrattamente rappresenti parte dell'universum e comunque di qualsiasi elemento dal quale essa possa essere implicitamente dedotta, è opinione comune, in giurisprudenza, che se "all'assegnazione di beni determinati segua una chiamata diretta del beneficiario a succedere in quota del patrimonio, non sussiste

l'istituzione di erede ex re certa ma l'ipotesi di eredità ai sensi del 1° comma dell'art. 588, e ciò a prescindere da qualsiasi indagine sull'intento dell'assegnazione" [150].

Analogamente, non dovrebbe ritenersi sussistente un'institutio ex re certa ai sensi dell'art. 588, 2° co., ma una "regolare" istituzione di erede - 1° comma - ogni qualvolta l'indagine sull'intenzione del testatore induca a ritenere che il de cuius, pur attribuendo ad un unico beneficiario - o a più soggetti congiuntamente istituiti -, beni singolarmente individuati, ha inteso considerare gli stessi come "totalità" dell'asse (es.: "lascio ad X, o ad X ed Y, i beni a, b e c che sono tutto ciò che possiedo"). Anche in quest'ultimo caso, si sostiene che, la specificazione della res non potendo esplicare funzione di "apporzionamento", assume soltanto valore "enunciativo" o "dimostrativo" [151].






II.4. La necessità di una valutazione congiunta del 1° e del 2° co. dell'art. 588 c.c.: il valore ermeneutico di tale disposizione complessivamente considerata.


Dalle interessanti massime giurisprudenziali sin qui citate, nonché dalle alterne posizioni assunte dalla dottrina e dall'excursus storico che ha caratterizzato la coniazione del 2° co. dell'art. 588 ed il suo conseguente inserimento nell'ambito del vigente codice civile, può desumersi, in linea generale ed ampiamente condivisa [152], che è proprio sbagliato, metodologicamente, esaminare separatamente i due commi della norma in parola.

Infatti, come stabilisce appunto il capoverso dello stesso articolo, una disposizione avente ad oggetto beni determinati o un complesso di beni non esclude, di per sé, la chiamata a titolo di erede, confermando la generica indicazione (formulata in negativo)

contenuta, con riguardo al legato, nel 1° comma ("Le altre disposizioni sono a titolo particolare . "). Ne consegue che, al criterio squisitamente oggettivo previsto in tale comma e basato su di una valutazione di tipo matematico-quantitativo (del genere: "lascio a Tizio tutti i miei beni", "nomino Tizio mio erede universale", "lascio a Tizio un terzo o un quarto, e via dicendo, del mio patrimonio", "nomino erede Tizio per la metà delle mie sostanze"), grazie al quale il chiamato si vede assegnata la possibilità di assumere la qualità di erede, si giustappone inevitabilmente il criterio di cui l'institutio ex re certa tutte le volte in cui oggetto della disposizione siano res certae o, comunque, un determinato complesso di beni (ad es.: la collezione dei violini; i quadri della pinacoteca, ecc.) [153].

E difatti, di fronte ad una disposizione così formulata: "lascio a Tizio l'immobile X" o, invece, "nomino Tizio mio erede

dell'immobile X" non si può dire con sicurezza se, nell'un caso, Tizio sia stato chiamato a titolo di legato, nel secondo, a titolo di eredità, visto che potrebbe darsi che, nel primo caso Tizio fosse stato chiamato a titolo di eredità, nel secondo (e nonostante il termine, erede, utilizzato dal testatore), di legato. Problema che è proprio il 2° comma dell'articolo in commento ad introdurre col suo prevedere che l'indicazione di quei tali beni determinati o di un determinato complesso di beni non esclude che la chiamata sia stata fatta a titolo di eredità.

Proprio in questi casi, si presenta peculiare un'indagine volta ad accertare l'intenzione del testatore: se cioè, per lui, l'aver indicato la res o le res certe (singulatim identificate o rese in termini di complesso determinato di beni) rappresentasse (o non) un modo come un altro per dare concreta consistenza a ciò che intendeva assegnare come quota del patrimonio: onde, nel primo caso, attribuzione della qualità di erede, nel secondo, di un legato [154].

Tutto ciò consente, sì, di mettere subito in dubbio l'affermazione secondo la quale i criteri di cui ai due commi della norma andrebbero posti su uno stesso piano oggettivo, ma con diversa intensità dato che il secondo, non il primo, si inserirebbe in una più accentuata ottica oggettivistica [155]. Ma ciò non basta per affermare una netta scissione tra prima e seconda parte dell'art. 588: entrambe, e non certo separatamente, consentono di chiarire ciò che effettivamente, su un piano sia oggettivo che soggettivo, il testatore voleva e che risulta, in modo esplicito o implicito, dalla sua scheda testamentaria .

In altri termini, con l'articolo in esame, complessivamente considerato, si è penetrati nel terreno dell'ermeneutica testamentaria, con tutti i problemi che l'argomento propone e che verranno meglio analizzati di qui a poco.

Si tratta, infatti, di una disposizione che è stata ricondotta, similmente a tante altre [157], fra le cosiddette "norme interpretative speciali", così delineate perché caratterizzate dall'inettitudine ad estendere il proprio raggio d'azione "al di là degli istituti per la cui disciplina esse sono specificamente inserite nell'ordinamento" .

Tale specialità, tuttavia, finisce per collocarle in posizione, per così dire, subordinata rispetto ai canoni ermeneutici generali contenuti nel Capo IV del IV Libro del codice civile - dedicato, con i suoi artt. 1362-l371, all'interpretazione del contratto - posto che il loro intervento dovrebbe pur sempre presupporre l'identificazione del "tipo" al quale si riferiscono e, dunque, la previa utilizzazione di tali canoni [159].


Introdotto dalla norma in oggetto, si ripropone dunque, per un verso, il problema dell'applicabilità al testamento delle regole generali interpretative (ossia i già citati artt. 1362-l371 c.c.); per l'altro, quello della reale e autonoma portata ermeneutica di disposizioni che, per questa loro rilevanza, non si pongono solo come mera riproduzione di quelle dettate per il contratto [160].

É quanto può dirsi, per ciò che qui importa, proprio con riguardo all'art. 588 e specialmente al suo 2° comma, il quale, lungi dall'introdurre una particolare regola ermeneutica, si limita a denunciare la necessità di una più penetrante indagine sul significato e sulla valenza della volontà del testatore. Esigenza che peraltro tale disposizione non vale di per sé a soddisfare, tanto da imporre, allo scopo, l'inevitabile ricorso, non solo ai criteri valevoli in materia contrattuale, ma anche alla maggior parte dei canoni di interpretazione oggettiva [161].

Ma, al fine di chiarire se le disposizioni di ultima volontà prevedono un'attribuzione a titolo di eredità, di legato o, per quel che a noi più interessa, ex re certa, come vengono ad applicarsi al testamento, ed in che limiti, i canoni di interpretazione propri dell'autonomia negoziale, quelli di interpretazione oggettiva e quelli di interpretazione soggettiva?

All'uopo, si rinvia al modulo che segue.




















CAPITOLO III


Erede in re certa ed accertamento della volontà del

de cuius: i singoli canoni interpretativi delle

disposizioni testamentarie




III.1. Problemi generali relativi all'interpretazione del testamento: l'applicazione analogica dei criteri interpretativi valevoli in materia di autonomia contrattuale.


III.2. La valutazione della "quota" nei canoni di interpretazione oggettiva delle disposizioni testamentarie.


III.3. Istituzione di erede ex re certa e criterio interpretativo basato sulla volontà del testatore.


III.4. I limiti alla ricerca della volontà testamentaria: il rapporto intercorrente tra interpretazione soggettiva e forma solenne.













III.1. Problemi generali relativi all'interpretazione del testamento: l'applicazione analogica dei criteri interpretativi valevoli in materia di autonomia contrattuale.


La materia del testamento difetta di un coordinato sistema di norme in tema di interpretazione. Dottrina e giurisprudenza dominanti hanno rimediato mediante il richiamo analogico (e vedremo oltre in che limiti) alla disciplina del contratto. Il richiamo è diversamente giustificato: imprenscindibile per alcuni [162], perché altrimenti la lacuna sarebbe incolmabile; utile per altri , i quali per altro riconoscono l'esistenza, in materia testamentaria, di principi guida che si possono estrarre da sparse disposizioni.

Secondo altri ancora sembra che dal complesso delle

disposizioni successorie si possano ricavare agevolmente i canoni cui deve ispirarsi l'interpretazione del testamento: già l'art. 587 c.c. definisce il testamento in termini chiaramente volontaristici [165].

Da un punto di vista ermeneutico ciò ovviamente non è sufficiente perché altri problemi subito si affacciano, ma sovvengono altre disposizioni: così l'art. 588, 2° co., c.c. prescrive - come più volte si è sottolineato - l'oltrepassamento della lettera della legge a favore della mens [166], similmente l'art. 734 capoverso ; l'art. 628 c.c. (rubricato "Disposizioni in favore di persona incerta") prevede una indagine approfondita dell'intenzione del testatore, eventualmente appoggiandosi a elementi estrinseci , e similmente l'art. 625 c.c., che considera i casi di erronea indicazione dell'erede

o del legatario o della cosa che forma oggetto della disposizione [169].

La stessa direzione, e cioè l'approfondimento delle ragioni intime della volontà testamentaria, suggerisce anche la lettura ancora di altri articoli [170].

In particolare, dell'art. 625 è stata sottolineata la corrispondenza con l'art. 1362 c.c. (rubricato "Intenzione dei contraenti")[171], ma esso, a parte il ridimensionamento del tenore letterale analogamente all'art. 1362, 1° comma c.c. , dice di più in quanto permette di "superare" l'errore ostativo correggendo il testo, il che non appare possibile in materia contrattuale neppure nel caso in cui l'errore sia riconosciuto o riconoscibile dalla controparte .

Ancora, l'art. 1362 c.c., in materia contrattuale, suppone pur sempre una tutela del reciproco affidamento [174] (salvo i casi in cui soggettivamente si accerti che le parti hanno raggiunto l'accordo sulla base di una personale, inequivoca volontà), e, quindi, quasi sempre si interpreterà il testo contrattuale sulla base del linguaggio dell'ambiente sociale ; in materia testamentaria, è ammessa, anzi comandata - soprattutto dopo la novella del codice civile che ha introdotto il 2° co. dell'art. 588 - la ricerca della volontà profonda del testatore, in tutte le sue implicazioni, prescindendo dal linguaggio dell'ambiente sociale .

In altri termini, la disciplina che si enuclea dalle norme sparse, ma coerenti e organiche fra loro, in materia testamentaria, è fondata sul comando di interpretare plenius - cioè con ampia libertà - la volontà calata nella dichiarazione testamentaria , con ampia facoltà (ma ne vedremo oltre i limiti) di attingere a materiale esterno al documento.

Giunti a tale conclusione, non dovrebbe esservi spazio per il richiamo analogico alla normativa contrattuale e comunque il richiamo potrebbe apparire insufficiente. Ma non è sempre così [178].

Si assuma, per facilità di discorso, che si faccia applicazione analogica degli artt. 1362-l365 c.c., contenenti i principi della cosiddetta interpretazione soggettiva del contratto.

Se si prescinde dal già citato 1° comma dell'art. 1362, sembra che l'uso dello strumento analogico per gli altri casi sia pericoloso perchè si creerebbe una ingiustificata gerarchia fra principi codificati (ex artt. 1362, 2° co. - 1365 c.c.) e non codificati (elementi di varia natura atti a chiarire il concreto volere del testatore).

E' esemplare il caso degli indici ricavabili dalla mentalità, dalla cultura e soprattutto dall'ambiente di vita del testatore. A ragione, tali elementi sono indicati dalla costante giurisprudenza [179] come importantissimi per la ricostruzione dell'intenzione del testatore. Essi, però, propriamente non sono inquadrabili nel 1° comma dell'art. 1362 c.c. (che si riferisce ad aspetti volitivi concreti) e neppure al 2° comma (che, statuendo che "Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto" , si riferisce a fatti - magari nel caso concreto irrilevanti - e non a stati soggettivi o circostanze ambientali), nè, come giustamente è stato notato , questi sono elementi, di natura soggettiva, anche se di grado diverso, riferibili a quanto disposto

dall'art. 1368 c.c. .

Si possono fare ancora altre considerazioni. Se si prescinde dall'art. 1362, 1° co., c.c., e dall'art. 1363 c.c., che - statuendo il criterio di interpretazione complessiva, in base al quale "Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto" - esprime una regola interpretativa diretta al solo interprete, ci si accorge che gli altri canoni di interpretazione cosiddetta soggettiva sono espressione di principi di ragionevolezza, afferenti all'ambito mentale delle parti .

Ciò significa che gli stessi non sono automaticamente adattabili alla materia testamentaria. Infatti, le presunzioni di razionalità che sono alla base degli indicati articoli saranno applicabili (o rovesciabili nel loro contrario) alla luce della personalità, mentalità, cultura del testatore (e cioè non saranno applicabili genericamente) e la conclusione vale per ogni presunzione collegata al comportamento dell'uomo medio [185].

Quindi, i principi di interpretazione soggettiva in materia contrattuale, salvo quelli di cui all'art. 1362, 1° co., c.c. (peraltro inutile) e 1363 c.c. (peraltro principio logico già di per sé valevole in sede di ermeneutica generale), non sono adattabili alla materia testamentaria e ciò trova spiegazione nella circostanza che l'art. 1324 c.c., rubricato "Norme applicabili agli atti unilaterali", si riferisce solo ai negozi unilaterali "fra vivi" a contenuto patrimoniale [186].






III.2. La valutazione della "quota" nei canoni di interpretazione oggettiva delle disposizioni testamentarie.


Le conclusioni cui si è appena giunti sostanzialmente non cambiano se si volesse considerare l'applicazione al testamento di quelli che, in materia contrattuale, sono i canoni di interpretazione oggettiva, di cui agli artt. 1366-l371 c.c. [187].

Secondo la dottrina maggioritaria, per alcuni di essi si può parlare di criteri interpretativi collegati a presunzione di volontà [188]; per altri, invece, si tratta di regole di convenienza collegate a principi di ragionevolezza, per lo più connessi a certi standards sociali o di costume che entrano in gioco allorchè l'uso degli altri mezzi ermeneutici di tipo soggettivo non abbia dato esiti

soddisfacenti [189].

Ora, per i criteri del primo tipo, sembra che sia scorretto il ricorso a un criterio presuntivo generico che non tenga conto della volontà presumibile alla stregua della concreta mentalità, cultura, vita sociale del testatore [190].

Per gli altri, si può dire che non è di per sé irragionevole, ai fini di una interpretazione, ricorrere all'uso di regole di convenienza, sennonché, per tale via, si rischia di dar spazio ad una volontà ipotetica (e non presunta) che sarebbe in totale contrasto con il principio basilare, di cui si dirà meglio in seguito, che l'interprete deve individuare la volontà storica del disponente [191].

In altre parole, le regole di convenienza sono ragionevoli nella misura in cui operano per facilitare l'opera dell'interprete e per dare sicurezza all'esito della sua ricerca; il fatto è, però, che le esigenze di

certezza vanno a discapito di quelle volte a individuare la volontà storica. Il filo conduttore che permea la materia testamentaria è il principio volontaristico, non in forma pura certamente, ma con limitazioni ben definite: ciò significa che le regole di convenienza, che appaiono nel settore testamentario (ad es., gli artt. 629, 630 c.c. per i quali si può parlare a seconda dei punti di vista o di presunzione iuris et de iure o di principi di interpretazione oggettiva ) e che si sovrappongono alla volontà del testatore, sono di stretta interpretazione. In materia testamentaria, infatti, scopo dell'attività ermeneutica è la ricerca della mens testantis e non, come in materia contrattuale ai fini della tutela del traffico giuridico, la ricerca "del senso giuridicamente rilevante della dichiarazione medesima" .

Da tutto ciò consegue che, all'atto di ultima volontà, vanno applicate strettamente le regole di convenienza previste per la

materia testamentaria (artt. 674, 688, 689, 690, c.c.); non esiste alcuna giustificazione per applicare i principi di interpretazione oggettiva in materia contrattuale (salvo quanto si dirà di qui a poco) e ciò per due ragioni: in primo luogo queste si sovrapporrebbero alla volontà testamentaria, realizzando una volontà ipotetica che è l'esatto contrario dello scopo della ricerca ermeneutica in materia testamentaria; in secondo luogo, i principi di interpretazione oggettiva in materia contrattuale hanno come fondamento una tutela dell'affidamento reciproco che non ha ragion d'essere nel nostro campo [194].

Una tale conseguenza merita, però, qualche approfondimento per quanto concerne gli artt. 1366 e 1367 c.c..

In primo luogo, si consideri l'art. 1366 c.c., secondo il quale "Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede

Se si intende la buona fede come principio che svolge un ruolo correttivo rispetto allo scriptum ius sembra che via sia ragione di applicare il principio al nostro settore [197]; se la si definisce in termini di "ragionevolezza" allora, come si è sopra spiegato, il principio non può valere genericamente perché prima si chiarirà la mentalità e la personalità del testatore, poi, alla stregua di quanto individuato, si potrà presumere la ragionevolezza (o l'irragionevolezza) di un certo esito interpretativo.

Veniamo all'art. 1367 c.c., in base al quale "Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbe alcuno " [199].

In merito, bisogna orientarsi fra le varie opinioni espresse sul fondamento del principio di conservazione. In primo luogo, sembra difficile far convivere il principio della voluntas plenius spectanda con fondamenti di stampo marcatamente oggettivo o, all'opposto, radicalmente soggettivo. In altri termini: possiamo collegare l'art. 1367 c.c. all'esigenza (tipicamente contrattuale) dell'economicità e dell'efficientismo che si realizzano con il salvataggio del negozio [200] o all'esigenza della conservazione "dei valori nel mondo del diritto" , oppure - e siamo nella seconda ipotesi - all'esigenza di conservare una volontà in sé irripetibile .

Sembra che, in ambedue i casi, ci si ponga fuori dal diritto positivo, sacrificando il significato profondo del principio volontaristico: proprio perché è irripetibile la volontà del testatore, può essere dannoso optare, senza specifiche altre ragioni, per un risultato interpretativo (valido) permanendo, però, sempre il dubbio che il risultato scelto sia esattamente il contrario della volontà reale .

In un tale contesto, bisogna sottolineare che il principio di conservazione risponde ad esigenze complesse: in materia contrattuale predominano le valenze obiettive collegate a motivi di economia e di funzionalità dell'autonomia privata come sopra indicato, ma certamente compaiono anche ragioni soggettive quali quelle collegate alla serietà di chi esprime una certa volontà [204]. Quest'ultima può certo valere nel campo testamentario: per quanto un testatore possa dirsi bizzarro o poco ragionevole è certo che voglia esprimere qualcosa di serio e significativo. Con tale concetto possiamo intendere tra diversi contenuti: la capacità di significazione, la validità, l'efficacia. Fino a che punto la serietà della dichiarazione fa presumere che il testatore voglia quanto sopra? Certamente ha senso dire che il testatore vuole una dichiarazione significativa; altrettanto per l'efficacia: chi fa testamento (salvo provare positivamente la non serietà della dichiarazione) vuole certamente, in tutto o in parte, gli effetti di cui

all'art. 587 c.c. [205].

Non sembra potersi concludere alla stessa maniera per la validità. Il criterio, infatti, non avrebbe alcun fondamento probabilistico, né si ispirerebbe ad alcun principio logico, perché presumere che l'interessato voglia solo contenuti validi suppone un cittadino "disciplinato e oltre a ciò buon conoscitore e sagace interprete della legge" [206].

In altre parole, che si voglia un testamento valido è principio astratto; per presumerlo bisognerà valutare in concreto la mentalità del de cuius; in questo senso il principio, quindi, va rifiutato.

Sarebbe, poi, scorretto affermare che presumere l'efficacia significhi anche presumere la validità, in quanto ad essa si connette l'efficacia). Così ragionando, si ricava da una presunzione che opera sul piano effettuale una presunzione, invece, che opera sul piano contenutistico (i problemi di validità attengono, per lo più, al


contenuto), con un evidente salto logico.

D'altra parte, l'efficacia è consequenziale alla validità, sicché non è possibile presumere questa da quella [207].

Non convince neppure il tentativo di recuperare il principio di cui all'art. 1367 c.c. - nella sua valenza interpretativa volta a salvare il significato valido contro l'invalido - rifacendosi al favore normativo in materia testamentaria (quest'ultimo, cioè, giustificherebbe l'esistenza del favor ermeneutico). Non convince perché è dubbio che le norme che nei singoli casi "salvano" le disposizioni testamentarie (si vedano, ad es. gli artt. 590, 607, 634 c.c.) siano espressioni di un vero favor [208] e comunque è alquanto strano, a livello sistematico, che non venga codificato espressamente un principio generale e che lo si debba invece ricavare da norme particolari e non coordinate .

La portata dell'art. 1367 c.c. in materia testamentaria è, quindi, ristretta, ma non insignificante: nel dubbio, una disposizione testamentaria si intenderà non come una raccomandazione, ma come una vera disposizione [210]; ed ancora, nel dubbio che il testatore, uniformandosi alla disciplina di legge, abbia manifestato una propria (e quindi seria) volontà o si sia sostanzialmente disinteressato della successione (ipotesi di dichiarazione inutile), si sceglierà però la prima alternativa . Ma se quanto appena affermato è vero, il richiamo analogico (parziale) all'art. 1367 c.c. potrebbe anche dirsi inutile: rientra nei canoni applicativi della interpretazione letterale-psicologica far discendere dalla serietà della dichiarazione le conseguenze effettivamente volute dal testatore .












III.3. Istituzione di erede ex re certa e criterio interpretativo basato sulla volontà del testatore.


Il criterio fondamentale dell'ermeneutica testamentaria, valido soprattutto nel caso di attribuzione di cosa determinata a titolo universale (istituzione di erede ex re certa) o a titolo particolare, è la ricerca della volontà del testatore [213]: un'indagine di tipo psicologico, quindi, che mira a ricostruire l'effettivo volere che si esprime nello scritto testamentario.

A tali fini, il senso ordinario delle parole e frasi, come si dirà oltre, dovrà essere confrontato con una serie di elementi (stile di vita pregressa, circostanze esterne, ambiente di vita, motivi e fini dell'agire del testatore e altri elementi di analisi individuale), al fine di descrivere il processo psicologico che si è poi esternato nella manifestazione di volontà testamentaria.

Il diritto positivo, quindi, prescrive una indagine di tipo

lessicale-psicologico, che merita, però, una serie di chiarimenti ed una messa a punto circostanziata.

In primo luogo, è necessario sottolineare che l'interpretazione in materia testamentaria ha scarsi contatti con i metodi ermeneutici tradizionali concernenti la norma giuridica: nell'interpretare la norma è fondamentale l'esigenza di armonizzare i valori giuridici del sistema, mentre tale istanza è del tutto estranea alla ricerca della volontà testamentaria [214].

In secondo luogo, il metodo lessicale-psicologico indica un processo dialettico che si avvale, nella fase iniziale, di varie fonti. Il testo della scheda verrà letto ed inteso, come prima interpretazione , sulla base del senso ordinario delle parole; quindi, sulla scorta degli usi linguistici particolari del de cuius, si provvederà ad una reinterpretazione.

L'analisi dell'interprete, poi, chiarirà l'ambiente individuale di vita del testatore, la sua storia personale, le sue abitudini, il suo stile di vita [216], i motivi ed i fini che hanno preceduto ed accompagnato la sua determinazione volitiva .

Questo materiale eterogeneo serve a tracciare un quadro della psicologia individuale del de cuius e va confrontato con il senso ricavabile dall'interpretazione letterale (sorretta dagli usi linguistici particolari del testatore): il risultato dovrebbe consistere alternativamente o nella conferma del senso della interpretazione letterale (intesa come sopra detto), alla luce dei risultati della interpretazione psicologica o nella scelta di quella (fra le possibili) interpretazioni letterali che più si conforma ai risultati dell'analisi psicologica [218].

A questo punto i risultati potrebbero dirsi fruttuosi e definitivi.


Possono verificarsi, però, i seguenti casi:

- il materiale eterogeneo, assunto come base per l'interpretazione in chiave psicologica, potrebbe rivelarsi intrinsecamente incoerente: ad esempio i motivi e i fini non compatibili con lo stile di vita del testatore; il comportamento anteriore alla redazione del testamento confliggente con quello successivo; un cambiamento nelle motivazioni del testatore, rilevante in considerazione dei tempi diversi in cui è stato redatto il testamento [219];

- l'interpretazione letterale potrebbe evidenziare aspetti di incoerenza e addirittura contraddizioni nell'ambito del contenuto del testamento [220];

- l'interpretazione letterale corretta dagli usi linguistici, in qualsiasi versione possibile, potrebbe rivelarsi confliggente con le indicazioni di tipo psicologico [221].

Qualora si manifesti una di tali complicazioni, nonostante le

linee del processo interpretativo siano quelle sopra tracciate, ci si può attenere ad uno - o più - dei seguenti criteri:

1) l'interpretazione psicologica decide e sceglie un possibile significato letterale (nel senso di cui sopra), purché non vi sia sostanziale evasione dal testo scritto; in caso contrario prevarrà quella (fra le possibili) interpretazione letterale che meno si discosta dalla psicologia dell'individuo (o meglio dai risultati dell'indagine psicologica). Non esiste, quindi, una possibile supremazia del testo letterale in quanto chiaro e preciso; il significato chiaro e preciso è una petizione di principio se è vero che il testatore può usare parole o espressioni divergenti dall'uso ordinario, che può usare il linguaggio di un ristretto ambiente linguistico, che può essere incappato in un errore semantico o di punteggiatura tale da stravolgere il senso, apparentemente chiaro del testo [222]. Una prevalenza dell'elemento letterale su quello psicologico non si avrà neppure ove la norma richieda una manifestazione di volontà espressa o risultante per tabulas, al fine di vincere una certa disciplina legale. In tal caso semplicemente sarà ridotta l'area delle possibili interpretazioni letterali compatibili con l'interpretazione psicologica ;

2) di norma, in caso di contraddizioni sulla base del tenore letterale, sarà l'interpretazione psicologica che permetterà di cogliere la volontà dominante, il motivo ispiratore profondo capace di sciogliere la difficoltà. Nell'ipotesi contraria, di contraddizioni a livello psicologico, sarà l'interpretazione lessicale (corretta dagli usi linguistici) a decidere ed a scegliere [224];

3) in materia testamentaria avranno ampio spazio le presunzioni di volontà. Naturalmente prima si chiarirà la personalità del testatore e poi si ricaverà la presunzione in concreto da applicare. A seconda dei casi, quindi, ci si potrà o non ci si potrà collegare alla volontà dell'uomo medio [225];

4) nell'ipotesi di mancanza assoluta di indici circa usi linguistici individuali o sullo stile di vita dell'autore (ipotesi alquanto inverosimile), il criterio interpretativo sarà quello letterale, condotto sulla base del senso delle parole secondo il linguaggio ordinario ("storicamente ordinario", ossia valutato all'epoca di redazione della scheda) ;

5) in caso di dubbio sulla prevalenza del criterio linguistico o psicologico, poiché, ad esempio, esistono contraddizioni sia a livello di psicologia del testatore che nel tenore dello scritto, la scelta dell'interprete sarà condotta sulla base di presunzioni collegate all'uomo medio o di criteri retorici (assumendo punti di riferimento, quindi, collegati alla normalità sociale) che indichino come più plausibile la scelta fatta; ma ciò solo come elementi di appoggio per convalidare un certo esito interpretativo [227];

nell'ipotesi di dubbio insuperabile il testamento non avrà

effetto [228].

Da quanto sopra elencato risulta evidente che è la combinazione di criteri concreti e personali a decidere la scelta interpretativa; solo eccezionalmente (ci riferiamo ai punti 4 e 5) iranno criteri basati su valutazioni di normalità sociale; essi, è pur vero, sono meno puntuali dei primi, perché basati sulla tipicità sociale, ma non per questo individuano volontà astratte o ipotetiche e comunque rilevano solo come elementi di appoggio a dati concreti e personali, e come tali compatibili con il criterio di interpretazione soggettiva.

Gli orientamenti giurisprudenziali hanno, invece, recepito l'idea del criterio lessicale-psicologico come esclusivo per l'interpretazione della volontà testamentaria [229].

Considerando le decisioni giurisprudenziali che si sono all'uopo avvicendate, sostanzialmente, si può operare una summa divisio di questo tipo: un primo orientamento (nettamente dominante) è deciso nel sostenere la prevalenza dell'elemento letterale. La prevalenza si manifesta in ciò: in primo luogo, allorché dall'ispezione del testo risulti in modo certo e immediato la volontà del de cuius, non si ricorrerà a criteri sussidiari di interpretazione (soggettivi ad oggettivi), potendosi appoggiare ad essi solo in caso di ambiguità letterale [230]; in secondo luogo, si può prescindere dai significati ordinari dei termini solo quando si manifesti evidente (nell'ambito di una valutazione interna all'atto) che le parole sono state usate in una accezione diversa da quella comune .

Nell'ambito di tale orientamento, un indirizzo più moderato si mostra meno attento ad una valutazione dell'elemento letterale: se il testo è di per sè chiaro nulla quaestio, ma, se esistono ambiguità, è lecito far ricorso ad elementi esterni, quali mentalità, cultura,

ambiente del testatore; non si richiede, però, l'evidenza, da un esame interno alla scheda, che le parole siano state usate in accezione non solita [232].

Un secondo orientamento privilegia la componente psicologica al di là della lettera: i fattori che permettono di ascrivere un preciso significato ai termini usati dal testatore sono o la cultura, la mentalità, l'ambiente del testatore [233], oppure gli scopi pratici che si proponeva di soddisfare o le due cose insieme .

Come è facile notare, la prevalenza della lettera, nel primo caso, è in pieno contrasto con una seria ricerca della mens testantis, quale risulta comandata dal sistema positivo; nel secondo caso la

prevalenza della ricerca psicologica è giustamente ribadita, ma non risultano sufficientemente affrontati i problemi di coordinamento con il metodo letterale [236].

































III.4. I limiti alla ricerca della volontà testamentaria: il rapporto intercorrente tra interpretazione soggettiva e forma solenne.


La volontà testamentaria, e la sua conseguente interpretazione, incontra dei limiti che si sostanziano nel c.d. "formalismo testamentario": come non ha rilevanza una volontà ipotetica, così non rileva una volontà non calata in una debita forma [237].

Il problema si sostanzia nel rapporto fra rigidità della forma testamentaria e approfondimento della mens testantis, il quale costituisce un punto di grande delicatezza. Lo spunto per una indagine è dato dal già citato art. 625 c.c., ma, come vedremo, il problema si estende ben oltre.

L'art. 625 c.c. (notoriamente deputato a risolvere casi di falsa demonstratio) permette, in limitati casi, di superare il tenore del testo per ricercare l'intenzione del testatore, facendo ricorso ad elementi estranei allo scritto.

I quesiti immediati che si pongono sono i seguenti: quale è il tipo di errore cui si riferisce la norma, all'errore vizio, all'errore ostativo o ad ambedue? E' estensibile la disciplina a ipotesi diverse da quelle in cui l'errore ricade sulla "persona" o sulla "cosa"? In caso di risposta positiva, in che limiti? E' ricavabile dalla norma un principio generale che permette di superare non solo le ambiguità del testo, ma addirittura i significati usuali ricavabili da esso legittimando la ricerca con elementi extratestuali? Esistono altri principi che permettono il superamento del testo e, in caso positivo, come si giustifica tutto ciò con il rigore del formalismo testamentario?

Come si vede, si tratta di una copiosa serie di interrogativi, ai quali cercano di rispondere globalmente tre principali indirizzi.

Secondo un primo orientamento [238] è sempre possibile l'interpretazione extratestuale allorché vi sia discrepanza fra "pensiero del dichiarante" e dichiarazione, tale secondo una

valutazione alla stregua del linguaggio comune ma non secondo l'uso del linguaggio personale del testatore; l'errore, infatti, in tal caso, esiste su un piano oggettivo ma non su un piano soggettivo; esso è rimediabile con il sussidio di tutti i mezzi di interpretazione soggettiva.

Allorché, invece, la dichiarazione erronea si forma in forza di quel particolare errore ostativo che non è dato dalla falsa rappresentazione del significato dei verba, ma da divergenza fra intento e dichiarazione (errore sul piano subiettivo ed obiettivo) non sarà possibile l'uso dei mezzi di interpretazione soggettiva per emendare l'errore, se non in quanto esista un "addentellato" nell'ambito del testamento stesso, che giustifichi l'esito interpretativo.

Fuori da tali casi varrà eccezionalmente l'art. 625 c.c. che opererà, però, non più su un piano interpretativo ma, sostanzialmente, correttivo. Se così è, la norma è eccezionale perché contrasta con il formalismo testamentario e non si applicherà al di là dei casi di errore ostativo in corpore o in persona.

Per altri [239], l'art. 625 c.c. esprime un concetto generale: la prevalenza della mens testantis sulla forma per qualunque ipotesi di errore ostativo e in genere di uso scorretto di mezzi espressivi. Il principio non sarebbe esclusivo della materia testamentaria perché lo stesso art. 1362 c.c., in materia contrattuale, prevede la prevalenza della comune intenzione sulla dichiarazione erronea o comunque espressa in termini non congrui rispetto al linguaggio usuale ; ciò non contrasterebbe con l'esigenza della forma perché la legge, quando impone un tale onere, prescrive che la dichiarazione di volontà sia scritta, ma non che il significato attribuito dalle parti alle parole debba essere dichiarato nella stessa forma .

Secondo un terzo orientamento è molto dubbio che l'art. 625 c.c. abbia una portata ampia così come illustrato sopra. L'esigenza

assoluta, però, di ricercare la mens testantis conduce ad una soluzione di compromesso: quando il testo offre un appiglio per una soluzione interpretativa che si pone "contro" una soluzione apparentemente più convincente, potrà ricavarsi aliunde la identificazione della vera volontà del testatore [242].

Come può facilmente notarsi, la materia è molto complessa e gli orientamenti molto contrastanti fra loro. Cominciamo ad analizzare l'ultima posizione assunta dalla dottrina. Essa non sembra appagante perché: o esiste ambiguità, e allora non vi è evasione di forma quando si sceglie fra una delle possibili soluzioni, pur avvalendosi di elementi estrinseci, perchè la forma copriva pur sempre il caso possibile, oppure si rende necessaria l'interpretazione antiletterale perché, ad esempio, il testatore usa un linguaggio personale, ed allora parlare di appiglio significa dar corpo ad una ipotesi astratta [243].

La seconda tesi sembra molto pericolosa: svincolando la forma dal significato, senza indicare un punto critico o un codice sicuro che permetta un reale controllo, si rischia di "arricchire" indebitamente il contenuto della dichiarazione o di dar corpo a volontà ipotetiche. Ma, soprattutto, è erroneo sostenere che la forma, sostanzialmente, sia un mero supporto. Infatti, svincolando dalla forma il significato, si svincola anche quest'ultimo del segno linguistico in esso calato. In casi eccezionali - errore nell'uso dei mezzi espressivi - effettivamente tale punto di vista, come si vedrà oltre, ha aspetti di verità, ma è certo sbagliato come tesi generale. Per tale via, infatti, si arriva a sostenere la possibilità di un pensiero non linguistico e cioè di un pensiero che si sviluppa nella mente prescindendo dal linguaggio [244].

Per quanto concerne la prima tesi, per un verso essa si atteggia come troppo permissiva laddove ammette la libera ricerca del significato secondo il linguaggio personale del testatore - e si espone quindi ai rilievi critici di cui alla seconda tesi -, per altro verso non riesce sufficientemente a spiegare quale profonda differenza vi sia, sul piano psicologico, fra una ricerca che mira a "rivelare" un linguaggio particolare, rispetto ad un testo il cui significato sociale è diverso, e una ricerca volta a oltrepassare l'errore ostativo per cogliere l'intenzione reale del testatore [245].

E' stato, così, sottolineato che un esame critico del problema deve prendere l'avvio da due rilievi di fondo: in primo luogo, dalla portata ristretta dell'art. 625 c.c., nel senso che esso non si riferisce ad ogni erronea indicazione, ma solo ai casi in cui si hanno ipotesi di errore ostativo, escludendosi, quindi, l'errore vizio. In secondo luogo, è indispensabile ricercare una soluzione che concili la ricerca della mens testantis con un minimo di garanzie sulla riconoscibilità del significato di quanto risulta scritto [246].

Sul primo punto, la dottrina moderna è critica nei confronti della tradizionale distinzione dell'errore in errore-vizio ed errore ostativo [247]. Ne consegue che, là dove l'identificazione del bene o del soggetto è correlata ad un processo decisionale viziato nel suo formarsi, non opera la fattispecie di cui all'art. 625 c.c. Più esattamente, "nell'ipotesi dell'art. 625 si può parlare di errore sull'identità non come stato psicologico, ma solo in un senso oggettivo riferito all'identificazione errata dell'onorato o della cosa, prodotta nella dichiarazione dall'errore di linguaggio o di denominazione o descrizione commesso del dichiarante" .

E' pure primaria l'esigenza di conciliare la libera ricerca della mens testantis con un minimo di garanzie sulla corrispondenza fra volontà del testatore e (genericamente parlando) riconoscibilità del significato ascrivibile ai segni grafici, senza di che la forma diverrebbe un mero supporto privo di vero rilievo [249].

La dottrina ha indicato fra gli aspetti fondamentali del formalismo testamentario quello di far corrispondere il contenuto del documento al contenuto della dichiarazione [250]; se non si vuole però rendere illusorio il valore di tale coincidenza bisogna far rientrare, fra gli scopi di tale formalismo, anche l'esigenza di assicurare un certo grado di sicurezza del significato del testo .

Fatte queste considerazioni preliminari, bisogna, separare l'ipotesi in cui il testatore abbia fatto uso di un linguaggio particolare (comunque non ordinario) dall'ipotesi di uso scorretto (erroneo) di mezzi espressivi.

Nell'ipotesi di scissione fra linguaggio comune e linguaggio particolare, utilizzato da parte dell'utente, bisogna esplorare la mens testantis, non alla stregua del linguaggio comune, ma alla stregua del linguaggio di quella ristretta comunità linguistica di cui faceva parte il de cuius. In tale ipotesi si potrà ricorrere pacificamente all'ausilio di mezzi esterni per ricavare il significato del testo, senza problemi

di evasione di forma, nella stessa misura in cui non vi è evasione allorché si tratta di tradurre un linguaggio in un altro linguaggio. Sempre in forza dello stesso principio quando un termine è addirittura usato dal testatore in senso particolare ed esclusivo (quindi anche al di fuori del linguaggio di una comunità linguistica ristretta) si resta nell'ambito di un fenomeno di traduzione e non si viola il formalismo.

E' tollerabile anche la deformazione di qualche termine usato in senso del tutto particolare, ma al di là di questi casi, quando la frequenza nell'uso di vocaboli con significati peculiari alla persona o l'uso di forme grammaticali del tutto particolari, non permetta di identificare il linguaggio con quello di una comunità linguistica o comunque lo stravolga, non si potrà parlare di traduzione e, quindi, il ricorso a mezzi estrinseci per ricavare significati, importerà violazione del formalismo testamentario. Viene meno, infatti, quella garanzia minima cui esso mira [252].

Veniamo ora all'ipotesi di uso scorretto (ossia erroneo) di

mezzi espressivi, ipotesi in cui trova applicazione il principio di cui all'art. 625 c.c.. Tale disposizione esprime un canone fondamentale di ermeneutica testamentaria, anzi, ne è la norma cardine in quanto condensa al meglio il principio della voluntas plenius spectanda [253].

Nonostante l'art. 625 abbia una tale valenza interpretativa, il rispetto della forma testamentaria è sempre indispensabile: soprattutto quando il testo, per la gravità ed il numero degli errori nell'uso dei termini, rivela un sostanziale abbandono del codice linguistico (di una comunità linguistica più o meno ristretta), vi sarà sicuramente evasione di forma [254].

Deve ancora sottolinearsi che l'errore cui si riferisce l'art. 625 c.c. è sempre un fatto che riguarda la vita psichica conscia: il lapsus, ad esempio, può rientrare nell'ambito della norma se lo si intende come un divario (inconsapevole) fra la volontà interna cosciente e la dichiarazione: non già nel senso di espressione per vie insolite di un pensiero inconscio [255].

Tutti i rilievi sin qui svolti valgono per le forme testamentarie in genere. Il testamento pubblico necessita, però, di considerazioni particolari: esso rappresenta, nell'ambito delle forme, lo strumento più garantista, anzi la forma garantista per eccellenza [256]. L'art. 47, 3° co., della legge notarile - che concerne la materia dell'atto pubblico in genere - è esplicito nell'esigere un'indagine approfondita da parte del pubblico ufficiale in sede di disamina della volontà delle parti: ciò significa uno specifico controllo anche a livello linguistico e semantico .

E', quindi, chiaro che, nel testamento pubblico, l'uso scorretto di mezzi espressivi, le deformazioni linguistiche, grammaticali, semantiche, importeranno invalidità per violazione di specifica regola correlata alla funzione notarile - art. 58, legge notarile - allorché venga superata una "soglia" di tolleranza [259].

In conclusione, nel formalismo testamentario l'onere di forma

è assolto quando almeno venga usato il linguaggio di una ristretta comunità linguistica (con le precisazioni di cui sopra) e l'ambito degli errori nell'uso dei mezzi espressivi - o quello degli usi linguistici particolari - non superi limiti di prudenza tali da doversi qualificare compromesso il codice linguistico di riferimento o inaffidabile il testo, o addirittura si debba fare riferimento ad un tipo di linguaggio il cui codice non è conscio. Come sopra scritto, il rigore sarà maggiore per il caso di testamento redatto per atto pubblico [260].




















CAPITOLO IV


Gli effetti dell'institutio ex re certa




IV.1. Gli effetti conseguenti alla istituzione ex re certa: problematiche connesse con la necessaria appartenenza al testatore dei beni determinati.


IV.2. Le garanzie per evizione concesse all'erede in re certa nell'ambito della divisione fatta dal testatore: possibile estensione delle garanzie prestate in caso di scioglimento della comunione ordinaria.


IV.3. La capacità espansiva dell'institutio ex re e sue possibili conseguenze: coesistenza tra istituzione di erede in re certa, successione legittima e divisione fatta dal testatore.


IV.4. Institutio ex re e revocazione tacita delle disposizioni testamentarie: possibile applicazione analogica dell'art. 686 c.c..










IV.1. Gli effetti conseguenti alla istituzione ex re certa: problematiche connesse con la necessaria appartenenza al testatore dei beni determinati.


Qualora l'indagine ermeneutica consentita dal 2° comma dell'art. 588 porti ad accertare che il testatore intese attribuire beni determinati in funzione di quota, nei confronti dell'istituito che abbia accettato, si producono gli effetti normalmente riconnessi all'acquisizione della qualità ereditaria [261].

Il presupposto logico-giuridico della validità dell'institutio ex re certa è l'appartenenza dei beni specificati al testatore [262]. Infatti, poiché l'elemento soggettivo tipico della fattispecie prevista dal 2° co. dell'art. 588 c.c. è l'intenzione di attribuire i beni determinati come quota del patrimonio e poichè il "patrimonio", cui allude il comma in oggetto, è sinonimo di "universalità dei beni del testatore" (ex art. 588, 1° co.), requisito obiettivo dell'heredis institutio ex

certa re è l'appartenenza dei beni indicati al de cuius. Ne discende la nullità e, quindi, l'improduttività degli effetti per un'eventuale istituzione di erede in beni determinati altrui o parzialmente altrui .

Conseguenza necessaria di tali affermazioni, ampiamente condivise anche dalla giurisprudenza [265], è che se i beni o il bene determinato non sono di proprietà del testatore, anche se questi è a conoscenza dell'altruità della cosa, non può trovare applicazione analogica l'art. 651 c.c. , con le regole ivi delineate per il caso di

legato di cosa dell'onerato o di un terzo [267].

Una tale applicazione analogica non è neppure plausibile anzitutto perchè il credito, di cui all'art. 651, sorgendo in testa al chiamato nei confronti dei coeredi, non è un credito ereditario, e quindi non è concepibile come quota di eredità. Ma, soprattutto,

perchè, se mancano i requisiti del 2° co. dell'art. 588, si deve applicare il criterio obiettivo del primo comma, in virtù del quale l'attribuzione di beni determinati è un legato, indipendentemente dall'intenzione del testatore.

Nel caso di beni dell'onerato o di un terzo, l'intenzione, manifestata dal testatore, di assegnare le cetae res come porzione ereditaria, è irrilevante, in quanto manca l'altro requisito dell'art. 588, 2° co., e cioè l'appartenenza dell'oggetto all'asse ereditario. Di conseguenza, la disposizione si qualifica, a norma dell'art. 588, 1° co., come disposizione a titolo particolare: precisamente, un legato di cosa altrui è nullo o valido, a seconda che il disponente ignorasse o meno l'alienità dell'oggetto.

L'applicazione dell'art. 651 all'istitutio ex re certa non avviene, dunque, né per via analogica, né, tanto meno, in funzione del principio della conversione del negozio; bensì è una qualificazione immediata, sulla base dell'art. 588, 1° co, c.c. [268].

Per condividere pienamente una tale affermazione, sono, però, necessarie alcune precisazioni. Posto che l'institutio ex re produce effetto alla morte del testatore, il requisito dell'esistenza dei beni indicati nel patrimonio ereditario deve essere apprezzato solo con riguardo a questo momento. Può, quindi, trovare giustificazione l'ammissione di validità di un'institutio ex re certa che abbia ad oggetto beni "futuri" ma che siano stati acquistati dal testatore in tempo successivo a quello della disposizione e che, dunque, siano presenti nel suo patrimonio al momento dell'apertura della successione.

In altri termini, l'institutio ex re è valida, anche se ha per oggetto beni futuri di cui il testatore ha già il possesso,

condizionatamente al successivo acquisto di essi, da parte del testatore (argomentando ex art. 651, 2° co., c.c.). Il possesso, infatti, è di per sè un elemento attivo del patrimonio, in quanto pone il titolare in una situazione giuridica, la condicio usucapiendi (diritto in formazione) [269]. Come tale, esso è suscettibile di successione mortis causa, cioè, è un bene ereditario. Colui, al quale sia assegnata la cosa posseduta, in funzione di quota (art. 588, 2° co.), mediante l'accettazione ereditaria succede nel possesso del defunto (art. 1146, 1° co, c.c.), continuando l'usucapione. Il compimento di quest'ultima, avendo efficacia quasi sempre retroattiva, fa sì che il diritto si consideri appartenuto al de cuius fin dall'inizio del possesso, e quindi la disposizione testamentaria si qualifica, retrospettivamente, come heredis institutio in re propria. Siccome si tratta di successio possessionis, e non semplicemente di accessio, è come se il diritto fosse stato usucapito dal testatore, e, dal patrimonio di costui, trasferito nel patrimonio dell'erede, sulla base dell'attribuzione a norma del 2° co. dell'art. 588. In breve, il diritto usucapito, attraverso la continuazione del possesso del defunto nell'assegnatario della cosa, è un diritto ereditario e, come tale, può costituire oggetto anche della istituzione ex re certa .

Solo con tali premesse ci si rende conto del perchè l'attribuzione a titolo particolare (ossia il legato) di una cosa futura è nulla, sia o meno il testatore in possesso della cosa stessa, mentre, se fatta a titolo universale (come nel caso di institutio ex certa re), deve, nel primo caso - ossia di cosa futura in possesso del de cuius - considerarsi valida.

Nella specie, causa del legato è il trasferimento all'onorato di un diritto particolare come tale, come elemento staccato dal patrimonio ereditario. Perciò il legato è nullo come titolo traslativo, quando il diritto non appartenga ancora al disponente. In altri termini, il legatario non continua il possesso del defunto, bensì ne inizia uno nuovo, al quale potrà unire quello del suo autore, agli

effetti dell'usucapione (art. 1146, 2° co., c.c.); l'usucapione, quindi, retroagisce soltanto al momento dell'acquisto del possesso da parte del legatario: essa è il fondamento unico ed immediato dell'acquisto del diritto nel legatario, e non è il legato che costituisce il titolo del possesso [271].

Causa dell'institutio in re certa è, invece, l'attribuzione della cosa come quota del patrimonio; l'attribuzione all'onorato della qualità ereditaria è, dunque titolo di successione nel possesso. Perciò, quando la cosa futura è in possesso del testatore, l'attribuzione è efficace. L'oggetto dell'acquisto ereditario dell'istituito è sia il possesso che l'annessa condicio usucapiendi. L'usucapione determinerà poi l'acquisto mortis causa del diritto.

Se, prima del compimento dell'usucapione, l'istituito subisce l'evizione ad opera del terzo (dominus), non per questo egli perde la qualità ereditaria. L'evizione, privando l'assegnatario del possesso, gli toglie l'oggetto dell'acquisto ereditario, ma non fa sì che l'acquisto debba considerarsi come mai avvenuto. Resta fermo che il de cuius ha attribuito un bene del suo patrimonio, cioè la condicio usucapiendi; ed è sulla base di questa attribuzione, qualificata dall'intenzione di cui parla il 2° co. dell'art. 588, che si è fissata la qualità di erede in capo all'assegnatario [272].


















IV.2. Le garanzie per evizione concesse all'erede in re certa nell'ambito della divisione fatta dal testatore: possibile estensione delle garanzie prestate in caso di scioglimento della comunione ordinaria.


In un tale contesto, la problematica centrale, che ha interessato sia la dottrina che la giurisprudenza appena successive all'entrata in vigore del codice civile del '42, sta nell'individuare il rimedio concesso all'erede in re certa in caso di evizione, ossia in caso di perdita del possesso della cosa determinata per un precedente diritto di terzi. Per risolvere tale problema è necessario considerare, non solo la divisione testamentaria, ma anche le regole valevoli in caso di divisione ordinaria.

Causa della divisione in senso tecnico è lo scioglimento di una comunione, cioè la trasformazione delle quote di condominio in porzioni concrete della massa comune, di valore proporzionale alle prime. Ora, l'inclusione, nella divisione, di beni altrui altera l'uguaglianza proporzionale fra i condividenti, poichè colui al quale sono assegnati questi beni riceve meno di quanto avrebbe diritto, in base alla quota spettantegli, mentre gli altri ricevono una quantità di beni superiore al dovuto. Logica conseguenza dovrebbe essere la nullità o, almeno, l'impugnabilità della divisione, per mancanza funzionale della causa [273]. Sennonché la legge, anziché propendere per la comunione che ritornerebbe costituita se la divisione fosse annullata, sostituisce all'impugnativa una semplice garanzia per evizione (art. 758 ) .

La divisione del testatore, pur non essendo correlativa allo scioglimento di una comunione, tende però, al pari della divisione ordinaria, ad uno scopo tipico di distribuzione per quote di un complesso di beni (tutti o parte dei beni del testatore). Inoltre, anche nella divisione testamentaria, le singole assegnazioni si coordinano

in unità negoziale, in funzione di una causa unica, il cui requisito essenziale si esprime nel principio dell'uguaglianza proporzionale dei divisionari. Anche in questa ipotesi, quindi, può verificarsi una violazione del principio della proporzionalità fra i lotti, sancito dall'art. 763, 2° co., c.c.: precisamente, nel caso di evizione di un divisionario, apporzionato, in tutto o in parte, con beni altrui, in possesso del testatore. Infatti, posto che, come si è detto nel paragrafo precedente, l'istituzione di erede ex art. 588, 2° co., in beni posseduti dal testatore è valida, a prescindere dalla titolarità del diritto, consegue che la quota ereditaria del divisionario, colpito dall'evizione, deve calcolarsi in base al valore dell'intero assegno, compreso il bene evitto. Cosicché, per effetto dell'evizione, gli altri coeredi risultano apporzionati per un valore superiore alle quote loro spettanti. Bisogna, così, considerare se la regola dell'art. 758, espressamente dettata per la divisione ereditaria, sia applicabile anche alla divisione testamentaria [276].

Si tratta, dunque, di accertare se pure nei rapporti fra coeredi apporzionati dal testatore l'impugnabilità della divisione, che logicamente deriverebbe dall'evizione di una quota in ragione del sopravvenuto vizio funzionale della causa del negozio, sia sostituita dal rimedio della garanzia per evizione.

Prima di poter rispondere ad un tale interrogativo è necessaria una più precisa delimitazione del problema.

In primo luogo, deve sottolinearsi che il concetto di evizione non implica essenzialmente l'elemento della perdita del possesso [277]. Si considera evitto anche l'acquirente di un diritto, che rimanga soccombente in un giudizio di rivendica da lui intentato contro il terzo possessore. Infatti, il terzo può "far valere diritti sulla cosa" (art. 1483 c.c.) non solo per via di azione, ma pure per via di eccezione.

In secondo luogo, ci si deve soffermare sul fatto che, quando il testatore comprende nella divisione beni altrui non in suo possesso, è escluso che si possa parlare di garanzia per evizione nelle seguenti ipotesi, le quali, pertanto, vanno eliminate dal presente campo dell'indagine:

a) in una divisione senza preindicazione di quote astratte (ove i divisionari sono eredi in quanto tali), il testatore assegna ad uno dei chiamati una porzione formata di beni interamente altrui e in possesso altrui. In questo caso, il chiamato è solo apparentemente compreso nella divisione: in realtà, egli è onorato di un legato di cosa altrui [278]. Perciò, se si tratta di un legittimario, si apre la successione necessaria, e la divisione è nulla per preterizione, a norma dell'art. 735, 1° co., c.c., a meno che, ricorrendo i presupposti del 1° co. dell'art. 651, il legittimario preferisca conseguire un legato, precludendosi, così, l'acquisto della qualità di erede (art. 551, 2° co., c.c.). Se, invece, si tratta di un soggetto estraneo alle categorie degli eredi necessari, la divisione rimane valida fra gli assegnatari dei beni ereditari. Per la verità, non avendolo previamente istituito in quota astratta, il testatore non era tenuto a comprendere l'estraneo nella divisione. Qualora si dimostri, nei modi indicati dall'art. 651, che il testatore conosceva l'alienità dei beni assegnati all'estraneo, la disposizione vale, fuori della divisione, come legato a carico dei divisionari (eredi);

b) sempre nell'ambito di una divisione senza preindicazione di quote astratte, il lotto di un divisionario risulta formato in parte con beni ereditari, in parte con beni altrui, non in possesso del testatore. In questa ipotesi, l'assegnazione vale solo in parte come institutio ex re, e quindi come titolo di partecipazione alla divisione testamentaria. Laddove ha per oggetto beni altrui (e in possesso altrui), essa si qualifica, a norma dell'art. 588, 1° co., come (pre)legato di cosa altrui. Pertanto, trattandosi di un legittimario, viene in considerazione la azione di riduzione (art. 735, 2° co.), se vi è lesione della quota di riserva. Se si tratta di un estraneo, egli è erede (e quindi divisionario) per la quota rappresentata dai beni ereditari assegnatigli. Per il resto, valgono le considerazioni svolte per l'ipotesi a);

c) in una divisione inter coheredes ex partibus scriptos, il

testatore compone la quota di un istituito interamente con beni altrui, dei quali non ha il possesso. In tal caso, in quanto la divisione ha per oggetto beni altrui, l'assegno divisionale è nullo, e quindi è nulla l'intera divisione per preterizione, ai sensi dell'art. 735, 1° co.. In un simile contesto, può affermarsi che non passa differenza alcuna fra il caso in cui il testatore neglige l'avente diritto ed il caso in cui gli assegna res alienae, senza neppure la possibilità di usucapirle: in entrambi i casi, egli non comprende l'avente diritto nella divisione .

Viste le esclusioni appena elencate, la questione dell'applicabilità dell'art. 758 resta limitata alle ipotesi seguenti:

a) in una divisione inter coheredes sine partibus scriptos, se un divisionario è apporzionato, in tutto o in parte, con beni altrui, in possesso del testatore, oppure con uno o più beni, dei quali il testatore è soltanto comproprietario, ma ha il possesso esclusivo;

b) in una divisione inter coheredes ex partibus scriptos, in cui il testatore forma una quota interamente con beni altrui, da lui

posseduti;

c) in una divisione inter coheredes ex partibus scriptos, in cui il testatore apporziona un erede istituito in parte con beni propri, in parte con beni altrui. In questo terzo caso, è indifferente che le res alienae siano o meno in possesso del testatore. Se il possesso è altrui, l'evizione dell'erede sarà data dalla soccombenza, di fronte all'exceptio iusti domini del terzo possessore, ovvero dalla rinuncia ad esperire l'azione di rivendica, davanti all'evidenza del diritto del terzo. Resta salva però, per il legittimario, l'azione di riduzione, se i beni ereditari assegnatigli sono inferiori all'entità della quota di riserva [280].

Ora, i dati del problema, risolto dall'art. 758 c.c., si riproducono in modo identico se si considera il profilo funzionale della divisione del testatore. Anche qui, l'evizione altera la proporzionalità fra i lotti, che è un elemento essenziale della causa della divisione testamentaria, al pari che nella divisione ordinaria. Anche nella nostra fattispecie ricorre l'eadem ratio, che ispira l'art. 758: rimediare alla sproporzione dei lotti, senza far cadere la divisione, e quindi evitando il sorgere della comunione ereditaria, cui il legislatore guarda con sfavore. Dunque, la soluzione non può non essere identica: la garanzia per evizione ex art. 758 è applicabile alla divisione testamentaria negli stessi termini in cui trova applicazione nell'ambito della divisione ordinaria [281].

In altri termini, all'art. 758, benchè dettato con riguardo agli effetti della divisione ordinaria, si deve, così, riconoscere un valore di principio più ampio: negli atti aventi come causa la distribuzione per quote di una massa di beni, la sanzione di impugnabilità dell'atto, logicamente conseguente all'evizione di un divisionario, è surrogata dal rimedio della garanzia per evizione [282].

A parte l'ovvia considerazione che, come si specificherà meglio in seguito, non potrà esservi alcun atto divisorio se l'erede istituito in cosa determinata è uno soltanto, la disciplina giuridica prevista per la divisione fatta dal testatore e per l'institutio ex re

certa è diversa proprio per la mancanza, nella seconda, della predeterminazione; non potrà, quindi, nella fattispecie di cui al 2° co. dell'art. 588, applicarsi la rescissione per lesione (art. 763) perché le quote non sono predeterminate, ma si ricavano a posteriori, valutando i beni attribuiti [283].

























IV.3. La capacità espansiva dell'institutio ex re e sue possibili conseguenze: coesistenza tra istituzione di erede in re certa, successione legittima e divisione fatta dal testatore.


E' discusso se all'istituzione ex re certa sia attribuita la c.d. capacità espansiva, ossia se l'istituito in beni determinati partecipi al riparto degli elementi patrimoniali di cui il testatore non abbia disposto, o perché da lui ignorati o perché pervenutigli dopo la redazione del testamento.

Tizio, ad esempio, ha fatto il seguente testamento: "lascio a Primo il fondo A, a Secondo i miei gioielli ed i mobili di casa; in tal modo ho assegnato tutto il mio patrimonio".

Non vi è dubbio che, alla morte di Tizio, Primo e Secondo saranno eredi ai sensi dell'art. 588, 2° co., ossia, come suol dirsi, eredi istituiti ex re certa. Tizio, però, dopo la redazione del testamento, riceve in donazione i fondi B e C. Di chi saranno questi beni? Di Primo e Secondo, in proporzione delle quote accertate valutando i beni loro lasciati, ovvero dell'erede legittimo Terzo?

Secondo un'autorevole dottrina ormai superata [284], i beni pervenuti posteriormente andrebbero all'erede legittimo perché la istituzione ex re certa non vale soltanto in funzione di quota, ma anche di limite all'attribuzione. Sembra, però, preferibile la tesi secondo la quale i beni non compresi nelle certae res vadano, in proporzione del valore delle quote accertato a posteriori, agli eredi testamentari. È stato, infatti, giustamente ritenuto che, una volta constatata la volontà del testatore di assegnare quei beni determinati come quota di eredità, questa non può non avere ogni effetto che il sistema, nella sua coerenza, le attribuisce: non può, cioè, la quota mancare della forza espansiva che rappresenta un suo carattere essenziale.

In altri termini, una volta accertato, esaminando il rapporto proporzionale tra il valore delle res certae attribuite ed il valore dell'intero asse, che Primo è erede per i tre quarti del patrimonio di Tizio e Secondo è erede per un quarto, questa qualifica non è diversa dal caso in cui il testatore abbia espressamente detto: "nomino Primo erede per i tre quarti dei miei beni e Secondo per un quarto".

Più in generale, dunque, in virtù dell'attitudine espansiva tipica della i   quota ereditaria, potranno essere attribuiti pro rata all'istituito quei beni non compresi nella massa tenuta presente dal testatore al momento della disposizione perché da lui ignorati o perché entrati a far parte del suo patrimonio dopo la redazione del testamento .

Sotto altro profilo possono, inoltre, essere considerati dati pacificamente acquisiti sia la possibilità che il testatore disponga di tutte le sue sostanze con due o più istituzioni in certis rebus [287], sia l'ipotesi della coesistenza (rectius: del concorso) tra istituzione ex re e successione legittima per il caso che il testamento contenga soltanto un'istituzione (o più) in certi rebus che non esauriscano peraltro la totalità dei beni appartenenti al de cuius .

Quanto al profilo considerato per ultimo, è tuttavia necessaria qualche precisazione. Ed infatti, l'impossibilità di prospettare un concorso tra institutio ex re certa e successione legittima ha, a suo tempo, trovato autorevole giustificazione sulla base di un'univoca qualificazione della o delle disposizioni testamentarie in cui all'assegnazione di beni specificamente individuati ad un determinato beneficiario non facesse riscontro nessun'altra chiamata sul residuo pur esistente di fatto.

In proposito, considerato che per la determinabilità a posteriori della quota, e dunque per l'applicabilità del 2° co. dell'art. 588, fosse comunque necessario, pur anche attraverso una o più attribuzioni determinate, disporre effettivamente della totalità del patrimonio, si sosteneva doversi necessariamente attribuire, al o ai beneficiari di un lascito determinato non idoneo a ricomprendere la totalità, la qualità di erede sull'intero asse ereditario. E ciò, in sostanza, sul presupposto che la mancata destinazione del residuo, ex se attribuita ad uno stato di "ignoranza" del de cuius in ordine alla "sua esistenza", doveva essere necessariamente valutata come indiscutibile indice della volontà del medesimo di disporre attraverso l'attribuzione (o le attribuzioni) in certis rebus di tutti i suoi beni e dunque anche come volontà di escludere la successione legittima. D'altra parte veniva anche osservato che qualora fosse stato dimostrato che il de cuius aveva piena cognizione dell'esistenza degli "altri beni" da lui non menzionati, ciò non sarebbe stato ugualmente funzionale a consentire la coesistenza di un'institutio ex re certa e di una successione legittima sul residuo non menzionato; giacché semmai, in questa ipotesi, si sarebbe dovuto qualificare come "legatario" il beneficiario del lascito limitato ai beni specificati e come (unico) erede sull'universum - defalcato delle certae res attribuite - il chiamato ex lege [289].

La tesi non ha tuttavia suscitato incondizionati e generali consensi e di essa si è anzi messa in primo luogo in evidenza "l'inesattezza" della sua stessa ragione giustificativa, ovverosia la pretesa necessità che l'institutio ex re certa postuli "l'esaurimento dell'intero patrimonio con tutte le assegnazioni fatte" e non invece - come pare dovrebbe essere - "la volontà di attribuire al chiamato la totalità dei beni in ragione di una quota (determinabile a posteriori), corrispondentemente alla quale l'assegnazione delle certae res esplica una funzione di apporzionamento" [290].

Se a questa notazione critica pur di per sé determinante, si aggiunge la considerazione che il 2° co. dell'art. 588 si risolve, implicandola, in una quaestio voluntatis, non pare allora possibile rinvenire particolari ragioni che ostino ad una soluzione in positivo del problema teorico inerente all'ammissibilità del concorso tra successione legittima e institutio e ciò, del resto, si pone anche in perfetta coerenza con quanto disposto negli artt. 457, 2° co., e 734 2° co., c.c. . In sintesi può dirsi che, una volta che sia stato accertato che il de cuius ha preso in considerazione (soltanto alcuni) beni determinati (ma) in rapporto con la totalità del suo patrimonio e dunque in funzione di quota, sulla parte residua restante e non menzionata (ossia sulla quota intestata da intendersi anch'essa attribuita come certa res) non potrà che aprirsi la successione ab intestato .

Si precisa comunque in proposito, da parte di un'autorevole dottrina, che questo "risultato distributivo non è l'effetto di un atto di distribuzione compiuto dal testatore". Ed infatti, pur trovandosi l'erede legittimo "immediatamente apporzionato al momento

dell'apertura della successione", in quanto il de cuius, disponendo di determinati beni in funzione di quota, ha determinato di riflesso anche "la composizione della quota ab intestato, la causa dell'acquisto di quest'ultima porzione è costituita dalla vocazione legale".

Più precisamente, dunque, ciò che vale a distinguere questa ipotesi da quella "di una divisione testamentaria in senso proprio" si rinviene nel fatto che i due acquisti, dell'erede istituito e dell'erede legittimo, sono fondati su titoli diversi e giuridicamente indipendenti - rispettivamente: la volontà del testatore e la volontà della legge - "non funzionalmente collegati da un intento negoziale distributivo.

L'intenzione di attribuire beni determinati in funzione di quota del patrimonio si esaurisce, nel caso presente, in un'unica assegnazione, non si presenta come un aspetto dell'intenzione di distribuire, fra più soggetti, tutti o parte dei propri beni, che è l'elemento soggettivo caratteristico della divisione in senso tecnico, e che necessariamente si riflette in una pluralità organizzata di atti di

distribuzione" [293].

Queste conclusioni dovrebbero anche consentire di risolvere con sufficiente linearità la questione della reciproca qualificazione tra più disposizioni testamentarie delle quali una (o più) attribuisca(no) beni determinati, mentre l'altra assegni genericamente ad altro beneficiario "tutto quanto resta" (c.d. attribuzione de residuo). Ed infatti, non potendosi sostenere a priori, per le ragioni anzidette, che l'attribuzione di "quanto resta" integri necessariamente un'attribuzione dell'universum ius con semplice detrazione dei beni specificamente assegnati a mo' di legato, sarà l'indagine ermeneutica specifica che consentirà di stabilire di volta in volta se si è di fronte ad una o più institutio ex re certa ovvero ad un'unica istituzione di erede (attribuzione del residuo) e ad una disposizione "a titolo particolare" (legato) .

Per cui, se sarà dimostrato che l'intenzione del de cuius era quella di attribuire i beni determinati in funzione di quota e la massa restante come "altra quota" (costituita anch'essa dalle res certae residue), si avrà un'ipotesi di disposizione di "tutto il patrimonio" con più istituzioni ex certa re, da integrarsi pro rata rispetto ad altri eventuali beni non menzionati dal testatore perché da lui ignoti o perché da lui acquistati in epoca posteriore alla confezione del testamento; mentre, soltanto nel caso in cui il risultato del procedimento ermeneutico induca a concludere che il de cuius ha preso in considerazione i beni singolarmente individuati non come (o in funzione) di quota ma nella loro individualità specifica, la disposizione che ricomprende tutti i beni di cui non si è disposto in modo specifico sarà idonea a rappresentare un'istituzione di unico erede [295].

Il concorso, in un medesimo contesto testamentario, tra un'unica institutio ex re (di un soggetto o più soggetti congiuntamente) ed una istituzione in quota astratta (es.: a Tizio il fondo A; a Caio il fondo B; a Sempronio l'altro terzo del mio patrimonio) ha invece dato luogo a soluzioni interpretative differenziate. In proposito, sussiste una tesi che sostiene doversi individuare in tali casi una divisione del testatore nulla per preterizione ex art. 735, 1° comma ("La divisione nella quale il testatore non abbia compreso qualcuno dei legittimari o degli eredi istituiti è nulla") [296].

Ad un tale orientamento si contrappone altra opinione che, argomentando da mia completa assimilazione tra l'istituzione ex quota e la disposizione istitutiva "nel residuo generico", non intravede preclusioni per un'interpretazione della fattispecie che,

tramite l'indagine sulla voluntas testantis, arrivi di volta in volta a sostenere o il concorso di due forme di institutio ex re certa o eventualmente la presenza di un'istituzione ex quota e di un'istituzione di legato [297].




















IV.4. Institutio ex re e revocazione tacita delle disposizioni testamentarie: possibile applicazione analogica dell'art. 686 c.c..


Dal punto di vista prettamente effettuale, un ultimo aspetto da considerare è se, per l'istituzione di erede ex re certa, trova o meno applicazione l'art. 686 c.c., il quale prevede una forma di revoca tacita delle disposizioni testamentarie a titolo particolare nei casi di alienazione e trasformazione della cosa legata [298].

Per poter risolvere una tale problematica, è necessario, in primo luogo, vagliare il fondamento ed i presupposti della revocazione ivi disciplinata.

Poiché l'articolo in oggetto disciplina un'ipotesi di revoca tacita che si concretizza in un comportamento concludente , nelle

diverse forme dell'alienazione e della trasformazione della cosa legata, con valore legale tipico ma non assoluto in quanto è ammissibile la prova contraria [300], il fondamento si rinviene nella considerazione che, alienando o trasformando la cosa legata, il testatore manifesti con ciò tacitamente la volontà di revocare il legato, essendo di norma tali atti incompatibili con la volontà di mantenerlo fermo .

In linea generale, presupposti oggettivi per l'applicazione della norma dovrebbero essere una disposizione patrimoniale a titolo particolare, con effetti sia reali che obbligatori, e non a titolo universale [302].

Con tali presupposti, è stato giustamente avanzato da taluno il dubbio circa la possibilità di estendere tale norma, in via analogica, all'istituzione di erede ex re certa, in quanto determina, seppure su

cosa determinata, una successione a titolo universale. Parte della dottrina e la giurisprudenza, in tale ipotesi, escludono l'applicazione della norma avendo l'istituzione di erede ex re certa ad oggetto un'entità astratta indipendente dal suo materiale contenuto [303]. Non rientrano, pertanto, nelle ipotesi previste dall'art. 686 quella dell'istituzione di erede ex re certa seguita dalla donazione di beni determinati , ovvero da alienazioni che esauriscono il patrimonio del testatore, e neanche quella di inesistenza nell'asse, al momento dell'apertura della successione, dei beni a cui si riferiscono le disposizioni testamentarie, che divengono si inefficaci per impossibilità di attuazione, analogamente a quanto stabilito dall'art. 654 c.c., ma non per revoca .

Altro orientamento [306] è, invece, incline ad estendere la disposizione in oggetto all'institutio ex re certa, istituto che è stato definito ibrido . Premesso che il problema che si deve qui risolvere è quello della influenza che può avere l'alienazione della res certa attribuita sulla istituzione d'erede che ha per oggetto tale cosa, il punto di partenza per una soddisfacente soluzione del quesito è, secondo un tale approccio, la considerazione che l'acquisto della cosa specificamente attribuita è essenziale, nell'heredis institutio ex re certa, per l'attribuzione della qualità di erede e per la determinazione, in concreto, della quota spettante all'istituito. Ciò sembra incontestabile nel caso in cui la relazione fra la res certa ed il rimanente patrimonio, ai fini della determinazione della quota, debba farsi avendo riguardo al patrimonio esistente tempore mortis.

Un'applicazione analogica dell'art. 686 all'istituto ex 2° co. dell'art. 588 sembra egualmente fondata, anche se si volesse prendere in considerazione il patrimonio tenuto presente dal testatore. In questo caso, infatti, potrebbero sorgere dubbi non infondati, se si pensasse soltanto al concorso dell'istituito ex re certa (che non acquisti la res certa stessa) nelle attività non tenute presenti dal testatore: e si potrebbe ritenere che egli vi concorra per la quota risultante dalla relazione fra la res certa attribuitagli ed il patrimonio preso in considerazione dal testatore, ancorchè non consegua la res certa stessa. Ma la soluzione si capovolge immediatamente, quando si tenga conto che, per la stessa quota, l'istituito dovrebbe concorrere nelle passività ereditarie: ciò anche nel caso limite in cui, non risultando attività non tenute presenti dal testatore, e risultando invece alienata (od anche distrutta) la res certa attribuita all'istituito, questi non otterrebbe nessuna attività, ma concorrerebbe soltanto nelle passività ereditarie [308].

Si deve quindi ritenere che, in ogni caso, la quota dell'istituito ex re certa si determina avendo riguardo a quanto della res certa egli possa effettivamente acquistare. Sotto questo profilo l'alienazione, parziale o totale, della res certa attribuita, porterà, rispettivamente ad una diminuzione della quota d'istituzione del chiamato o all'inefficacia totale dell'istituzione. In sostanza si avrà qui lo stesso risultato che è raggiunto per i legati considerati dall'art. 654 c.c., con l'ulteriore precisazione (fatta per i legati dal 2° co. dell'articolo appena citato) che il riacquisto, da parte del testatore, della res certa importerà la piena efficacia dell'istituzione d'erede [309].

A questo punto si inserisce il problema se possa sostenersi, anche in relazione alla res certa, che l'alienazione volontaria da parte del testatore importi presunzione di revoca.

Di un'applicazione diretta dell'art. 686, il quale si riferisce espressamente ai legati soltanto, non è possibile parlare. Per quanto riguarda invece l'estensione analogica dello stesso articolo, il punto decisivo per la soluzione del problema è se sussista l'eadem ratio. Non sembra, infatti che possano essere fondate obiezioni che si basano sul carattere eccezionale della norma, desunto o meno dalla


circostanza che essa pone una presunzione legale.

A questo proposito è evidente che, se ci si pone, come una parte della dottrina, dal punto di vista della prevalenza nell'istituzione ex re certa dell'attribuzione della quota sull'attribuzione della cosa determinata, l'estensione analogica sia da escludere. Ma questa posizione non appare, da quanto si è detto, fondata: l'attribuzione della cosa determinata viene sì fatta in funzione dell'apporzionamento dell'asse ereditario, ma è comunque destinata a rimanere in primo piano. L'attribuzione della quota in tanto avviene in quanto avvenga l'attribuzione della res certa, e nei limiti di quest'ultima attribuzione.

Nell'istituzione ex re certa si ha quindi, anzitutto, l'attribuzione di una cosa determinata, e questa attribuzione rimane sempre in primo piano. Attribuzione di cosa determinata, come nel legato, in ordine al quale può verificarsi la presunzione di revoca disciplinata dall'art. 686. L'ulteriore funzione della suddetta attribuzione, di essere cioè in relazione ad un apporzionamento dell'asse ereditario, non sembra che possa impedire di scorgere, nelle due fattispecie, l'eadem ratio, con una conseguente e indubbia estensione analogica, nei confronti dell'istituzione di erede ex re certa, delle regole dettate in materia di revocazione tacita delle disposizioni a titolo particolare [310].






























CONCLUSIONI




Si è trattato delle generali ure di erede e di legatario, per inserire tra esse quella dell'erede ex re certa e per giungere alla conclusione che, seppure su cosa determinata, similmente al legato, quest'ultima attribuzione è sempre a titolo universale, facendo, in ogni caso, sorgere in capo al soggetto beneficiario tutte quelle situazioni giuridiche, sia attive che passive, che l'ordinamento prepone all'eredità e non al legato.

Si è affrontata, senza però entrare troppo nello specifico, l'ampia disamina delle dissertazioni dottrinali che hanno contribuito a chiarire i criteri interpretativi da applicarsi a quelle disposizioni testamentarie dubbie, che cioè attribuiscono al beneficiario una cosa determinata ma non specificano se a titolo universale o particolare, per ravvisare che il principio ermeneutico valevole in tali casi, così come desumibile da una valutazione congiunta del 1° e del 2° co. dell'art. 588 c.c., è, accanto a quello obiettivo relativo al contenuto dell'atto, quello soggettivo, che rivolge l'attenzione verso l'effettiva volontà del testatore.

Si è discusso degli effetti conseguenti ad un'istituzione in re certa, per sottolineare che, essendo sempre a titolo universale, essa produce le stesse conseguenze giuridiche di una vera e propria qualificazione ereditaria.  

Ma i punti che più hanno richiamato la nostra attenzione sono soprattutto quelle particolarissime diatribe che, inserite nel contesto di efficacia dell'institutio in parola, hanno provocato ampi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali e che riguardano la possibilità o meno di conciliare le peculiarità proprie di una tale attribuzione con alcune regole che caratterizzano l'istituzione ereditaria "in quota" e non in cosa determinata, da un lato, e, dall'altro, con i disposti di cui agli artt. 651 e 686 c.c., di pregevole rilevanza ma, ad una prima e superficiale analisi, applicabili solo nei confronti dei legati. 

In particolare, si è discusso della possibilità, per l'erede ex re certa - che, in quanto tale, subisce gli effetti della divisione ereditaria - di usufruire o meno delle garanzie per evizione prestate in caso di scioglimento della comunione ordinaria. Può tale erede, se evitto o molestato nella cosa determinata, essere garantito dagli altri coeredi prima che si proceda alla vera e propria scissione dell'asse ereditario? Quanto a questo primo interrogativo, la risposta, secondo noi, non può che essere affermativa perché nulla ostacola l'applicazione, anche in tal caso specifico, dell'art. 758 c.c.. Il rimedio della evizione, nell'ambito della divisione ereditaria, è, infatti, un istituto che riguarda tutti i coeredi e, quindi, anche l'erede ex re certa: esso, trovando il suo titolo giustificativo nella esigenza di ripartire fra tutti i coeredi - in proporzione delle loro rispettive quote - le conseguenze pregiudizievoli delle pretese avanzate da terzi per cause anteriori alla divisione sui beni ereditari, è valevole per tutti gli istituiti a titolo universale.

In secondo luogo, anche se è controverso affermare che l'erede ex re partecipi al riparto degli elementi patrimoniali di cui il testatore non abbia disposto - o perché da lui ignorati o perché pervenutigli dopo la redazione del testamento - non può negarsi la validità di quelle posizioni secondo le quali l'institutio ex re certa possa usufruire della c.d. "capacità espansiva", propria dell'eredità "in quota": si tratta, infatti, pur sempre di istituzione a titolo universale e quindi è assoggettata alla medesima disciplina. Inoltre, proprio in virtù della capacità espansiva anche dell'institutio ex re, nel momento in cui vi sia concomitanza tra successione legittima e successione testamentaria, ci sembra giusto affermare che i beni non compresi nelle certae res vanno, in proporzione del valore delle quote accertato a posteriori, agli eredi testamentari. Infatti, una volta constatata la volontà del testatore di assegnare quei beni determinati come quota di eredità, questa non può non avere ogni effetto che il sistema, nella sua coerenza, le attribuisce: non può, cioè, la quota mancare della forza espansiva che rappresenta un suo carattere essenziale.

In terzo luogo, se i beni o il bene determinato non sono di proprietà del testatore al momento della sua morte - che è poi il momento in cui iniziano a prodursi gli effetti dell'institutio ex re cetra - non può trovare applicazione analogica, nei confronti dell'institutio in oggetto, l'art. 651 c.c., il quale prevede la nullità delle ipotesi di legato su cosa dell'onerato o di un terzo, sempre che dal testamento o da altra dichiarazione scritta dal testatore risulti che questi sapeva che la cosa legata apparteneva ad altri.

Spesso l'esclusione di una tale applicazione è stata giustificata affermando che le regole di cui all'art. 651 sono relative al legato e non possono quindi estendersi a tutte le disposizioni a titolo universale; secondo noi, però, non può farsi rientrare in quest'ultimo articolo l'institutio ex re certa solo ed esclusivamente perché manca il presupposto logico-giuridico della validità della stessa institutio, ossia l'appartenenza dei beni specificati al de cuius, presupposto che viene meno nel caso in cui la cosa determinata è altrui o anche solo parzialmente altrui .

Un ultimo aspetto considerato è se, per l'istituzione di erede ex re certa, trova o meno applicazione l'art. 686 c.c., il quale prevede una forma di revoca tacita delle disposizioni testamentarie a titolo particolare nei casi di successiva alienazione e trasformazione

della cosa legata. In linea generale, presupposti oggettivi per l'applicazione della norma dovrebbero essere una disposizione patrimoniale a titolo particolare, con effetti sia reali che obbligatori, e non a titolo universale. Con tali presupposti, è stato spesso avanzato il dubbio circa la possibilità di estendere tale norma, in via analogica, all'istituzione di erede ex re certa, in quanto quest'ultima determina, seppure su cosa determinata, una successione a titolo universale.

Si deve invece ritenere che il beneficio concesso all'istituito ex re certa si determina avendo riguardo a quanto della res certa egli possa effettivamente acquisire. Sotto questo profilo l'alienazione, parziale o totale, nonché la trasformazione ed il perimento della res certa attribuita, porterà, sicuramente ad una diminuzione della quota d'istituzione del chiamato o all'inefficacia totale dell'istituzione.

Poiché poi l'art. 686 disciplina un'ipotesi di revoca tacita che si concretizza in un comportamento concludente, nelle diverse forme dell'alienazione e della trasformazione della cosa legata - con valore legale tipico ma non assoluto in quanto è ammissibile la prova contraria -, il fondamento della nullità delle disposizioni testamentarie, in tali casi, si rinviene anche nella considerazione che, alienando o trasformando la cosa legata, così come la cosa determinata, il testatore manifesti con ciò tacitamente la volontà di revocare il legato ed anche l'eventuale istituzione di erede ex re.

Il punto decisivo per la soluzione del problema è che sussiste, sia per il legato che per l'institutio ex re certa, una eadem ratio: nell'istituzione ex re certa si ha, infatti, l'attribuzione di una cosa determinata, e questa attribuzione rimane sempre in primo piano, come per il legato in ordine al quale può verificarsi la presunzione di revoca disciplinata dall'art. 686 c.c.. L'ulteriore funzione della suddetta attribuzione, di essere cioè in relazione ad un apporzionamento dell'asse ereditario, non sembra che possa impedire di scorgere, nelle due fattispecie, l'eadem ratio, con una conseguente ed indubbia estensione analogica, nei confronti dell'istituzione di erede ex re certa, delle regole dettate in materia di revocazione tacita delle disposizioni a titolo particolare.


BIBLIOGRAFIA




Dottrina:


AA.VV., Il pensiero ermeneutico, testi e materiali, Genova, 1986.


ALLARA M., Teoria generale del contratto, Torino, 1955.


AMADIO F., La divisione del testatore senza predeterminazione di quote. - I. Heredis institutio ex certa re. - II. La divisione inter coheredes sine partibus scriptos, in Riv. dir. civ., 1986, p. 243 ss..


AMATO F. - LIUCA R., Art. 651, in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Perlingieri, vol. II, Delle successioni - Libro II - Artt. 456-809, Napoli, 1991, p. 408 ss..


AMATO F. - GIANNONE A., Art. 686, in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Perlingieri, vol. II, Delle successioni - Libro II - Artt. 456-809, Napoli, 1991, p. 489 ss..


ANSALONE F., Istituzione di erede - Istituzione ex re certa, nota a Cass., 6 novembre 1986, n. 6516, in Nuova giur. civ., 1987, I, p. 228 ss..


AZZARITI G., L'accettazione dell'eredità, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. V, Torino, 1982, p. 111 ss..


AZZARITI G., Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, Napoli, 1990.


BARALIS G., Il rinvio alla legge nelle disposizioni testamentarie. Interpretazione e problemi di diritto transitorio, in La successione del coniuge dopo la riforma del diritto di famiglia, Giornata di studio organizzata dal Comitato Notarile Interregionale Piemonte e Valle d'Aosta, Torino, 16 giugno 1984, Palermo, 1984, p. 118 ss..


BARALIS G., L'interpretazione del testamento, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 927 ss..


BARASSI L., Le successioni per causa di morte, Milano, 1943.


BARBERO D., Il sistema del diritto privato, Torino, 1988.


BARBERO D., Le universalità patrimoniali, Milano, 1936.


BARBERO D., Sistema istituzionale del diritto privato italiano, Torino, 1965.


BARCELLONA P., voce "Errore (dir. priv.)", in Enc. dir., Milano, vol. XV, 1966, p. 257 ss..


BETTI E., Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971.


BETTI E., Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, vol. XV, Torino, 1960.


BIANCA C. M., Diritto civile, II e III, Milano, 1981-l984.


BIANCA C. M., Le successioni testamentarie (artt. 624-712), Torino, 1983.


BIGLIAZZI GERI L., Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1993.


BIGLIAZZI GERI L., Il testamento, I, Profilo negoziale dell'atto, Milano, 1976.


BIGLIAZZI GERI L., Il testamento, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. VI, Successioni, tomo II, Torino, 1982.


BIGAZZI GERI L., L'interpretazione del contratto, in Commentario al codice civile, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, p. 52 ss..


BIGLIAZZI GERI L. - BUSNELLI G. - NATOLI U., Diritto civile, I, Norme. Soggetti. Rapporti giuridici, Torino, 1986.


BONFANTE L., Istituzione nella universalità di beni mobili o immobili, in Foro it., 1897, I, c. 525, raccolta poi in Scritti giuridici vari, I, p. 509 ss..


BURDESE A., voce "Successione - 2) Successione a causa di morte", in Enc. giur. Trecc., vol. XXX, Roma, 1993.


CAPOBIANCO E., Art. 588, in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Perlingieri, vol. II, Delle successioni - Libro II - Artt. 456-809, Napoli, 1991, p. 232 ss..


CAPOZZI G., Successioni e donazioni, tomo I, Milano, 1983.


CARIOTA FERRARA L., Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d..


CARIOTA FERARA L., Le successioni per causa di morte, Pt. gen., Napoli, 1977.


CARNELUTTI F., Appunti sulla successione nella lite, in Riv. dir. proc., 1932, I, p. 14 ss..


CARNEVALI U., voce "Successione - 1) Profili generali", in Enc. giur. Trecc., vol. XXX, Roma, 1993.


CARRARA R., La formazione dei contratti, Milano, 1915.


CATAUDELLA A., Sul contenuto del contratto, Milano, 1966.


CENDON P. (a cura di), Artt. 456-632, in Codice civile annotato, vol. II, Torino, 1994.


CHIASSONI V., L'interpretazione della legge, in AA.VV., Studi in memoria di Giovanni Tarello, Milano, 1990, II, p. 146 ss..


CIAN G., Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969.


CIAN G. - TRABUCCHI A., Libro II - Delle successioni, in Commentario breve al codice civile, Complemento giurisprudenziale, Padova, 1994, p. 421 ss..


CICU A., La nozione di erede nel diritto vigente, in Studi per Zanzucchi, Milano, 1927, p. 159 ss..


CICU A., Successioni per causa di morte, Pt. Gen., in Tratt. di dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, vol. II, Milano, 1961, p. 11 ss..


COVIELLO L., Diritto successorio, Bari, 1962.


COVIELLO L., L'istituzione di erede e il lascito di beni determinati, in Giur. it., 1931, I, 1, c. 1157 ss..


COVIELLO N. - COVIELLO L., Corso completo delle successioni, a cura di L. Coviello, Napoli, 1932.


CRISCUOLI G., Buona fede e ragionevolezza, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 709 ss..


CUFFARO V., voce "Erede e eredità - 1) Diritto civile", in Enc. giur. Trecc., vol. XII, Roma, 1989.


D'AMELIO G., Sull'articolo 760 codice civile, in Mon. Trib., 1925, p. 541 ss..


DE CUPIS C., voce "Successione testamentaria", in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, p. 1382 ss..


DEGNI F., Delle successioni testamentarie, in Commentario al codice civile, diretto da D'Amelio e Finzi, Firenze, 1941, p. 378 ss..


DEIANA A., Concetto e natura giuridica del contratto di divisione, in Riv. dir. civ., 1939, p. 58 ss..


DE MARTINO F., Sulla istituzione di erede nel diritto civile moderno, in Giur. compl. dir. civ., 1942, VII, p. 47 ss..


DE RUGGIERO R. - MAROI F., Istituzioni di diritto privato, I, Milano-Messina, 1943.


DISTASO A., Istituzione di erede in beni determinati, in Casi e questioni in tema di successione per causa di morte, Bari, 1970, p. 196 ss..


DUSI C., Istituzioni di diritto civile, Torino, 1986, I.


FERRI L., Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1968.


FERRI L., Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960.


FERRI L., Successioni in generale, in Comm. al cod. civ. Scialoja-Branca, Artt. 456-511, II ed., Bologna-Roma, 1980, p. 17 ss..


FINOCCHIARO A. - FINOCCHIARO M., Libro II - Delle successioni, tomo I (artt. 456-632), in Nuova rassegna di giurisprudenza sul codice civile, a cura di C. Ruperto e V. Sgroi, Milano, 1994.


FORCHIELLI G., Della divisione, artt. 713-768, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Libro II, Delle successioni, Bologna - Roma, 1970, p. 194 ss..


GALGANO F., Diritto civile e commerciale, vol. II, tomo 1, Obbligazioni e contratti, Padova, 1990, p. 381 ss..


GANGI C., Istituzione di erede e di legato, in Riv. dir. civ., 1929, p. 13 ss.


GANCI C., La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, Milano, 1952.


GARDANI CONTURSI LISI L., Le successioni (disposizioni generali), in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino, 1981.


GAZZARA G., Dell'istituzione di erede ex re certa, in Ann. Fac. Ec. e Comm. Univ. Messina, 1968, p. 116 ss..


GAZZONI G., Manuale di diritto privato, Napoli, 1994.


GIANNATTASIO C., Delle successioni - Successioni testamentarie, in Commentario del codice civile, Torino, 1968.


GIAMPICCOLO G., Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954.


GIAMPICCOLO G., Su alcune ure di c.d. revoca tacita del testamento, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 528 ss..


GIORDANO-MONDELLO R., voce "Legato", Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1973. p. 722 ss..


GRASSETTI C., L'interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1983.


GRECO M., Lezioni di diritto commerciale, Genova - Roma, 1947.


GORLA G., La compravendita e la permuta, in Trattato di dir. civile, diretto da F. Vassalli, Torino, 1937, p. 98 ss..


GROSSO G. - BURDESE A., Le successioni - Parte generale, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, vol. XII, tomo I, Torino, 1977, p. 30 ss..


JEMOLO A., Gli occhiali del giurista, Padova, 1970.


LISERRE A., Evoluzione storica e rilievo costituzionale del diritto ereditario, in Jus, 1979, p. 204 ss..


LISERRE A., Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966.


LOI M. L., Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino, 1981.


MARCONE A. M., In materia di disposizioni a titolo universale e a titolo particolare, nota a App. Torino, 26 maggio 1983, in Giur. it., 1985, I, 2, c. 45 ss..


MENGONI L., Diritto e valori, Milano, 1985.


MENGONI L., Ermeneutica e dogmatica giuridica, in AA.VV., interpretazione ed epistemologia, Atti del VII Colloquio sull'interpretazione (Macerata 25-27 maggio 1983), Torino, 1986, p. 119 ss..


MENGONI L., Interpretazione del negozio e teoria del linguaggio (Note sull'art. 625 c.c. ), in Jus, 1988, p. 7 ss..


MENGONI L., Interpretazione e nuova dogmatica. L'autorità della dottrina, in Jus, 1985, p. 469 ss..


MENGONI L., La divisione testamentaria, Milano, 1950


MENGONI L., L'istituzione di erede "ex re certa" secondo l'art. 588, 2° comma c.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1948, p. 739 ss..


MENGONI L., Successioni per causa di morte, Milano, 1950.

MENGONI L., Successioni per causa di morte - Parte speciale - Successione legittima, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1983.


MESSINEO F., L'eredità e il suo carattere di "universum ius", in Riv. dir. civ., 1941, p. 352 ss..


MESSINEO F., Manuale di diritto civile e commerciale, IX ed., Milano, 1962.


MIRABELLI G., Intorno al negozio divisorio, in Arch. giur., 1949, p. 43 ss..


MOSCHELLA R., Autonomia e universalità della petizione ereditaria, in Riv. dir. civ., 1970, 1, p. 309 ss..


MOSCO E., Principi sulla interpretazione dei negozi giuridici, Napoli, 1932.


NATOLI U., L'amministrazione dei beni ereditari, II ed., Milano, 1968.


NICOLÒ R., voce "Erede (dir. priv.). III - Diritto privato", in Enc. Dir., vol. XV, Milano, 1966, p. 196 ss..


NICOLÒ R., La vocazione ereditaria diretta e indiretta, in Ann. Messina, VIII, 1934, 119 ss..


NICOLÒ R., voce "Successione dei diritti", in Noviss. Dig. It., vol. XVIII, Torino, 1971, p. 607 ss..


OPPO G., Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943.


PAJARDI P., Riflessioni e appunti sul sistema dei modi di accettazione dell'eredità, in Riv. dir. civ., 1959, I, 79 ss..


PANSINI M., Istituzione di erede e legato, in Il nuovo dir., 1943, p. 123 ss..

PEREGO E., Il legato, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 6, Successioni, tomo II, Torino, 1984, p. 204 ss..


PIAZZA G., L'identificazione del soggetto nel negozio giuridico, Napoli, 1968.


PRANDI F., Interpretazione del testamento, rilevanza dei motivi e "istitutio ex re certa", nota a Cass., 26 ottobre 1972, n. 3282, in Foro pad., 1974, n. 1-2, p. 126 ss


PROTO PISANI A., Petizione di eredità e mero accertamento della qualità di erede, in Foro it., 1961, 1, c. 1909 ss..


PROTO PISANI A., Verso una interpretazione di buona fede del testamento?, in Riv. not., 1983, pp. 1004 ss..


PUGLIATTI G., Dell'istituzione di erede e dei legati, in Commentario del codice civile, a cura di D'Amelio e Finzi, Firenze, 1941.


RADAELLI U., L'eredità giacente, Milano, 1948.


RESCIGNO P., La successione a titolo universale e particolare, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994.


RESCIGNO P., L'interpretazione del testamento, Napoli, 1952.


RESCIGNO P., Manuale di diritto privato, Napoli, 1976.


RUGGIERO F., Interpretazione delle disposizioni testamentarie: natura del criterio previsto dal 2° comma dell'art. 588 c.c., in Giust. civ., 1973, IV, p. 327 ss..


SACCO R., Il contratto, in Trattato di dir. civ. it, diretto da F. Vassalli, vol. VI, tomo 2, Torino, 1975, p. 772 ss..


SALIS R., In tema di interpretazione degli artt. 760 e 827 del codice civile, in Riv. dir. civ., 1931, p. 128 ss..

SALIS R., Lasciti dell'universalità dei mobili ed immobili, in Riv. dir. civ., 1933, p. 252 ss..


SALIS R., Sull'istituzione di erede in una cosa determinata, in Dir. e giur., 1946, p. 81 ss..


SANTORO PASSARILLI F., Dottrine generali del diritto civile, II ed., Napoli, 1971.


SANTORO PASSARELLI F., Istituzioni di diritto civile, Napoli, 1946.


SANTORO PASSARELLI F., Osservazioni alla sentenza 23 marzo 1931, in Foro it., 1931, 1, c. 953 ss..


SCALISI V., La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, Milano, 1974.


SCHLESINGER P., Successioni (diritto civile): Parte generale, in Noviss. dig. it., vol. XVIII, Torino, 1971, p. 748 ss..


STOLFI M., Concetto dell'erede, in Giur. it., 1949, IV, c. 162 ss..


STOLFI M., Il negozio giuridico è atto di volontà, in Giur. it., 1948, IV, c. 45 ss..


STOLFI G., Sul lascito dell'usufrutto universale, in Foro pad., 1949, III, p. 130 ss..


TALAMANCA M., Successioni testamentarie, art. 679-712, in Commentario del Codice Civile, a cura di Scialoya e Branca, Bologna - Roma, 1972, p. 167 ss..


TALLARIDA A., Prova in giudizio della qualità di erede, in Foro it., 1967, I, c. 1500 ss..


TAMBURRINO G., voce "Testamento (dir. priv.)", in Enc. dir., Milano, vol. XLIV, 1992, p. 490 ss..


TRABUCCHI A., Il rispetto del testo nell'interpretazione degli atti di ultima volontà, in Studi in onore di F. Carnelutti, III, Padova, 1950, p. 689 ss..


TRABUCCHI A., In tema di istituzione ex re certa, in Giur. it., I, 1, c. 185 ss..


TRABUCCHI A., Istituzioni di diritto civile, Padova, ed. 1986 e 1991.


TRIMARCHI P., Interpretazione del testamento mediante elementi ad esso estrinseci, in Giur. it., 1956, I, c. 425 ss..


VISTO E., Differenza tra istituzione di erede o di legatario, in Il nuovo dir., 1941, p. 88 ss..


VOCINO C., Contributo alla teoria del beneficio d'inventario, Milano, 1942.


ZACCARIA P., L'arte dell'interpretazione, Milano, 1990.


ZATTI P., Lineamenti di diritto privato, Padova, 1989.


ZHARA BUDA C., Aspetti problematici dell'interpretazione del testamento, nota a Trib. Pavia, 21 maggio 1992, in Giur. merito, 1992, p. 1085 ss..


ZICCARDI F., Le norme interpretative speciali, Milano, 1972.





Giurisprudenza:


Cass. Roma, 14 giugno 1917, in Giur. it., 1917, I, 1, c. 505.


Cass., 14 luglio 1920, in Corte Cass., 1927, p. 6.


Cass. Roma, 9 novembre 1922, in Giur. it., 1922, I, 1, c. 959.

Cass., Sez. Un., 3 ottobre 1925, in Giur. it., 1925, I, 1, c. 1139, e in Mon. trib., 1925, p. 841.


Cass., 14 luglio 1926, in Giur. it., 1929, 1, 1, c. 386.


Cass., 9 gennaio 1929, in Giur. it., 1929, I, 1, c. 556.


Cass., 11 marzo 1931, in Giur it., 1931, I, 1, c. 1158.


Cass., 20 aprile 1942, in Mass. Foro it., 1942, p. 263.


Cass., 5 maggio 1940 in Mass. Foro it., 1940, p. 507.


Cass., 20 febbraio 1948, n. 261, in Rep. Foro it., 1948, voce "Testamento", c. 1359, n. 58.


Cass., 18 agosto 1948, n. 1513, in Rep. Foro it., 1948, voce "Successione legittima e testamentaria", c. 1299, n. 140.


Cass., 26 novembre 1949, n. 2516, in Giur. compl. Cass. civ., 1949, III, p. 1217.


Cass., 26 aprile 1950, n. 1109, in Giur. compl. Cass. civ., 1950, III, p. 541.


Cass., 17 febbraio 1951, n. 403, in Giur. it., 1951, I, 1, c. 863.


Cass., 11 luglio 1951, n. 1889, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, III, p. 600.


Cass., 27 dicembre 1951, n. 2890, in Foro it., 1952, I, c. 1011.


Cass., 11 gennaio 1955, n. 16, in Rep. foro it., 1955, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2260, n. 166.


Cass., 25 luglio 1955, in Giust. civ. Rep., 1955, voce "Successione testamentaria", n. 106.


Cass., 25 maggio 1957, n. 1936, in Foro it. Mass., 1957, c. 385.

Cass., 25 aprile 1960, n. 924, in Giust. civ. Mass., 1960, c. 352.


Cass., 9 maggio 1962, n. 918, in Rep. foro it., 1962, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2829, nn. 133-l36.


Cass., 3 settembre 1962, n. 3081, in Giust. civ., 1962, I, c. 2055.


Cass., 3 novembre 1962, n. 3081, in Giust. civ., 1962, I, p. 2055, e in Giur. it., 1962, I, 1, c. 1473 ss..


Cass., 23 marzo 1963, n. 737, in Giur. it., 1964, I, 1, c. 185, con nota A. TRABUCCHI, In tema di institutio ex re certa.


Cass., 23 maggio 1963, n. 737, in Giur. it., 1964, I, 1, c. 189.


Cass., 18 giugno 1963, n. 1637, in Foro it., 1963, I, c. 2168, e in Mass. Giust. civ., 1963, c. 773.


Cass., 25 novembre 1963, n. 3025, in Giust. civ., 1964, I, p. 643.


Cass., 2 aprile 1964, n. 715, Giust. civ., 1964, I, c. 69, e in Giust. civ. Rep., 1964, voce "Successione testamentaria", n. 69.


Cass., 8 luglio 1964, n. 1800, in Foro it., 1964, I, c. 1357.


Cass., 9 aprile 1965, n. 619, in Rep. foro it., 1965, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2884, n. 115, e in Giust. civ., 1965, I, p. 637.


Cass., 15 luglio 1965, n. 1524, in Giust. civ. mass., 1965, p. 783.


Cass., 21 gennaio 1966, n. 262, in Rep. Foro it., 1966, c. 2959, e in Mass. Giur. it., 1980.


Cass., 26 luglio 1966, n. 2023, in Foro pad., 1967, 1, p. 1033.


Cass, 20 giugno 1967, n. 1458, in Foro it. Mass., 1967, in Giust. civ. Rep., 1968, voce "Successione testamentaria", n. 51, e in Giust. civ. Mass., 1967, c. 768.

Cass., 6 maggio 1968, n. 1383, in Giust. civ. Rep., 1968, voce "Successione testamentaria", n. 52, e in Giust. civ., 1968, I, 1, c. 1869.


Cass., 5 luglio 1968, n. 2287, in Giust. civ. Mass., 1969, c. 1187.


Cass., 16 gennaio 1969, n. 790, in Rep. Giur. it., 1969, c. 4360.


Cass., 5 febbraio 1969, n. 365, in Rep. foro it., 1969, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2709, n. 101.


Cass., 6 marzo 1969, n. 731, in Rep. Foro it., 1969, voce "Testamento", c. 2923, n. 32.


Cass., 13 maggio 1969, n. 628, in Foro it., 1969, 1, c. 2568.


Cass., 25 luglio 1969, n. 2851, in Mass. Giust. civ., 1969, c. 1471.


Cass., 28 luglio 1969, n. 2850, in Giust. civ. Mass., 1969, c. 1471.


Cass., 26 gennaio 1970, n. 160, in Foro it., 1970, I, c. 1128.


Cass., 26 febbraio 1970, n. 469, in Giust. civ. Rep., 1970, voce "Successione testamentaria", n. 36.


Cass., 13 marzo 1970, n. 645, 1970, in Rep. foro it., voce "Successione", c. 2357, nn. 36-37.


Cass., 26 novembre 1970, n. 469, in Rep. Foro it., 1970, voce "Testamento", n. 15.


Cass., 7 aprile 1971, n. 1029, in Rep. foro it., 1971, voce "Successione ereditaria", c. 2954, n. 73, e in Mass. Foro it., 1971, c. 313


Cass., 8 maggio 1971, n. 1311, in Mass. Giust. civ., 1971, c. 711.


Cass., 12 maggio 1971, n. 1368, in Mass. Giust. civ., 1971, c. 743.


Cass., 19 novembre 1971, n. 3342, in Rep. foro it., 1972, voce "Testamento", c. 2824, n. 60; in Mass. Giur. it., 1971, e in Giur. it., 1973, I, c. 676.


Cass., 19 dicembre 1971, n. 3342, in Giust. civ. Mass., 1976.


Cass., 28 febbraio 1972, n. 595, in Giur. it., 1973, I, 1, c. 954.


Cass., 18 ottobre 1972, n. 3117, in Giur. it. Mass., 1972, c. 1152.


Cass., 26 ottobre 1972, n. 3282, in Foro pad., 1974, I, p. 126, e in Foro it. Mass., 1972, e in Foro pad., 1974, n. 1-2, p. 126 ss., con nota di F. PRANDI, Interpretazione del testamento, rilevanza dei motivi e "istitutio ex re certa".


Cass., 27 ottobre 1973, n. 2797, in Mass. Giur. it., 1973, c. 2797.


Cass., 20 novembre 1973, n. 3129, in Rep. Foro it., 1973, voce "Successione ereditaria", c. 2575, n. 99.


Cass., 14 marzo 1974, n. 714, in Giur. it., 1975, I, 1, c. 1153, e in Foro it. Rep., 1974, voce "Successione ereditaria", n. 19.


Cass., 6 giugno 1974, n. 1979, in Giur. it, 1974, I, 1, c. 1452.


Cass., 5 ottobre 1974, n. 2621, in Giur it., 1975, I, 1, c. 1526.


Cass., 12 marzo 1975, n. 926, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 1011.


Cass., 9 febbraio 1977, in Rep. Foro it., 1977, voce "Successioni testamentarie", c. 2644.


Cass., 18 febbraio 1977, n. 73, in Riv. not., 1977, p. 970.


Cass., 26 luglio 1977, n. 3342, in Foro it., 1978, 1, c. 717.


Cass., 10 novembre 1977, n. 4865, in Vita not., 1977, p. 669.


Cass., 21 gennaio 1978, n. 269, in Giur. it., 1979, I, 1, c. 178.


Cass., 8 luglio 1978, n. 3416, in Foro it., 1979, I, c. 128


Cass., 27 ottobre 1978, n. 5075, in Rep. foro it., 1978, voce "Successione ereditaria", c. 2560, n. 33.


Cass., 7 novembre 1978, n. 5075, in Foro it. Rep., 1978, voce "Successione ereditaria", n. 33.


Cass., 19 aprile 1979, n. 2211, in Foro it. Mass., 1979, c. 462.


Cass., 17 luglio 1979, n. 4181, in Vita not., 1980, p. 199.


Cass., 5 gennaio 1980, n. 66, in Foro it., 1980, I, c. 2241.


Cass., 19 marzo 1980, n. 1850, in Rep. Foro it., 1980, c. 2628.


Cass., 15 luglio 1980, n. 4582, in Rep. foro it., 1980, voce "Successione ereditaria", c. 2628, n. 72.


Cass., 17 dicembre 1980, n. 6525, in Foro it. Mass., 1980.


Cass., 24 marzo 1981, n. 1717, in Foro it. Mass., 1981, c. 771, e in Foro it. Rep., 1981, voce "Successione ereditaria", n. 58.


Cass., 20 maggio 1981, n. 3304, in Rep. foro it., 1981, voce "Successione ereditaria", c. 2759, n. 57.


Cass., 18 novembre 1981, n. 6110, in Giust. civ. Mass., 1981, c. 2177.


Cass., 28 novembre 1981, n. 6343, in Foro it. Rep., 1981, voce "Successione ereditaria", n. 84.


Cass., 10 giugno 1982, n. 3522, in Rep. Foro it., 1982, c. 2832.


Cass., 15 novembre 1982, n. 6098, in Rep. foro it., 1983, voce "Successione ereditaria", c. 3098, n. 51.


Cass., 26 febbraio 1983, n. 1494, in Rep. Foro it., 1983, c. 3099.


Cass., 10 luglio 1983, n. 4110, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169.


Cass., 6 luglio 1984, n. 3972, in Rep. Foro it., 1984, c. 2951.


Cass., 22 gennaio 1985, n. 252, in Riv. not., 1985, p. 1001.


Cass., 22 marzo 1985, n. 2076, in Gazz. Not., 1986, p. 102.


Cass., 19 luglio 1986, n. 4660, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169.


Cass., 6 novembre 1986, n. 6516, in Nuova giur. civ., 1987, I, p. 228 ss., con nota di F. ANSALONE, Istituzione di erede - Istituzione ex re certa.


Cass., 16 novembre 1986, n. 5625, in Foro it. Rep., 1987, voce "Successione ereditaria", n. 21, e in Giust. civ. Mass., 1985, n. 23.


Cass., 28 novembre 1986, n. 7025, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169.


Cass., 7 febbraio 1987, n. 1266, in Riv. not., 1987, p. 589.


Cass., 7 febbraio 1987, n. 4897, in Arch. Giur., 1987, p. 1212.


Cass., 5 novembre 1987, n. 8123, in Rep. foro it., 1987, voce "Successione ereditaria", c. 3293, n. 79.


Cass., 26 maggio 1989, n. 2256, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 78, e in Giust. civ., 1990, I, 1, c. 78.


Cass., 26 gennaio 1990, n. 459, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 1232.


Cass., 27 novembre 1990, n. 11428, in Riv. not., 1991, p. 225.


Cass., 27 febbraio 1995, n. 2276, in Vita not., 1996, p. 256.


Cass., 24 ottobre 1995, n. 11046, in Giust. civ., 1996, I, p. 388.


App. Genova, 7 aprile 1948, in Rep. foro it., 1948, voce "Successione", n. 109.


App. Venezia, 13 marzo 1953, in Rep. foro it., 1953, voce "Testamento", c. 2685, n. 55.


App. Messina, 19 dicembre 1958, in Giust. civ. Rep., 1956, voce "Successione testamentaria", n. 118.


App. Torino, 26 maggio 1983, in Giur. it., 1985, I, 2, c. 44, con nota di A. M. MARCONE, In materia di disposizioni a titolo universale e a titolo particolare.


App. Trento, 14 gennaio 1997, in Rep. foro it., 1997, voce "Successione ereditaria", c. 2048, n. 68.


App. Trento, 31 gennaio 1998, in Nuovo dir., 1998, p. 481 ss., con nota di V. SANTARSIERE, Istituzione di erede ex re certa con immobili parzialmente altrui.


Trib. Napoli, 28 luglio 1970, in Rep. Foro it., 1971, voce "Successione ereditaria", c. 2954, n. 75 e in Giust. civ., 1971, I, p. 1322.


Trib. Pavia, 21 maggio 1992, in Giur. merito, 1992, p. 1085 ss., con nota di C. ZHARA BUDA, Aspetti problematici dell'interpretazione del testamento.






Sul punto, la dottrina è concorde. Per essa, tra i tanti, si vedano M. STOLFI, Concetto dell'erede, in Giur. it., 1949, IV, c. 162; R. NICOLÒ, voce "Erede (dir. priv.). III - Diritto privato", in Enc. Dir., vol. XV, Milano, 1966, pp. 196-l97; G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, vol. XII, tomo I, Torino, 1977, pp. 30-35 e 42; V. CUFFARO, voce "Erede e eredità - 1) Diritto civile", in Enc. giur. Trecc., vol. XII, Roma, 1989, p. 1.

Per tali riferimenti normativi, cfr. P. CENDON(a cura di), Artt. 456-632, in Codice civile annotato, vol. II, Torino, 1994; G. CIAN - A. TRABUCCHI, Libro II - Delle successioni, in Commentario breve al codice civile, Complemento giurisprudenziale, Padova, 1994, p. 421 ss..

In particolare, sono intervenute ad integrare la legislazione codicistica in materia di successione ereditaria, senza per questo dare alcun chiarimento terminologico, le seguenti normative speciali: la L. 8 marzo 1975, n. 39, che prevede l'attribuzione della maggiore età ai cittadini che hanno compiuto il diciottesimo anno e la modificazione delle norme relative alla capacità di agire e quindi anche alla capacità a succedere (soprattutto art. 10); la L. 19 maggio 1975, n. 151, che, istituendo la riforma del diritto di famiglia, con gli artt. 171-l99, 201-204, 237, 238, 240, riformula anche gli aspetti familiari della successione ereditaria; la L. 24 ottobre 1980, n. 745, che ratifica e dà esecuzione alla convenzione sull'amministrazione internazionale delle successioni, adottata allAja il 2 ottobre 1973; la L. 29 novembre 1990, n. 387, con cui la Repubblica italiana aderisce e dà esecuzione alla convenzione che istituisce una legge uniforme sulla forma del testamento internazionale, convenzione adottata a Washington il 26 ottobre 1973; il D. Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, contenente norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado, che - agli artt. 105, 106, 110, 112-l15, 143-l48, 153-l56, 247 - introduce rilevanti modifiche anche riguardo alle vertenze relative al diritto successorio. Per brevi e generali riferimenti a tali normative, si veda: Legislazione, in Rep. foro it., 1998, voce "Successione ereditaria", c. 2945.

Testualmente, il disposto civilistico così recita: "Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l'espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, se comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario". Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 588, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 499.

Circa le influenze determinate dalle elaborazioni dommatiche relative alla considerazione positiva dei concetti in discorso, cfr. R. NICOLÒ, voce "Successione dei diritti", in Noviss. Dig. It., vol. XVIII, Torino, 1971, p. 607 ss..

Il contributo più recente sul tema è di A. LISERRE, Evoluzione storica e rilievo costituzionale del diritto ereditario, in Jus, 1979, p. 204 ss..

Per tale approccio critico, cfr. V. CUFFARO, voce "Erede e eredità - 1) Diritto civile", cit., pp. 1-2.

Per tradizione si afferma che "succedere" è il subentrare di un soggetto ad un altro in un determinato rapporto giuridico, rapporto che rimane identico nonostante la modificazione soggettiva: l'identità del rapporto - o, in altri termini, la sua continuazione - costituisce la nota caratteristica del fenomeno successorio. Così U. CARNEVALI, voce "Successione - 1) Profili generali", in Enc. giur. Trecc., vol. XXX, Roma, 1993, p. 1. Per gli aspetti più generali della materia, cfr. anche P. SCHLESINGER, Successioni (diritto civile): Parte generale, in Noviss. dig. it., vol. XVIII, Torino, 1971, p. 748 ss.; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, tomo I, Milano, 1983.

Cfr. R. DE RUGGIERO - F. MAROI, Istituzioni di diritto privato, I, Milano-Messina, 1943, p. 371; L. COVIELLO, Diritto successorio, Bari, 1962, p. 21; F. SANTORO PASSARILLI, Dottrine generali del diritto civile, II ed., Napoli, 1971, p. 85; G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, Napoli, 1990, p. 4

Così G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., pp. 29-30.

Sul punto, per riferimenti di ordine generale, si vedano L. CARIOTA FERARA, Le successioni per causa di morte, Pt. gen., Napoli, 1977; A. BURDESE, voce "Successione - 2) Successione a causa di morte", in Enc. giur. Trecc., vol. XXX, Roma, 1993, pp. 1-l3.

In tal senso, cfr. R. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, in Ann. Messina, VIII, 1934, 119 ss.; M. STOLFI, Concetto dell'erede, cit., c. 165; R. NICOLÒ, voce "Erede (dir. priv.). III - Diritto privato", cit., p. 196; U. NATOLI, L'amministrazione dei beni ereditari, II ed., Milano, 1968, p. 91.

In particolare, la dialettica fra l'hereres e l'hereditas, e nell'ambito dell'hereditas fra l'ipsum ius successionis e il complesso dei beni ereditari, emerge costantemente nel diritto romano. Nel ius civile, che è la tipica e logica strutturazione del diritto romano, la ura dell'erede dominava il dialogo fra posizioni diverse; l'istituzione di erede era essenziale al testamento, e l'istituzione si faceva in forma solenne come nomina dell'heres; e tipico erede ab intestato era l'heres suus (cioè il lio in potestà che diventava sui iuris alla morte del pater); ma già nelle XII Tavole all'heredem esse dell'heres suus e dell'erede testamentario si opponeva (in mancanza di quelli) il familiam habere, cioè l'acquisto del patrimonio da parte dell'agnato prossimo e dei gentili; e la fusione del familiam hahere coll'heredem esse nello sviluppo dell'eredità intestata e testamentaria accentuava la sintesi dei due poli. La successione del diritto pretorio si incentrava nella bonorum possessio, in rapporto al mezzo pretorio che vi era strumentale; essa puntava cioè direttamente sull'elemento oggettivo del patrimonio ereditario; ma questo a sua volta si rifletteva sulla ura del bonorum possessor, proiettandovi, attraverso rimedi pretori, la conurazione dell'erede. Cfr. G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., pp. 42-43. Si veda al riguardo anche l'approfondimento sul significato delle espressioni "successio in universum ius" e "per universitatem" contenuto in D. BARBERO, Le universalità patrimoniali, Milano, 1936, p. 255 ss..

Questa è l'opinione di A. CICU, Successioni per causa di morte, Pt. Gen., in Tratt. di dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, vol. II, Milano, 1961, p. 11 ss..; L. MENGONI, L., L'istituzione di erede "ex re certa" secondo l'art. 588, 2° comma c.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1948, p. 739 ss..

Per tale orientamento si vedano SCHLESINGER P., Successioni (diritto civile): Parte generale, cit., p. 751; G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p. 29 ss.; L. FERRI, Successioni in generale, in Comm. al cod. civ. Scialoja-Branca, Artt. 456-511, II ed., Bologna-Roma, 1980, p. 17 ss..

In base a Cass., 3 novembre 1962, n. 3081, in Giur. it., 1962, I, 1, c. 1473, "per distinguere institutio heredis e legato occorre fare riferimento al concetto della universalità dei beni e della quota di essi". In senso conforme anche Cass., 10 novembre 1977, n. 4865, in Vita not., 1977, p. 669; Cass., 24 marzo 1981, n. 1717, in Foro it. Mass., 1981, c. 771.

Secondo Cass., 19 aprile 1979, n. 2211, in Foro it. Mass., 1979, c. 462: "la petitio hereditatis si differenzia dalla rei vindicatio anche quando abbia per oggetto beni determinati che si assumono appartenenti all'eredità, perché si fonda pur sempre sulla allegazione di uno status".

Cass., 6 giugno 1974, n. 1979, in Giur. it, 1974, I, 1, c. 1452, afferma: "l'azione di petizione dell'eredità presuppone la contestazione della qualità di erede e tende al riconoscimento di tale qualità".

Così è la definizione di L. GARDANI CONTURSI LISI, Le successioni (disposizioni generali), in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino, 1981, p. 105.

Secondo Cass., 14 marzo 1974, n. 714, in Giur. it., 1975, I, 1, c. 1153, "nel nostro diritto successorio il titolo di erede non è necessariamente collegato con l'acquisto dei beni, pertanto l'istituzione è valida anche quando nessuna attività si riscontri in concreto nella successione".

Si veda, ad esempio, Cass., 13 maggio 1969, n. 628, in Foro it., 1969, 1, c. 2568, ricordata da L. GARDANI CONTURSI LISI, Le successioni (disposizioni generali), cit., p. 111.

Premesso che detto profilo può essere in questa sede solo accennato, giacché, in buona sostanza, attiene alla più ampia tematica del rapporto tra vocazione legittima e testamentaria, la questione è inerente alla posizione del legittimario rispetto alla fattispecie successoria e si pone in concreto con riferimento alla delazione testamentaria, poiché in assenza di testamento il legittimario risulterà chiamato alla successione come erede legittimo. Specificatamente, il problema riguarda la preterizione del soggetto ad opera del testatore essendo in discussione se e quando, il legittimario assuma la qualità ereditaria. Merito della più recente riflessione giurisprudenziale è stato proprio quello di aver affermato, in linea di principio, la preminenza del ruolo della volontà testamentaria a titolo di vocazione, preminenza che conduce logicamente ad indicare il legittimario pretermesso quale soggetto che, in primo luogo, acquista la qualità ereditaria solo dopo l'esperimento dell'azione di riduzione (Cass., 12 marzo 1975, n. 926, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 1011); che, in secondo luogo, non partecipa dunque alla comunione ereditaria in quanto non chiamato all'eredità (Cass., 26 gennaio 1970, n. 160, in Foro it., 1970, I, c. 1128); che riveste quindi, infine, la qualità di terzo quando agisca in simulazione contro un atto posto in essere dal de cuius (Cass., 5 gennaio 1980, n. 66, in Foro it., 1980, I, c. 2241).

Cfr. Cass., 5 ottobre 1974, n. 2621, in Giur it., 1975, I, 1, c. 1526.

In tal senso, tra gli altri, G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p. 89; C. M. BIANCA., Diritto civile, II, Milano, 1981, p. 441.

Per tutti si veda MESSINEO F., L'eredità e il suo carattere di "universum ius", in Riv. dir. civ., 1941, p. 352 ss..

Cfr. R. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, cit., p. 123; U. RADAELLI, L'eredità giacente, Milano, 1948, p. 45 ss.; G. STOLFI, Sul lascito dell'usufrutto universale, in Foro pad., 1949, III, p. 130 ss..

Si veda, in proposito, R. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, cit., p. 109 ss..

Per esse si vedano C. M. BIANCA, Diritto civile, cit., p. 424; G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p.

Cfr. L. FERRI, Successioni in generale, cit., p. 20; P. SCHLESINGER, Successioni (diritto civile): Parte generale, cit., p. 751.

Così U. CARNEVALI, voce "Successione - 1) Profili generali", cit., p. 3.

Cfr. A. CICU, Successioni per causa di morte, Pt. gen., in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1961, p. 21; L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, Napoli, 1977, p. 123.

In tal senso G. STOLFI, Concetto dell'erede, cit., p. 166.

Per tali conclusioni, cfr. G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p. U. CARNEVALI, voce "Successione - 1) Profili generali", cit., p. 3.

Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 457, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 422.

In proposito, per tutti, si veda A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p.

Cfr. R. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, cit., 119 ss.; M. STOLFI, Concetto dell'erede, cit., c. 165; R. NICOLÒ, voce "Erede (dir. priv.). III - Diritto privato", cit., p. 196; U. NATOLI, L'amministrazione dei beni ereditari, cit., p. 91.

Così MESSINEO F., L'eredità e il suo carattere di "universum ius", cit., pp. 358-359.

Cfr., tra le tante, Cass., 8 luglio 1964, n. 1800, in Foro it., 1964, I, c. 1357; Cass, 20 giugno 1967, n. 1458, in Foro it. Mass., 1967; Cass., 26 ottobre 1972, n. 3282, in Foro it. Mass., 1972; Cass., 17 dicembre 1980, n. 6525, in Foro it. Mass., 1980.

In tal senso Cass., 18 giugno 1963, n. 1637, in Foro it., 1963, I, c. 2168.

Si vedano, in proposito, SCHLESINGER P., Successioni (diritto civile): Parte generale, cit., p. 751; G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p. 44 ss.; L. FERRI, Successioni in generale, cit., p. 26.

Cfr. Cass., 5 novembre 1987, n. 8123, in Rep. foro it., 1987, voce "Successione ereditaria", c. 3293, n. 79.

Così Cass., 24 ottobre 1995, n. 11046, in Giust. civ., 1996, I, p. 388.

Cfr. Cass., 27 febbraio 1995, n. 2276, in Vita not., 1996, p. 256, nell'ambito della quale si legge: "La facoltà del creditore di avvalersi del titolo esecutivo nei confronti dell'erede, ai sensi dell'art. 477 c.p.c., e, quindi, di notificargli il titolo medesimo ed il precetto, postula, ove si tratti di chiamato all'eredità non in possesso dei beni ereditari, che lo stesso abbia in precedenza accettato l'eredità, espressamente o tacitamente, con onere della relativa prova, in caso di opposizione dell'intimato al precetto, a carico di detto creditore, mentre deve negarsi rilevanza, al fine indicato, ad un'accettazione dell'eredità sopravvenuta nel corso del giudizio d'opposizione, posto che la legittimità del precetto va riscontrata con riferimento all'epoca della sua intimazione, a prescindere da vicende successive, ancorché idonee a conferire retroattivamente efficacia al titolo esecutivo".

Su tale principio si veda per tutti G. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, pp. 413-415.

Cfr. L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, cit., p. 142.

Cfr. Cass., 8 luglio 1978, n. 3416, in Foro it., 1979, I, c. 128, ove è specificato che: "Se una disposizione di ultima volontà non ha contenuto patrimoniale deve la successione devolversi secondo le norme di legge previste per le successioni legittime".

Così Cass., 7 febbraio 1987, n. 4897, in Arch. Giur., 1987, p. 1212.

Cfr. Cass., 28 febbraio 1972, n. 595, in Giur. it., 1973, I, 1, c. 954. Sul punto si veda anche L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1993, p. 23.

Per tale ipotesi cfr. A. FINOCCHIARO - M. FINOCCHIARO, Libro II - Delle successioni, tomo I (artt. 456-632), in Nuova rassegna di giurisprudenza sul codice civile, a cura di C. Ruperto e V. Sgroi, Milano, 1994, p. 489.

Cfr. L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, cit., p. 147.

Su tali aspetti si vedano P. PAJARDI, Riflessioni e appunti sul sistema dei modi di accettazione dell'eredità, in Riv. dir. civ., 1959, I, 79 ss.; L. FERRI, Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960, p. 97 ss.; G. AZZARITI, L 'accettazione dell'eredità, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. V, Torino, 1982, p. 111 ss..

Per ulteriori specificazioni circa la tutela riconosciuta al chiamato all'eredità, per tutti si veda A. TALLARIDA, Prova in giudizio della qualità di erede, in Foro it., 1967, I, c. 1500 ss..

In tal senso soprattutto D. BARBERO, Le universalità patrimoniali, cit., p. 221; U. NATOLI, L'amministrazione dei beni ereditari, cit., p. 119; L. FERRI, Successioni in generale, cit., p. 29 ss..

Si considerino, in particolare L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, cit., p. 150; G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p. 47.

Così G. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 422.

Cfr. C. VOCINO, Contributo alla teoria del beneficio d'inventario, Milano, 1942, pp. 59-61.

Cfr. NATOLI, L'amministrazione dei beni ereditari, cit., p. 124.

In tal senso U. RADAELLI, L'eredità giacente, Milano, 1948, p. 44 ss..

Così L. FERRI, Successioni in generale, cit., p. 32.

I compiti e i poteri del curatore sono regolati da norme contenute nel codice di procedura civile, agli artt. art. 781 ss. c.p.c..

In realtà si tende dalla dottrina a distinguere tra le vari ipotesi ed a ritenere che i poteri siano più limitati (ad esempio per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione) in caso di mancato adempimento all'obbligo di prestare garanzia qualora la disposizione testamentaria sia sottoposta a condizione risolutiva e in caso di legato sottoposto a condizione sospensiva e pieni, invece, nel caso di erede istituito sotto condizione sospensive e di chiamato a succedere non ancora nato (concepito o non concepito). Per tali specificazioni, cfr. U. NATOLI, L'amministrazione dei beni ereditari, cit., p. 145. Secondo tale Autore, un amministratore all'eredità può essere nominato in caso di urgenza o di necessità e ad iniziativa del prefetto nell'ipotesi di disposizione mortis causa in favore di enti non (ancora) riconosciuti (art. 600 e 3 disp. att. c.c.). In proposito, si veda anche G. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 423.

Per una specificazione del significato che il termine "titolo" riveste nelle locuzioni qui riportate si veda: L. BIGLIAZZI GERI - G. BUSNELLI - U. NATOLI, Diritto civile, I, Norme. Soggetti. Rapporti giuridici, Torino, 1986, p. 364, secondo i quali "titolo, in quella mortis causa, sta per qualità di erede. É infatti l'assunzione di tale qualità tramite l'accettazione che determina il subentrare del chiamato in locum et ius defuncti; mentre la legge (sulla base del verificarsi di certi fatti: morte di un soggetto, qualità rivestita da talune persone, i c.d. successibili ex lege) ed il testamento rappresentano la fonte del diritto di accettare. Quanto invece alla successione a titolo particolare, sia esso mortis causa (legato) o inter vivos, sono la legge o il testamento, da un lato, il contratto od il negozio unilaterale dall'altro, a costituire il titolo - id est, la fonte - dell'acquisto".

In proposito si vedano M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino, 1981, p. 63; P. RESCIGNO, La successione a titolo universale e particolare, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 9.

Col termine "autore" si vuole indicare l'incremento che il fenomeno provoca nella sfera patrimoniale del successore o avente causa. Così F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, IX ed., Milano, 1962, p. 322.

In proposito si veda C. GANCI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, Milano, 1952, p. 61.

Cfr. P. CENDON (a cura di), Art. 588, in Codice civile annotato, cit., p. 439.

Per le ragioni storiche e di diritto positivo che hanno contribuito a generare difficoltà nel cogliere il proprium dell'istituto del legato, nonchè per una definizione in negativo e residuale di esso, ricavato a contrario dalla nozione di erede, si rinvia a G. PUGLIATTI, Dell'istituzione di erede e dei legati, in Commentario del codice civile, a cura di D'Amelio e Finzi, Firenze, 1941, p. 491 ss.. Una ricostruzione a carattere positivo dell'istituto è invece proposta da R. GIORDANO-MONDELLO, voce "Legato", Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1973. p. 722 ss..

Cfr. M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 66.

Secondo parte della dottrina l'istituzione di erede o di legato dovrebbero costituire ed esaurire il contenuto c.d. tipico del testamento. In tal senso G. PUGLIATTI, Dell'istituzione di erede e dei legati, cit., p. 514; C. GANCI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 91. Contra, tra gli altri, soprattutto A. M. MARCONE, In materia di disposizioni a titolo universale e a titolo particolare, nota a App. Torino, 26 maggio 1983, in Giur. it., 1985, I, 2, c. 45 ss., che ha una visione meno rigida relativamente alle disposizioni che tipicamente formano oggetto della volontà testamentaria.

Cfr. P. RESCIGNO, La successione a titolo universale e particolare, cit., p. 10.

Cfr. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 44.

Questi principi sono costantemente ribaditi in molteplici decisioni giurisprudenziali. Cfr., per tutte, Cass., 25 aprile 1960, n. 924, in Giust. civ. Mass., 1960, c. 352; Cass., 28 luglio 1969, n. 2850, in Giust. civ. Mass., 1969, c. 1471; Cass., 5 luglio 1968, n. 2287, in Giust. civ. Mass., 1969, c. 1187; Cass., 19 dicembre 1971, n. 3342, in Giust. civ. Mass., 1976; Cass., 24 marzo 1981, n. 1717, in Foro it. Rep., 1981, voce "Successione ereditaria", n. 58; Cass., 28 novembre 1981, n. 6343, in Foro it. Rep., 1981, voce "Successione ereditaria", n. 84. In particolare, rispetto alla mancanza di un valore determinante od esaustivo delle espressioni usate dal testatore per qualificare l'istituito e sul fatto che di esse si può tenere conto come di semplici elementi che, insieme con altri concorrono a confermare il risultato delle indagini condotte sull'obbiettiva consistenza della disposizione cfr.: Cass., 25 luglio 1955, in Giust. civ. Rep., 1955, voce "Successione testamentaria", n. 106; Cass., 3 novembre 1962, n. 3081, in Giust. civ., 1962, I, c. 2055; Cass., 2 aprile 1964, n. 715, Giust. civ., 1964, I, c. 69, secondo cui: "la qualifica di erede espressa nella scheda testamentaria non è da sola sufficiente - ad es. "nomino erede X" - ad attribuire al lascito carattere di disposizione a titolo universale; tuttavia nulla vieta che il giudice tenga conto di quella designazione alla stregua di un dato che, insieme ad altre circostanze, serve a rafforzare la sua convinzione in ordine alla volontà del testatore". In senso conforme Cass., 26 febbraio 1970, n. 469, in Giust. civ. Rep., 1970, voce "Successione testamentaria", n. 36; Cass., 18 novembre 1981, n. 6110, in Giust. civ. Mass., 1981, c. 2177; Cass., 16 novembre 1985, n. 2625, in Giust. civ. Mass., 1985, n. 23.

In argomento diffusamente L. MENGONI, Successioni per causa di morte, Milano, 1950, p. 130 ss.; P. SCHLESINGER, Successioni (diritto civile): Parte generale, cit., p. 755 ss. Si veda anche G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., pp. 43-44, il quale specifica che tali ipotesi riguardano innanzitutto i legati obbligatori: legato di cosa dell'onerato odi un terzo (art. 651 c.c.), legato di cosa genericamente determinata (art. 653 c.c.), legato di cosa non esistente nell'asse (art. 654 c.c.), legato di alimenti (art. 660 c.c.), legato di rendita vitalizia (art. 1872 c.c.), ecc.. In tutti questi casi non ricorre il concetto tecnico di successione perché il diritto non è collegato da un nesso di derivazione immediata con la posizione giuridica del disponente. Ma anche fra i legati ad efficacia immediatamente dispositiva si possono ritrovare ipotesi di legato che non comportano successione: si pensi al legato di liberazione dal debito (art. 658 c.c.), in cui appare evidente l'insussistenza di una derivazione mortis causa di un diritto che faceva capo al de cuius

Cfr. A. M. MARCONE, In materia di disposizioni a titolo universale e a titolo particolare, cit., p. 51.

In particolare, per la giurisprudenza, si considerino Cass., 17 maggio 1981, n. 423, cit.; Cass., 6 maggio 1968, n. 1383, in Giust. civ. Rep., 1968, voce "Successione testamentaria", n. 52. In dottrina, per tutti si veda G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 927 ss..

Si vedano, in proposito, Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, in Giust. civ. Rep., 1968, voce "Successione testamentaria", n. 51, e Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, in Giust. civ. Mass., 1967, c. 768, secondo cui: "Quando più eredi siano stati istituiti con uno stesso testamento nell'universalità di beni, senza determinazione di quote, si presume che il testatore abbia voluto attribuire parti uguali a tutti i chiamati". Che l'esistenza di un attivo nell'asse non rilevi come necessario presupposto per l'istituzione di erede, la quale può infatti sussistere anche in caso di eredità c.d. passiva è espressamente affermato da Cass., 14 marzo 1974, n. 714, in Foro it. Rep., 1974, voce "Successione ereditaria", n. 19.  

Cfr. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 45.

Su tale aspetto si veda, per tutti, A. M. MARCONE, In materia di disposizioni a titolo universle e a titolo particolare, cit., p. 55.

Rispettivamente, per la trattazione specifica della materia in oggetto L. GARDANI CONTURSI LISI, Le successioni (disposizioni generali), cit., p. 117 ss.; C. M. BIANCA, Le successioni testamentane (artt. 624-712), Torino, 1983, p. 88 ss..

Cfr. P. SCHLESINGER, Successioni, cit., p. 754, cui si rinvia anche per un quadro riassuntivo dei diritti "trasmissibili e non".

Sul punto, per tutti, si vedano R. MOSCHELLA, Autonomia e universalità della petizione ereditaria, in Riv. dir. civ., 1970, 1, p. 309 ss.; A. PROTO PISANI, Petizione di eredità e mero accertamento della qualità di erede, in Foro it., 1961, 1, c. 1909 ss..

Per la trattazione specifica, tra i molti, si rinvia a C. GANGI, Istituzione di erede e di legato, in Riv. dir. civ., 1929, p. 13 ss..

In particolare, cfr. L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, cit., p. 157; G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p. 60.

Cfr. G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, cit., p. 71; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 45.

Cfr. M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 64; P. RESCIGNO, La successione a titolo universale e particolare, cit., p. 11.

In tal senso G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, cit., p. 509. Per il riferimento normativo cfr. P. CENDON, Art. 588, in Codice civile annotato, cit., p. 317; G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 588, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 499.

Così G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni - Parte generale, cit., p. 44.

La dottrina su ciò è concorde. Per tutti, si veda G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 43.

Per l'approccio dottrinale all' institutio ex re certa si vedano soprattutto F. ANSALONE, Istituzione di erede - Istituzione ex re certa, nota a Cass., 6 novembre 1986, n. 6516, in Nuova giur. civ., 1987, I, p. 228 ss.; L. MENGONI, L'istituzione di erede "ex re certa" secondo l'art. 588, 2° comma c.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1948, p. 739 ss.; F. PRANDI, Interpretazione del testamento, rilevanza dei motivi e "istitutio ex re certa", nota a Cass., 26 ottobre 1972, n. 3282, in Foro pad., 1974, n. 1-2, p. 126 ss. Per gli orientamenti espressi a livello giurisprudenziale si vedano, tra le tante, le singole sentenze annotate dagli Autori appena citati.

Cfr. M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., pp. 67-68; E. CAPOBIANCO, Art. 588, in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Perlingieri, vol. II, Delle successioni - Libro II - Artt. 456-809, Napoli, 1991, p. 232.

Cfr. C. GIANNATTASIO, Delle successioni - Successioni testamentarie, in Commentario del codice civile, Torino, 1968, p. 20.

In proposito si vedano soprattutto L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 112 ss.; F. PRANDI, Interpretazione del testamento, rilevanza dei motivi e "istitutio ex re certa", cit., p. 126 ss.; F. RUGGIERO, Interpretazione delle disposizioni testamentarie: natura del criterio previsto dal 2° comma dell'art. 588 c.c., in Giust. civ., 1973, IV, p. 327 ss.; G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 927 ss..

E' stato esplicitamente sottolineato che "l'attribuzione di beni specificamente indicati non esclude che si sia disposto relativamente a tutto il patrimonio relitto e soprattutto che si sia inteso attribuire quei tali beni come quota, in modo da comprendere proporzionalmente tanto le attività che le passività costituenti il patrimonio del testatore". Così L. MENGONI, L'istituzione di erede "ex re certa" secondo l'art. 588, 2° comma c.c., cit., p. 740. In tal senso cfr. anche C. GIANNATTASIO, Delle successioni - Successioni testamentarie, cit., p. 21. Conforme la giurisprudenza e in particolare Cass., 5 febbraio 1969, n. 365, in Rep. foro it., 1969, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2709, n. 101; Cass., 7 aprile 1971, n. 1029, in Rep. foro it., 1971, voce "Successione ereditaria", c. 2954, n. 73.

Così R. SALIS, In tenta di interpretazione degli artt. 760 e 827 del codice civile, in Riv. dir. civ., 1931, p. 128; ID., Lasciti dell'universalità dei mobili ed immobili, in Riv. dir. civ., 1933, p. 252. Sul criterio distintivo della volontà cfr. anche Cass., 5 maggio 1940 in Mass. Foro it., 1940, p. 507; Cass., 20 aprile 1942, in Mass. Foro it., 1942, p. 263.

Cfr. G. PUGLIATTI, Dell'istituzione di erede e dei legati, cit., p. 489 ss.. Ora in merito F. AMADIO, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote. - I. Heredis institutio ex certa re. - II. La divisione inter coheredes sine partibus scriptos, in Riv. dir. civ., 1986, p.243, ove, a suo giudizio, il rapporto tra la fattispecie di cui agli artt. 588 cpv. e 734 c.c. va precisato nel senso di una possibile coincidenza, non escludente peraltro la conurabilità sia di una divisio inter coheredes ex partibus scriptos, sia una istituzione parziale ex re certa, non implicante divisione testamentaria in senso tecnico.

Così L. COVIELLO, L'istituzione di erede e il lascito di beni determinati, in Giur. it., 1931, I, 1, c. 1157. Cfr. ancora sull'argomento A. CICU, La nozione di erede nel diritto vigente, in Studi per Zanzucchi, Milano, 1927, p. 159 ss.; F. SANTORO-PASSARELLI, Osservazioni alla sentenza 23 marzo 1931, in Foro it., 1931, 1, c. 953.

Circa i vari e contrastanti orientamenti che hanno caratterizzato il fiorente dibattito precedente il vigente codice civile, si veda infra, par. II.2..

Cfr. C. GIANNATTASIO, Delle successioni - Successioni testamentarie, cit., p. 23.

Così G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, cit., p. 513.

Cfr. Cass., 18 giugno 1963, n. 1637, in Mass. Giust. civ., 1963, c. 773; Cass., 6 maggio, 1968, n. 1353, in Giust. civ., 1968, I, 1, c. 1869; Cass., 25 luglio 1969, n. 2851, in Mass. Giust. civ., 1969, c. 1471; Cass., 26 novembre 1970, n. 469, in Rep. Foro it., 1970, voce "Testamento", n. 15. Cfr. pure F. DE MARTINO, Sulla istituzione di erede nel diritto civile moderno, in Giur. compl. dir. civ., 1942, VII, p. 47 ss.; D. BARBERO, Il sistema del diritto privato, Torino, 1988, p. 1151 ss.; L. MENGONI, L'istituzione di erede ex re certa, cit., p. 740 ss.; R. SALIS, Sull'istituzione di erede in una cosa determinata, in Dir. e giur., 1946, p. 81 ss.; M. PANSINI, Istituzione di erede e legato, in Il nuovo dir., 1943, p. 123 ss.; E. VISTO, Differenza tra istituzione di erede o di legatario, in Il nuovo dir., 1941, pp. 88 e 275. Cass., 7 aprile 1971, n. 1029, in Mass. Foro it., 1971, c. 313, precisa che può aversi istituzione ex re certa anche se questa non costituisca una quota rilevante del patrimonio dei testatore. E per App. Torino, 26 maggio 1983, in Giur. it., 1985, I, 2, c. 44, la institutio ex re certa deve considerarsi istituzione di erede quando il de cuius ha considerato la res certa in rapporto la totalità del suo patrimonio, come quota di esso, da determinarsi in concreto attraverso il rapporto proporzionale tra il valore delle res certae attribuite ed il valore dell'intero asse.

Cfr. sostanzialmente in tal senso G. PUGLIATTI, Dell'istituzione di erede e dei legati, cit., p. 491 ss..

Cfr., per tutti, G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, cit., p. 514.

Si veda, in proposito, G. PUGLIATTI, Dell'istituzione di erede e dei legati, cit., p. 494.

In particolare, "il giudice non deve fermarsi al senso letterale delle parole, non sempre esatte ed univoche, ma - quali che siano le espressioni usate - deve indagare la volontà reale del disponente; esaminando tutto il contenuto dell'atto e il concetto che presiede e domina l'intero testamento, deve interpretare le espressioni contenute nell'atto tenendo conto del grado di cultura del testatore, interpretare le varie clausole testamentarie le une a mezzo delle altre, decidere nel dubbio per la validità delle disposizioni, e via dicendo". Così, esplicitamente, G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, cit., pp. 466-467. In senso conforme, tra gli altri, anche P. RESCIGNO, L'interpretazione del testamento, Napoli, 1952, p. 101, il quale aggiunge che, nell'opera di delimitazione del campo di esplicazione dell'autonomia privata, l'interprete del testamento "deve tener conto degli interessi perseguiti dall'ordinamento, conciliando con essi il risultato dell'interpretazione o sacrificando la volontà, accertata a conclusione del procedimento, al loro rispetto".

Cfr. G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 932.

Per Cass., 8 maggio 1971, n. 1311, in Mass. Giust. civ., 1971, c. 711, è riservata esclusivamente al giudice di merito l'interpretazione della volontà del testatore e lo stabilire, in particolare, se una disposizione testamentaria, avente per oggetto beni determinati, sia o meno a titolo universale. L'interpretazione complessiva delle clausole testamentarie e la determinazione della volontà del testatore, che rientrano nell'indagine di fatto riservata al giudice di merito, sono però sindacabili in sede di legittimità, ove non siano sorrette da un'adeguata motivazione, di guisa che non sia possibile identificare il processo logico che ha indotto il giudice di merito al convincimento prospettato e, soprattutto, controllare l'assenza di errori logici e giuridici e l'applicazione esatta dei principi ermeneutici fondamentali per l'interpretazione della volontà negoziale. Così Cass., 12 maggio 1971, n. 1368, in Mass. Giust. civ., 1971, c. 743.

Si veda G. PUGLIATTI, Dell'istituzione di erede e dei legati, cit., p. 494. In senso conforme anche G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, cit., p. 515.

Sulla complessa origine storica dell'attuale art. 588, 1° e 2° comma, cfr. in particolare C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 2 ss.; L. MENGONI, La divisione ereditaria, Milano, 1950, p. 20 ss.; C. GIANNATTASIO, Delle successioni - Successioni testamentarie, cit., p. 20 ss.; M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 66 ss..

Cfr. Cass., 3 ottobre 1925, in Giur. it., 1925, I, 1, c. 1139, e in Mon. trib., 1925, p. 841; Cass., 14 luglio 1926, in Giur. it., 1929, 1, 1, c. 386. In dottrina, si veda soprattutto A. CICU, La nozione di erede nel diritto vigente e nella riforma del codice, cit., p. 159. In senso decisamente critico: L. MENGONI, L'istituzione di erede "ex re certa" secondo l'art. 588, 2° co. c.c., cit., p. 739 ss.. In prospettiva diversa, cfr. R. SALIS, L'istituzione di erede in cosa determinata, in Dir. e giur., 1946, p. 81 ss..

Una panoramica completa degli orientamenti in proposito espressi si rintraccia in C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 5 ss., e in M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 66 ss..

Per tali legislazioni, si rinvia a L. MENGONI, La divisione ereditaria, cit., p. 20 ss..

Per essa L. BONFANTE, Istituzione nella universalità di beni mobili o immobili, in Foro it., 1897, I, c. 525, raccolta poi in Scritti giuridici vari, I, p. 509 ss..

Cfr. Cass. Roma, 14 giugno 1917, in Giur. it., 1917, I, 1, c. 505; Cass. Roma, 9 novembre 1922, in Giur. it., 1922, I, 1, c. 959.

Cfr. Cass., Sez. Un., 3 ottobre 1925, in Giur. it., 1925, I, 1, c. 1159.

G. D'AMELIO, Sull'articolo 760 codice civile, in Mon. Trib., 1925, p. 541 ss.. In tal senso anche Cass., 14 luglio 1920, in Corte Cass., 1927, p. 6, e Cass., 9 gennaio 1929, in Giur. it., 1929, I, 1, c. 556.

Per essa Cass., 11 marzo 1931, in Giur it., 1931, I, 1, c. 1158.

Nel senso indicato da L. BONFANTE, Istituzione nella universalità di beni mobili o immobili, cit., c. 528 ss., scriveva C. GANGI, Istituzione di erede o di legato, cit., p. 1 ss.. In senso opposto si vedano invece A. CICU, La nozione di erede nel diritto vigente e nella riforma del codice, cit., p. 159 ss., e R. SALIS, In tema di interpretazione degli artt. 760 e 827 codice civile, in Riv. dir. civ., 1931, p. 129 ss..

Tra i suoi vari scritti, si veda in particolare L. COVIELLO, L'istituzione di erede e il lascito di beni determinati, in Giur. it., I, 1, c. 1154 ss..

Ibidem, c. 1158.

Per un approccio critico alle tesi di Coviello, cfr. C. GIANNATTASIO, Delle successioni - Successioni testamentarie, cit., p. 22.

In senso contrario solo una parte minoritaria della dottrina e per essa, in particolare, R. SALIS, L'istituzione di erede in cosa determinata, cit., p. 89, e A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p. 27, nt. 36. In giurisprudenza, cfr. Cass., 3 settembre 1962, n. 3081, in Giust. civ., 1962, I, c. 2055; Cass., 2 aprile 1964, n. 715, in Giust. civ. Rep., 1964, voce "Successione testamentaria", n. 69.

Per tutti specialmente G. PUGLIATTI, Dell'istituzione di erede e di legato, cit., p. 43; M. STOLFI, Il negozio giuridico è atto di volontà, in Giur. it., 1948, IV, c. 45; L. MENGONI, La divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 16; C. GIANNATTASIO, Delle successioni - Successioni testamentarie, cit., p. 22.

Argomentando da Cass., 23 maggio 1963, n. 737, in Giur. it., 1964, I, 1, c. 189, ove si attribuisce al 2° co. dell'art. 588 un valore "confermativo" del principio di cui al 1° comma. In dottrina si veda soprattutto L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 16, in cui l'Autore specifica che "l'art. 588 2° comma rinuncia ai requisiti concettuali della successione mortis causa, ammettendo una successione a titolo universale in beni determinati e modifica il principio che presiede all'interpretazione delle disposizioni di ultima volontà di cui al 1° comma, ammettendo un'indagine soggettiva diretta ad appurare se il testatore, pur avendo attribuito una certa res, ha inteso assegnarla in funzione di un rapporto col tutto piuttosto che in funzione di una separazione col tutto".

In proposito, per tutti L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 16.

Si vedano specialmente in questa direzione Cass., 25 maggio 1957, n. 1936, in Foro it. Mass., 1957, c. 385, e Cass., 3 novembre 1962, n. 3081, in Giust. civ., 1962, I, p. 2055. In senso conforme anche le decisioni giurisprudenziali più attuali e, tra le tante, Cass., 5 novembre 1987, n. 8123, in Foro it. Rep., 1987, voce "Successione ereditaria", n. 24, secondo la quale: "al fine di distinguere fra disposizioni a titolo particolare - che indipendentemente dall'espressione o dalla denominazione usata dal testatore sono attributive della qualità di erede ove comprendano l'universalità di beni o una quota di essi e attribuiscono la sola qualità di legato in quanto assegnano beni singolarmente determinati - il giudice deve compiere una duplice indagine l'una di carattere oggettivo circa il contenuto dell'atto e l'altra di carattere soggettivo sull'intenzione del testatore, indagine, quest'ultima che deve tendere ad accertare il processo formativo della volontà del disponente anteriormente alla sua manifestazione"; Cass., 16 novembre 1986, n. 5625, in Foro it. Rep., 1987, voce "Successione ereditaria", n. 21: "anche la institutio ex re certa può essere istituzione di erede se il de cuius abbia considerato la cosa in rapporto alla totalità del suo patrimonio come quota di esso: tuttavia in tal caso la specifica indicazione della cosa postula un'indagine sulla volontà del testatore più completa e penetrante di quella che occorre quando il testatore dispone in relazione ad una determinata quantità di beni".

Cfr. M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p

Circa gli effetti conseguenti all'attribuzione della qualità di erede o di legatario si rinvia a quanto già esplicitato infra, par. I.4..

Cfr. FINOCCHIARO A. - FINOCCHIARO M., Libro II - Delle successioni, cit., p. 330 ss..

Cfr. Cass., 25 novembre 1963, n. 3025, in Giust. civ., 1964, I, p. 643.

Si vedano, in proposito, Cass., 19 novembre 1971, n. 3342, in Giur. it., 1973, I, c. 676; Cass., 26 ottobre 1972, n. 3282, in Foro pad., 1974, I, p. 126; Cass., 27 ottobre 1978, n. 5075, in Rep. foro it., 1978, voce "Successione ereditaria", c. 2560, n. 33; Cass., 15 luglio 1980, n. 4582, in Rep. foro it., 1980, voce "Successione ereditaria", c. 2628, n. 72 Cass., 20 maggio 1981, n. 3304, in Rep. foro it., 1981, voce "Successione ereditaria", c. 2759, n. 57

Cfr. Cass., 15 luglio 1980, n. 4582, cit..

Cfr. Cass., 15 novembre 1982, n. 6098, in Rep. foro it., 1983, voce "Successione ereditaria", c. 3098, n. 51.

Così Cass., 7 febbraio 1987, n. 1266, in Riv. not., 1987, p. 589.

In tal senso Cass., 15 novembre 1982, n. 6098, cit..

Cfr. Cass., 6 novembre 1986, n. 6516, in Nuova giur. civ., 1987, I, p. 228 ss., con nota di F. ANSALONE, Istituzione di erede - Istituzione ex re certa.

Si veda App. Torino, 26 maggio 1983, in Giur. it., 1985, I, 2, c. 45 ss., con nota di A. M. MARCONE, In materia di disposizioni a titolo universale e a titolo particolare. Nella specie, la Corte ha ritenuto conurare legati e non istituzione di erede la disposizione con cui la testatrice aveva lasciato ai suoi due fratelli due cespiti - mobiliare l'uno ed immobiliare l'altro - formanti la quasi totalità del suo patrimonio, prevedendo un sorteggio per l'assegnazione all'uno o all'altro dei fratelli di ciascuno dei due suddetti cespiti.

Così App. Trento, 31 gennaio 1998, in Nuovo dir., 1998, p. 481 ss., con nota di V. SANTARSIERE, Istituzione di erede ex re certa con immobili parzialmente altrui.

Cfr. Cass., 7 aprile 1971, n. 1029, in Rep. foro it., 1971, voce "Successione ereditaria", c. 2954, n. 73.

In tal senso Trib. Napoli, 28 luglio 1970, in Giust. civ., 1971, I, p. 1322.

Cfr. Cass., 19 novembre 1971, n. 3342, in Rep. foro it., 1972, voce "Testamento", c. 2824, n. 60.

Cfr. Cass., 23 marzo 1963, n. 737, in Giur. it., 1964, I, 1, c. 185, con nota di A. TRABUCCHI.

Così Cass., 7 febbraio 1973, n. 732, cit..

Cfr. Cass., 17 febbraio 1951, n. 403, in Giur. it., 1951, I, 1, c. 863; Cass., 27 dicembre 1951, n. 2890, in Foro it., 1952, I, c. 1011. Si veda, altresì, Cass., 6 novembre 1986. n. 6516, in Nuova giur. civ., 1987, I, p. 228 ss., con nota di F. ANSALONE, Istituzione di erede - Istituzione ex re certa, che ha ritenuto incensurabile, perché adeguatamente motivata, la pronuncia dei giudici di merito che aveva considerato a titolo universale la disposizione con cui il testatore aveva attribuito ad un soggetto la nuda proprietà di tutti i beni immobili e ad altri la proprietà di tutti i beni mobili.

In tal senso App. Genova, 7 aprile 1948, in Rep. foro it., 1948, voce "Successione", n. 109; App. Venezia, 13 marzo 1953, in Rep. foro it., 1953, voce "Testamento", c. 2685, n. 55. Ma si vedano anche Cass., 20 dicembre 1973, n. 3452, cit., in base alla quale l'istituzione di erede non può desumersi dal fatto stesso che l'oggetto del lascito rappresenta il residuo del patrimonio del testatore, quando ciò di cui il testatore abbia, in precedenza, disposto a favore di altri soggetti non ha una consistenza uniforme ed omogenea, per cui si possa agevolmente stabilire un rapporto di quota tra tali precedenti disposizioni e quanto costituisce oggetto dell'attribuzione testamentaria, nonché Cass., 26 maggio 1989, n. 2559, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 78, secondo cui l'attribuzione di tutti i beni residui, non ulteriormente specificati, dei quali il testatore non abbia già disposto a titolo particolare, costituisce disposizione a titolo universale di una quota del patrimonio ereditario.

Cfr. Cass., 26 luglio 1966, n. 2023, in Foro pad., 1967, 1, p. 1033.

Cfr. App. Venezia, 13 marzo 1953, in Foro it. Rep., 1954, voce "Testamento", n. 55.

Cfr. App. Messina, 19 dicembre 1958, in Giust. civ. Rep., 1956, voce "Successione testamentaria", n. 118.

Così Cass., 10 novembre 1977, n. 4865, cit..

In tal senso Trib. Pavia, 21 maggio 1992, in Giur. merito, 1992, p. 1085 ss., con nota di C. ZHARA BUDA, Aspetti problematici dell'interpretazione del testamento, con la quale si specifica ulteriormente che coesistono successione testamentaria e successione ex lege quando la portata effettiva della volontà testamentaria, pur esaurendo l'intero asse, si traduca esclusivamente in disposizioni a titolo particolare.

Così Cass., 7 novembre 1978, n. 5075, in Foro it. Rep., 1978, voce "Successione ereditaria", n. 33.

Cfr. Cass., 20 maggio 1981, n. 3304, in Rep. foro it., 1981, voce "Successione ereditaria", c. 2759, n. 57. Concorde anche la dottrina e, per essa, soprattutto L. MENGONI, La divisione ereditaria, cit., p. 12, nt. 25.

Così esplicitamente L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 107; C. GIANNATTASIO, Delle successioni - Successioni testamentarie, cit., p. 19; G. GAZZARA, Dell'istituzione di erede ex re certa, in Ann. Fac. Ec. e Comm. Univ. Messina, 1968, p. 116. Ma una tale affermazione è confermata, in modo implicito, anche dalle trattazioni di G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del codice civile, p. 508 ss.; M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 63 ss.; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 46 ss..

Sullo stesso piano viene solitamente ricondotto il caso in cui il testatore abbia disposto di tutti i beni mobili a favore di un soggetto e di tutti gli immobili a favore di altro soggetto. Si veda infra, pp. 74-75, nt. 132.

Cfr. per tutti M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 65 ss..

In tal senso F. RUGGIERO, Interpretazione delle disposizioni testamentarie: natura del criterio previsto dal 2° comma dell'art. 588 c.c., in Giust. civ., 1973, IV, p. 327 ss.. Contra, tra i tanti, G. GAZZARA, Dell'istituzione di erede ex re certa, cit., p. 116.

Cfr. L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 109.

Per un quadro e per un pur sommario tentativo di ridurlo a proporzioni ragionevoli, L. BIGLIAZZI GERI, Il testamento, I, Profilo negoziale dell'atto, Milano, 1976, p. 91 ss.; ID., Il testamento, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. VI, Successioni, tomo II, Torino, 1982, p. 77.

Così F. ZICCARDI, Le norme interpretative speciali, Milano, 1972, p. 43. In senso conforme anche A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p. 27 ss.; L. COVIELLO, Diritto successorio, cit., p. 61 ss..

Sul punto, da ultimo, L. BIGAZZI GERI, L'interpretazione del contratto, in Commentario al codice civile, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, p. 52 ss., cui si rinvia.

Cfr. C. GRASSETTI, L'interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1983, pp. 47 ss. e 223 ss..

Cfr. L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 113.

Cfr. G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954, pp. 169-l70; G. OPPO, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943, pp. 117-l18; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1991, p. 795; C. GANCI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., p. 484.

Soprattutto P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato, Napoli, 1976, p. 324. Per D. BARBERO, Sistema del diritto privato, cit., p. 1287, alcune regole tipiche della materia contrattuale possono, e in certi casi debbono, applicarsi per analogia.

Cfr. G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 927; G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, pp. 146 e 151; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971, p. 425. Che da norme materiali possano estrarsi regole interpretative è pacifico in dottrina. Si veda per tutti C. GRASSETTI, L'interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1938, pp. 3637 e 219.

La norma codicistica testualmente sancisce che "Il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. / Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale". Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 587, in Commentario breve al codice civile, cit., p.

Cfr. C. DE CUPIS, voce "Successione testamentaria", in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, p. 1382.

In particolare, il 2° co. di tale articolo prevede: "Se nella divisione fatta dal testatore non sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti conformemente alla legge, se non risulta una diversa volontà del testatore". Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 734, in Commentario breve al codice civile, cit., p. Per un approccio critico, si veda P. TRIMARCHI, Interpretazione del testamento mediante elementi ad esso estrinseci, in Giur. it., 1956, I, c. 425 ss.

Cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1977, p. 235.

Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 625, in Commentario breve al codice civile, cit., p.

F. ZICCARDI, Le norme interpretative speciali, Milano, 1972, p. 152, nonostante ritenga doversi richiamare analogicamente le norme contrattuali in tema d'interpretazione, si sofferma sulle regole ermeneutiche contenute negli artt. 624, 2° co.; 626; 647, 3° co.; 648; 651; 652; 656, c.c..

Cfr. G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 151; M. ALLARA, Teoria generale del contratto, Torino, 1955, p. 98. Contra F. ZICCARDI, Le norme interpretative speciali, cit., p. 109. La critica, però, più profonda alla tesi che individua una precisa corrispondenza fra il tenore dell'art. 1362 c.c. e quello dell'art. 625 c.c. si ritrova in L. MENGONI, Interpretazione del negozio e teoria del linguaggio (Note sull'art. 625 c.c. ), in Jus, 1988, p. 7 ss

Testualmente: "Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole". Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 1362, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 1328.

In senso conforme C. M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1984, p. 607, per il quale non basta che la controparte riconosca l'errore, dovendo invece positivamente aderire alla volontà colpita da errore; contra , L. MENGONI, Interpretazione del negozio e teoria del linguaggio (Note sull'art. 625 c.c. ), cit., p. 15.

Per tutti, F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., pp. 228-289; C. M. BIANCA, Diritto civile, cit., pp. 394-397; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, cit., pp. 623-624; P. ZATTI, Lineamenti di diritto privato, Padova, 1989, pp. 382-383. In senso critico in ordine all'impostazione della dottrina dominante, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., pp. 986-987.

Cfr. C. M. BIANCA, Diritto civile, cit., pp. 396-397.

Cfr. G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., pp. 147 e 151; P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato, cit., p. 209; G. B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1968, p. 42; L. MENGONI, Successioni per causa di morte - Parte speciale - Successione legittima, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1983, p. 19.

La ricerca della volontà profonda del testatore è la direttiva fondamentale per l'interpretazione testamentaria, ma questo non significa che il dogma della volontà sia stato accolto per la materia testamentaria in maniera assoluta e consequenziale: così, ad esempio, l'invalidità conseguente ad errore ostativo deve qualificarsi come annullabilità e non nullità; così ancora probabilmente è irrilevante in materia testamentaria la riserva mentale. Si vedano, in proposito G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 152; G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni, cit., p. 466; A. TRABUCCHI, Il rispetto del testo nell'interpretazione degli atti di ultima volontà, in Studi in onore di F. Carnelutti, III, Padova, 1950, p. 689; nonché P. RESCIGNO, Interpretazione del testamento, Napoli, 1952, p. 49.

In tal senso, per tutti, G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 927 ss.; L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 112 ss..

Si vedano, in particolare, Cass., 6 luglio 1984, n. 3972, in Rep. Foro it., 1984, c. 2951; Cass., 28 novembre 1986, n. 7025, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169; Cass., 10 luglio 1983, n. 4110, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169

Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 1362, cit., p. 1328.

In tal senso L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., pp. 78-79.

Il 1° co. dell'articolo in parola afferma "Le clausole ambigue si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso". Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 1368, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 1342. Secondo, L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., pp. 78- 79, l'aspetto soggettivo (naturalmente a livello di stato soggettivo, di condizione psicologica, non inquadrabile, quindi, nel canone di cui all'art. 1362 c.c. che si riferisce a fatti storici) è peculiare per la mentalità e cultura del testatore, meno marcata, invece, è l'incidenza esercitata dall'ambiente di vita. E' chiaro, comunque che tale ultimo elemento interpretativo si collega ad aspetti di vita decisamente ristretti, inabili, quindi, a quegli aspetti di vita di stampo sociale cui ai riferisce l'art. 1368 c.c..

Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 1363, in Commentario breve al codice civile, cit., p.

Si veda R. SACCO, Il contratto, in Trattato di dir. civ. it, diretto da F. Vassalli, vol. VI, tomo 2, Torino, 1975, pp. 772-773. Sui singoli principi dell'interpretazione soggettiva, F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, vol. II, tomo 1, Obbligazioni e contratti, Padova, 1990, p. 381.

Quindi, è sbagliato presumere, ad esempio, valutando secondo i criteri di ragionevolezza dell'uomo medio, che la confezione di un nuovo testamento, quando il primo sia chiaro, significhi che il testatore intenda esprimere una nuova volontà, sicché, nel dubbio, sia da ascrivere al secondo un significato diverso dal primo. Può capitare che il testatore replichi più volte la stessa volontà temendo, ad esempio, per sua fragilità emotiva, che il primo testamento possa andare disperso. Sarà, quindi, necessario prima vagliare la personalità del de cuius e poi ricavare una presunzione in concreto. Si veda sul punto P. RESCIGNO, Interpretazione del testamento, cit., p. 145. Contra nel senso di adottare, in genere, criteri presuntivi collegati all'uomo medio, cfr. Cass., 26 gennaio 1990, n. 459, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 1232.

Cfr. G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 933; G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 151; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 425.

In ordine alla portata dell'art. 1366, "Interpretazione secondo buona fede", vi è però qualche discussione, perché parte della dottrina ritiene che il criterio della buona fede sia, nel caso di specie, un criterio soggettivo di interpretazione, volto a favorire la piena rilevanza del principio di affidamento. Il contratto dunque dovrebbe essere interpretato secondo quanto la controparte aveva diritto di intendere e il dichiarante ha lasciato intendere. Così F. ZICCARDI, Le norme interpretative speciali, cit., p. 32. È stato però sottolineato, in senso contrario da F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 1007, che "oggetto della interpretazione non è la dichiarazione ma l'accordo, cosicché, sotto questo aspetto, non esiste una dichiarazione rilevante né, quindi, un destinatario il cui affidamento debba essere tutelato. Nel merito, poi, è ben difficile stabilire in che cosa consista la buona fede interpretativa, fermo restando che si è in presenza della c.d. buona fede oggettiva, quella stessa che rileva nelle trattative e nell'esecuzione contrattuale".

Cfr. F. ZICCARDI, Le norme interpretative speciali, cit., p. 32.

Così G. BARALIS, Il rinvio alla legge nelle disposizioni testamentarie. Interpretazione e problemi di diritto transitorio, in La successione del coniuge dopo la riforma del diritto di famiglia, Giornata di studio organizzata dal Comitato Notarile Interregionale Piemonte e Valle d'Aosta, Torino, 16 giugno 1984, Palermo, 1984, pp. 118-l19; C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 408.

Cfr. per riferimenti A. CATAUDELLA, Sul Contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 138.

In proposito, si vedano, tra i molti, G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 935; A. TRABUCCHI, Il rispetto del testo nell'interpretazione degli atti di ultima volontà, cit., p. 690.

Nel primo senso, si veda F. ZICCARDI, Le norme interpretative, cit., p. 127; nel secondo, P. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1986, p. 907.

In tal senso, quale che sia l'oggetto dell'interpretazione (contratto o testamento), si esprime C. GRASSETTI, L'interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, cit., p. 59.

Può dubitarsene per l'art. 1371 c.c. ("Qualora, nonostante l'applicazione delle norme contenute in questo capo, il contratto rimanga oscuro, esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l'obbligato, se è a titolo gratuito, e nel senso dell'equo contemperamento delle parti, se è a titolo oneroso "), ma certo è che l'erede non ha nulla a che spartire con chi è obbligato contrattualmente. Cfr. per tutti E. MOSCO, Principi sulla interpretazione dei negozi giuridici Napoli, 1932, p. 139.

Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 1366, in Commentario breve al codice civile, cit., p.

Cfr. L. BIGLIAZZI GERI, Il testamento, I, Profilo negoziale dell'atto, Milano, 1976, pp. 194-l95, nonché F. PROTO, Verso una interpretazione di buona fede del testamento?, in Riv. not., 1983, pp. 1004-l006; G. B. FERRI, Il negozio giuridico, cit., p. 77.

Così G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 937.

Cfr. G. CRISCUOLI, Buona fede e ragionevolezza, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 709 ss..

Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 1367, in Commentario breve al codice civile, cit., p.

Cfr. C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 408.

Così E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1960, p. 362.

Cfr. L. BIGLIAZZI GERI, Il testamento, cit., p. 195; C. GRASSETTI, L'interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, cit., p. 184; A. TRABUCCHI, Il rispetto del testo nell'interpretazione degli atti di ultima volontà, cit., p. 695.

Su tale punto, cfr. per tutti L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 119.

Il raccordo fra principio di conservazione e serietà della volontà è netto in G. OPPO, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, cit., pp. 25-26 e 119.

Cfr. G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 939.

Cfr. R. SACCO, Il Contratto, cit. p. 781; Contra F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1962, VI, p. 199; Cass., 27 novembre 1990, n. 11428, in Riv. not., 1991, p. 225. Soprattutto C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 408, collega l'art. 1367 c.c. ad un principio di ragionevolezza.

Così G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., pp. 938-939.

Si veda, per tutti, C. DUSI, Istituzioni di diritto civile, Torino, 1986, 1, p. 256. Sui concetti di favor ermeneutico e normativo, in particolare la nt. 13.

L'art. 590 c.c., che appare prima facie come principio che più giustifica l'applicazione analogica dell'art. 1367 c.c., in realtà o è equivoco sul punto, o potrebbe condurre a considerazioni di segno opposto. Per tale considerazione, cfr. G. OPPO, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, cit., p. 122.

Così L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 120.

Si veda ampiamente sul punto G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., pp. 939-940.

Cfr. L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 123; contra G. OPPO, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, cit., p. 126.

Tale metodo interpretativo è di stretto diritto positivo. Cfr. sul punto la polemica fra il Giannini ed il Bobbio agli inizi degli anni quaranta, riportata da P. ZACCARIA, L'arte dell'interpretazione, Milano, 1990, pp. 244-246.

Cfr. L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, in AA.VV., interpretazione ed epistemologia, Atti del VII Colloquio sull'interpretazione (Macerata 25-27 maggio 1983), Torino, 1986, pp. 119-l24.

Vi è una singolare coincidenza di opinioni sulla utilità metodologica di questa prima lettura interpretativa, cui possono seguire altre riletture intese come avvicinamento progressivo alla soluzione definitiva). Si vedano sul punto ampiamente L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 71; V. CHIASSONI, L'interpretazione della legge, in AA.VV., Studi in memoria di Giovanni Tarello, Milano, 1990, II, pp. 146-l47

Cfr. C. M. BIANCA, Le successioni, cit., p. 499; L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 74.

In questo senso, e solo in questo senso, nel campo testamentario può accettarsi il principio per cui: "Bisogna capire tutto quanto di chi ha scritto e meglio di lui", principio contenuto in AA.VV., Il pensiero ermeneutico, testi e materiali, Genova, 1986, p. 123.

Incisivamente F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, Le Successioni, cit., p. 197, secondo il quale: "non tanto di interpretazione del testamento si deve parlare, quanto piuttosto di ricostruzione della volontà del testatore, rispetto alla quale ricostruzione la dichiarazione testamentaria è solo uno strumento".

Si vedano, sul punto, L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 73; Cass., 22 marzo 1985, n. 2076, in Gazz. Not., 1986, p. 102.

Per tutti, si veda A. JEMOLO, Gli occhiali del giurista, Padova, 1970, pp. 320-323.

Cfr. G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 946.

Cfr., in tal senso, C. M. BIANCA, Le successioni, cit., p. 499.

Non chiara sul punto l'opinione di L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., pp. 73-74.

Cfr. A. JEMOLO, Gli occhiali del giurista, cit., 323.

Sul collegamento fra presunzioni e volontà concreta si veda E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, vol. XV, Torino, 1960, p. 370; per la giurisprudenza, cfr. Cass., 19 novembre 1971, n. 3342, in Mass. Giur. it., 1971.

In proposito L. MENGONI, Interpretazione e nuova dogmatica. L'autorità della dottrina, in Jus, 1985, p. 469 ss..

Cfr. per tutti L. MENGONI, Diritto e valori, Milano, 1985, p. 79 ss., per il quale l'aspetto retorico riveste una portata fondamentale. Ma l'Autore sottolinea anche che ricorrere all'aspetto retorico significa utilizzare criteri atipici e flessibili, del tutto svincolati dai principi relativi all'interpretazione del contratto.

Per approfondimenti sul punto, si rinvia a G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, pp. 82-83.

Anche la giurisprudenza ha indicato una procedura che deve essere seguita nello sviluppo del problema interpretativo. L'unica pronuncia che si è data carico di indicare una serie di tappe da seguire (e si tratta di indicazioni abbastanza somiglianti a quelle da noi elencate) è Cass., 26 novembre 1949, n. 2516, in Giur. compl. Cass. civ., 1949, III, p. 1217.

Si vedano, in tal senso: Cass., 26 luglio 1977, n. 3342, in Foro it., 1978, 1, c. 717; Cass., 19 marzo 1980, n. 1850, in Rep. Foro it., 1980, c. 2628; Cass., 19 luglio 1986, n. 4660, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169; Cass., 27 ottobre 1973, n. 2797, in Mass. Giur. it., 1973, c. 2797; Cass., 10 giugno 1982, n. 3522, in Rep. Foro it., 1982, c. 2832; Cass., 15 luglio 1965, n. 1524, in Giust. civ. mass., 1965, p. 783; Cass., 21 gennaio 1966, n. 262, in Mass. Giur. it., 1980; Cass., 26 maggio 1989, o. 2556, in Giust. civ., 1990, I, 1, c. 78.

Cfr. Cass., 26 febbraio 1983, n. 1494, in Rep. Foro it., 1983, c. 3099; Cass., 22 gennaio 1985, n. 252, in Riv. not., 1985, p. 1001; Cass., 28 novembre 1986, 11. 7025, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169; Cass., 26 maggio 1989, n. 2556, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 78.

Cfr. Cass., 9 febbraio 1977, in Rep. Foro it., 1977, c. 2643; Cass., 16 gennaio 1969, n. 790, in Rep. Giur. it., 1969, c. 4360; Cass., 19 luglio 1986, n. 4660, in Rep. Foro it., 1986, c. 3169; Cass., 21 gennaio 1966, n. 262, in Rep. Foro it., 1966, c. 2959.

In proposito è esemplare una vecchia sentenza della Suprema Corte, secondo la quale: "Nell'interpretazione del testamento si deve avere riguardo alla volontà del testatore, che è preminente sul significato letterale della disposizione scritta, e risalire alla mens del testatore ossia alle vedute personali di costui (Cass., 11 luglio 1951, n. 1889, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, III, p. 600.

Anche qui è esemplare una vecchia sentenza di Cassazione: "L'indagine non si esaurisce ponendo in luce il senso letterale delle parole espresse nella disposizione, anche quando essa appaia chiara, bensì deve avere riguardo alla volontà genuina e intima del testatore, la quale è ovviamente preminente La miglior guida nella interpretazione dei testamenti è lo scopo propostosi dal testatore (Cass., 26 aprile 1950, n. 1109, in Giur. compl. Cass. civ., 1950, III, p. 541).

Nell'ambito dei due diversi indirizzi alcune pronunce sottolineano come le parole possono essere usare in senso particolare purchè non contrastante o antitetico (cfr., ad. es., Cass., 26 febbraio 1983, n. 1494, in Rep. Foro it., 1983, c. 3099) o anche solo non attinente rispetto al senso ordinario (cfr., Cass., 17 luglio 1979, n. 4181, in Vita not., 1980, p. 199.

Per tale approccio critico agli orientamenti giurisprudenziali, si veda L. BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 76 ss..

Cfr. G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 86.

Per esso, si veda G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954, pp. 184-l96.

In particolare V. SCALISI, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, Milano, 1974, p. 229 ss.; G. PIAZZA, L'identificazione del soggetto nel negozio giuridico, Napoli, 1968, pp. 173-l75 e 242; A. CIAN, Forma solenne, cit., pp. 152-l56.

Il rilievo risale a M. ALLARA, Il testamento, Padova, 1934, ma è stato fatto proprio da V. SCALISI, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, cit., p. 244

E' il principio espresso da un autorevole filone dottrinale (cfr. V. PIETROBON, L'errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, p. 500) e sostanzialmente ripreso da V. SCALISI, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, cit., p. 229 ss.; G. PIAZZA, L'identificazione del soggetto nel negozio giuridico, cit., pp. 173-l75 e 242; A. CIAN, Forma solenne, cit., pp. 152-l56.

Si vedano E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 430; P. TRIMARCHI, Interpretazione del testamento, cit., p. 452, che argomenta applicando analogicamente il disposto dell'art. 2724, n. 1, c.c..

E' il caso, a titolo esemplificativo, in cui si indica come oggetto del legato il fondo A intendendo però il fondo B, oppure è il caso, ad es., di scheda in cui la volontà di disporre sia resa con la parola "dono", sicché vi sia incertezza sull'esistenza di un atto mortis causa o inter vivos. Si vedano Cass., 9 febbraio 1977, n. 174, in Rep. Foro It., 1977, c. 2644, nonché Delle successioni testamentarie - Artt. 587-600, cit., p. 79.

Per tale approccio critico, cfr. L. MENGONI, Interpretazione e nuova dogmatica. L'autorità della dottrina, cit., p. 472.

Così G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 959.

Cfr. L. MENGONI, Successioni per causa di morte, cit., p. 22 ss..

Sul punto, si veda V. PIETROBON, L'errore nella dottrina del negozio giuridico, cit., pp. 59-60 e 306-314; P. BARCELLONA, voce "Errore (dir. priv.)", in Enc. dir., Milano, vol. XV, 1966, p. 257. Sui due concetti di errore, secondo l'orientamento tradizionale, cfr. per tutti L. CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d., p. 487 ss..

Così L. MENGONI, Interpretazione, cit., p. 12.

Si veda P. RESCIGNO, Interpretazione del testamento, Napoli, 1952, p. 202.

Per tale corrispondenza, cfr. A. LISERRE, Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966, p. 143.

Così, in generale, sugli scopi della forma solenne si esprimeva già R. CARRARA, La formazione dei contratti, Milano, 1915, pp. 360-361; nega, invece, il raccordo di cui al testo p. 84. A. CIAN, Forma solenne, cit., p. 165, sottolinea, fra gli scopi della forma solenne, la "sicurezza circa il contenuto del negozio", ma, secondo G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 961, si vanifica o si riduce fortemente tale vantaggio se non lo si collega con la sicurezza - tendenziale - circa la univocità del significato del contenuto (non la sicurezza del significato, ma si badi, un certo grado, un minimum di sicurezza).

Cfr. P. BARCELLONA, voce "Errore (dir. priv.)", cit., p. 259.

In tal senso G. BARALIS, L'interpretazione del testamento, cit., p. 964.

Così A. CIAN, Forma solenne, cit., p. 166.

Cfr. A. LISERRE, Formalismo negoziale e testamento, cit., p. 149.

Per il testamento pubblico, si veda, in genere, G. TAMBURRINO, voce "Testamento (dir. priv.)", in Enc. dir., Milano, vol. XLIV, 1992, p. 490 ss..

L. 16 febbraio 1913, n. 89, "Ordinamento del notariato e degli archivi notarili".

In tali termini Cass., 7 febbraio 1987, n. 1266, in Riv. not., 1987, p. 589.

Cfr. A. CIAN, Forma solenne, cit., p. 170.

Cfr. A. LISERRE, Formalismo negoziale e testamento, pp. 147 ss..

Per tali effetti si rinvia infra, par. I.4..  

Cfr. M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., pp. 78-79; L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 115 ss.; MENGONI L., L'istituzione di erede "ex re certa" secondo l'art. 588, 2° comma c.c., cit., p. 741.

Al riguardo, L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 115, specifica: " . una res aliena non può rappresentare una 'quota dell'eredità', cioè essere attribuita in funzione di una divisione del patrimonio". A favore, invece, dell'esclusione della nullità per l'istituzione di erede in beni determinati altrui - sempre che di essi il testatore ne abbia il possesso al momento della sua morte - si pone M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 79.

In proposito, App. Trento, 14 gennaio 1997, in Rep. foro it., 1997, voce "Successione ereditaria", n. 68, c. 2048, afferma che "in caso di istituzione ex re certa, qualora il testatore abbia disposto a favore degli eredi beni immobili parzialmente altrui ricorre una causa di nullità della disposizione testamentaria riconducibile al dettato normativo degli artt. 1418, 2° comma, e 1346 c.c. in quanto l'oggetto della disposizione mortis causa manca del requisito della possibilità, posto che al testatore non è consentito di disporre di beni non propri . ".

Per tutte, si veda Cass., 9 aprile 1965, n. 619, in Rep. foro it., 1965, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2884, n. 115, e in Giust. civ., 1965, I, p. 637; App. Trento, 14 gennaio 1997, cit.

L'art. 651 ("Legato di cosa dell'onerato o di un terzo") statuisce che "Il legato di cosa dell'onerato o di un terzo è nullo, salvo che dal testamento o da altra dichiarazione scritta dal testatore risulti che questi sapeva che la cosa legata apparteneva all'onerato o al terzo. In quest'ultimo caso l'onerato è obbligato ad acquistare la proprietà della cosa dal terzo e a trasferirla al legatario, ma è in sua facoltà di pagarne al legatario il giusto prezzo. / Se però la cosa legata, pur appartenendo ad altri al tempo del testamento, si trova in proprietà del testatore al momento della sua morte, il legato è valido". Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 651, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 537.

In linea generale può dirsi che l'art. 651 c.c. offre il più cospicuo esempio di legato nel quale non può riscontrarsi una successione a titolo particolare al de cuius: pur in presenza di una generale comminatoria di nullità, dovuta alla presunzione che il testatore abbia erroneamente disposto, ignorando la alienità della cosa, è in alcune ipotesi valido il legato avente ad oggetto cose o diritti non appartenenti al patrimonio del testatore al momento dell'apertura della successione. Il legato di cosa non appartenente al de cuius è valido soltanto in presenza di alcuni requisiti, tra i quali è fondamentale la conoscenza, da parte del testatore, dell'alienità della cosa o del diritto oggetto della disposizione. Tale consapevolezza può risultare, oltre che dal testamento, anche da una dichiarazione scritta, a forma libera, non necessariamente contemporanea al testamento, non potrà essa manifestarsi in epoca successiva, ma potrà essere anche anteriore al testamento, purchè non venga fornita la prova di un sopravvenuto mutamento o della situazione giuridica della cosa o della conoscenza da parte del testatore. Non è neppure necessario che la dichiarazione sia sottoscritta, se si riesca attraverso altri elementi inequivoci a risalire all'autore. La consapevolezza deve riguardare l'alienità: non è necessario che sia indicato con precisione il proprietario della cosa legata, anzi l'errore nell'indicazione non comporta la nullità della disposizione. Nelle ipotesi in cui il legato deve considerarsi valido, non avrà effetti reali, ma solo obbligatori. Ciò, pur riguardando fattispecie che in linea di principio dovrebbero confluire nella nullità, non le qualifica come ipotesi di conversione; si tratta tuttavia di applicazione del principio di conservazione della volontà del testatore, laddove sia ritenuto meritevole di tutela da parte del legislatore. Occorre, tuttavia, distinguere se il bene legato appartenga all'onerato o a un terzo. Si tratterà pur sempre di un legato obbligatorio, che fa sorgere un diritto di credito in capo al legatario ed a carico dell'onerato, ma differenti ne saranno gli effetti. Se si tratta, infatti, di un bene appartenente all'onerato al momento dell'apertura della successione, l'onerato è obbligato, senza alternativa, a trasferirne la proprietà al legatario; in mancanza, questi potrebbe chiedere l'esecuzione di tale obbligo in forma specifica, con sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.. Se, invece, la cosa appartenga ad un terzo, pur se a questi fosse stata trasferita dall'onerato prima dell'apertura della successione, la norma offre all'onerato - in considerazione del fatto che il terzo potrebbe non consentire a trasferire il bene al legatario o magari potrebbe consentire a condizioni inique - la facoltà di liberarsi dall'obbligazione corrispondendo, in luogo del bene, il suo giusto prezzo. La previsione del giusto prezzo denota che quello dell'onerato è un debito di valore, e non di valuta, e che quindi sulla fattispecie in questione incide la svalutazione monetaria. Naturalmente l'obbligazione si estinguerà anche per una qualsiasi causa estintiva dell'obbligazione in genere, con la rilevanza, in tal senso, di una sopravvenuta impossibilità assoluta di adempimento del legato. L'impossibilità potrà anche provenire dal fatto del legatario, che acquisti direttamente dopo l'apertura della successione la proprietà del bene dal terzo, non essendo egli tenuto a darne preventivo avviso all'onerato: anche in tale ipotesi, così come quando l'onerato intenda avvalersi della facoltà che la legge gli offre, spetterà al legatario il giusto prezzo del bene, che è il prezzo di mercato, e non quello desunto da elementi contingenti o soggettivi. Cfr. A. FINOCCHIARO - M. FINOCCHIARO, Libro II - Delle successioni, cit., pp. 517-519; F. AMATO - R. LIUCA, Art. 651, in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Perlingieri, cit., pp. 408-410. Per ulteriori approfondimenti sull'argomento, tra gli altri, si rinvia a C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, cit., II, p. 63 ss.; L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, Milano, 1947, p. 433 ss.; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1986, p. 613 ss.; E. PEREGO, Il legato, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 6, Successioni, tomo II, Torino, 1984, p. 204 ss.; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., tomo 2°, p. 653 ss.. Per la giurisprudenza si vedano, tra le tante, soprattutto Cass., 11 gennaio 1955, n. 16, in Rep. foro it., 1955, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2260, n. 166; Cass., 9 maggio 1962, n. 918, in Rep. foro it., 1962, voce "Successione legittima o testamentaria", c. 2829, nn. 133-l36; Cass., 13 marzo 1970, n. 645, 1970, in Rep. foro it., voce "Successione", c. 2357, nn. 36-37.

Così L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p.116. Sul punto cfr. anche M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 78.

Sul punto si rinvia a F. SANTORO-PASSARELLI, Istituzioni di diritto civile, Napoli, 1946, p. 50 ss.; F. CARNELUTTI, Appunti sulla successione nella lite, in Riv. dir. proc., 1932, I, p. 14 ss..

Cfr. L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., pp.116-l17; M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 79.

Per tali specificazioni L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., pp. 117-l18.

Cfr. Ibidem, p. 118.

Per questo concetto, cfr. F. SANTORO-PASSARELLI, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 130.

L'art. 758 c.c. ("Garanzia tra coeredi"), inserito nel Capo IV ("Degli effetti della divisione e della garanzia delle quote") del Titolo IV ("Della divisione") del Libro II del c.c., afferma che "I coeredi si devono vicendevolmente garanzia per le sole molestie ed evizioni derivanti da causa anteriore alla divisione. / La garanzia non ha luogo, se è stata esclusa con clausola espressa nell'atto di divisione o se il coerede soffre dell'evizione per propria colpa".Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 758, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 591.

In proposito, si vedano A. DEIANA, Concetto e natura giuridica del contratto di divisione, in Riv. dir. civ., 1939, p. 58; A. CICU, Successioni per causa di morte cit., p. 88, secondo i quali, però, la garanzia per evizione sarebbe sostituita al rimedio dell'annullamento per errore. Contra L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 119, nt. 5, il quale afferma che l'impostazione logica sotto il profilo della causa della divisione sia più corretta. Implicitamente in questo senso cfr. G. MIRABELLI, Intorno al negozio divisorio, in Arch. giur., 1949, pp. 43 e 48.

La risposta affermativa è pacifica nella dottrina che sostiene lo stretto legame tra il 2° co. dell'art. 588 e la c.d. "divisione dell'ascendente", regolata dagli artt. 1044 e seguenti del c.c. del 1865. Per essa, N. COVIELLO e L. COVIELLO, Corso completo delle successioni, a cura di L. Coviello, Napoli, 1932, p. 584; L. MENGONI, Successioni per causa di morte, cit., p. 107.

Cfr. M. GRECO, Lezioni di diritto commerciale, Genova - Roma, 1947, p. 71; contra G. GORLA, La compravendita e la permuta, in Trattato di dir. civile, diretto da F. Vassalli, Torino, 1937, p. 98.

Si veda quanto affermato da L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., pp. 115-l18.

Cfr. L. MENGONI, Successioni per causa di morte, cit., pp. 109-l10.

Cfr. Ibidem, pp. 110-l12.

Cfr. L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p

Cfr. Ibidem, pp. 122-l23.

Cfr. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 49.

Per essa si veda D. BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, Torino, 1965, p. 266.

Cfr. A. TRABUCCHI, In tema di istituzione ex re certa, in Giur. it., I, 1, cc. 185-l86; A. DISTASO, Istituzione di erede in beni determinati, in Casi e questioni in tema di successione per causa di morte, Bari, 1970, p. 196 ss.; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., tomo I°, pp. 48-49; M. L. LOI, Le successioni testamentarie (artt. 587-623 c.c.), cit., p. 79.

Sul punto, cfr. F. AMADIO, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, cit., p. 255. Più in generale, sul fatto che la funzione svolta dalla res certa non sia quella di "limitare l'acquisto", sebbene una "funzione di apporzionamento in ragione di una quota corrispondente al rapporto fra il valore della res stessa ed il valore totale dei beni contemplati dal testatore", si veda L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., pp. 12-l3. Tale Autore specifica ulteriormente come, nella determinazione concreta della quota, la frazione aritmetica di cui i beni singolarmente attribuiti dal testatore rappresentano elementi di calcolo deve essere considerata quale "quota omnium bonorum quae defuntus reliquit, cioè come quota hereditatis della quale la certa res viene a rappresentare un fattore, potenzialmente non unico, di concretamento". Nello stesso senso anche F. AMADIO, ult. cit. loc., che ritiene inoltre contrastante con le osservazioni suddette il fatto che il valore di lascito debba essere rapportato a quello del patrimonio del testatore nel momento dell'attribuzione. Contra, in proposito, G. AZZARITI, Successioni, cit., p. 849.

Cfr. Cass., 21 gennaio 1978, n. 269, in Giur. it., 1979, I, 1, c. 178; Cass., 18 febbraio 1977, n. 73, in Riv. not., 1977, p. 970; Cass., 18 ottobre 1972, n. 3117, in Giur. it. Mass., 1972, c. 1152.

In giurisprudenza, per tutte, cfr. Cass., 23 marzo 1963, n. 737, in Giur. it., 1964, 1, I, c. 185, con nota A. TRABUCCHI, In tema di institutio ex re certa. Per la dottrina, si vedano C. GANCI, La successione testamentaria, cit., p. 7 ss.; G. FORCHIELLI, Della divisione, artt. 713-768, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Libro II, Delle successioni, Bologna - Roma, 1970, p. 194 ss.; L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 22 ss.; G. GAZZARA, Dell'istituzione di erede ex re certa, cit., p. 115; L. BIGLIAZZI GERI, Testamento, cit., p. 127.

In tal senso specialmente A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p. 24 ss.; F. DEGNI, Delle successioni testamentarie, in Commentario al codice civile, diretto da D'Amelio e Finzi, Firenze, 1941, p. 378.

Così L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 22; nello stesso senso parrebbero anche L. BIGLIAZZI GERI, Testamento, cit., p. 127, e F. AMADIO, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, cit., p. 251.

Cfr. M. L. LOI, Le disposizioni a titolo universale e a titolo particolare, cit., p. 81.

Cfr. ad esempio, Cass., 21 gennaio 1978, n. 269, cit.; Cass., 18 febbraio 1977, cit..

Così L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., pp. 27-28, che, nell'analizzare i rapporti intercorrenti fra l'art. 588, 2° co., e l'art. 734 c.c., individua nell'istituto della divisione fatta dal testatore l'ipotesi in cui "normalmente ma non esclusivamente" si applica strutturalmente l'institutio ex re certa. In argomento, cfr. anche G. FORCHIELLI, Della divisione, cit., p. 195 ss..

Cfr. N. COVIELLO e L. COVIELLO, Corso completo delle successioni, cit., p. 651; R. SALIS, Sull'istituzione di erede in una cosa determinata, cit., p. 89.

In base a Cass., 26 maggio 1989, n. 2256, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 78: "l'attribuzione di tutti i beni residui, non ulteriormente specificati, dei quali il testatore non abbia già disposto a titolo particolare, costituisce disposizione a titolo universale di una quota del patrimonio". Nella specie, si trattava di decidere della qualificazione di alcune disposizioni aventi ad oggetto lasciti determinati e di una disposizione che, pur esprimendo la volontà di attribuire ad altro beneficiario "tutto il resto che preciserò con foglio che segue", non era poi stata ulteriormente completata.

In tal senso L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., pp. 22-23; ID., L'istituzione di erede "ex certa re", cit., pp. 761-762 e nt. 65: "La nullità procede anche sotto il profilo strutturale della ura dell'art. 734, che ha natura dispositiva, a differenza della divisione in senso proprio. Infatti, il testatore il quale - dopo aver assegnato a Tizio e a Caio i fondi A e B, valutati ciascuno in ragione di un terzo del patrimonio - istituisce erede Sempronio nell'altro terzo, senza comporre concretamente la quota, pone in essere con ciò, una disposizione contraddittoria, in quanto assegnando la totalità dei beni a Sempronio, in ragione di un terzo senza apporzionarlo, gli attribuisce così anche i fondi A e B, prima assegnati in solidum, in funzione di apporzionamento, rispettivamente a Tizio e a Caio".

Cfr. C. GANCI, La successione testamentaria, cit., p. 15. Da ultimo F. AMADIO, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, cit., p. 251, che, riferendosi all'opinione diversa sostenuta da L. MENGONI, ult. cit. loc., così commenta: "Stupisce che l'Autore, pur ammettendo il concorso tra istituzione ex re e lascito del residuo, non consideri teoricamente prospettabile il caso in esame". Per M. L. LOI, Le disposizioni a titolo universale e a titolo particolare, cit., p. 82, parrebbe tuttavia potersi osservare in proposito che la singolarità che inficerebbe la tesi non condivisa potrebbe immediatamente venir meno ove si tenga presente che l'opinione dell'Autore è la logica conseguenza della considerazione dell'institutio ex re come istituto che assume costantemente il profilo di una divisione fatta dal testatore senza predeterminazione di quote astratte per nessuno dei chiamati. Tant'è ad esempio che laddove sia dato desumere dal contesto obbiettivo dell'atto che le attribuzioni in certis rebus sono in sé funzionali ad identificare la quota es.: a Tizio il fondo A; a Caio il fondo B; nell'altro terzo del mio patrimonio istituisco erede Sempronio, che avrà pertanto il fondo C ed i miei mobili si esclude che l'institutio di Tizio e Caio avvenga ex art. 588 comma, dovendosi invece ritenere che essendo le quote di Tizio e di Caio implicitamente indicate ex ante dal testatore - l attribuzione delle rer certae ha soltanto una funzione di apporzionamento e si è in presenza di una pura divisione fatta dal testatore, attuata fra eredi previamente istituiti in quote astratte".

Esplicitamente, in base all'art. 686 c.c., "L'alienazione che il testatore faccia della cosa legata o di parte di essa, anche mediante vendita con patto di riscatto, revoca il legato riguardo a ciò che è stato alienato, anche quando l'alienazione è annullabile per cause diverse dai vizi del consenso, ovvero la cosa ritorna in proprietà del testatore. / Lo stesso avviene se il testatore ha trasformato la cosa legata in un'altra, in guisa che quella abbia perduto la precedente forma e la primitiva denominazione. / E' ammessa la prova di una diversa volontà del testatore". Cfr. G. CIAN - A. TRABUCCHI, Art. 686, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 550.

Cfr. G. GIAMPICCOLO, Su alcune ure di c.d. revoca tacita del testamento, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 528, il quale considera tali fattispecie l'unico esempio disciplinato di revoca tacita.

Cfr. sul punto M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, art. 679-712, in Commentario del Codice Civile, a cura di Scialoya e Branca, Bologna - Roma, 1972, p. 167.

In tal senso, tra gli altri C. GANGI, La successione testamentaria, cit., p. 378; per la giurisprudenza, piuttosto scarsa in materia, si veda, nello stesso senso, Cass., 20 novembre 1973, n. 3129, in Rep. Foro it., 1973, voce "Successione ereditaria", c. 2575, n. 99.

Dottrina e giurisprudenza sono conformi: per tutti, si vedano M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, art. 679-712, cit., p. 168; Cass., 18 agosto 1948, n. 1513, in Rep. Foro it., 1948, voce "Successione legittima e testamentaria", c. 1299, n. 140.

In tal senso F. AMATO - A. GIANNONE, Art. 686, in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Perlingieri, vol. II, Delle successioni - Libro II - Artt. 456-809, Napoli, 1991, p. 489; E. CAPOBIANCO, Art. 588, cit., p. 236; G. GAZZARA, Dell'istituzione di erede ex re certa, cit., p. 128; C. GANCI, La successione testamentaria, p. 379; G. AZZARITI, Le successioni, cit., p. 592; Trib. Napoli, 28 luglio 1970, in Rep. Foro it., 1971, voce "Successione ereditaria", c. 2954, n. 75.

Cfr. Cass., 20 febbraio 1948, n. 261, in Rep. Foro it., 1948, voce "Testamento", c. 1359, n. 58.

Cfr. Cass., 6 marzo 1969, n. 731, in Rep. Foro it., 1969, voce "Testamento", c. 2923, n. 32, dalla quale si evince anche che la revoca per alienazione è esclusa altresì quando manca la determinazione dell'identità dell'oggetto, rappresentato da somme o quantità o da cose generiche, in quanto gli atti di alienazione non riguarderanno l'oggetto specifico della disposizione a titolo particolare, salvo che dal testatore stesso l'oggetto sia concretamente individuato.

Per esso si veda soprattutto M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, art. 679-712, cit., pp. 169-l72.

Cfr. L. MENGONI, Divisione testamentaria, cit., p. 7.

Cfr. M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, art. 679-712, cit., pp. 170-l71.

Per tale assimilazione, sempre M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, art. 679-712, cit., p. 171.

Cfr. Ibidem, p. 172.

In base a quanto deciso da App. Trento, 14 gennaio 1997, cit., l'istituzione ex re certa su cosa parzialmente altrui è, infatti, nulla.




Privacy

© ePerTutti.com : tutti i diritti riservati
:::::
Condizioni Generali - Invia - Contatta