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NASCITA DI UNA CITTÀ, DI UNA SOCIETÀ E DI UNA CULTURA - L'INFLUENZA ETRUSCA, LA LEGGENDA DI ENEA, PASTORI, CONTADINI E MERCANTI, LE PRIM

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nascita di una città, di una società e di una cultura


Roma non nasce sul colle Palatino, anche se sul Palatino si sono trovate le tracce dell'impianto di capanne della prima età del ferro, il cui orizzonte cronologico è più alto di oltre un secolo rispetto alla data tradizionale dell'origine di Roma (753 a.C.).

I nuclei di abitazione che si erano andati formando, sarebbero rimasti un villaggio, un centro secondario, se non ci fosse stato il Tevere, e, nel punto dove è oggi l'isola Tiberina, una possibilità di attraversare il fiume. Qui nasce Roma. Essa nasce come centro di traffico, di commercio, non come centro agricolo.

In età primitiva, quando il senso del diritto non è ancora fissato in norme giuridiche, tutto ciò che è importante per la comunità, diviene sacro: chi era incaricato di tutelare il ponte viene rivestito, a Roma, di autorità sacrale, e si chiama pontifex.



L'isola Tiberina ed altri punti fermi in una zona paludosa offrivano l'unica facilitazione di passaggio per tutto il corso inferiore del Tevere. L'Etruria, infatti, era chiusa entro due fiumi, le cui sorgenti discendono dalle pendici opposte della medesima montagna, l'Arno a levante e set­tentrione, il Tevere a levante e mezzogiorno; a ponente la costa del ma­re, detto Tirreno dai Greci, i quali chiamavano TÚrrenoi gli Etruschi.

Il ponte congiungeva Roma con l'Etruria, governata da genti di­verse da quelle latine. La via che attraversava questo ponte incontrava sulla sponda sinistra, la sponda romana, un'altra via di grande importanza, la via del sale, lungo la quale questo prodotto raggiungeva l'interno della penisola e che, valicati i monti, toccava le co­ste adriatiche: la via Salaria.


l'influenza etrusca

Le montagne della Sabina cingono Roma e chiudono il Lazio, avanzando fino al mare. Per l'espansione commerciale che gli Etruschi avevano affermato in Campania attorno al golfo di Napoli, era perciò indispensabile passare da Roma. Quando una potenza politica ha bisogno, per i suoi traffici, di passare da un punto geografico determinato, cerca di mettersi in condizione di poter passare senza dover chiedere il permesso. Roma si trovò così sotto la diretta influenza etrusca. La confederazione delle città etrusche aveva rag­giunto, fin dalla metà del VII secolo a.C., notevole potenza economica, soprattutto a causa dello sfruttamento delle miniere di rame della costa to­scana. Questa potenza economica aveva reso possibile il costituirsi di una civiltà che si era assai sviluppata nel contatto con l'Oriente mediterra­neo, dove si attardavano i motivi artistici creati fin dal secondo millennio. Questi motivi erano posti in circolazione dal commercio con Cipro, la Fenicia, l'Egitto e con la Grecia: erano oggetti di lusso per una ricca aristocrazia anche le ceramiche dipinte dalle migliori fabbriche corinzie prima e ateniesi poi, quando, intorno al 650 a.C., il commercio ateniese riesce a battere quello di Corinto. Artigiani greci, specialmente di Corinto, erano allora venuti in Etruria e vi avevano aperto officine artistiche, proseguite dai loro allievi locali.

In Campania il fiume Silaris, il Sele, faceva da confine meridionale all'espansione etrusca in questa regione. Subito al di là del fiume vi era un centro di cultura greca fiorente come Paestum, e poi tutte le ricche città greche dell'Italia meridionale e della Sicilia. Sono state dunque Grecia ed Etruria a determinare la formazione di una cultura artistica a Roma.

Quando, alla fine del VI secolo a.C., si volle costruire a Roma un tempio alla triade di divinità italico-elleniche, venerate sul Campidoglio, Giove, Giunone, Minerva, il tempio fu decorato secondo il modello etrusco, e si chiamarono artisti etruschi da Veio. La scoperta di statue di Apollo, di Hermes, di Eracle e di altre ure in terracotta, a Veio, insieme ai resti della decorazione del tetto di un tempio della fine del VI secolo, ci han­no confermato la tradizione.

La lupa modulina

Troppo superficiali confronti stilistici con le terrecotte di Veio hanno fat­to attribuire all'Etruria anche la Lupa modulina in bronzo, di poco più recente. In realtà in quest'immagine non vi è nulla di specificatamente etrusco ed essa può essere opera, piuttosto che di un etrusco, di un cam­pano o di un siculo o di un greco emigrato. La sua immagine è forse an­teriore alla leggenda dei gemelli, Romolo e Remo fondatori della città, che essa avrebbe allattato.


la leggenda di enea

La leggenda che ricollegava le origini di Roma ai Troiani con lo sbarco di Enea, la sua unione con Lavinia, lia di Latino, re degli aborigeni, e la fondazione della città di Lavinium, che poi diverrà materia dell'epos na­zionale cantato da Virgilio nel quadro della politica culturale di Augu­sto, si era andata costituendo nel IV secolo. Là dove sorgeva Lavinium, tredici altari di forma arcaica testimoniano che questo luogo era, già nel VI secolo, un centro della religione ufficiale di Roma e un centro sacro alle leggende locali, dall'arrivo di Enea all'uccisione del re Tito Tazio. Qui si veneravano gli Dei Penati portati da Troia e la dea del fuoco e del focolare Vesta, il cui culto è di prove­nienza greca, come quello dei protettori Dioscuri, Castore e Polluce, la cui venerazione è attestata da una iscrizione su lamina in bronzo trova­ta fra gli altari di Lavinium e databile al 500 a.C.

Tutto questo attesta l'esistenza di rapporti diretti fra Roma e la Grecia fi­no dal VI secolo anche senza mediazione etrusca.

Da nord e da sud il centro di traffico e di passaggio che fu Roma era in contatto con la civiltà artistica etrusca e con quella greca. La cul­tura primitiva latina mostra, come la lingua, qualche affinità con quella dei Celti. Questa cultura formava l'estremo settore di un'area che si è po­tuta chiamare degli indoeuropei di nord-ovest, le cui tendenze verso espressioni primitive di arte si esplicavano in forme lineari e inorganiche, proprie di una civiltà allo stato pre-Iogico. Una così scarsa cultura ura­tiva, limitata a ornare qualche vaso di terracotta, non poteva certo resi­stere al contatto della potente civiltà artistica naturalistica che si era svi­luppata nei vari centri del Mediterraneo orientale. Roma fu dunque all'inizio una città di civiltà artistica etrusca e greca. Anche la sua più antica forma poetica, il verso saturnio, mostra remoti contatti con la Grecia. Delle due civiltà artistiche, quella etrusca aveva con Roma un contatto più immediato e prevalente. Però l'arte etru­sca non troverà la sua continuazione stilistica nell'arte romana.

Bisogna, nell'arte etrusca, distinguere due periodi: uno è il periodo arcaico, che va dal VII secolo agli inizi del V a.C., quando l'Etruria era una potenza economica internazionale e la sua arte era in contatto diretto e continuo con la ci­viltà greca e artigiani greci facevano scuola in Etruria. L'altro periodo è quello durante il quale l'Etruria aveva perduto ormai la sua preminenza commerciale ed economica ed era divenuta una federazione di centri pre­valentemente agricoli.

Come punto di rottura possiamo indicare la disfatta subita dagli Etru­schi sul mare, dinanzi a Cuma, nel 474 a.C., ad opera di Ierone di Siracu­sa e in conseguenza della quale la penetrazione etrusca in Campania fu abbandonata. Il commercio etrusco sul mare viene so­stituito da quello greco e da quello cartaginese; poi la scoperta di miniere più ricche di quelle toscane, metteva fine alla potenza economica delle grandi famiglie etrusche. Tuttavia l'Etruria aveva sempre una preminenza culturale su­gli altri gruppi di popolazioni dell'Italia centrale, sino alla conquista da parte dei Romani.

Nel contatto con la cultura della classe dominante dell'Etruria, le leg­gende greche divenivano più aspre e l'arte preferiva esprimere la crudeltà degli scontri e dei sacrifici umani. Essa rappresentò con la stessa virulenza le leggende locali, sia degli scon­tri fra Etruschi o fra Etruschi e Romani, sia quella del buon re Mcstrna (Mastarna, identificato con Servio Tullio). Pitture analoghe a quel­le provenienti da una tomba etrusca di Vulci (la Tomba Fran­çois) e databili fra il 300 e il 280 a.C., dovettero esistere anche a Roma, ma sono andate perdute.

L'arte etrusca di questo secondo periodo 'ellenistico', del III e del ll secolo a.C., non rappresenta che una variante locale di quella produzione, soprattutto artigianale, che possiamo chiamare 'ellenismo ita­lico'. Questo 'ellenismo italico' è un aspetto provinciale del­la grande civiltà ellenistica che fioriva nelle città greche, soprattutto in quelle divenute capitali di regni fiorenti sotto gli eredi dell'impero di Alessandro Magno.

La diffusione e la pro­fondità raggiunta dalla civiltà artistica ellenistica, soprattutto nel suo aspetto artigiano, erano causate dal fatto che essa restava di qualità altissima nonostante un princi­pio di industrializzazione reso necessario dalla grande richiesta e dallo smercio dei suoi prodotti in tutto il mondo conosciuto. Perciò la penisola italica, in stretto rapporto con i Greci attraverso la colonizzazione e i contatti commerciali, non avrebbe potuto sottrarsi alla sua influenza.

Ellenismo italico

La penisola italica era il centro più prossimo per raccogliere quella pro­duzione ed elaborare un'industria artistica analoga. Faceva parte di quel­lo stesso mondo ed era essa stessa uno dei centri produttori. Parliamo di 'ellenismo italico', ed è significativo che riusciamo a distinguere gli accenti locali: quello siceliota, il più vicino all'ellenismo ori­ginario: è una koin» dialektÒj, un linguag­gio artistico comune, venato di dialetti.

Tra questi dialetti artistici, quello che ha un accento non solo latino, ma ro­mano diviene riconoscibile assai tardi. Per tutto il IV e il III secolo a.C., la scultura e la pittura in Roma non dovettero distinguersi da quelle dell'Etruria meridionale e della Campania.

I più antichi cimeli artistici trovati in Roma non si distinguono in nulla da quelli trovati nelle città degli Etruschi, dei Latini e dei Falisci; ma per i loro caratteri e per le connessioni con altri materiali si deve escludere che il centro di produzione sia stato a Roma e che fosse Roma la fornitrice delle altre città. Questi materiali ci dico­no però, con la loro provenienza da edifici di culto sparsi in varie parti della città attuale, che alla fine del VI secolo Roma doveva essere la più grande fra le città dell'Italia centrale. Ma l'inizio del nuovo regime con­solare (repubblicano) e la calata dei Volsci, che taglia le comunicazioni con la Campania, provocano una crisi economica che tiene Roma, du­rante tutto il v secolo, in una condizione di inferiorità.

La Cista Ficoroni: e, per la prima volta, il nome di roma

La prima volta che troviamo il nome di Roma sopra un manufatto artistico, sarà sopra la Cista Ficoroni. Questa è un dono, probabilmente di nozze, di una madre a una lia. È un reci­piente cilindrico di rame, finemente cesellato, per riporvi dentro gli oggetti da toilette.

La storia urata sulla parete della cista era una versione italica della storia degli Argonauti greci, trattata con lo stile della pittura greca del V e IV secolo; il gruppo in bronzo sul manico (Dioniso tra due sati­ri) dove è l'iscrizione, deriva le sue forme dalla scultura dei maestri greci del IV secolo. La forma dell'oggetto stesso è tipica di una produzione artigiana che troviamo fiorente a Praeneste (Palestrina), cit­tà del Lazio che forse, quando l'oggetto fu eseguito, era da poco ritorna­ta alleata di Roma (354 a.C.); e il nome dell'artista, Plautios, indica un immigrato dalla Campania. Non possiamo dire, dunque, che la Cista Ficoroni sia una testimonianza di arte romana; ma essa è una testimonianza dell'arte che si produceva a Roma in quel tempo. È pro­babile che l'iscrizione indichi Novios Plautios come il fabbri­cante piuttosto che come l'incisore. Essa ha fatto anche sorgere il dub­bio che Roma fosse il centro di produzione delle numerose "ciste prenestine", le quali non si differenziano, tuttavia, dalla coeva produzione dei centri etruschi. Come cronologia stilistica ci troviamo alla fine del IV secolo a.C. o ai primi del III.


pastori, contadini e mercanti

Roma era sorta come città etrusco-latina: che una città sola, con poco terreno attorno, costituisca uno stato di per se, è oggi difficile a concepirsi. La città-stato è il risultato di un'organizzazione, è qualche cosa di complesso rispetto ai primitivi clan familiari isolati e anche dei clan familiari riuniti in tribù. La cit­tà è uno stato, perché è l'unione di un certo numero di tribù sotto comuni ordinamenti. La Roma più antica si compose di tre tribù, e poi di venti, che divennero trentacinque con l'ingrandirsi del territorio e quando or­mai il concetto di tribù non era più altro che un concetto burocratico e amministrativo; ma all'inizio erano veri aggruppamenti familiari.

Le grandi civiltà artistiche originarie devono la spinta iniziale per il loro costituirsi urbano e il loro perfezionarsi, al fatto che un grande fiume, con le sue periodiche alluvioni e con la possibilità d'irrigazione delle terre che ne deriva, aveva consen­tito lo sviluppo di un'agricoltura permanente, a residenza fissa, e abba­stanza redditizia da creare un surplus di mez­zi da adibire a costruzioni pubbliche di carattere religioso e monumentale e al loro abbellimento. Niente di tutto questo avviene per Roma.

Il Tevere era un fiume troppo esiguo, la terra attorno a Roma era costituita da banchi di tufo vulcanico o di calcare: un suolo siffatto non si presta che al pascolo. Come in ogni comunità dove convivono pastori e contadini, i pastori si considerano l'aristocrazia, perché non sudano a lavorare la terra e non sono legati al podere. In una tale società si formano presto diverse clas­si, di patrizi, di plebei e di cavalieri; le incursioni in territorio altrui e i razziatori di bestiame sorpresi e catturati procacciano dei servi, degli schiavi.

Nonostante una tale mano d'opera a buon mercato, una società di pa­stori e di contadini sopra un territorio poco fertile non produce forti riserve. Rapidi guadagni intervengono invece con l'introduzione di un terzo elemento: l'elemento mercantile. Questo elemento porta a Roma, attraverso il valico del Tevere e la via del sale, i più remoti impulsi di benessere e di progresso.

Roma era divenuta così, nel corso del secolo VI a.C., la grande città dei Tarquini. I Tarquini, gli ultimi re leggendari, erano etruschi, perciò la loro cacciata e la creazione della repubblica romana rimase avvenimen­to fondamentale nel ricordo dei Romani. Era non solo un cambiamen­to di regime, ma la liberazione da una supremazia straniera.

La data tradizionale di questo grande avvenimento è il 509 o 507 a.C., alla fine del VI secolo. I Romani amarono rimaneggiare la loro storia più antica per metterla in correlazione con quella dei Greci ed equipararne o precederne in antichità le istituzioni. Le date della tradizione romana diventano più si­cure solo dopo l'anno 300; quelle delle fonti greche lo sono già dal 500. Ma l'indagine storica moderna ha confermato quella data della cacciata dei Tarquini. Resta tuttavia abbastanza ragionevole la pro­posta di avvicinarla di più a un'al­tra data capitale, quella della disfatta degli Etruschi a Cuma nel 474 a.C.

Dopo la cacciata degli Etruschi da Roma e l'abbandono del­la Campania da parte di essi, seguì per Roma, privata dell'importanza del­la sua posizione chiave sulla via dei traffici, un regresso economico e culturale. Questo fu il prezzo della conquistata indipendenza. Il calare in Campania di popolazioni primi­tive, chiuse i con­tatti di Roma con il mondo greco.

Possediamo, attraverso Plutarco, la lista delle asso­ciazioni di artigiani esistenti nella Roma più antica, della fine del VI secolo. Essa corrisponde ad una condi­zione ancora abbastanza primitiva e rurale di vita, quando il pane si fa in casa, e in casa si lavano i panni e si tesse. Non vi sono macellai, dun­que non si compra carne; chi possiede un po' di terra alleva e macella in casa e il popolo minuto mangia carne quando vengono distribuite le car­ni delle vittime dei sacrifici offerti agli dei.

In una siffatta economia non ci meraviglieremo di non trovare nella lista degli artefici i tagliapietre, gli architetti, i pittori, gli scultori. Anche il ferro doveva essere ra­ro; e il rame veniva ancora dall'Etruria. Ma vi sono gli orefici. Infatti, una delle più antiche iscrizioni in latino, la troviamo sopra una spilla d'oro, la Fibula di Manios. E la spilla è di tipo nettamente etrusco.

Roma si restringe materialmente e culturalmente nel V secolo, e avverte il pericolo di ridiventare, da città di commercio, città agricola e povera. Perciò sarà costretta a porre tutti i suoi sforzi per intraprendere la lotta contro tutti i popoli che la circondano e allacciare relazioni dirette con quelle potenze che dominano il mare.

Un secolo dopo (intorno al 335), ha inizio la prima monetazione romana e l'insegna di Roma sarà una prora di nave, insegna commer­ciale, anche se si continuerà a pensare il valore della moneta (pecunia) in rapporto al patrimonio in bestiame (pecus). È una moneta fusa in bronzo, tardiva rispetto a quelle delle città del Mediterraneo orien­tale e poco agile per il suo volume e il suo peso.

Roma entra in contatto permanente con l'area commerciale greca dopo l'accordo sanzionato con Neapolis nel 326. La moneta­zione romana presenta la singolarità di far seguire alla pesante monetazione in bronzo, di tipo italico, una monetazione d'argen­to, di bronzo e, saltuariamente, d'oro, di tipo greco e di base metrologica greca. Roma adatta la propria azio­ne volta per volta alle esigenze pratiche delle varie situazioni politiche ed economiche, e quindi anche culturali, che si presentano.

Il V secolo era stato per Roma il tempo dell'organizzazione interna, il secolo della prima codificazione delle leggi (le XII Tavole) e dell'orga­nizzazione militare, che avviene sotto l'impulso di una reazione patrizia antiplebea. Ma è anche il tempo dei primi contatti a gran­de raggio. Alla fine del secolo o agli inizi del seguente si ebbe, secondo la tradizione, il primo trattato con Cartagine. Questa tradizione è resa storicamente più attendibile dal ritrovamento a Pyrgi, il porto di Caere, d'iscrizioni che attestano stretti legami in questo tempo fra Etruschi di Caere e genti parlanti il punico. Si ebbero in questo secolo anche le pri­me avvisaglie del futuro urto con le tribù celtiche del Galli, penetrate nel­la pianura Padana.

Roma riconobbe adesso la necessità di crearsi attorno un territorio che fosse sufficiente a se stessa e che fosse autonomo. La prima importante città rivale a cadere fu l'etrusca Veio, all'inizio del IV secolo (396 a.C.). Nel 304, alla fine della seconda guerra sannitica, Roma si presenta come forza determinante nella penisola e questa posizione di poten­za si compirà con la vittoria di Sentinum (in Umbria), nel 295.


le prime cinte di mura

Roma era sorta in un terreno con colli erti e sco­scesi (Palatino e modulino), che offrivano una buona difesa naturale, e con alture collegate alle vallate, il cui fondo era spesso paludoso.

Anche se qualche colle può avere avuto sin dal VI secolo dei tratti di protezione difensiva, sembra che solo dopo aver subito il saccheggio da parte della scorreria dei Galli si iniziasse, nel 378, a cingere di mura I'intera città: sono le mura serviane.

Le discussioni estetiche erano lontane dall'orizzonte di questi uomini, come ogni formulazione teorica (hanno del­le leggi e delle disposizioni e un'esperienza giudiziaria, ma non una teo­ria giuridica, e cacceranno da Roma nel 173 e nel 161 a.C. alcu­ni filosofi greci come corruttori). Ma essi potevano apprezzare un buon ingegnere e un buon capomastro muratore: le nove porte e le cin­quanta torri nelle mura della colonia di Falerii Novi, costruite attorno al 210, mostrano buone capacità costruttive. Ma come nelle mura del­la colonia latina di Cosa (273 a.C.), il tipo di tecnica edilizia era ancora quello usato dalle maestranze etrusche.

Un'architettura romana esiste ben prima di una pittura e di una scultu­ra romana. Ma ancora nel ll secolo a.C. fu fatta distruggere, per ordine del Senato, l'iniziata costruzione di un teatro stabile in pietra.

Ci vorranno diverse generazioni prima che un'assicurata potenza e una grande ricchezza rendano consapevoli i Romani che non si può far parte del mondo civile senza mostrarsi intenditori e amatori d'arte.

Per tutto il IV secolo, l'orizzonte di Roma resta limitato all'Italia centrale. Trattati e convenzioni più o meno stabili la uni­scono alle città più importanti dell'Etruria, del Lazio e della Campania. Ma con la fine del IV secolo e l'inizio del III, l'orizzonte si allarga rapidamente e la società rigidamente patrizia di Roma è costretta ad aprirsi a nuovi fermenti, a nuove esigen­ze sociali.

La guerra di Roma contro Taranto, la più fiorente e colta città del mezzo­giorno della penisola, porta nel 280 a.C. l'esercito di Pirro dall'Epiro in Italia e in Sicilia. Quest'occasione fu anche il primo contatto con un nuovo e straordinario mezzo di battaglia, l'elefante guidato da uomini armati. Ma la traccia che di questo avvenimento troviamo nell'artigianato italico appare già mediata attraverso una urazione ellenistica. Fu questo, infatti, il primo largo contatto diretto della popolazione ro­mana con gente del tutto grecizzata. Ad esso seguì il trattato con un principe ellenistico, Tolomeo Il Fila­delfo, l'erede della porzione africana dell'impero di Alessandro. Vengono poi la definitiva vittoria su Taranto (272 a.C.), la presa di Reg­gio (270 a.C.), la lega con Siracusa in occasione della prima guerra con­tro la potenza cartaginese (264-241 a.C.). Venne, infine, nel 228, l'ammissione dei Romani ai giochi istmici di Corinto, che equivaleva ad un'ammissione nella società delle nazioni di civiltà greca.


l'arte primitiva e il bruto modulino

Questi contatti, e le guerre vittoriose in Sardegna e in Corsica e in Dalmazia, non determinarono ancora mutamenti sostanziali nella cultura di Roma. In una delle tombe ancora accessibili all'inizio della via Appia, nella parte rimasta entro le mu­ra della città, la tomba degli Scipioni, il sarcofago di uno di questi gene­rali vittoriosi, di grande casata, Scipio Barbatus, databile attorno al 260 a.C., mostra diretta derivazione da esemplari di Sicilia e nessuna immagine adorna questo semplice sarcofago architettonico, simile a un'ara.

Qual era l'orizzonte artistico indigeno quando non fosse intervenuto il contatto con l'ellenismo, lo dimostra un rilievo del Museo Provinciale di Lucera, con un pastore tra le pecore. Nell'ambiente italico una scultura come questa può appartenere al V secolo a.C. come al I d.C. e l'unico modo di attribuirle una cronologia sarebbe di sapere se insieme a essa siano stati rinvenuti frammenti di ceramica. Sappiamo però dalle fonti letterarie, che statue onorarie a personaggi del­la leggenda o della storia già si ponevano a Roma, nel Foro, nel IV secolo a.C. Dopo la prima notizia di tali statue po­ste sui rostri in memoria di quattro cittadini romani inviati come ambasciatori a Fidene e uccisi dal re dei Veienti nel 438, c'è nella tradi­zione una pausa di un secolo prima di trovar notizia di altre statue. Ma dal 340 in poi non sono infrequenti, e si tratta anche di statue eque­stri. Con quelle di Pitagora e Alcibiade si accolgono, verso il 290, ideali greci di sapienza e valore.

Tutte queste immagini risultano essere state in bronzo e di alcune sap­piamo che provenivano, come bottino, da città della Magna Grecia e del­la Etruria. Essendo in bronzo, sono andate perdute nella fame di metallo che seguì il collasso dell'economia antica. Un solo frammento è giunto fino a noi, di una statua probabilmente equestre, ed è la testa conservata in Cam­pidoglio col nome di Giunio Bruto, il fondatore della Re­pubblica.

Non è facile dare a questo ritratto una collocazione stilisti­ca sicura. Certamente non appartiene all'arte greca, anche se il suo autore aveva appreso dai Greci; certamente non appartiene all'arte romana perché ciò che siamo autorizzati a chiamare col nome di romano è di una sostanza diversa, anche se romano può dirsi il contenuto etico che investe questo volto severo. Si tratta di un'arte medio-italica, che si differenzia sia dall'arte greca importata in Sicilia e in Magna Grecia, sia dall'arte dell'E­truria, e che ha contatti e riceve suggerimenti dall'una e dall'altra, ma si nutre interiormente di quella austerità che è propria dei contadini delle montagne. Essa riceve con renitenza il contatto con l'eleganza dell'arte greca di età ellenistica, accogliendone piuttosto le iconografie e le composizioni che non il linguaggio formale. La sua area va dall'Apulia al Pi­ceno, dalla Campania al Sannio e al Lazio e rappresenta il fondo comune della cultura artistica dell'Italia a sud dell'arco degli Appennini, prima dell'espansione dei Romani nella penisola. A quest'arte medio-italica, fra la prima e la seconda metà del III secolo a.C., non toccata dalle frivole ele­ganze della cultura cittadina dell'età ellenistica, dobbiamo attribuire questa testa detta di Bruto e che così bene corrisponde all'immagine del personaggio leggendario al quale è stata attribuita­.

Nella cultura artistica medio-italica si distingue, a un certo mo­mento, un accento diverso, che possiamo riconoscere come romano. La cultura artistica medio-italica ebbe certamente le sue officine in Ro­ma stessa. Ad essa ap­partengono opere certamente eseguite sul luogo, come i frammenti di architettura e di scultura in pietra calcarea ('peperino') appartenenti ad un sepolcro dell'associazione dei flautisti sull'Esquilino, databile tra fine Il e inizio I secolo a.C. Non proviene da quel complesso una ura di Orfeo tra gli animali trovata presso Porta Tibur­tina, che riveste di rustica pesantezza un'iconografia ellenistica di mo­venze eleganti e che è tipica della provincia italica; ma non è di scalpello etrusco: è di arte medio-italica.

Con analogo effetto troviamo lo schema iconografico della Battaglia di Alessandro, derivante da una pittura della fine del IV secolo, del­la quale il mosaico trovato a Pompei ci conserva una copia. Siamo, in questo caso, all'inizio dell'età imperiale; ma è ancora un esempio della sopravvivenza della cultura ellenistica medio-italica.


l'integrazione fra roma ed i popoli italici

Questa tradizione culturale va tenuta distinta dal nuovo apporto di el­lenismo che avviene con il trasferimento a Roma di tanti originali d'arte greca e con lo stabilirsi di artisti e artigiani greci nel nuovo centro della po­litica mediterranea. L'apporto più recente è una sovrapposizione che non esce dalla sfera culturale di un'élite, che è tale per rango sociale e poten­za finanziaria e che ha a Roma il proprio centro. La tradizione dell'elleni­smo medio-italico, invece, è sorta e cresciuta con lo svolgersi stesso dell'arte ellenistica, divenuta l'espressione diretta e naturale della provincia italica. Entro quest'area, la Campania assume un ruolo particolare, perché è l'u­nica regione che si salva dal collasso che colpisce il mezzogiorno italico dopo le guerre contro Annibale (218-201 a.C.).

A quella cultura medio-italica appartiene anche la moneta coniata dagli associati nella guerra del 91-88 a.C. contro Roma, sulla quale per la pri­ma volta e il nome ITALIA; ma la guerra degli Italici contro Roma non chiedeva l'indipendenza, ma l'in­tegrazione. Infatti, tutti gli Italici diventeranno cittadini romani con la legge dell'anno 90-89.

Allo stesso modo che Italici e Romani non si distinguono più giuridica­mente dopo quella data, la distinzione fra arte medio-italica e arte romana si fa più discutibile. ½ è tutta un'area culturale intermedia, nella quale non è ancora penetrata la preferenza per il marmo, e la produzione prevalente è ancora in terracotta.

Ad essa appartengono statue e busti ampiamente documentati nei santuari del Lazio, a nord, a est e a sud di Roma. Ne è esempio un deposito votivo in località Castelletto nella valle d'Ariccia, che conteneva monete in bronzo, dalle prime emissioni romano-campane del IV secolo a monete in bronzo dell'imperatore Claudio. Insieme a offerte più modeste vi erano due notevoli statue di Kore Persephone e di Demetra e un busto di questa dea. Quest'ultimo è chiaramente derivato da modelli siciliani, nei quali era an­cora visibile un riflesso dell'espressione della Demetra di Cnido. Alcune iscrizioni richiamano un episodio narrato dallo storico Tito Livio, riferibile al 186 a.C.

Tutto porta a collocare verso la metà del II secolo a.C. queste plastiche. Esse sono un esempio tipico di un'arte che ancora non può dirsi roma­na, ma che costituisce la cultura artistica di Roma e che produce ancora le decorazioni nei frontoni dei templi della città di Roma (statue di via San Gregorio). In altri casi l'accento romano è più esplicito e investe anche i centri di produzione vicini. Il costituirsi in Roma di una particolare forma di ritratto avrà un riflesso nell'ambiente etrusco romanizzato in un ritratto di terracotta proveniente da Caere.

Nello stesso tempo vi erano in Roma artisti di educazione più direttamente ellenistica, o greci, come quello che eseguì un ritratto del grande Pompeo, che possiamo ri­conoscere attraverso il confronto con le monete coniate in suo onore dal lio Sesto sotto il monetiere Quintus Nasidius.

Il saccheggio di Siracusa

Una conseguenza decisiva per il diretto contatto a Roma con l'arte el­lenistica aveva avuto la presa, nel 212 a.C., e il saccheggio di Siracusa, dove perì Archimede. Plutarco, nella biografia del generale Marcello, racconta, trecento anni dopo i fatti, che questi portò via da Siracusa le più belle fra le opere d'arte. Lo attesta anche Tito Livio, dicendo che la presa di Siracusa fu l'inizio dell'ammirazione per le opere d'arte dei Greci.

Dalla fine del III secolo, a Roma s'in­comincia a scoprire che l'arte è qualche cosa più che una tecnica e che il parlar d'arte è uno dei modi più eccitanti di parlare dell'essenza umana. Due generazioni dopo, però, i Romani non do­vevano aver fatto grandi progressi in materia e che a Roma l'arte non en­trava ancora a far parte dell'educazione e della cultu­ra fondamentale di ogni persona ben nata.

Dopo la presa di Siracusa, le occasioni per entrare in contatto e in pos­sesso di opere d'arte greca non finirono, anche se restarono sul pia­no dello scontro armato e vittorioso, più che sul piano dell'incontro in­tellettuale. La guerra contro Filippo V di Macedonia terminò con un grande trionfo del console Flaminino nel 194 a.C., e portò nuovi carichi di statue e di vasi preziosi cesellati. E la guerra contro Antioco III, culminata nel­la presa di Magnesia e che terminò con la conquista, a opera di uno degli Scipioni, dell'Asia Minore ellenizzata, riversò sul­la città di Roma quanto di più squisito aveva prodotto una delle nazio­ni nella quale si era sviluppata con maggiore freschezza, originalità e ricchezza l'arte ellenistica. La lista dei bottini di guer­ra e delle indennità imposte dà un'idea del continuo afflusso di ricchezza che si concentrò in Roma in quel tempo. In questa pri­ma fase di conquista si spogliano esclusivamente i templi: il portar via gli dei del po­polo vinto è la giustificazione del saccheggio e rappresenta un buon affare.

La presa di Cartagine e Corinto

Il 146 a.C. vide Scipione Emiliano conquistare definitivamente Cartagine e Lucio Mummio conquistare, con la presa di Corinto, tutta la Grecia continentale e la stessa Atene.

Il più antico tempio di Apollo, posto fuori del recinto urbano, nel Campo Marzio, fu com­pletamente rifatto all'inizio dell'età augustea da Sosio, governatore del­la Siria nel 38, conquistatore di Gerusalemme nel 37. Questo tempio, ricostruito secondo modelli ellenistici, era divenuto una specie di museo. ½ erano conservati: un Apollo in legno di cedro portato via da Seleucia, dodici statue dello scultore rodio Filisco, cioè un Apollo con Latona, Diana e le nove Muse, abbondantemente copiate e imitate; un Apollo con la cetra opera di Timarchide, scultore attico del II secolo; un gruppo di statue rafuranti Niobe e i Niobidi, sulla cui attribuzione a Skopas o a Prassitele si discuteva; un quadro di Aristide, pittore del IV secolo. Tra le altre opere è da riconoscersi anche oggi una statua di Apollo, che doveva tendere l'arco e nella quale un'ipotesi ingegnosa ha proposto di vedere un originale del­lo scultore Pythagoras di Reggio, un maestro dell'arte della Magna Grecia di età classica, portata via dalla città di Crotone, sulle cui monete è riprodotta.

L'afflusso di opere greche

Affiuiscono in questo tempo innumerevoli opere originali gre­che, sculture, pitture e lavori di toreutica come preda di guerra. Dovette formarsi, in un secondo tempo, una categoria di appassionati collezionisti, la cui fame di opere d'arte era ta­le che essa non poteva essere soddisfatta con opere originali appartenenti ai templi, alle città, o ai principi. Avverrà allora, in questa seconda fase, la produzione e l'importazione in massa di copie di statue e di quadri celebri e di opere ispirate all'arte di età classica e uscite dalle officine neo-attiche di Atene, che rimaneva, per i Roma­ni, la città simbolo della cultura e dell'arte, oltre a essere il mercato più prossimo. Per riflesso economico, l'arte di­venne cosa di qualche importanza anche nell'opinione pubblica. Ma in queste condizioni eccezionali, non si poteva formare una tradizione artistica coerente e originale.

La grande mescolanza di opere di età e di stile diversi non poteva crea­re che un gusto eclettico. Bisognerà che tutte queste novità siano divenute cose nor­mali e consuete, prima che dalla loro decomposizione sorga una nuova civiltà artistica.

Da una società sobria al lusso

La società romana era vissuta in modo patriarcale, con un orizzonte cul­turale rustico, confacente ad una tradizione di par­simonia e di semplicità, che era dovuta a un potenziale economico, indi­viduale e collettivo, piuttosto modesto. I templi erano, come in Etruria, costruiti in legno, sopra un alto basamento di pietra, e rivestiti di terre­cotte dipinte, eseguite a stampo. Le case, in pietra e malta entro un'in­telaiatura di legno. ll vasellame di terracotta di fabbrica locale era grezzo; dalla Campania si era diffuso un vasellame verniciato di nero, adorno di qualche motivo in rilievo e imi­tante il bronzo; qualche vasellame a vernice rossa, di cottura ine­guale, ornato da palmette impresse a stampino, veniva da qualche fabbrica dell'Etruria nella valle dell'Arno. Recipienti di bronzo erano usati, ma raramente adorni di qualche applicazione a rilievo.

La società romana partiva da questi orizzonti parsimoniosi; ma nel giro di una generazione andò effettuandosi a Roma un'intensa concentrazione di capitali. Questi capitali andarono in gran parte alle casse dello stato, ma in par­te rimasero in mano privata. E mai in un grande stato la misura del po­tere politico fu così direttamente data dalla ricchezza.

Questo rivolgimento economico portò al­la crisi delle vecchie istituzioni, che si palesarono insufficienti e incapa­ci di reggere la complessità di uno stato a struttura imperialistica; soltanto con il principato di Augusto, cioè con la trasformazione in uno stato monarchico, basato su una rigida organizzazione burocra­tica, Roma ritrovò la pace e la sicurezza interna.


l'ultimo secolo della repubblica

L'ultimo secolo della repubblica fu un'età terribile, nella quale la lotta po­litica era combattuta senza esclusione di colpi e risolta solo con la vio­lenza.

In quell'ambiente di lotte violente e sanguinose, di rapide fortune e di sfrenate ambizioni si formò una civiltà artistica a Roma. Se la co­noscenza e il contatto delle opere d'arte greca erano esistiti anche in an­tico, adesso era la possibilità di possederle, quelle cose, attra­verso estorsioni, rese possibili dalla soggezione dei paesi ellenizzati. Questo è il modello del collezionismo romano di questo tempo e del carattere conferito alle ville, ai giardini, alla decorazione della casa.


l'eruzione del vesuvio (79 d.C.)

A causa dell'improvvisa interruzione della vita dovuta all'eruzione del Ve­suvio del 79 d.C., abbiamo a Pompei ed a Ercolano una te­stimonianza quale ci viene a mancare per Roma, dove la vita continuò ininterrottamente dall'antichità a oggi, distruggendo via via il passato. Le case dei borghesi era­no di un lusso modesto rispetto a quello che dovettero essere le dimore dei grandi signori di Roma, eppure ci sorprendono per la ricchezza del­la decorazione pittorica. Essa è stata spiegata col concetto della casa come Mouse . on e come imitazione della descrizione di una reggia el­lenistica. Tutto questo è reso illu­sionisticamente dalla pittura: vediamo le pro­spettive a colonne di grandi cortili porticati racchiudenti un elegante tempietto rotondo adorno di ghirlande.

Se il borghese medio si doveva accontentare di questi sogni dipinti, qualche potente poteva tradurre in realtà questi splendori ellenistici. Tutto ciò appartiene alla cultura ro­mana, ma non alla storia dell'arte romana.

Questo gusto retrospettivo rimane una caratteristica della ci­viltà artistica di tutto questo periodo e sino a tutta l'età giulio-claudia. Esso risorgerà anche dopo, dando luogo ad una serie di movimenti 'neoclassici', che restano tipici per tutta l'arte d'età romana, ma costituiscono un aspetto fondamentale e ne de­nunciano il carattere in parte non spontaneo, intellettualistico, pro­grammatico. Questo carattere è il punto debole di tutta l'arte romana, nella quale restano episodici e legati a singole personalità di ar­tisti i momenti di piena sincerità e di vera creazione, mentre si estendo­no le officine anonime.

Questo spiega come mai, nonostante il contatto di così nume­rosi e così vari capolavori di tutte le età dell'arte greca, non sia nata, tra il II e il I secolo a.C., un'arte nuova, una corrente fresca e originale. Un'e­spressione artistica nuova non si avrà nell'arte monumentale, se non dall'età di Traiano in poi, quando da un secolo era finito l'afflusso di opere dalla Grecia, quando l'antica tradizione ellenistica si era trasformata nei suoi stessi centri d'origine e quando si era calmata sia la fame del possesso di opere d'arte, sia la cattiva coscienza che accomnava tale possesso.


cicerone, il romano che meglio seppe intendere la cultura greca

Questo tratto di rinnegare i propri interessi artistici è comune a tutti gli scrittori romani che parlano di cose d'arte, soprattutto a quelli che se ne in­teressavano più vivamente. Lo troviamo perfino in Cicerone, che appare il romano che seppe meglio intendere la cultura greca. Egli arri­vò ad intravedere, anche se riducendoli a un eclettismo mondano, i moti­vi teorici circolanti in quella letteratura ellenistica che si occupava dei pro­blemi della forma artistica e quindi avrebbe potuto avere i mezzi per accostarsi a un apprezzamento critico indipendente.

Cicerone rimane un collezionista e incaricava l'amico Attico, che era di­venuto un grande editore, di cercargli, ad Atene, statue adatte per le sue ville.

Il collezionismo dei ricchi

Nelle orazioni contro Verre (70 a.C.), accusato di spoliazioni ed estorsio­ni nella provincia della Sicilia affidatagli, Cicerone ci fornisce il quadro più vivace della mania collezionistica e dell'aspetto di musei assunto dalle ville e dalle dimore dei ricchi.

Al senso di tradimento verso l'austera povertà dei padri, verso la durezza della vita romana di un tempo, si aggiunge il con­tinuo senso di inferiorità, la consapevolezza di non aver afferrato, non­ostante tutto, la vera ragion d'essere, il vero mistero di quelle opere d'arte, e di non aver nessuno, tra i propri concittadini, capace di creare cose simili senza copiarle.

Attorno alla ura di Agrippa (morto il 12 a.C.) aleggia ancora questo riserbo, ma e anche un aspetto nuovo, che mostra di aver già in parte superato il momento della cattiva coscienza: Agrippa espri­me l'opinione che le opere d'arte raccolte non dovrebbero restar chiuse nelle case private, ma essere di pubblico godimento, e dà l'esempio per quelle raccolte da lui. È un preludio alla crescente monumentalità pub­blica delle età successive, ma nello stesso tempo anche al tramonto del collezionismo privato.

Il problema delle copie

Il numero dei capolavori greci non solo non era inesauribile, ma i più celebrati, o erano stati considerati inamovibili, o erano stati por ­tati via al tempo della conquista e posti nei templi e nei Fori, o ad ab­bellire qualche città-colonia di nuova istituzione. Perciò i colle­zionisti dovettero accontentarsi di copie delle opere più celebrate. Accanto alle copie vi furono le varianti, gli adattamenti di statue celebri, le repliche di tipi iconologici classici, a scopi non solo de­corativi, ma anche funzionali. Si hanno copie di un tipo statuario famoso riprodotte come se fosse visto allo specchio, con invertita direzione, in modo da poter inserirsi nell'ornamento di un giardino o di una facciata. (come le repliche del Pothos di Skopas). Si hanno le statue di tipo fidiaco, o ispirate ad un maestro classico, co­piate, riprodotte mediante calco, fuse in bronzo e do­rate o argentate e adattate a reggere un lampadario, come gli efebi tro­vati a Pompei.

Accanto alle copie ci sono gli adattamenti e i "pasticci", cioè le combina­zioni di parti provenienti da opere diverse in un tutto nuovo. Un "pasticcio" è anche il copiare un'antica statua di divinità e darle una testa che fosse un ritratto, come nella statua di un oratore firmata da Kleomenes (Museo del Louvre) la cui testa è un ritratto della cerchia augustea, mentre il corpo corrisponde alla statua di un Hermes oratore che sorgeva ad Atene.

È un tratto tipico di questo tempo, che sussisterà per tutta l'età romana, quest'insensibilità stilistica che non avverte il contrasto fra un corpo co­struito secondo le norme di un contrappunto formale così rigoroso da farne quasi una composizione astratta e intellettualizzata, e l'accidenta­lità, la brutalità realistica di un ritratto.

L'età romana fu insensibile a questa mancanza di unità stilistica ed era preparata alla mancanza di organicità di tali immagini dall'inorganicità dell'arte italico-etrusca. Si palesa un carattere non tanto esotico quanto pratico, strumentale, che sta al fondo della produzione artistica romana.

La scuola di Pasiteles

Uno scultore che viene ricordato spesso nelle fonti letterarie e che fece scuola, si chiamava Pasite­les, era nativo di una città greca dell'Italia meridionale, ma divenne cittadino romano e svolse la sua attività attorno alla metà dell'ultimo secolo a.C.; conosciuto da Cicerone e, sembra, protet­to da Pompeo. Abilissimo modellatore in creta e in cera, fu particolar­mente toreuta, ma anche scultore e scrittore di cose d'arte, ricavando dalla letteratura ellenistica notizie ed elenchi dei capolavori più famosi (nobilia opera). Ma Pasiteles appartiene ancora all'arte greca, non a quella romana.

Nessuna opera sua è stata identificata. Con incertezza, gli fu attribuito il ritratto di Pompeo (a Copenaghen, Ny Carl­sberg). Questa è un'opera nella quale si fondono in mo­do caratteristico gli elementi decorativi ellenistici ed una modellazione morbida e plastica che ha per proprio mezzo di espressione originario la creta.

Si sono conservate, invece, due opere della scuola che Pasiteles dovette fon­dare a Roma: l'una è la statua di giovane atleta efebico nel pieno gusto retrospettivo del classicismo, interessante perché mostra come la raf­finatezza intellettualistica del tempo era giunta a imitare non soltanto la pienezza classica, ma anche l'acerbità dello stile severo degli anni intorno al 460 a.C. Un gusto per il primitivo che giungerà anche all'imitazione leziosa dell'arcaico. Questo efebo di gusto pre-fidiaco è fir­mato da un artista di nome greco, Stephanos, che si professa scolaro di Pasiteles. Un altro artista, greco anch'esso, che si firma Menelaos, scola­ro di Stephanos, ci ha lasciato un'opera di fredda composizione accademica: la materna sorella Elettra che accoglie l'efebico Oreste, in un'interpretazione lontana dal carattere dei personaggi immortalati dai grandi poeti tragici greci.

Arkesilaos ed Evandro

Anche di un altro scultore dal nome greco e dalla patria ignota, ma sta­bilitosi a Roma con molto successo, Arkesilaos, conosciamo solo qual­che notizia letteraria e l'incerto riflesso su alcune opere. Anch'e­gli è stato supposto particolarmente esperto nel modellare la creta. Di Ar­kesilaos fu l'immagine di Venere che Cesare fece porre nel tempio al centro del suo Foro, la Venus Genitrix, patrona della gens Giulia. La sua attività durò anche dopo quella di Pasiteles tra il 55 e il 40 a.C.

Il nome di Arkesilaos è congiunto a quello di Lucullo, ricchissimo e raffinato pro­console d'Asia. Analo­gamente, al nome di Antonio, il triumviro, è legato quello di Evandro, scultore e toreuta, portato da Atene ad Alessandria, alla corte di Cleopatra, come consulente artistico, e che finì per stabilirsi a Ro­ma come restauratore e commerciante di opere d'arte col nome di Caius Avianus Evander. Della sua opera si valse anche Cicerone.




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