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Analisi della novella "la patente" di Pirandello

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Analisi della novella "la patente" di Pirandello

La novella 'La patente', pubblicata nel 1915, come molte altre opere di Pirandello rappresenta il dramma dell'uomo costretto in un'immagine nella quale gli altri lo hanno calato.
Tema costante e fondamentale per l'autore è infatti quello dell'impossibilità dell'individuo di avere un'identità; l'uomo non è uno, ma è tanti quante sono le sue relazioni con gli altri, costretto in una  'forma' o 'maschera' che gli altri gli attribuiscono. La storia del povero Rosario Chiàrchiaro, padre di famiglia allontanato dalla società per la maschera che gli era stata creta per la sua fama di jettatore, perde il lavoro e vive di stenti. Il personaggio, che chiama in tribunale i suoi diffamatori non per ottenerne la condanna, ma per vedersi ufficialmente riconosciuta la qualifica di jettatore, appare decisamente grottesca e bizzarra; in realtà in questa novella Pirandello esprime il suo pessimismo e rivela grande comprensione e partecipazione al triste destino degli uomini.
Chiàrchiaro è costretto nella 'forma' dello jettatore dalla stupidità e dalla cattiveria dei suoi concittadini, e cerca di liberarsene in un modo del tutto inconsueto: non tenta, infatti, di uscire dalla  maschera, vuole, invece, renderla proficua, vuole che sia la sua identità, perciò non sarà più jettatore per diceria, ma jettatore patentato dal regio tribunale, grazie alla patente da lui stesso richiesta. Decide di rivolgersi alla giustizia, rappresentata dalla persona del giudice D'Andrea, uomo semplice e buono, profondamente lacerato dal conflitto fra il senso del dovere e la consapevolezza che talvolta la legge può sovrastare su ogni valore morale. Il giudice D'Andrea, persona ordinata e meticolosa nello svolgere il suo lavoro, aveva ancora in sospeso un caso che lo lasciava molto perplesso, al punto di far chiamare il querelante per convincerlo a ritirare l'accusa, che alla fine lo avrebbe penalizzato ancor di più. Naturalmente il giudice non avrebbe mai potuto incriminare i due ragazzi querelati per un così banale fatto e alla fine la fama di iettatore di Chiàrchiaro si sarebbe ancor più diffusa ottenendo l'effetto contrario di quello che chiunque potesse credere fosse desiderato dal Chiarchiaro. Quando lo sfortunato individuo arriva nell'ufficio si presenta con il tipico aspetto di uno jettatore e ammette addirittura di esserlo, il giudice sbigottito dalla sua apparente incongruenza gli chiede perché inizialmente aveva querelato i ragazzi che lo ritenevano uno iettatore se poi si riteneva tale; egli risponde che in realtà voleva che la gente lo ritenesse uno iettatore per essere ato affinché non portasse iella ad essi, e, a prova del suo potere, voleva avere un riconoscimento ufficiale di iettatore che poi potesse usare con lo scopo di guadagnare: una "patente"! 'La patente è un esempio significativo di quel che possa provocare in un piccolo contesto sociale la superstizione: un povero uomo onesto, per il casuale concorrere di circostanze fortuite, indicato dai più come jettatore, arriva alla più nera disperazione senza che alcuno si senta personalmente responsabile dell'irrimediabile danno arrecatogli.
In questa novella risalta fortemente il confronto tra due caratteri bizzarri: il giudice istruttore D'Andrea e la 'vittima' Rosario Chiàrchiaro. Il primo è un sognatore che indossa la propria maschera quotidiana, il supplizio e il costante e lacerante dovere di amministrare la giustizia; il secondo, oltre la personale tragedia dei giudizi che si è trovato a sopportare all'interno della socità, propone un'esasperata logica della conciliabilità degli opposti (intentare causa ai diffamatori e affermare la verità e la fondatezza delle loro convinzioni e, addirittura, fornire loro delle prove) pur di, poiché costretto a convivere sotto quella immagine, rassegnarsi e trasformare la sua maschera pessimistica in uno strumento portatore di guadagno. Nella  'Patente' è possibile individuare tre sequenze narrative fondamentali: la presentazione del carattere, degli atteggiamenti e della coscienza del giudice D'Andrea; il modo sofferto e problematico con cui il giudice pensa al processo di Chiàrchiaro; il colloquio tra il giudice e Chiàrchiaro.
Come la maggior parte dei racconti e dei drammi della produzione del Pirandello, anche questo lascia in bocca un sapore aspro ed amaro. Nel mondo rappresentato dal Pirandello gli individui sembrano ribaltati dalla vita, sembra che si stacchino d'improvviso dalla realtà, per ritrovarsi a riflettere delle proprie condizione e finendo con l'accettare il proprio marchio indelebile. Come Rosario (il protagonista), ognuno di noi ha una 'maschera', una 'forma' in cui resta imbrigliato e che spesso deriva dalla crudeltà o dalla incapacità di comprendere i nostri sentimenti da parte delle persone che ci circondano. I rapporti degli uomini tra di loro sono spesso condizionati dalle false immagini che ognuno si fa dell'altro; la fisionomia interiore e autentica dell'essere umano è talora così deformata dalle situazioni, dagli episodi e dall'ambiente da non lasciar vedere di lui che una maschera grottesca e assurda, nella quale egli deve rifugiarsi per essere riconosciuto dagli altri e per poter comunicare con loro. Il protagonista, da vittima, si fa persecutore; il suo gesto, apparentemente pazzo, risulta saggio; l'appellativo attribuitogli, da ingiurioso diventa utile. L'ignoranza e la superstizione hanno fatto di Chiarchiaro un povero disperato che vuole vendicarsi, traendo dalla sua disgrazia il massimo profitto. La sua storia, che può a volte essere anche ritenuta divertente e caricaturale, ma comunque triste e commovente cela, sotto un superficiale umorismo, una vena di profonda amarezza e di autentica pietà e diventa emblematica della beffa della vita e delle menzogne in cui l'uomo si dibatte, in una società ignorante e superstiziosa.








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