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Ariosto e Bembo

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Ariosto e Bembo

Ludovico Ariosto: la vita

Nato a Reggio Emilia nel 1474 da Daria Malaguzzi e da Nicolò, capitano della fortezza di Reggio, Ludovico Ariosto, a seguito dei trasferimenti del padre, alto funzionario dei duchi d'Este, trascorse la giovinezza a Ferrara tra gli studi umanistico-letterari sotto la guida di Gregorio da Spoleto. Intraprese gli studi giuridici, a lui poco congeniali, che abbandonò nel 1500 quando morì il padre.

In quell'occasione, Ariosto si preoccupò di definire le questioni economiche relative ai beni familiari e cercò di trovare un'adeguata e dignitosa sistemazione ai suoi fratelli. Nel 1503, presi gli ordini minori che gli consentirono di accedere a piccoli benefici ecclesiastici, tra gli affari di famiglia e gli impegni letterari assunse diversi incarichi presso il fratello minore del duca Alfonso d'Este, il cardinale Ippolito. Le mansioni del poeta andarono assai al di là delle prestazioni di cortigiano letterato, responsabile dell'attività culturale della corte, e diventarono umilianti quando fu utilizzato come accomnatore, messaggero e a volte cameriere del suo signore.



Ariosto dovette spesso compiere missioni delicate e pericolose che lo portarono a Roma presso il papa Giulio II per giustificare gli atti del cardinale Ippolito e la politica filofrancese degli Este.

In una delle missioni diplomatiche fu costretto a fuggire dalla città insieme al duca Alfonso perché inseguito dalle guardie pontificie. I precari mezzi di sussistenza e la prepotente vocazione letteraria lo spinsero a ricercare impieghi più adatti alla sua indole sedentaria, soprattutto dopo l'unione con Alessandra Benucci, comna fedele, che sposò in segreto intorno al 1516.

Così nel 1517, quando il cardinale Ippolito, nominato vescovo di Agria in Ungheria, volle condurlo con sé, il poeta rifiutò fermamente. Il nuovo incarico alle dirette dipendenze del duca Alfonso non risolse la grave situazione economica ereditata dal padre e, nel 1522, Ariosto finì per accettare l'incarico economicamente più vantaggioso di governatore della Garfagnana. In quella regione rimase tre anni, utilizzando le sue doti di energia e di prudenza per scoraggiare i briganti che la infestavano. Nel 1525 Ariosto tornò a Ferrara e, acquistata una casa modesta, si ritirò nella contrada di Mirasole dove trascorse gli ultimi anni della sua vita tra incarichi onorevoli e poco fastidiosi, confortato dagli onori tributatigli da tutta l'Italia. Morì a Ferrara nel 1533.

Le liriche latine

Spinto dall'amicizia stretta con i letterati più famosi dell'epoca, come Bembo, e conformandosi al gusto umanistico della società letteraria ferrarese, tra il 1494 e il 1503 Ariosto compone le sue prime prove poetiche scrivendo in latino i Carmina sul modello degli antichi lirici ed elegiaci Tibullo, Orazio, Catullo, Ovidio, Properzio. In esse il poeta riversa le esperienze della vita giovanile, i primi amori, gli affettuosi rapporti con maestri e amici, le occasioni mondane della corte estense. Per esempio nell'ode A Filiroe, composta alla vigilia della discesa di Carlo VIII in Italia, esprime la condanna dell'impegno politico e militare, al quale Ariosto contrappone la realtà amorosa. Così in un'elegia diretta al Bembo, che gli aveva consigliato indulgenza per le mancanze dell'amata, il poeta proclama il rifiuto di sopportare alcun tradimento della propria donna, ribadendo il carattere irrazionale dell'amore. Durante questo periodo non manca di scrivere componimenti in volgare, poi perduti, che sulla scorta di scritti goliardici celebrano scherzosamente incidenti e avvenimenti della vita studentesca e cittadina. L'esercizio stilistico si perfeziona nelle liriche in volgare, denominate Rime, scritte sull'onda del petrarchismo a sfondo platonico di Bembo, e della tradizione poetica ferrarese, fondendo il gusto per l'indagine psicologica caro a Boiardo con quello più musicale e concettoso della lirica di Tebaldeo.

Il modello letterario di Petrarca è ripreso e interpretato originalmente anche nella scelta della struttura metrica: le terzine del modulo, più rispondente alle esigenze narrative di Ariosto di quanto non fosse la rigida struttura della canzone petrarchesca.

Le commedie

L'impegno artistico del poeta aumenta grazie all'attività teatrale alla quale si dedica per lungo tempo. Adolescente, compone la tragedia Tisbe, perduta, e si esercita come autore di rimaneggiamenti e volgarizzamenti di commedie di Plauto e Terenzio. In seguito si impegna come autore, regista, organizzatore di spettacoli teatrali per la corte estense.

Da questi interessi nascono cinque commedie: la Cassaria (1508) e i Suppositi (1509), sorta di commedie dotte che Ariosto riprende dai modelli dei comici antichi, imitandoli originalmente trasferendo sulla scena personaggi, luoghi e situazioni contemporanee. Nel Negromante, composto tra il 1509 e il 1520, il poeta abbandona la prosa delle precedenti opere privilegiando l'endecasillabo sdrucciolo. Le comiche vicende del protagonista, il negromante Jachelino che si avvale delle magia per attuare truffe e imbrogli, sono animate da un gusto per il quotidiano e da un senso di umanità, caratteristica fondamentale della poesia ariostesca. L'amore per il realismo, presente anche ne Gli studenti, commedia iniziata nel 1518 e rimasta incompiuta (il fratello Gabriele e il lio Virginio la completarono dandole il titolo di Scolastica), domina la Lena (1528). In essa, al di là dell'aspetto comico, prevale il tono pessimistico del poeta, che riflette sulla condizione umana evidenziandone gli aspetti moralmente più bassi. L'originalità del teatro di Ariosto consiste nell'adozione di alcuni elementi innovativi: una lingua che mescola parole del dialetto padano, del fiorentino letterario con espressioni classicheggianti; l'impiego dell'ironia, espressione di uno spirito moderno che molti spettatori condividevano; l'attiva partecipazione del pubblico cortigiano, assicurata dai costanti riferimenti e allusioni a fatti o personaggi della corte.

L'Epistolario

Testimonianza della vita interiore di Ariosto è il suo Epistolario, opera che trova spunto nelle vicende autobiografiche del poeta. Dalla lettura delle lettere (su duecentoquattordici totali, centocinquantasei appartengono al periodo del commissariato in Garfagnana) emergono le qualità umane dell'autore: capacità decisionali, abilità politica e un forte senso di umanità dei quali conobbe la povertà e le offese subite dai signori prepotenti e dalle bande di briganti. Non essendo destinate alla stampa, le lettere hanno carattere occasionale (relazioni di incarichi, richieste, lettere di cortesia) e sono scritte in uno stile semplice e piano che contribuisce alla conoscenza dell'uomo Ariosto, fornendone un'immagine ricca di sfaccettature.

Le Satire

Ancora una volta l'elemento biografico, dal quale nascono le sette Satire, vale come punto di partenza di un discorso che si allarga a considerazioni morali più vaste. Scritte in terzine tra il 1517 e il 1525, si collocano nel periodo della piena maturità artistica e umana del poeta. La prima espone le ragioni del rifiuto di seguire il cardinale Ippolito a Buda, insistendo sul problema dell'intellettuale cortigiano, del quale Ariosto rivendica la dignità e l'indipendenza, e dei suoi rapporti con il signore.

La seconda satira tratta di un futuro viaggio del poeta a Roma e traccia un quadro della corruzione della curia romana. La terza racconta il passaggio al servizio del duca Alfonso. Affiora l'amore per un'esistenza tranquilla e domestica, contrapposta alle vane ambizioni umane. La quarta satira informa sulle difficoltà della sua attività in Garfagnana ed esprime la nostalgia per la donna amata. La quinta prende spunto dalle nozze di un cugino per svolgere alcune considerazioni sulla vita coniugale. La sesta satira è rivolta al Bembo perché gli indichi un insegnante per il lio, ed è nel contempo un attacco alla vanità degli umanisti. Nell'ultima satira Ariosto giustifica il rifiuto di andare a Roma come ambasciatore degli Este presso il papa, ribadendo il piacere di una vita tranquilla nell'amata Ferrara.


Richiamandosi al modello oraziano dei Sermones, Ariosto mescola i toni medi usati nella narrazione delle favole con gli accenti polemici delle riflessioni contro la Chiesa e gli umanisti. Lo stile piano e discorsivo, quasi colloquiale, consente all'autore di manifestare la sua interiorità tra ironia e saggezza, sfogo umorale e bonarietà, per realizzare quella ricerca quel sereno equilibrio che caratterizzerà anche l'opera maggiore.

L'Orlando furioso: la stesura

Tra il 1500 e il 1504 Ariosto aveva pensato di comporre un poema epico, del quale ci rimangono alcune terzine, in onore di Obizzo d'Este, antenato dei suoi signori. Ma il progetto fu ben presto abbandonato a favore di un genere a lui più congeniale. L'Orlando furioso, poema cavalleresco in ottave, fu ideato attorno al 1507 e la sua stesura in quaranta canti era già terminata nel 1509. Fu perfezionato e pubblicato nel 1516 e poi ancora nel 1521. L'aggiunta di altri sei canti portò alla redazione definitiva del 1532, caratterizzata da una revisione linguistica che aderiva ai precetti delle Prose della volgar lingua di Bembo.

La consapevolezza di aver scritto un'opera destinata a un pubblico italiano e non solo ferrarese portò Ariosto a eliminare tutti i latinismi e le forme dialettali emiliane, conferendo alla lingua uno stile più armonico e musicale. L'edizione in quarantasei canti comprese l'inserimento (la storia di Olimpia, quella di Ruggero e Leone) e la soppressione di alcuni episodi che tuttavia non intaccarono l'unità di ispirazione del poema. Lo stesso vale per le ottave che ricordano grandi scrittori e pittori del tempo (Bembo, Castiglione, Michelangelo). Testimonianza del continuo lavoro del poeta attorno alla sua opera furono anche i Cinque Canti, composti tra il 1518 e il 1523 con l'intento di ampliare la materia del racconto.

In questi canti sovrastava il personaggio del traditore Gano, ura che era rimasta ai margini del Furioso. L'atmosfera pessimista che si respira in questa aggiunta, turbata dalle disillusioni politiche di Ariosto, spettatore del declino italiano, lo spinse a rinunciare all'idea di inserirla nell'edizione definitiva del 1532 per non alterare la coerenza dei toni usati nel Furioso.

Il recupero della tradizione cavalleresca

Con la composizione del poema Ariosto contribuì al processo di 'rifeudalizzazione' della vita civile iniziatosi nel Quattrocento con il rinnovarsi di costumi e di atteggiamenti tipici del mondo cavalleresco come le giostre, le cacce, il rispetto delle gerarchie, alimentando un clima che esaltava i valori aristocratici della società feudale rispetto a quelli della civiltà cittadina e comunale. La cultura si venne concentrando attorno ai centri del potere principesco e relegò a fenomeno municipale ogni altra espressione letteraria che esulasse dall'ambiente cortigiano. È chiaro che il recupero della tradizione cavalleresca avvenne attraverso la consapevolezza della diversità dei valori passati rispetto a quelli proposti dalla civiltà presente. Nel riproporli Ariosto agì in maniera distaccata, conscio del gioco intellettuale che una simile operazione di fantasia comportava.

La descrizione di quel mondo, che veniva analizzato con l'ironia e il sorriso bonario che aveva contraddistinto lo stile delle Satire, presupponeva la presenza di un uditorio di dame e di cavalieri, principali destinatari del poema e abili interpreti dei riferimenti alla vita e ai personaggi della corte estense ai quali si alludeva nella narrazione.

L'atteggiamento dei personaggi è sempre, comunque, laico: le mille storie raccontate dal poeta hanno esito felice o infelice, ma nessuno dei protagonisti ne cerca la soluzione in una presenza superumana o ultramondana. Piuttosto, lo sguardo dell'autore sa scendere profondamente nell'animo umano e scrutarne le complesse reazioni e i contrastanti sentimenti. Abbiamo così storie che svolgono i temi dell'amicizia, della fedeltà, della lealtà, della prodezza e altre, al contrario, che svolgono quelli della infedeltà, dell'inganno, del tradimento, della violenza; sotto il velo della favola fantasiosa palpita dovunque la vita, colta e rappresentata nella sua inesauribile complessità. Legato alle forme tipiche della tradizione dei cantari, il Furioso sviluppa una trama assai complessa, arricchita di infiniti episodi minori che denunciano la volontà del poeta di creare un movimento aperto e libero al ritmo della narrazione, mai costretta in rigidi schemi ma sempre fluida e armonica.

La trama del poema

Ariosto dichiara di voler proseguire l'opera di Boiardo, l'Orlando innamorato, lasciato incompiuto per la discesa in Italia di Carlo VIII, ma prosegue la materia del suo predecessore con un registro poetico nuovo. Il racconto riprende dalla descrizione degli eserciti attestati alle porte di Parigi pronti alla battaglia tra cristiani e saraceni. La trama del poema si articola in tre filoni principali che si intrecciano dando vita a situazioni varie e bizzarre, arricchite dall'aggiunta di episodi autonomi, quasi vere e proprie novelle, apparentemente lontane dal tema trattato al quale alla fine si ricongiungono. Il primo filone tratta dell'amore di Orlando per Angelica, promessa da Carlo Magno in premio al paladino più valoroso, e della sua pazzia, che esplode quando comprende l'impossibilità di realizzare le sue speranze a causa del matrimonio della donna amata con Medoro. Il secondo filone, che si ambienta principalmente a Parigi, è quello della guerra tra cristiani e musulmani. Il terzo filone - legato al motivo encomiastico che celebra la famiglia degli Estensi, l'origine dei quali risale alle nozze tra Bradamante e Ruggero, discendente di Ettore - sviluppa le vicende amorose tra la guerriera, sorella di Rinaldo, e il saraceno, convertitosi poi al cristianesimo.

L'organizzazione della materia

La materia del poema è sottoposta alla sapiente regia del poeta che utilizzò infiniti accorgimenti per creare un ritmo narrativo armonico. Si deve sottolineare l'uso originale del metro dell'ottava che Ariosto strutturò in maniera duttile e musicale; in secondo luogo, la tecnica della sospensione che arresta un episodio sul punto di maggior interesse per passare a un nuovo argomento, sollecitando l'attenzione del lettore, in una continua alternanza di sentimenti ed emozioni. Alla realizzazione di questo ritmo di inesauribile inventiva contribuì la fusione tra naturale e meraviglioso, tra reale e fantastico (si pensi all'Ippogrifo, cavallo e uccello insieme, o al palazzo incantato del mago Atlante).

Altrettanto accade per le descrizioni spaziali o temporali che si allargano o si accorciano a seconda della necessità narrativa, con velocissimi passaggi in paesi tra loro lontanissimi, descritti con paesaggi vari e fantastici. Ma, al di là dell'ironia e dell'intelligenza poetica con la quale Ariosto domina la sua materia, vi sono moltissimi sentimenti vivamente condivisi dall'autore.

In particolar modo si segnala la delicatezza con la quale vengono affrontati i temi dell'amore e dell'amicizia, analizzati con una varietà di toni che spaziano dall'elegiaco al drammatico, in una costante tensione spirituale. Gli ideali del mondo cavalleresco servono, dunque, ad Ariosto per costruire una finzione letteraria alla quale affidare i propri sogni e valori di uomo del Rinascimento. L'opera non è un libro di evasione dalla realtà, anzi ne rappresenta concretamente tutti gli elementi e le situazioni, sebbene inserite nella trama di un racconto fantastico. Ariosto è uno scrittore realista che, con nell'Orlando Furioso compie un'inchiesta sull'uomo contemporaneo, trasponendone sul piano letterario la psicologia.

Pietro Bembo: la vita

Pietro Bembo, nato a Venezia nel 1470 da un nobile patrizio, ricevette un'educazione marcatamente umanistica latina e greca, accomnata da un notevole approfondimento della filosofia neoplatonica e della poesia volgare e provenzale. Nel 1512 si trasferì a Roma dopo un periodo trascorso presso Urbino e lì svolse un'intensa attività politica e diplomatica grazie ai numerosi incarichi affidatigli dal papa Leone X. Nel 1539 conseguì la carica cardinalizia che gli procurò prestigio indiscusso, soprattutto in campo culturale, e agi economici. Frequentò le corti di Venezia, Ferrara, Urbino e Roma che, animate da un grande fervore intellettuale, gli tributarono onori e gli consentirono di tessere una fitta rete di rapporti con i personaggi più illustri dell'epoca.

Gutenberg e la stampa

Risale a quel periodo l'amicizia con il tipografo ed editore Aldo Manuzio, per il quale Bembo preparò un piano di edizione dei classici italiani e curò la pubblicazione del Canzoniere di Petrarca e della Commedia di Dante.

Amante della mondanità e della vita cortigiana intrecciò numerose relazioni amorose tra le quali si ricordano quella con Lucrezia Borgia, Maria Savorgnan, ispiratrice di liriche d'amore, e Faustina Morosini che gli diede tre li. La fama di cui godette rimase inalterata fino alla morte, sopraggiunta a Roma nel 1547.

Gli Asolani

Bembo fu autore di tre opere fondamentali per la letteratura cinquecentesca, tutte collegate tra loro per sviluppo e trattazione di idee. Nei tre libri degli Asolani (1505), dialoghi che si immaginano tenuti ad Asolo presso la villa di Caterina Cornaro, ex regina di Cipro, Bembo impostò in maniera originale il problema dell'amore. Se nella prima parte della trattazione o dei personaggi, Perottino sostiene il carattere turpe e immorale dell'amore carnale, nella seconda Gismondo esalta l'importanza del sentimento amoroso, origine di ogni affetto e fondamento della stessa società civile. La terza sezione, nella quale le teorie di Bembo sono affidate a Lavinello, supera le precedenti posizioni nell'esaltazione dell'amore platonico, che con la contemplazione della bellezza terrena prepara l'uomo alla visione della bellezza eterna e al raggiungimento della piena felicità nella contemplazione di Dio. Dedicati a Lucrezia Borgia, gli Asolani contribuirono a divulgare tra un pubblico raffinato le idee filosofiche del neoplatonismo quattrocentesco, private della rigidezza teorica tipica della trattazione precedente.

Le Prose della volgar lingua

Nel 1525 furono pubblicate le Prose della volgar lingua, opera edita nuovamente nel 1538 e postuma, nel 1549. In forma di dialogo immaginario tenuto nella casa del fratello di Bembo, Carlo, le Prose affrontano la questione della lingua italiana. Nel primo trattato si esamina il problema dell'origine della lingua volgare, e si dimostra la superiorità dell'idioma fiorentino sugli altri dialetti italiani. Grazie all'opera di Dante, ma soprattutto di Petrarca da una parte, che con il suo Canzoniere costituisce un esempio per la poesia successiva, e di Boccaccio dall'altra, riconosciuto come il principale modello da imitare per le opere in prosa, il fiorentino è la lingua più adatta per l'espressione letteraria.

Nella seconda parte il discorso si articola sulle norme dello stile che Bembo desume proprio dal Canzoniere e dal Decameron.

Il terzo libro contiene una dettagliata grammatica della lingua volgare corredata da numerosi esempi tratti da opere letterarie. Il risultato è l'individuazione di una lingua raffinata ed elegante, ricca di grande musicalità, alla quale viene riconosciuta una dignità pari a quella della lingua latina, che tuttavia non coincide con il fiorentino parlato dal popolo, ma con quello usato dai grandi scrittori trecenteschi. Le norme stilistiche e gli ideali poetici di Bembo si ritrovano nelle Rime, edite per la prima volta solo nel 1530, ma composte fin dai primi anni del secolo.

Nell'opera Bembo offrì un'esemplificazione efficace delle idee sull'amor platonico e sull'imitazione della poesia di Petrarca, alternando toni più lievi e dolci con toni più solenni.


La questione della lingua

La proposta fatta dal Bembo di adottare il fiorentino dei grandi autori trecentisti come lingua nazionale non mancò di trovare degli oppositori in alcuni letterati dell'epoca.

Mentre Castiglione optava per un'accettazione meno rigida dei modelli di Petrarca e Boccaccio auspicando un'apertura maggiore alla lingua d'uso, alle innovazioni e ai neologismi, fondando così la teoria della lingua cortigiana, nata dall'intesa degli uomini colti nel quadro raffinato delle varie corti italiane, il vicentino Giangiorgio Trissino si contrapponeva apertamente al classicismo bembesco, sostenendo l'ipotesi di una lingua italiana ottenuta mediante l'individuazione degli elementi più comuni a tutti i dialetti della penisola. Rifiutando le posizioni di entrambi, Machiavelli fu, al contrario, sostenitore di una concezione democratica della lingua che lo spinse a promuovere l'adozione del fiorentino moderno ben diverso da quello letterario trecentesco perché tratto dall'uso quotidiano e popolare.

Le Rime e il petrarchismo


Le Rime inaugurarono il filone della lirica petrarchistica che ebbe largo seguito nel Cinquecento, rispondendo alle esigenze di una società bisognosa di una poesia regolare e nazionale. Oltre lo stile, i metri, il vocabolario petrarchesco, furono oggetto di imitazione alcuni dei tipici atteggiamenti spirituali del Petrarca come l'instabilità, il tormento, la confessione di debolezza, la sintonia con la natura, la memoria, i rimorsi e i desideri che riaffiorano nella meditazione solitaria. Alla maniera del poeta del Canzoniere composero poesie quasi tutti i lirici del secolo, alcuni aderendo completamente al modello, in un'esercitazione ripetitoria e scarsamente ispirata, altri usandolo come strumento espressivo di sentimenti originali, altri ancora arricchendolo di novità formali.

Michelangelo Buonarroti


Nel vasto numero dei poeti petrarcheschi si segnala, per la forte tensione creativa e spirituale, la personalità di Michelangelo Buonarroti (Caprese in Toscana, 1475 - Roma, 1564) che si manifestò nella potenza espressiva delle sue Lettere prive di ogni tipo di retorica e di eloquenza classica, ma ricche di umanità, di affetti, di interessi.

Il tormentato spirito di Michelangelo emerge dalla lettura delle Rime, ardue e complesse fino a risultare concettose, ma capaci di esprimere la sua vita interiore, dilaniata dalle contrastanti spinte dell'amor platonico, che ostacolavano la sua aspirazione religiosa, e stimolata dalla coscienza della crisi storica, politica e religiosa del Rinascimento.

Nelle sue grandi opere urative e nelle sculture dell'ultimo periodo come la Pietà Rondanini, si ritrovano la sofferenza che era stata procurata all'artista dalla caduta della repubblica fiorentina e dalla sconfitta degli ideali religiosi di Savonarola, annullati dalla Controriforma e dal concilio di Trento, la consapevolezza dell'insufficienza delle forze dell'uomo. Le stesse liriche, dallo stile aspro e intenso, sono pervase da profondi contrasti e lontane dall'armonia equilibrata del Rinascimento, anticipando per forme stilistiche e contenuti spirituali la crisi del Cinquecento. I più tardi sonetti, aspiranti alla grazia divina e alla salvezza dell'anima, sono dominati dal pensiero della morte che può cogliere l'uomo in stato di peccato.

Vittoria Colonna

Più vicine al modello petrarchesco sono le Rime (pubblicate postume, nel 1558) di Vittoria Colonna (1492-l547), gentildonna romana, sposa e ben presto vedova di Ferrante Francesco di Avalos, marchese di Pescara. Le liriche amorose e religiose affrontano il tema dell'amore perfetto per il marito e cantano la sua memoria mai tradita. Vittoria Colonna partecipò ai dibattiti sulla religione sollecitati da riformatori italiani e stranieri, tra i quali Giovanni Valdès, Bernardo Ochino, Pietro Carnesecchi.

Testimonianza di questa attività, volta alla trattazione della riforma cattolica e dei temi religiosi a essa legati, è il suo epistolario, dal quale emerge una personalità assai originale, molto stimata dallo stesso Michelangelo, amico e fervido ammiratore della poetessa.

La partecipazione delle donne alla cultura letteraria fu assai nutrita e non fu solo espressione di un fatto di costume, ma trovò in alcune rimatrici motivi di sincera vocazione. Fra le altre, ricordiamo Tullia d'Aragona, Laura Battiferri Ammannati, Veronica Gambara, Barbara Torrelli, Chiara Matraini, Isabella Andreini, Laura Terracini.

Gaspara Stampa e altri minori

Dai toni più melodici e meno attenti alle teorie dell'amor platonico, il Canzoniere di Gaspara Stampa (Padova, 1523 - Venezia, 1554) riflette l'amore per la musicalità tipico dell'ambiente intellettuale veneziano. Le liriche, che danno vita a un diario amoroso, concluso da commossi componimenti di pentimento e di conversione religiosa, si segnalano per ricchezza e varietà di motivi poetici e musicali. Intorno alla metà del Cinquecento si sviluppò in area meridionale una notevole produzione lirica che univa le teorie di Bembo con la tradizione poetica umanistica ispirata al Sannazaro. Espressione abbastanza compiuta di questa duplice tendenza fu la poesia di Luigi Tansillo (Venosa, 1510 - Teano, 1568) che pervase sia i suoi poemetti erotici e descrittivi sia le sue liriche di un gusto insolito per i colori forti.

Bernardino Rota (Napoli, 1508-l575), poeta più controllato nella forma e stile, immise nella sua produzione poetica elementi tratti più dagli scritti erotici classici che dall'esperienza immediata. L'equilibrio che caratterizzò il petrarchismo del primo Cinquecento diminuì nelle personalità liriche della seconda metà del secolo. È il caso di Galeazzo di Tarsia (Napoli, 1520 - Cosenza, 1533) barone del Regno di Napoli, autore di un canzoniere amoroso, tentò di costringere l'intensità dei sentimenti entro rigidi schemi formali e con l'impiego di una poesia metaforica che raggiunse forme complesse assai lontane dalle liriche precedenti. Molto vicine al modello proposto dal Bembo sono le poesie del napoletano Angelo di Costanzo (1507-l591), dense di grazia musicale e di preziose invenzioni poetiche che piaceranno ai poeti dell'Arcadia settecentesca.

Giovanni Della Casa

In piena controriforma agirono i veneziani Celio Magno e Gabriele Fiamma, per i quali la lezione del Petrarca servì a esprimere il tormento religioso in toni di accentuata musicalità. Più rilevante il caso del fiorentino Giovanni Della Casa (1503-l556).

Dopo una solida e raffinata formazione umanistica, conseguita presso centri come Firenze, Bologna e Padova, si trasferì a Roma per intraprendere la carriera di diplomatico ecclesiastico: fu commissario del papa a Firenze, arcivescovo a Benevento, nunzio apostolico a Venezia, segretario di stato sotto Paolo IV. Nonostante lo zelo con cui servì la Chiesa nella lotta contro gli eretici, non riuscì mai a conseguire il cardinalato.

La prima fase della sua produzione poetica si contraddistinse per la composizione di moduli burleschi e spesso osceni, orazioni di alta eloquenza sul modello dell'oratoria ciceroniana, sonetti e stanze giocose.

L'esercizio della lirica petrarchistica, sebbene avvenuto all'insegna della lezione di Bembo, sviluppò originalmente temi lontani dalla trattazione dell'amore per privilegiare i dissidi scaturiti dall'impatto con la realtà della vita quotidiana.

Il contrasto tra vita mortale, breve e oscura, e aspirazione religiosa si esprime con sonetti esemplari per i toni aspri e dolenti, nei quali il ricorso ad artifici stilistici come l'enjambement (la parola si interrompe a fine verso e prosegue nel successivo) conferisce alla scrittura un andamento solenne e meditativo.

Oltre alle rime, Della Casa scrisse in latino un Trattato degli uffici comuni, poi tradotto in volgare, e un trattatello morale, il Galateo, che condensa le esperienze di vita socievole dell'autore, che intende indicare le norme per un comportamento sociale opportuno, attento a non disturbare o a recare offesa agli altri.

Avvalendosi di aneddoti, novellette ed esempi concreti, redatti in una prosa elegante ed equilibrata, Della Casa compie un'attenta ricognizione psicologica, mostrando di aver assimilato i meccanismi interni che rendono una persona accetta o sgradita in società.


Mimesi rinascimentale

Con la definizione di mimesi rinascimentale si intende il processo di imitazione della natura, secondo la teoria per cui l'arte è tale solo quando riproduce la natura. In tal modo viene garantita l'universalizzazione dei sentimenti individuali direttamente ispirati dalla natura.

Gli umanisti sostenevano che non fosse possibile imitare direttamente la natura, ma ritenevano fosse necessario un tramite, a loro giudizio rappresentato dagli autori classici.

Rispetto alla sterile e pedissequa imitazione dei modelli passati, operata spesso dai predecessori, il Rinascimento apporta delle sensibili novità. Al principio di imitazione, sul quale si fonda la nascita dei generi letterari, si affianca adesso l'individuazione di nuovi modelli, Petrarca e Boccaccio, e la rivendicazione dell'originalità del proprio messaggio e dei valori propri dell'età contemporanea.







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