ePerTutti


Appunti, Tesina di, appunto italiano

Elie Wiesel, La notte

ricerca 1
ricerca 2

Elie Wiesel, La notte

Elie Wiesel nato nel 1928 a Sighet, in Transilvania, deportato ad Auschwitz e Buchenvwald.

Nel 1986 ha ricevuto il premio Nobel per la pace.

Attualmente vive negli Stati Uniti  e insegna presso l'Università di Boston.

La notte, pubblicata nel 1958 a Parigi, è un romanzo autobiografico in cui l'autore racconta la sua esperienza nei Lager nazisti, effettuando anche profonde riflessioni sull'esistenza di Dio.

Nel 2001, su autorizzazione di Wiesel, è stato realizzato dall'Associazione Culturale Archivio Zeta ( www. archivio-zeta.org) un progetto teatrale multimediale tratto da La notte, presentato per la prima volta al teatro Miela di Trieste il 27 gennaio 2002, in occasione della seconda Giornata della Memoria. Elie Wiesel ha anche accettato di collaborare ad un video nel quale legge alcune parti del suo libro e risponde a domande su temi contemporanei e sull'Olocausto.



Lo spettacolo prodotto da Marc Fleishhacker, residente a Milano, originario di san Francisco, è stato rappresentato nel gennaio 2003 al teatro Franco Parenti di Milano.



passi scelti


  1. TUTTO E' POSSIBILE, ANCHE I FORNI CREMATORI  

Wiesel, appena arrivato ad Auschwitz 2 - Birkenau, deve superare la selezione, ed è in procinto di raggiungere una fossa in cui bruciano i cadaveri. Il susseguirsi dei momenti e dei passi è scandito dai pensieri del giovane Elie, che ci lascia entrare nella sua mente durante quei drammatici istanti, vissuti tra la vita e la morte. E' un'immagine molto viva, che secondo me riassume nel singolo, il terrore provato da milioni di vittime del nazismo. Nonostante l'esito della selezione fosse scontato, fino a quando il lettore non arriva a quei tre puntini di sospensione e a quel 'NO' deciso è indotto a pensare che il protagonista sarebbe finito tra le braccia dell'Angelo della morte. Questa scena, che dura un'eternità, in un film occuperebbe sicuramente due o tre minuti di pellicola, fa letteralmente tirare un sospiro di sollievo alla fine, quando padre e lio vengono mandati nella baracca.


<< . un sudore freddo mi copriva la fronte, ma gli dissi che non credevo che si bruciassero degli uomini nella nostra epoca, che l'umanità non l'avrebbe più tollerato .

L'umanità? L'umanità non si interessa a noi. Oggi tutto è permesso, tutto è possibile, anche i forni crematori .

La voce gli si strozzava in gola.

Papà, - gli dissi - se è così non voglio più aspettare. Mi butterò sui reticolati elettrici: meglio questo che agonizzare per ore tra le fiamme.

Lui non mi rispose. Piangeva. Il suo corpo era scosso da un tremito. Intorno a noi tutti piangevano. Qualcuno si mise a recitare il Kaddìsh, la preghiera dei morti. Non so se è già successo nella lunga storia del popolo ebraico che uomini recitino la preghiera dei morti per sé stessi.

Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà . Che il Suo Nome sia ingrandito e santificato . -

mormorava mio padre.

Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me.

Perché dovevo santificare il Suo Nome? L'eterno, il Signore dell'Universo, l'Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo?

Continuammo a marciare. Ci avvicinavamo a poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale. Ancora venti passi. Se volevo darmi la morte, questo era il momento. La nostra colonna non aveva da fare che una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Ancora dieci passi. Otto. Sette. Marciavamo lentamente, come dietro ad un carro funebre, seguendo il nostro funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era là, vicinissima la fossa e le sue fiamme. Io raccoglievo tutte le mie forze residue per poter saltare fuori dalla fila e gettarmi sui reticolati. In fondo al mio cuore davo l'addio a mio padre, all'universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si presentavano sulle mie labbra: Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà . Che il Suo Nome sia elevato e santificato . Il mio cuore sava per scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte all'Angelo della morte .

No. A due passi dalla fossa ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca.

(Elie Wiesel, La notte, Edizione Giuntina, Firenze 2001, pp. 38-39)


  1. MAI DIMENTICHERÒ QUELLA NOTTE

In questo passo Elie Wiesel descrive le impressioni, suscitate in lui durante il primo giorno e la prima notte di permanenza nel campo, che non lo abbandonarlo più.

E' evidente che una simile esperienza sia indelebilmente impressa in chi l'ha subita, tuttavia alcuni hanno cercato di nasconderla. E' molto difficile per queste persone parlare di quel periodo della loro vita, ma è necessario affinchè non si dimentichi quello che è accaduto. Wiesel si rende conto della fatica necessaria alla memoria, perché quel doloroso ricordo è impresso così fortemente che non lo dimenticherebbe neanche se dovesse vivere quanto Dio.

Colpisce il fatto che i deportati, nonostante al loro arrivo al campo abbiano visto immagini terribili, e per loro il confine fra vita e morte fosse sottilissimo, abbiano avuto la forza di andare avanti. Infatti chi si abbandonava a de stesso rimaneva isolato, diventava un "musulmano", cioè per lui era morte certa.

Dal brano emerge un'altra osservazione importante, cioè l'indifferenza del mondo esterno e della natura nei confronti del campo. Wiesel esprime questo parlando di un "cielo muto", che fa anche pensare a come Dio abbia potuto far accadere tutto ciò. Dopo una simile esperienza Wiesel perde per sempre la sua fiducia in quel Dio, cui aveva creduto fermamente, visto che in patria studiava il Talmud e partecipava attivamente alle iniziative della comunità ebraica. Dio appare impotente nei confronti di certe azioni umane. I deportati, nel campo, non erano spinti a sopravvivere perchè credessero in un Dio che li potesse salvare, ma perchè erano ridotti a macchine senza anima pensieri.


"Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere.

Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. [ . ]

(Elie Wiesel, La notte, Edizione Giuntina, Firenze 2001, pp. 39-40



  1. DIO NON ESISTE

Nell'autore si insinua il dubbio circa la possibilità di credere ancora in  Dio, poiché, se Dio esiste davvero ed è, come tutte le religioni predicano, 'immensamente buono', non avrebbe potuto permettere Auschwitz, il più atroce tra tutti gli stermini che la storia abbia conosciuto. Il silenzio di Dio permette la tragedia degli uomini e offusca la fede.

Wiesel si sente solo, perché neanche Dio è intervenuto ad aiutarlo e ad aiutare il suo popolo.


'- Sia il Nome dell'Eterno!- Ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz , Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirGli :< Benedetto Tu sia Signore. Re dell'Universo, che ci hai eletto fra i popoli per veder torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare>


"Io non digiunai. Prima per far piacere a mio padre, che mi aveva proibito di farlo, e poi perché non c'era più nessuna ragione perché digiunassi. Non accettavo più il silenzio di Dio. Inghiottendo la mia gamella di zuppa vedevo in quel gesto un atto di rivolta e di protesta contro di Lui.

E sgranocchiavo il mio pezzo di pane. In fondo al cuore sentivo che si era fatto un grande vuoto."

(Elie Wiesel, La notte, Edizione Giuntina, Firenze 2001, pp. 69-71)



  1. UN CONCERTO PER I MORTI

Dopo l'evacuazione del campo i prigionieri passano notte e giorno a marciare salvo poche ore dedicate al riposo in luoghi stretti e angusti dove ci si soffoca l'un l'altro schiacciandosi a vicenda. Ad un certo punto un suono irrompe nella capanna, il suono melodioso del violino di Julek. Sembra quasi che, per un momento, tutto l'orrore intorno sparisca.

Questo passo molto commovente esprime il valore della musica che è in grado di esprimere desideri, speranze, angosce, sofferenze conun'efficacia senza pari. La musica dice ciò che le parole non sanno dire e, pertanto, svolge una funzione salvifica.


Riflettevo così quando sentii il suono di un violino. Il suono di un violino nell'oscura baracca dove dei morti si ammucchiavano sui vivi. Chi era quel pazzo che suonava il violino qui, sull'orlo della propria tomba? O era solo un'allucinazione?

Doveva essere Juliek.

Suonava un frammento di un concerto di Beethoven. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio.

Com'era riuscito a svincolarsi, a estrarsi di sotto al mio corpo senza che io lo sentissi?

L'oscurità era totale. Sentivo soltanto quel violino ed era come se l'anima di Juliek gli servisse da archetto. Suonava la sua vita. Tutta la sua vita scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato.

Non potrò mai scordare Juliek. Come potrei scordare quel concerto dato per un pubblico di agonizzanti e di morti! Ancora oggi, quando sento suonare Beethoven, i miei occhi si chiudono e, dall'oscurità, sorge il volto pallido e triste del mio comno polacco che dava l'addio col suo violino a un uditorio di moribondi.

Non so per quanto suonò. Il sonno mi vinse, e quando mi svegliai, sul fare del giorno, vidi Juliek di fronte a me ripiegato su se stesso, morto. Accanto a lui giaceva il violino, pestato, schiacciato, piccolo cadavere insolito e sconvolgente.

(Elie Wiesel, La notte, Edizione Giuntina, Firenze 2001, pp. 93-94)



  1. UN PENSIERO INDEGNO DI UN UOMO

Il passo seguente è significativo poiché contiene uno degli esempi di annullamento della dignità che veniva subito dai deportati ad opera dei nazisti nei campi di concentramento: l'uomo ridotto a un numero può fare spazio solo all'istinto di sopravvivenza. Wiesel, solo per un attimo, prova un terribile e tragico senso di sollievo perché pensa di aver perduto il padre, considerato quasi un ostacolo alla sua sopravvivenza. Il rimorso per questo fugace pensiero indotto dalla situazione di privazione e di paura lo perseguiterà per sempre.


"Faceva giorno quando mi svegliai. Allora mi ricordai di avere un padre: dopo l'allarme avevo seguito la folla senza occuparmi di lui. Sapevo che era allo stremo delle forze, sull'orlo dell'agonia, eppure l'avevo abbandonato. Partii alla sua ricerca.

Ma nello stesso istante nacque in me questo pensiero: 'Purché non lo trovi! Se potessi sbarazzarmi di quel peso morto, così da poter lottare con tutte le mie forze per la mia sopravvivenza, occupandomi solo di me stesso '. E subito ebbi vergogna, vergogna per sempre di me stesso."

(Elie Wiesel, La notte, Edizione Giuntina, Firenze 2001, p. 103)



  1. UNO SGUARDO MALEDETTO

Da questo brano, che costituisce la conclusione del libro, si vede come tutti alla fine della tragica esperienza nel Lager fossero completamente trasformati nel corpo e nello spirito: la Fame e non ricerca della vendetta domina i prigionieri che non saranno più quelli di prima, ma dei sopravvissuti che vedono nello specchio non se stessi, ma un cadavere dallo sguardo indimenticabile


"Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né alla vendetta, né ai parenti: solo al pane.

E anche quando non avemmo più fame non ci fu nessuno che pensò alla vendetta. Il giorno dopo, qualche giovanotto corse a Weimar a raccogliere patate e vestiti, e qualche ragazza, ma di vendetta nessuna traccia.

Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un'intossicazione. Fui trasferito all'ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte.

Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto.

Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava.

Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più.

(Elie Wiesel, La notte, Edizione Giuntina, Firenze 2001, p. 112)





Privacy

© ePerTutti.com : tutti i diritti riservati
:::::
Condizioni Generali - Invia - Contatta