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LA STORIA DELLA MAFIA



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PREMESSA

Le cellule cancerogene sono apparentemente simili a quelle del tessuto di appartenenza, ma non seguono le regole di crescita e "tolleranza" delle cellule vicine, invadendole e distruggendole. Allo stesso modo la mafia non segue le regole morali, etiche e legislative, distrugge come un cancro, senza alcun rispetto per la vita, e si insinua infidamente nel tessuto sociale.

LA STORIA DELLA MAFIA

La mafia (parola derivante dall'arabo "mahias", 'smargiasso', 'sfacciato', con tale significato essa e per la prima volta nel 1658) è un'organizzazione malavitosa con una struttura piramidale che si conura come un sovrastato, cioè una sorta di stato, indipendente, all'interno di un altro stato, quello riconosciuto nazionale, con il quale entra talvolta in conflitto, oppure in compromesso. Questo tipo di struttura affonda le sue radici nella storia, soprattutto quella feudale della Sicilia. Il passaggio dallo stato Borbonico a quello Sabaudo, che avrebbe dovuto debellare il feudalesimo, ebbe invece come sgradito risultato di consolidare questa organizzazione, che si pose in forte contrasto con lo stato, auto-finanziandosi con attività illecite. Il periodo seguente all'Unità d'Italia, cioè a partire dal 1860, registra il compimento del processo di 'istituzionalizzazione' della mafia e i primi esperimenti di coordinamento fra cosche. La sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte del governo centrale, restio ad avviare un'efficace azione repressiva, l'accordo fra politici e mafiosi in sede locale (in virtù del quale i primi si assicuravano il consenso elettorale delle popolazioni, mentre i secondi ottenevano in cambio la gestione della riscossione dei tributi), la possibilità di incidere sulle finanze dei comuni e sulle forze di polizia condizionandone l'attività investigativa, il ricorso alle cosche per scongere il Brigantaggio, consentono la penetrazione della mafia nelle istituzioni legali, contribuendo a legittimare ulteriormente il potere mafioso agli occhi dei siciliani. La mafia si trasformò così diventando un organismo sostitutivo dell'ordine legale, intervenne nell'amministrazione della giustizia e nella gestione dell'economia, arrivando ad una seria d'attività legali da cui gli affiliati e le loro famiglie trovano sostentamento.



Lo spirito mafioso poggia su un rigido codice d'onore e sull'omertà, facendo ricorso alla mediazione, ma anche all'intimidazione e alla violenza. Negli anni '50 essa si presenta dapprima nelle vesti tradizionali di protettrice, imponendo tangenti agli imprenditori, finendo poi per gestire in proprio l'iniziativa imprenditoriale, che può contare su efficaci metodi di 'scoraggiamento' della concorrenza e sull'accaparramento dei finanziamenti pubblici. Sono questi gli anni in cui diviene particolarmente intenso il rapporto fra cosche mafiose e partiti politici, per i quali la mafia non mostra alcun interesse 'ideologico', limitandosi a indirizzare il consenso verso lo schieramento in grado di fornire le maggiori garanzie di conservazione del proprio potere, anche economico, oltre all'ingresso di alcuni mafiosi in associazioni massoniche.

Dopo aver superato, senza subire danni strutturali, i primi processi, la mafia, durante tutto il decennio successivo, svolge un'opera d'imponente rafforzamento del proprio tessuto organizzativo allo scopo di renderlo adeguato ai mutati scenari criminali. Prima il contrabbando di tabacchi lavorati esteri e poi il traffico degli stupefacenti comportano un massiccio afflusso di liquidità nelle casse delle cosche mafiose e imponendo ad esse la necessità di un raccordo operativo, indispensabile per evitare 'conflitti di competenza'. Le singole 'famiglie' vengono raggruppate secondo un criterio di contiguità territoriale e affidate al controllo di 'capi-mandamento', a loro volta facenti parte di un organismo collegiale sovraordinato, la  'Cupola". La droga comportò uno stravolgimento nell'organizzazione mafiosa, poiché con la droga si riesce ad avere guadagno enorme e, soprattutto, in tempi rapidissimi. Tali guadagni obbligarono il riciclaggio del denaro sporco e della costruzione di attività economiche che ne sono il paravento: è la grande attività del riciclaggio, nella quale entrano in gioco i grandi finanzieri, gli istituti di credito e le persone che sono legate a questi ambienti. Naturalmente tutto ciò porta le organizzazioni mafiose ad essere molto potenti e a rafforzare i rapporti con la politica. Il rapporto con la politica non è storia di oggi, è storia antica. Inizia  con l'arrivo di Garibaldi in Campania. A Napoli, il prefetto dell'epoca chiamò i camorristi a svolgere funzioni d'ordine pubblico perché lui non riusciva a garantire la sicurezza della città. Per evitare il bagno di sangue, chiamò la Camorra a garantire che questo bagno di sangue non ci fosse. E la cosa fu garantita.

La Mafia non esiste, la Mafia non c'è, ci sono solo e soltanto dei delinquenti: questa idea culturale era arrivata fino ai tempi di Falcone e Borsellino. Il giudice Nino Caponnetto, che costituì il Pool antimafia di Palermo, intuì che tutti i fatti criminali, omicidi, furti, rapine, incendi, scippi, sequestri di persona, bisognava inquadrarli in un'unica logica: un'attività mafiosa. La logica che la Mafia non c'è, perché ci sono solo singoli fatti delinquenziali è durata fino a poco tempo fa: prima che il Parlamento italiano arrivasse ad approvare una legge che riconosceva l'esistenza di un'associazione a delinquere di stampo mafioso (introducendo il famoso articolo 41/bis nel codice penale italiano) si è dovuto attendere l'anno 1982.

LE VARIE ASSOCIAZIONI MAFIOSE IN ITALIA

Molti storici sono concordi nell'affermare che al momento dell'Unità d'Italia in tre regioni dell'Italia meridionale c'erano tre organizzazioni criminali e delinquenziali che venivano definite Mafia in Sicilia, 'Ndrangheta in Calabria e in Campania Camorra; oltre ad esse si sviluppò in Puglia la Sacra Corona Unita. Erano organizzazioni, lo dice il termine stesso, di uomini associati fra di loro che commettevano una serie di reati che riguardavano l'agricoltura, poichè all'epoca l'economia fondamentale era un'economia agricola.  Ma la novità è che, se prima c'era una criminalità non organizzata, questi "nuovi" criminali erano fortemente organizzati, programmavano non solo un furto oggi, ma una serie di attività per i mesi e gli anni a venire.

La ura femminile, che raramente partecipava agli affari, servì in famiglia come elemento fondamentale e centrale: nel momento in cui l'uomo viene catturato o mandato in galera, deve essere la donna a mandare avanti la famiglia, non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista educativo dei li. La donna trasmetteva la cultura mafiosa di generazione in generazione (ed è sempre stata e sempre sarà una cultura totalitaria e soprattutto maschilista).



La differenza principale tra mafia siciliana, o Cosa Nostra, e 'Ndrangheta è che la prima ha una struttura piramidale dove difficilmente possono entrare molti parenti (per evitare che una famiglia possa sopraffare gli altri affiliati), in Calabria invece esiste esattamente la questione opposta: la struttura della 'Ndrangheta è una struttura di tipo familiare, naturale, di consanguinei. E questo dimostra il fatto che i collaboratori di giustizia siano pentiti della Mafia e non della 'Ndrangheta: è difficile raccontare ciò che ha fatto un tuo stretto parente.

LA MAFIA OGGI

E' difficile ,oggi, dire cosa sia realmente la mafia più di quanto non lo fosse in passato, quando ne sapevano così poco che per definirla, oggi ne sappiamo molto di più grazie al sacrificio personale dei giudici Falcone e Borsellino due "martiri della giustizia" (come li ha definiti Giovanni Paolo II), che riuscirono a comprendere perfettamente il meccanismo della Mafia grazie alla loro incorruttibilità e al loro spirito di servizio (Dall'Intervista di Giuseppe Marrazzo a Giovanni Falcone). La mafia era ed è un "sistema" che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel "vuoto dello Stato, ma dentro lo "Stato" (Leonardo Sciascia, il giorno della civetta, gli Adelphi 1993, Milano).

La violenza mafiosa non è sempre stata associata al crimine e all'assassinio, ma ha anche trovato una valenza positiva nel concetto di omertà, profondamente radicato nella cultura meridionale. L'omertà è una conseguenza necessaria del principio della vendetta privata, il quale è a sua volta una conseguenza della poca fiducia che la giustizia pubblica ha saputo conquistarsi nel secoli passato presso il popolo siciliano. Mafia è un atteggiamento che cercherà di imporsi nel qualsiasi ambiente ove si trovi, cercherà di trarne il massimo vantaggio personale, anche a danno altrui, ricorrendo alle minacce, e offrendo i propri interessati servizi, né rifuggendo, ove è necessario, dal delitto dalle conseguenze penali.

La mafia accumula denaro, lo ricicla e lo investe (Cento miliardi di euro raccolti ogni anno con il "pizzo" sono investiti nel Nord Italia e nei mercati stranieri attraverso banche e società finanziarie) e poi, riesce a penetrare anche nelle istituzioni. Gli appalti pubblici sono spesso pilotati, le società colluse con la mafia vincono le gare, e in cambio gli uomini politici ottengono voti alle scadenze elettorali, con il cosiddetto voto di scambio.

La prima arma per fronteggiare questa situazione apparentemente senza via d'uscita è quella di denunciare, portando alla conoscenza di tutti il fenomeno che, come detto prima, danneggia la gente onesta e l'economia del paese. Altre armi, infine, ancora più potenti sarebbero il cambiamento della mentalità, la conoscenza e la cultura, che non possono convivere con una associazione che ha fatto dell'ignoranza e dell'omertà la base su cui svilupparsi. I mafiosi dovranno essere colpiti nel loro punto debole e nel cuore dei loro interessi: il DENARO! Alcuni studiosi hanno progettato strumenti di rilievo di attività mafiose. Ad esempio si può controllare che in una città non aumentino i movimenti di danaro in contanti, oppure i dati delle Camere di Commercio per verificare se vi sono eccessive cessioni di piccole aziende. Un altro elemento importante è la collaborazione internazionale per fare in modo che possano essere limitati i cosiddetti "paradisi fiscali" cioè quelle nazioni che consentono al denaro sporco di transitare attraverso conti segreti nelle banche. Questi vengono utilizzati dai mafiosi per fare perdere le tracce del loro denaro.

Come la descrisse Giovanni Falcone, la Mafia è un fenomeno storico, ha avuto un inizio e necessariamente, prima o poi, avrà una fine.

PRIMO PROCESSO: Bari, 11 giugno 1969, gli imputati non sono persone da poco, non sono semplici delinquenti comuni: sono la mafia di Corleone, sono i boss e i 'soldati' della famiglia dei Corleonesi, accusati di una serie impressionante di delitti e di associazione a delinquere. Non di mafia: l'associazione a delinquere di stampo mafioso ancora non esiste, perché c'è qualcuno che dice che è proprio la mafia che non esiste. Riina Salvatore detto «Totò» (il suo braccio destro): assolto; Provenzano Bernardo: assolto; Bagarella Leoluca: assolto, e, con loro, anche gli altri sessanta imputati. Tutti con formula piena o per insufficienza di prove, come era sempre successo in tutti quei processi di mafia.

MARIO FRANCESE: giornalista che una specie di ossessione: i Corleonesi. Sta succedendo qualcosa nella mafia: lui lo ha capito e i Corleonesi ne sono protagonisti. Sono diversi, i Corleonesi: sono più pericolosi degli altri. Intervista la moglie di totò Riina. Leoluca Bagarella lo uccide.

TOTO' RIINA: è dapprima il braccio destro di Luciano Leggio di cui, presto, prenderà il posto come capo della famiglia dei Corleonesi. Totò Riina non è colto, non ha studiato (come dirà in un processo, «sono un quinta elementare»), ma per fare carriera in Cosa Nostra non c'è bisogno di una laurea. Lui comincia presto: uccide il suo primo uomo a diciannove anni.



BAGARELLA LEOLUCA: braccio destro.

BERNARDO PROVENZANO: Lo chiamano «il ragioniere» (e questo potrebbe far pensare che sia persona più moderata, meno sanguinaria dei suoi comni), però lo chiamano anche «Binnu» (Bernardo), «u' tratturi» (il trattore), perché, dove passa lui, «non cresce più l'erba».

GIUSEPPE PUGLIESI: tutti lo chiamano «don Pino» e non perché sia un boss: è un prete, un semplice parroco di borgata che è diventato sacerdote nel 1960 in un quartiere di Palermo vicino a Brancaccio, quello in cui è nato. Dal 1990 don Pino è tornato al suo quartiere, a Brancaccio: ci sono bambini che hanno malattie da terzo mondo e spacciano eroina per conto della mafia locale. E lì c'è padre Puglisi che si dà da fare per raccogliere fondi: invece di spenderli nella processione a San Gaetano, li investe in un centro di aggregazione, il «Centro Padre Nostro», e ci riesce perché il centro viene inaugurato il 29 gennaio e già il 29 giugno, la mafia gli ha dato fuoco incendiando. Padre Puglisi, però, va avanti e i risultati li ottiene. La sua è una lotta soprattutto contro la mentalità mafiosa. 15 settembre 1993, è il suo i boss del quartiere Brancaccio lo hanno condannato a morte per quello che ha fatto fino a quel momento e per dare un segnale alla Chiesa sul 41 Bis.

SALVO LIMA: ed è un uomo politico molto importante, democristiano. Dal 1959 al 1963, Salvo Lima è sindaco di Palermo: ha un assessore ai lavori pubblici che si chiama Vito Ciancimino: sono gli anni del «sacco di Palermo». Fu la più grande speculazione edilizia portata avanti da un sistema politico-mafioso che abbia conosciuto la Cosa Nostra siciliana: in pochissimo tempo furono abbattute le numerosissime ville liberty di Palermo, sostituite con enormi casermoni. In quattro anni vengono concesse licenze edilizie, ma sono licenze strane:, circa l'80%, sono intestate alle stesse cinque persone, cinque mastri muratori, sconosciuti e quasi nullatenenti: dei prestanome. E non ci sono soltanto le licenze: ci sono i sub-appalti per il cemento, per la manutenzione delle strade e delle fognature, per la nettezza urbana, per la riscossione delle tasse comunali. È qui che arriva la mafia: è qui, in quest'enorme affare di potere e di soldi, che arriva Cosa Nostra. È nell'edilizia, che comporta necessariamente un rapporto molto stretto con l'amministrazione pubblica, che inizia il legame tra mafia e politica.

CAMBIO POTERE: Siamo alla fine degli anni Settanta: il predominio su Cosa Nostra è conteso tra due fazioni. Da una parte, quella dei Badalamenti dall'altra, i Corleonesi. Fino agli inizi degli anni Sessanta, i soldi grossi la mafia li faceva con l'edilizia e il sistema degli appalti; poi arriva la droga: la Sicilia diventa un punto di passaggio della droga che, dall'Asia, va fino agli Stati Uniti. Tutto questo significa soldi, tantissimi soldi, da riciclare, ripulire ed investire, significa contatti più stretti con imprenditori e politici, significa maggiore capacità di condizionamento, da parte della mafia, sulla politica e sull'economia. La famiglia di Totò Riina è la più feroce e la più preparata dal punto di vista militare: attacca gli uomini delle famiglie Bontade, Inzerillo e Badalamenti sterminandoli praticamente tutti, trasformando Palermo e la Sicilia in un grande campo di battaglia. In due anni ci sono più di mille morti: «la mattanza», la chiamano.

LE LEGGI: dopo la morte del generale Dalla Chiesa che viene introdotto il «416 Bis», l'articolo del codice penale che punisce l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Prima, prima del 1982, essere mafioso non era un reato: bisognava intimidire, uccidere, mettere le bombe, sequestrare, ma essere mafioso non era un problema, non più di tanto. Antonino Caponnetto ha un'idea maturata sull'esperienza che sta facendo a Torino un magistrato che si chiama Giancarlo Caselli e che lotta contro il terrorismo. L'idea è molto semplice: se ad occuparsi dell'indagine è un magistrato solo, è facile intimidirlo, farlo rimuovere, o meglio, ammazzarlo. Invece, per ragioni di continuità, di sicurezza, di scambio di informazioni, di idee, il magistrato che fa le indagini non deve essere solo: deve lavorare insieme ad altri, deve far parte di un «pool». Il pool di magistrati che si occupano di combattere la mafia a Palermo e in Sicilia, nasce il 16 novembre del 1983. All'inizio ne fanno parte tre magistrati a cui poi si aggiungerà anche Leonardo Guarnotta: Giuseppe Dilello, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Nelle loro indagini, Giovanni Falcone e i magistrati del pool, hanno in mano un'arma nuova per la lotta alla mafia: i pentiti. Nella guerra di mafia degli anni Ottanta, c'era stata una mafia 'vincente' (quella di Totò Riina) e una mafia 'perdente' (quella dei suoi avversari). Molti restano a terra coperti da un telo insanguinato o finiscono sciolti nell'acido, alcuni passano dalla parte vincente, altri, invece, si «pentono»: accettano di collaborare con la giustizia e, per salvarsi la pelle, si mettono sotto la protezione della legge.

TOMMASO BUSCETTA (e i pentiti) : Tommaso Buscetta: «Il fenomeno mafioso non è comune, non è il brigatismo, non è la solita criminalità, perché la solita criminalità la polizia se ne intende, la combatte bene. Il fenomeno mafioso è qualcosa di più importante della criminalità: è la criminalità, più l'intelligenza e più l'omertà. È una cosa ben diversa». A parlare del rapporto fra mafia e politica, non sono soltanto i pentiti: ci sono anche le indagini e le sentenze come quella che, il 17 gennaio 1992, condanna Vito Ciancimino a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza poi passata in giudicato ed interamente scontata.
MAXI PROCESSO: Il maxi-processo inizia a Palermo il 10 febbraio del 1986. Quattrocentosettantaquattro imputati, ma Totò Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano invece non ci sono: sono latitanti.
Per la prima volta, Cosa Nostra viene processata in quanto tale, in quanto organizzazione unitaria, con una struttura verticistica e piramidale. Un anno dopo la sentenza: Diciannove ergastoli e più di 2000 anni di carcere. Ergastolo a Riina e Provenzano. 



Il processo va avanti lo stesso, ma a questo punto, succede qualcosa: Giovanni Falcone, che nel frattempo si è trasferito dalla Procura di Palermo all'ufficio Affari Penali a Roma, ha un'idea. Ha fatto monitorare tutte le sentenze di mafia pronunciate dalla Cassazione e si è accorto che vengono sempre assegnate tutte alla stessa sezione. Allora suggerisce la turnazione, un sistema per cui le sezioni chiamate a pronunciare le sentenze cambino e così viene fatto. Le rivelazioni di Tommaso Buscetta e degli altri pentiti su cui si sono basati i processi, diventano verità giudiziaria. È una rivoluzione, una vera e propria rivoluzione per Cosa Nostra: la mafia è in difficoltà. Totò Riina aveva capito che stava per cominciare un periodo brutto. Allora bisogna dare un segnale: di qualunque natura sia stato il rapporto tra mafia e politica, bisogna dare un segnale più netto, «alla corleonese».  Procedere alla corleonese», che, significa, anche togliere di mezzo i nemici, a qualunque costo.

23 maggio 1992 muoiono Francesca Morvillo e Giovanni Falcone: una strage. Paolo Borsellino è un amico di Giovanni Falcone è stato con lui nel pool antimafia ai tempi del maxi-processo. Dopo la morte di Giovanni Falcone è stato proposto per il ruolo di capo della Procura Nazionale Antimafia. È successo che il 19 luglio 1992 strage: muore Borsellino. Reagisce la gente, che manifesta contro la mafia, anche in Sicilia, anche a Palermo, anche con quella che è stata chiamata «la rivolta dei lenzuoli».  Ma, soprattutto, viene rapidamente convertito in legge un decreto firmato subito dopo la morte di Giovanni Falcone e basato su alcune delle sue idee che, in casi di eccezionale gravità come la lotta alla mafia, sospende il normale trattamento carcerario dei detenuti e, prevede, il regime carcerario duro per i mafiosi: è il 41 Bis. Carcere duro. Un mafioso, ha già messo in conto di finire in carcere, ma carceri che sono il caseggiato della mafia (pasti che arrivavano dai migliori ristoranti della città, feste).

Totò Riina, capomafia corleonese, è stato arrestato dal Ros dei carabinieri il 15 gennaio 1993 dopo 25 anni di latitanza. per una dimenticanza, un ordine, un disguido, i Carabinieri tolgono la sorveglianza al palazzo senza entrare nel covo di Totò Riina. Ci entreranno un mese dopo con il magistrato: nel frattempo, però, ci è entrato qualcuno che ha portato via tutto e che ha anche ridipinto le pareti. Il bastone del comando passa a Bernardo Provengano. Comunica attraverso «pizzini»: fogliettini scritti a mano che consegna a uomini di fiducia. È un fantasma. La mafia cerca di coinvolgere la Chiesa: i mafiosi chiedono aiuto ai cappellani delle carceri per mitigare il 41 Bis, i famigliari dei mafiosi si lamentano col vescovo di Trapani, ma la Chiesa non ci sta.  Papa Giovanni Paolo II: «Mafia non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte! Lo dico ai responsabili: 'Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!'». Come risposta attentato alla chiesa di san Giovanni in Laterano. Anche Bernardo Provenzano dopo anni di latitanza tale da farlo apparire come un fantasma ancora fluttuante in una dimensione virtuale, l'11 aprile 2006 è stato catturato. Ora chi comanderà Cosa Nostra, e cosa sta facendo adesso, la mafia?



















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