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Libro I - La poetica di Claudio Cantelmo

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Il romanzo è scritto in prima persona e sia apre con un prologo, di intonazione lirica, in cui viene evocato il giardino remoto in cui tre nobili vergini (Massinissa, la fragile, bisognosa di servire; Anatolia, la forte, infaticabile nel donarsi agli altri; Violante, la bellissima, che sente passare inutilmente la sua bellezza) attendono lo sposo che sceglierà una di loro. Quindi il protagonista Claudio Cantelmo enuncia, ispirandosi a Nietzsche, una concezione del mondo incentrato sul valore discriminante della bellezza e dell'apparenza adorna e magnifica, che i pochi creano per i molti, destinati invece alla fatica e alla passività. Disgustato dalla degenerazione egualitaria e democratica del presente, Cantelmo lascia Roma per ritirarsi in solitudine nelle sue terre ereditarie di Rebursa, al confine con l'Abruzzo. Qui, tra le rocce laviche e il fiume, vicino alla città morta di Linturno, il paesaggio simbolicamente esprime il travaglio cupo e confuso del pensiero. Cantelmo progetta di dar vita a un erede che torni a incarnare le virtù della sua stirpe aristocratica; perciò sente il fascino delle tre principesse nubili e prende a frequentarne l'antica dimora patrizia, nella vicina Trigento. Sulla loro famiglia, i Capace Montaga, già illustri all'epoca in cui regnavano sulle due Sicilia i Borboni, e fedeli al loro passato, gravano tuttavia presagi di decadenza e di morte: la principessa madre, Aldoina, è una demente che Anatolia deve assistere; il principe padre è un sopravvissuto; nei fratelli gemelli osvaldo e Antonello già si intravedono disperazione, debolezza, pazzia. Massinissa, benché turbata dalla seduzione mistico-sensuale delle parole di Cantelmo, è decisa a farsi monaca; e nel corso di una drammatica ascesa sul monte Corace Claudio si rende conto che anche Anatolia e Violante, ormai chiuse nel loro destino come tra le rocce, gli sfuggono.



Libro I - La poetica di Claudio Cantelmo

«Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime nell'evocare imagini d'altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l'ansia dei decasillabi la caduta dei Re, l'avvento delle Repubbliche, l'accesso delle plebi al Potere? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte fabbricante di lire? Noi potremmo, per modesta mercede, con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce ».

Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poiché oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgono meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell'assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell'Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani a cui il vostro padre Dante darebbe l'epiteto medesimo ch'egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio ma non degne di levarsi per sancire una legge nell'assemblea. Difendete il Pensiero ch'essi minacciano, la Bellezza ch'essi oltraggiano! errà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l'antica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d'efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione!».

E i patrizii, spogliati d'autorità in nome dell'uguaglianza, considerati come ombre d'un mondo sso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell'Ottantanove, aprire i portici dei nostri cortili all'aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei, esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?».

Qualcuno tra loro - mal disposto alle rinunzie pacifiche, ai tedii eleganti e alle sterili ironie - rispondeva: «Disciplinate voi stessi come i vostri cavalli da corsa, aspettando l'evento. Apprendete il metodo per affermare e afforzare la vostra persona come avete appreso quello per vincere nell'ippodromo. Costringete con la vostra volontà alla linea retta e allo scopo fermo tutte le vostre energie, e pur le vostre passioni più tumultuose e i vostri vizii più torbidi. Siate convinti che l'essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii e che la sovranità interiore è il principal segno dell'aristocrate. Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile inabolibile. La disciplina è la superior virtù dell'uomo libero. Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell'antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla Terra generatrice, finche uno, il più valido, non riuscisse ad imperar su gli altri. Aspettate dunque e preparate l'evento. Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell'uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d'una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza. Su l'uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, invero, ricondurre il gregge all'obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà. Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce; ma ricordatevi sempre che l'anima della Folla è in balia del Panico. Vi converrà dunque, all'occasione, provvedere fruste sibilanti, assumere un aspetto imperioso, ingegnar qualche allegro stratagemma. Il politropo Ulisse, quando trascorreva il campo per ridurre tutti nel foro, se imbattevasi in qualche plebeo vociferante lo castigava con lo scettro, taci, garrendo, taci, tu codardo, tu imbelle e nei consigli nullo. Il nobile demagogo Alcibiade, perito quant'altri mai nel governo della Gran Bestia, così dava principio a una sua concione per l'impresa di Sicilia: - A me, più che ad altri, si aspetta, o Ateniesi, il comando; e del comando io mi stimo degno. - ».





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