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Musica delle sfere celesti: dalle filosofie antiche agli studi contemporanei



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Musica delle sfere celesti: dalle filosofie antiche agli studi contemporanei

Introduzione  Il Paradiso della Commedia è un universo etereo di luce e musica .  La terza cantica si apre, infatti, su una grandiosa luce, immagine di Dio e della salvezza eterna, evidenziata dalla perifrasi "la gloria di colui che tutto move".

Questo diffondersi della luce divina non è l'unico argomento degli ultimi trentatré canti dell'opera, anzi, lo spazio, reso saturo dalla luce e quindi sensorialmente occupato dalla vista, nel Paradiso, vedrà subentrare l'udito, rappresentato dai suoni che derivano dal ruotare delle sfere celesti. Luminosità e musicalità non sono semplicemente caratteristiche del Paradiso dantesco, ma possono diventare indice della presenza di rapporti armonici, basati su proporzioni numeriche, che con l'udito, si avvicinano ai sensi.



Le sfere etarie che compongono il Paradiso dantesco sono cieli di pietra, nonostante la loro composizione eterea; ed è proprio la presenza dell'etere, materia dotata di moto circolare ed eterno, che giustifica nel Medioevo l'esistenza di una musica celeste derivante dal perpetuo volgersi dei pianeti. La teoria dell'armonia delle sfere è, però, caratterizzata da una persistenza che va ben oltre l'età medievale e la concezione aristotelico-tolemaica dell'universo.

Dante, infatti, raccoglieva un'eredità secolare quando cantava:

'Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l'armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso'. (Par I, 76-81)

Storia dell'armonia delle sfere Lo studio dell'armonia delle sfere ci porta a due visioni completamente opposte: la prima riguarda le opere di letterati, viaggiatori o nelle scritture popolari, dove l'armonia si presenta spesso come un'ideale suggestivo, nebuloso e poco chiaro, causa dell'estasi di qualche personaggio magari in un clima amoroso: uno degli esempi più illustri è Shakespeare che ne Il Mercante di Venezia, atto V scena I, fa intervenire un personaggio dicendo: "Non c'è il più piccolo, fra gli astri che tu vedi, che nel suo moto non canti come un angelo sempre intonandosi ai cherubini dai celesti occhi." Battuta che riprende direttamente sia l'immagine della musica celeste, che quella del coro angelico."

Al contrario, l'ambito teorico in cui si sviluppa la dottrina dell'armonia delle sfere, in origine, è quello scientifico: la giustificazione dell'esistenza della musica eterna causata dal volgersi delle sfere celesti era di pertinenza della cultura scientifica, in particolare della scienza matematica.

Tra le riflessioni filosofiche più antiche, ci si riferisce alla scuola pitagorica come prima fonte più attendibile: essa rappresentava una riflessione rigorosa, che fondava la disciplina musicale su precise basi matematiche e la trasformava in un riferimento per osservare un disegno ordinato del cosmo. L'invenzione della teoria viene comunemente assegnata a Pitagora stesso, che secondo la testimonianza di Giamblico (La vita pitagorica, 65-67) era in grado di udire la musica cosmica in uno stato di trance spirituale; Pitagora la rese a lungo oggetto di studi insieme a matematica, geometria e astronomia che con la musica confluiranno poi nel quadrivio delle essenziali discipline medievali.

Anche la musica, come del resto tutta la realtà, era una combinazione di numeri: Pitagora basava la sua tesi osservando la vibrazione di alcune stringhe di uguale spessore. Essa era, quindi, un rapporto numerico misurato secondo intervalli, e le note dipendevano dalla quantità di vibrazioni emesse. Da questa intuizione affermò che le sfere celesti, a causa del loro movimento, emettevano una musica continua, un'armonia celestiale, che l'orecchio non sentiva perché ne era ormai assuefatto.

Il termine stesso di armonia si ricollega al convergere di opposti. Il sostantivo Armonia, proviene, attraverso il latino, dal greco harmonia, unione, proporzione, accordo, un derivato del verbo harmozein, congiungere, accordare; il verbo harmozein si ricollega a sua volta ad harmos, giuntura. Da questa riflessione, infatti, la definizione della musica celeste appare problematica già dalla sua terminologia: l'espressione "armonia delle sfere", infatti, si può considerare anacronistica perché la nozione di sfera, deriva dal sistema definito da Eudosso successivamente alla formulazione della teoria che associa al movimento dei pianeti la produzione musicale.

Lo studioso contemporaneo, Curt Sachs, partendo dalle fonti storiche, ha osservato già presso antiche civiltà indiane e cinesi l'esistenza di una correlazione tra universo e musica ipotizzando la diffusione dall'oriente della teoria. L'armonia delle sfere, ricevuta in forma finale a Babilonia, si sarebbe diffusa successivamente sulle rive del Mediterraneo e sarebbe stata poi formulata matematicamente in Grecia dai Pitagorici.

Fondamentale per le teorie platoniche, aristoteliche e stoiche che influenzeranno Dante nella composizione del Paradiso, è la considerazione che alla base dell'armonia delle sfere ci siano studi matematici, il numero come principio ordinatore e l'universo ordinato come sistema musicale.

Aristotele, non convinto dalle spiegazioni di Pitagora, spiegava il perché i mortali non possono udire la celeste armonia: "un suono o un rumore non vengono percepiti se non in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l'assenza del suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle sfere etarie è un suono che ci è presente sin dalla nascita, non è possibile riconoscerlo, in quanto ci manca la percezione del suo contrario".

Lo stesso Aristotele, preciso nel negare l'armonia degli astri, alla domanda perché non udiamo la musica delle sfere risponde: "perché non c'è nessuna musica, di più non c'è nemmeno nessun rumore". Non si sofferma su accuratezze musicali, non gli interessa avanzare ipotesi su presunte qualità celestiali del suono: "non esiste nessuna musica, ed è facilmente dimostrabile, per assurdo: se esistesse un suono prodotto dalla rotazione degli astri, sarebbe talmente forte ed intenso da distruggere la vita sulla terra, cosa che non è. Quindi, non esiste alcuna musica delle sfere. Ma perché non esiste? Perché gli astri si muovono nel medium della propria sfera, e quindi non c'è attrito."

La soluzione, per aggirare la confutazione di Aristotele, ci arriva proprio da un aristotelico, Simplicio, il cui commento greco al De Caelo viene tradotto in latino nella seconda metà del XIII secolo, e da qui studiato da famosi intellettuali. Simplicio sposta l'attenzione dall'udibilità della musica in sé, allo stato in cui l'ascoltatore deve essere per udirla: è interessante notare come il commentatore si riferisca a Pitagora e citi esplicitamente il riconoscimento di proporzioni e numeri al suo interno. Per Simplicio la musica delle sfere va intesa come un atto intellettivo, attraverso il quale l'uomo può comprendere le armonie che regolano la struttura dell'universo.



Ed è proprio questa sfumatura che verrà ripresa da Dante che si soffermerà sul fatto che l'armonia delle sfere non va tanto ascoltata, ma riconosciuta con un atto intellettivo.

È il neo-pitagorico Nicomaco di Cerasa, nel primo secolo dopo Cristo, che più di altri riporta in auge la teoria del maestro Pitagora. Nell'Enchiridion harmonices, trattato di armonia dedicato ad una colta lettrice, egli postula la necessità del rumore prodotto da un corpo lanciato o rotante, e specifica che la qualità di detto rumore dipende dalla dimensione del corpo, dalla sua velocità e dal mezzo di proazione.

Severino Boezio, nel De institutione Musica che utilizza proprio l'opera di Nicomaco come modello, riprende questa dimostrazione naturalistica e parla di musica mundana, cioè armonia celeste che, pur non raggiungendo l'orecchio umano, discende dal moto degli astri. Egli afferma che se il suono ha la sua origine nel movimento non può definirsi assurdo immaginare che, essendo l'universo in moto, esso possa produrre un'armonia .

L'esistenza dell'armonia delle sfere, negata da Aristotele nel De Caelo e dai suoi commentatori, tra cui Averroé, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, viene invece accolta da Dante riferendosi a ciò che aveva detto Boezio, ma soprattutto Cicerone riguardo all'argomento.

La fantasia creatrice di Dante doveva essere stata particolarmente toccata dal pensiero di un concerto dei cieli, e oltre a questa ragione, ricordiamo che nell'opera si riconoscono correnti di pensiero pitagoriche e platoniche, mediate principalmente dagli insegnamenti di Boezio, Sant'Agostino e San Bonaventura.

L'incontro di Dante personaggio con la musica delle sfere avviene entro i primi cento versi della Terza cantica, nel momento in cui egli varca assieme a Beatrice la sfera del fuoco per entrare nel primo cielo, quello della Luna.

Il passo dantesco ha evidenti riscontri Somnium Scipionis di Cicerone, sesto ed unico libro della Repubblica conosciuto al Medioevo , narrazione di un immaginario viaggio nell'aldilà compiuto in sogno da Scipione Emiliano, che ebbe enorme influenza sulla cultura filosofica medievale grazie al commento di Macrobio nel V secolo. Come il titolo De Re Publica allude all'omonima opera di Platone, così l'aver posto alla fine del dialogo la narrazione di un immaginario viaggio nell'aldilà richiama il mito di Er, con cui si conclude la Repubblica platonica. Platone è, però, fonte di ispirazione del disegno globale dell'opera, più che un riferimento dottrinale.

Come Dante, Scipione nel Somnium vede ridimensionata l'importanza della Terra, pianeta dove tutto è mortale e caduco, ma, rispettando la distinzione tra alto e basso, e la conseguente tensione dell'anima verso l'alto egli, su invito dell'Africano, leva lo sguardo e osserva lo spettacolo del cielo entro cui è giunto. Soprattutto, particolare che più ci interessa, anche Scipione ascolta la musica delle sfere, e come Dante chiede spiegazioni alla sua guida:

quid?, hic -inquam- quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?'. «Hic est -inquit- ille, qui intervallis coniunctus inparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis, inpulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera parte graviter, ex altera autem acute sonent.(Somnium Scipionis, 18)

Traduzione " Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?'. 'È il suono', rispose, 'che sull'accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra."

Da ricordare è che, però, la conoscenza da parte di Dante del Somnium Scipionis non è certa, ma appare probabile dato la diffusione del commento di Macrobio durante tutto il Medioevo.

Il viaggio di Scipione e quello di Dante non sono però gli unici esempi di viaggio unito al discorso dell' armonia delle sfere celesti. Sembra che il precursore di questo tema, sviluppato poi nei secoli, sia il già citato Platone con il mito di Er, nella Repubblica, e successivo sia il viaggio di Enea nell'Ade, nel libro VI dell'Eneide virgiliana. Il tema è stato poi ripreso da Tasso nella Gerusalemme liberata, ed è presente sotto forma di parodia nei Gulliver's Travels di Johnatan Swift.

In ogni caso, i personaggi che hanno la possibilità di percepire la musica delle sfere, sono personaggi eletti, anime buone premiate con il Paradiso, o protagonisti di sogni.  Manca in Dante, la definizione dello stato di coscienza necessario per percepire questa musica: nella Commedia ci si riferisce ad un piano allegorico e simbolico, diversamente da Platone o Cicerone che parlano invece di uno stato di sonno o di morte apparente.



Rilettura cristiana 

Sant'Agostino, all'inizio del suo trattato De Musica afferma "musica est scientia bene modulandi": la musica è innanzitutto una scienza, pensata e strutturata secondo le leggi del numero. Nella sua filosofia mistica dei numeri, prettamente pitagorica, e mistica cristiana tendono a convergere in un'ideale che la vede come operazione dell'anima. Agostino, pur non parlando direttamente di musica delle sfere, riprende temi platonici relativi a numeri e armonia come segnali che indirizzano verso la divinità.

E' invece a Sant'Ambrogio, secondo Leo Spitzer studioso contemporaneo, che spetta "il merito immortale di aver affidato alla musica cristiana il compito d' impersonare l'armonia universale dei greci". Ambrogio non si sbilancia sulla dottrina delle sfere sviluppata dalle altre filosofie, ma si limita ad indicare le immagini dell'armonia come vera bellezza divina.  

Il richiamo all'elemento matematico ed in particolare al numero, che fa Agostino basandosi sulle teorie di Pitagora, ci aiuta a giustificare una frase che, nonostante sia posteriore a Dante, gli si avvicina molto sul piano dei contenuti.    Scrive infatti Keplero, trecento anni dopo Dante: Duo sunt, quae nobis harmonias in rebus naturalibus patefaciunt, vel lux vel sonus (Harmonice Mundi, liber V caput IV)

Traduzione: "Due sono le cose che ci aprono ai principi della natura, la luce e la musica."

Keplero, illustre matematico allievo del grande scienziato Tycho Brae, nonostante visse in un epoca caratterizzata dalle scoperte della Rivoluzione scientifica ormai in atto, si dimostrò molto attento alla ricerca delle spiegazioni metafisiche della Natura, preferendole a quelle matematiche. Egli era razionale e mistico allo stesso tempo, appassionato di astronomia come di astrologia, affascinato dall'ordine che sprigionavano i cieli, l'armonia che lui stesso aveva contribuito a rivelare con le ellissi. Keplero era, infatti, lio di un'epoca in cui religione, superstizione, magia, poteri naturali e occulti vivevano non erano ancora totalmente distinti dal vero e proprio studio scientifico della Natura.

La ricerca sulla musica delle sfere celesti è un argomento ancora oggi molto dibattuto: alcune delle più recenti teorie fisiche che vogliono descrivere il comportamento delle particelle elementari utilizzano in effetti modelli basati su particolari simmetrie spaziali, e nozioni di armonia, che risalgono alle ricerche filosofiche dei pitagorici e di Platone.





Bibliografia:

https://users.unimi.it/

https://www.scienzaesperienza.it

https://www.minerva.unito.it/Storia

https://www.dm.unipi.it/

https://www.forma-mentis.net

https://www.epertutti.com/









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