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RECENSIONE G. Pontiggia, “Nati due volte”

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RECENSIONE

G. Pontiggia, “Nati due volte”, Mondadori, Mi, 2003, pp. 188, € 4.90.


<< Chi è quel ragazzo che cammina oscillando contro il muro? Lo vedo per la prima volta, è un disabile. Penso a quello che sarebbe stata la mia vita senza di lui. No, non ci riesco. Possiamo immaginare tante vite ma non rinunciare alla nostra.>> (p.188)

Nati due volte racconta in prima persona lo stillicidio quotidiano di un padre, il professor Frigerio, alle prese con il lio Paolo, disabile dalla nascita. È la storia di una sofferta autobiografica, dove l’esperienza personale è ridotta agli elementi essenziali.

La sfortuna di Paolo è legata al caso, ma se la nascita biologica lo ha consegnato al mondo impreparato, la seconda nascita dipende dalle persone che gli stanno vicino, da quanto sapranno dare per aiutarlo ad abbattere le barriere della diversità.

In questo cammino tutto in salita non mancano attimi di sconforto. Di fronte alla resa fisica e morale, il padre si chiede se quanto è accaduto non sia la punizione, inflittagli da Dio, per aver intrecciato una storia sentimentale con un’altra donna, durante la gravidanza della moglie, distraendosi; oppure di essersi fermato in classe a fare lezione, quando Franca era già in clinica per il travaglio, bastava un po’ di responsabilità in più da parte sua, per arginare le superficialità del ginecologo.



Il filo conduttore della storia è la “disabilità”, non di Paolo, ma del padre, che compie un lungo percorso prima di superare il confine che corre tra “essere sano” e “non essere sano”; un limite difficile da valicare fino a quando non accetterà l’handicap del lio.

<< Una volta, mentre lo guardavo come se lui fosse un altro e io un altro, mi ha salutato. Sorrideva e si è appoggiato contro il muro. È stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo.>> (p.188)

Un susseguirsi di personaggi accomna le vicende dei due protagonisti e non manca il cinismo, lo sconcerto di chi, trovandosi dall’altra parte della barricata, si sente incapace di confrontarsi con il diverso.

Accanto a queste ure insignificanti, ce ne sono altre altruistiche e solidali, come la madre di Paolo, capace di accettare da subito la menomazione del lio; peccato che nel libro la donna rivesta un ruolo marginale.

Con un linguaggio sobrio e scorrevole, Pontiggia tratta un argomento d’attualità, mostrando solo una parte dei problemi che un disabile, e la sua famiglia incontrano, perché vige da sempre il principio della normalizzazione; da cui lo scontro con la propria diversità.

L’impegno di Paolo è indiscutibile per la cocciutaggine che mette per conquistare la sua autonomia così che ogni piccola conquista ha il sapore della vittoria, del nuovo. E se da una parte lo aiuta a superare alture invalicabili, dall’altra lui apprende l’arte del vivere, per oltrepassare in raffronto con quanto lo circonda.

Sono commoventi la ine dove Paolo si espone al mondo esterno. È consapevole della sua situazione; lui stesso ammette più volte d’essere disabile, ma tutto questo non lo scoraggia; niente autocommiserazione, ma caparbietà, ostinazione e diritto di rinascita.

Non è facile affrontare il problema della disabilità, perché l’handicap  è presentato come un qualcosa che sconvolge la normalità. Ci si accorge della “diversità”, solo quando gli altri te la fanno notare, quando s’incontrano staccionate da superare e non si hanno le gambe per superarle.

Nel romanzo sono presenti flashback in cui si alternano momenti di dialogo rivelatori d’interna insicurezza, dove il narratore rende manifesto ciò che sfugge ai suoi sensi e parti riflessive.

Nati due volte è ricco d’emozioni e riesce a trasmetterle tutte. Le ine si consumano velocemente, l’argomento soddisfa e convince.

La bravura di Pontiggia sta nell’aver trattato un’esperienza che lo ha visto “primo attore”, senza cadere nel patetico, senza trasferire sentimenti d’autentico autobiografismo, ma riflessioni a penetrazione psicologica.

Nati due volte è un puzzle, dove i tasselli sono rappresentati da intervalli, parentesi, sensi di colpa, che a volte sfocano il senso centrale della narrazione.

<< Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde “razza umana”, non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le separa.>> (p.31)

Quando si finisce di leggere il romanzo, non si può fare a meno di soffermarsi sul significato di “vita normale”.




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