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IL MENANDRO LATINO

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IL MENANDRO LATINO

Svetonio, nella Vita di Terenzio, riporta alcuni giudizi formulati su di lui da personaggi di rilievo della cultura latina: Afranio (nato attorno al 150 a.C.), Cicerone (nel 106 a.C.) e Giulio Cesare (di cinque o sei anni più giovane). Si tratta di valutazioni particolarmente interessanti, che ci aiutano a cogliere novità e caratteristiche della commedia terenziana.

Afranio giudicava Terenzio un autore «diverso da qualsiasi altro» (Terenti non consimilem dicas quempiam), un commediografo a parte, veramente speciale: il migliore. Afranio era uno scrittore di togatae, il suo mondo era quello della famiglia, i toni e i sentimenti non conoscevano gli eccessi, spesso anche farseschi, dei servi furbi plautini, egli non faticava a riconoscere nell'inconfondibile misura terenziana il più auorevole antecedente del genere teatrale da lui praticato. Cicerone, sottolineandone la pacatezza dei sentimenti (sedatis motibus) e la dolcezza della lingua, faceva di Terenzio l'unico che fosse stato capace di tradurre e rendere in latino un autore raffinato come Menandro (conversum expressumque Latina voce Menandrum). Giulio Cesare, infine, pur invocandolo col titolo di «Menandro dimezzato" (o dimidiate Menander), giudicava Terenzio tra i primissimi (in summis) in virtù della purezza della sua lingua (puri sermonis amator). Terenzio fu dunque diverso da tutti gli altri autori di painatae, e lo fu soprattutto per la vicinanza a Menandro, al suo raffinato mondo psicologico e sentimentale, e per la dolcezza e purezza della lingua.



Il "ritorno a Menandro" è un fatto di sostanza che però investe anche la forma. Sostanziale è la perdita di importanza nell'economia dell'azione, della beffa e di chi ha il compito di escogitarla e attuarla, vale a dire, soprattutto, del servo astuto. Questo lo si vede bene nelle tre commedie in cui la beffa ha una parte nell'intreccio. Nell'Heautontimorumenos il vecchio Cremete ha l'idea di inscenare una (finta) beffa ai danni di Menedemo e ne affida la realizzazione al servo furbo Siro, ma l'unica beffa che riesca a Siro è quella (reale) allo stesso Cremete. Nell'Eunuchus il servo furbo Parmenone prospetta al padroncino Cherea la possibilità di intrufolarsi in casa di Taide travestito da eunuco, ma il suggerimento del piano ha un rilievo quasi nullo rispetto alla prontezza, il coraggio, l'abilità con cui il giovane lo mette in pratica e al divertito entusiasmo con cui poi ne fa un minuzioso (e malizioso) racconto all'amico Antifone. Persino nel Phormio, una commedia d'azione (motoria), tutta intessuta di beffe, trappole e sotterfugi, l'abilità inventiva del parassita protagonista non è il fine, come lo sarebbe in una commedia di Plauto, bensì il mezzo per insaporire una vicenda dominata dal Caso. In esse contano soprattutto la diversità di carattere tra i due giovani cugini, Feria e Antifone, l'atteggiamento dei rispettivi genitori, i fratelli Cremete e Demifone, le "due vite" dello stesso Cremete, la prima rappresentata dalla lia Fanio, la seconda dall'autorevole moglie Nausistrata.

Di fatto, quello che veramente preme a Terenzio e che lo spinge a privilegiare il modello menandreo è la "chimica" dei caratteri e dei sentimenti. Un personaggio che abbia un certo carattere (mite o aggressivo, disponibile o egoista, avaro o spendaccione) e abbia ricevuto una certa educazione (tradizionale, contadina, "catoniana" o moderna, cittadina, di ricercatezza e libertà "orientali"), se viene a trovarsi in una certa situazione che ne metta alla prova interessi e sentimenti, ponendolo in conflitto con carattere, educazione, interessi e sentimen­ti di altri personaggi, come reagirà? e come reagiranno gli altri? e cosa ne verrà fuori? A questi interrogativi tentano di rispondere le commedie di Terenzio. E le risposte trovate, o suggerite, vogliono essere eticamente costruttive: ispirare riflessione e saggezza, invitare alla moderazione e a una migliore comprensione di noi stessi e del nostro prossimo.
A questo ravvicinamento di sostanza alle tematiche menandree corrisponde un ritorno anche formale alla Commedia nuova. Gli aspetti più appariscenti di questo riavvicinamento ai modelli attici sono: la riduzione dell'elemento musicale e la distribuzione bilanciata delle presenze in scena dei vari personaggi. In Menandro le parti cantate erano affidate a un coro che non partecipava all'azione e interveniva solo negli intervalli tra un atto e l'altro: il testo della commedia veniva o solo recitato, o recitato con accomnamento musicale (qualcosa di simile al recitativo del nostro melodramma). In Terenzio, di vere e proprie parti liriche ce ne sono ben poche: qualche passo dell'Andria, l'inizio di Adelphoe IV, 4 (si tratta generalmente dei primi versi di monologhi sentimentalmente mossi: ansia, paura, disperazione). Dominano inve­ce le parti semplicemente recitate (in senari giambìci) e quelle recitati­ ve (in settenari trocaici, settenari e ottonari giambici). Se tale pratica è lontanissima da quella di Plauto, in cui la parte lirica è assai spesso prevalente, altrettanto si può dire della distribu­zione delle presenze dei vari personaggi sulla scena. In Plauto uno stesso personaggio può rimanere in scena anche per oltre cinquecento versi consecutivi: Mercurio, nell'Amphitruo, resta in scena per 550 versi, Pseudolo, nello Pseudolus, per 573 versi consecutivi. In Teren­zio invece, al modo menandreo, raramente un personaggio resta in scena per più di centocinquanta versi consecutivi: il ritmo degli avvi­cendamenti è incalzante e contribuisce a mantenere viva l'attenzione dello spettatore per vicende poco dinamiche e quasi mai di comicità esilarante.
Ma Terenzio non è solo un buon imitatore della misura menandrea. C'è un punto in cui egli si allontana decisamente anche dai commediografi attici: il numero dei personaggi. Terenzio si trova ad operare nell'ambito di un teatro non vincolato al limite attico dei tre attori: le comnie a Roma erano di cinque o sei attori. Plauto aveva sfruttato questa maggiore disponibilità soprattutto in senso spettacolare, mettendo quattro, cinque, a volte persino sei personaggi contemporaneamente sulla scena. Terenzio non disdegna tale possibilità, soprattutto nelle sue commedie più vivaci, l'Eunuchus e il Phormio, mentre non c'è una sola scena con più di tre attori nella più "attica" e più introspettiva delle sue commedie, l'Hecyra. Ma Terenzio sfrutta la maggiore disponibilità di attori soprattutto aumentan­do il numero dei personaggi. Plauto tende a una media di dieci o undici personaggi per commedia (che è anche quella degli originali greci). Terenzio a una media di quattordici.

Naturalmente, Terenzio, come già aveva fatto Plauto, ha aggiunto qua e là personaggi di riempitivo: ruoli minori, incaricati di fare temporaneamente da spalla a qualche altro personaggio (vivacizzando una scena che nell'originale poteva 6ssere un monologo): come Sosia, che in Andria I, 1 fa da spalla al vecchio Simone, come Antifone, che

Eunuchus III, 5 fa da spalla al giovane Cherea. Ma Terenzio ha aggiun­to anche personaggi di maggior rilievo, inseriti nel vivo dell'azione: come il giovane innamorato Carino e il suo servo Birria nell'Andria, introdotti per raddoppiare la coppia Panfilo giovane innamorato-Davo suo servo e creare contrapposizione speculare tra le coppie omologhe. La vicenda di una coppia viene così a intrecciarsi con quella dell'altra. Il gioco risulta complicato e si moltiplicano le reazioni della "chimica" dei caratteri e dei sentimenti.

Per far questo, Terenzio non creava liberamente, ma attingeva ad altre commedie, simili come soggetto e come struttura. Nel caso dell'Andria, non solo Sosia, ma anche proprio Carino e Birria Terenzio ha presi dalla Perinthia, un'altra commedia di Menandro strutturalmente molto simile all'Andria. Qualcosa di simile è avvenuto per l'Heautontimorumenos, nel quale compaiono due giovani, Clinia Clitifone, con le rispettive storie d'amore, i rispettivi padri, i rispettivi servi. Nel prologo della commedia Terenzio ci dice che, rispetto all'omonimo modello menandreo, egli ha «raddoppiato l'argomento» (dupiex quae ex argomento facta est simpiici. v. 6). Questo procedimento di trasferimento e inserzione in diverso contesto di personaggi e scene intere, già praticato con disinvoltura dagli altri commediografi latini, ma nel quale Terenzio dovette eccellere per l'insolita precisione della sua "tecnica di montaggio", è noto come «contaminazione».

Gli scrittori di teatro copiano e mescolano, tagliano e ricuciono da quando il teatro esiste. Ma l'unicità di Terenzio stava proprio nella precisione quasi chirurgica dei tagli e delle inserzioni: egli riusciva a modificare e variare senza danneggiare l'armonia dell'insieme, senza alterare il significato di fondo del modello principale. Mentre la disinvoltura di altri, pur grandi, come ad esempio Plauto, aveva spesso prevaricato, compromettendo seriamente l'organicità della struttura, Terenzio sapeva essere insieme rispettoso e originale.

Tanta insolita raffinatezza suscitò immediata invidia nei concorrenti. Fin dal prologo della sua prima commedia, l'Andria (166 a.C.), Terenzio dovette difendersi dagli attacchi di un «malevolo vecchio poeta»: probabilmente il modesto autore di painatae Luscio Lanuvino. Questi, presa visione anticipata del testo terenziano, gli aveva rinfacciato di aver «contaminato» due commedie di Menandro, l'Andria e Perinthia, di avere cioè utilizzato «danneggiandolo» (contaminare significa infatti «mescolare sporcando») entro lo schema della prima alcune scene della seconda. Terenzio si difese sostenendo che l'argo­mento delle due commedie è identico, solo il dialogo diverso: la contaminazione era dunque legittima, e del resto già praticata da Nevio, Plauto, Ennio (vv. 5-21).

Ma le gelosie professionali e le contestazioni non cessarono, mescolandosi a voci di una partecipazione attiva alla stesura delle commedie terenziane da parte di Scipione Emiliano e Gaio Le­lio. Terenzio, che sin dall'Andria aveva abolito dal prologo qualsiasi riferimento al soggetto della commedia, continuò a difendersi e a controbattere anche nei prologhi delle commedie successive (almeno a giudicare da quelli che ci restano: il prologo originario dell'Hecyra non ci è pervenuto). La notazione più importante è forse quella che e nel prologo dell'Eunuchus: Nullum est iam dictum quod non sit dictum prius, «Non c'è più nulla da dire che non sia già stato detto un'altra volta» (v. 41). Terenzio dichiara che la commedia su cui si fonda è l'Eunuchus di Menandro, e riconosce di aver tratto le ure del parassita e del soldato da un'altra commedia menandrea, il Cholax, ma non crede che sia giusto, per questo, accusarlo di "furto" solo perché il motivo dell'adulatore era già stato trattato da Nevio e da Plauto. Altrimenti si dovrebbe proibire per sempre ai poeti di ricorrere ai medesimi tipi e motivi teatrali, giacché «non c'è soggetto che già non sia stato trattato in precedenza».

Queste difese terenziane rappresentano la prima discussione critica a noi nota sul significato e la tecnica del tradurre (vortere) teatrale: grazie ad esse, siamo in grado di farci almeno un'idea su un dibattito letterario che era nato con Livio Andronico e la sua prima "traduzione" latina di un'opera teatrale greca, ma solo dopo la ssa di Plauto, venuta meno la sua egemonia, doveva essersi fatto particolarmente vivace e interessante. Non di rado, nella storia, alla crisi della letteratura o dell'arte si accomna una più viva matura coscienza critica.

Ma le difese terenziane presuppongono anche una radicale trasformazione della funzione stessa del prologo. Prima di Terenzio, il prolo­go aveva sempre avuto un carattere prevalentemente informativo: una divinità (come tale onnisciente) o, più raramente, un personaggio del­la commedia, o ancora il capocomico, forniva agli spettatori il titolo dell'opera e i dati indispensabili per seguire l'azione vera e propria. In Plauto, quando il prologo c'è, è di questo tipo; quando non c'è, è sosti­tuito da una scena dialogata che funge da prologo informativo. In Terenzio il prologo c'è sempre, ma senza traccia di funzione informativa. Abolendo dunque tale funzione e sganciando il prologo dall'azione vera e propria, Terenzio eleva il «fattore sorpresa» ad elemento essen­ziale del dramma. Non potendo, né volendo contare su una comicità facile e continua, il poeta cerca di attirare l'attenzione del pubblico provocando la sua curiosità, privandolo cioè di qualsiasi informazione preliminare sulla vicenda.




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