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LA PIETAS DI ENEA



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LA PIETAS DI ENEA

Certamente se c'è un sentimento prevalente all'interno dell'Eneide, un sentimento che la percorre dall'inizio sino all'ultima parola, esso è proprio la pietas, che è anche la qualità che Virgilio sceglie di attribuire al protagonista stesso del poema, Enea.

La pietas è definibile come una qualità universale, in quanto occupa i principali campi del vivere umano: si tratta infatti di dovere e devozione verso gli dei, di amore ed affetto, tanto per i genitori ed i li quanto per la patria e gli amici, e infine di personale clemenza, giustizia e senso del dovere.

Enea dimostra sin dai primi episodi che nella maggior parte delle sue azioni inevitabilmente si nota il marcato segno di questa pietas. Prendendo per esempio il discorso-esortazione che egli fa ai suoi comni dopo la tempesta ed il naufragio (I, vv. 198-207), si nota come Enea si carichi sulle sue spalle tutta la responsabilità di una situazione di difficile emergenza, in cui si rende necessario uno sprono (la famosa "orazion picciola") ai comni, e anche a se stesso, perché proprio in quel momento la fatica e lo sconforto non sopraffaggano i loro animi valorosi.



Il discorso di Enea è ricco di tensioni, contraddizioni e tentennamenti: si capisce che egli non si sente un capo, non è irritante ed altezzoso nei suoi toni; è uno dei tanti Troiani che stanno fuggendo dalla vecchia patria alla ricerca di una nuova, con un coraggio ed un valore eccezionali, che involontariamente portano i suoi comni a vederlo come una sorta di faro, di guida.

Enea al v 198 chiama gli altri socii, comni: egli vive nella stessa loro dimensione, è uno di loro; appare netta la differenza con Ulisse, il quale voleva distinguersi dal resto del gruppo ed aveva un ruolo di capo-eroe che portava gli uomini che occupavano la scena con lui ad apparire come una grande mandria umana, silenziosa e passiva, con l'unica funzione di risaltare la sua persona.

Caratteristica di Ulisse era la métis, la sapiente capacità di aspettare il momento favorevole per agire a proprio vantaggio o per la propria salvezza; peculiarità di Enea invece, nel momento in cui veste i panni del naufrago e del viaggiatore, non è la capacità di attendere, di riflettere, la métis insomma, ma la pietas, che porta ad un successo meno solitario e, nello stesso tempo, più faticoso e doloroso.

Altro passo utile per l'analisi del personaggio Enea è il momento del "costretto" addio a Didone. Anche qui gioca un ruolo determinante la pietas, intesa come osservazione scrupolosa del volere divino: Mercurio, messaggero di Giove, lo ammonisce a lasciare Cartagine e a proseguire il viaggio. Enea non ha dubbi, si prepara subito a lasciare la città, di notte e di nascosto. il colloquio che è costretto ad avere con l'infuriata Didone è più una accusa-supplica da parte della regina, un ultimo disperato tentativo di convincerlo a restare nell'isola e a consolidare il suo rapporto con lei. Enea di fronte a lei mostra tutta la sua umana debolezza: non è capace di portarle la reale motivazione e si limita a dirle che tra di loro non c'è alcun vincolo coniugale. Solo all'ultimo accenna alla natura divina del suo viaggio dicendo " . Italiam non sponte sequor.": un verso la cui forza sta nell'incompletezza, (cosa rara nell'Eneide, 5 soli sono i versi non completati), nel fatto di essere quasi singhiozzato; un verso che costituisce la vera giustificazione di questa sua partenza, resa ancor più un dovere dal fatto che stavolta è stato lo stesso Giove, attraverso Mercurio, a manifestare la sua volontà.

Enea rappresenta un nuovo tipo di eroe: egli opera diverse scelte, per le quali si trasforma dall'antico eroe, che lotta in armi anche di fronte ad un inevitabile scacco, al "nuovo" eroe, che sceglie la fuga senza più sentirla come una viltà, ma come una dolorosa necessità imposta dal Fato.



Tuttavia la decisione di fuggire gli costa un faticoso passaggio dall'etica tradizionale ad un ruolo voluto esplicitamente dagli dei: la fuga, l'esilio, l'assunzione del nuovo ruolo coincidono con il volere divino.

La pietas è anche "la pietà per i vinti", fenomeno poco presente nei poemi epici che narrano di episodi di battaglia e di guerra, in cui tale dimensione solitamente non entra.

Sotto quest'aspetto l'Eneide rappresenta un'eccezione: l'eroe troiano prova compassione per gli uomini da lui uccisi. Il nuovo eroe di cui si parlava prima ha una profonda umanità, che lo spinge ad esitare davanti ad un gesto crudele e a soffrire tanto quanto le vittime di tali gesti: esempi sono le vicende di Lauso e Pallante e di Eurialo e Niso.

La sicurezza di Enea si incrina davanti alla morte, alla violenza e alla tragedia della sofferenza delle vittime di un fato crudele.

Il documento migliore per la grandezza di Enea è il libro XII, dove si narra della morte di Turno, che offre il petto ad Enea ed allo stesso tempo chiede di essere risparmiato (vv. 931-948); Enea vorrebbe risparmiarlo ma alla vista del balteo che apparteneva a Pallante sente il desiderio di una giusta vendetta. Il gesto violento che Enea finisce per compiere non è dovuto al suo carattere crudele, ma al desiderio di punire colui che ha ucciso e poi depredato l'amico.

Se prima ci si era riferiti in un paragone ad Ulisse, qui è il caso di far notare l'assoluta diversità tra Enea ed un altro eroe omerico, Achille,  il quale nell'Iliade, una volta ucciso il nemico Ettore, fa scempio del suo cadavere senza provare pietà né rispetto.

"La pietà per i vinti" è tesoro di pochi valorosi uomini: Enea è uno di questi, ha le caratteristiche di un tipo d'eroe devoto agli dei che conosce l'amarezza della rinuncia e il dovere della missione.







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