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TACITO - ANNALI XV

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TACITO - ANNALI XV



Segue un disastro, non si sa bene se per caso o per la perfidia dell'imperatore (infatti gli storici hanno riportato entrambe le versioni), ma il più grave e il più atroce di tutti i disastri che siano accaduti a questa città per la violenza del fuoco. Scoppiò in quella parte del Circo Massimo che è contigua ai colli Palatino e Celio dove il fuoco, non appena scoppiato nelle botteghe in cui c'erano merci con cui la fiamma si alimenta, e fu subito violento e, spinto dal vento, distrusse il Circo nella sua lunghezza. Infatti non c'erano in mezzo palazzi recintati che potessero servire a difesa o templi cinti di mura o qualcosa d'altro che potesse rallentare l'azione del fuoco. Dapprima l'incendio si estese, per impeto del vento, ai luoghi pianeggianti poi, salendo sulle alture e nuovamente nel devastare le zone più in basso, grazie alla sua velocità anticipò i rimedi possibili al danno e, dato che la città gli era soggetta per le vie strette e qua e là tortuose e per i quartieri irregolari, poiché Roma è antica. Oltre a ciò, le grida delle donne atterrite, vecchi e bambini e quelli che cercavano di salvare se stessi e quelli che cercavano di salvare gli altri, mentre trascinavano i feriti o si fermavano ad aspettarli, parte che indugiava, parte che si affrettavano, erano tutti insieme d'impedimento. E spesso, mentre si guardavano le spalle, venivano circondati dalle fiamme di fronte o ai lati oppure, se erano fuggiti nelle vicinanze, invase anche quelle dal fuoco, anche quei posti che avevano creduti sgombri dal fuoco, trovavano nella stessa condizione. Infine, incerti su cosa evitare, dove andare, riempivano le strade e si sdraiavano nei campi; alcuni, perdute tutte le fortune, anche per il vitto giornaliero, altri, per la morte dei familiari che non erano riusciti a salvare, sebbene ci fosse aperta una via di fuga, si lasciavano morire. E nessuno osava opporsi all'incendio per le minacce frequenti di molti che proibivano loro di tentare di estinguerlo e poiché altri, apertamente, lanciavano torce accese e strillavano che avevano un mandante, vuoi per rapinare con maggiore libertà, vuoi dietro un preciso ordine.



In quel momento Nerone, che era ad Azio, non tornò in città prima che il fuoco si avvicinasse alla Domus Aurea, con la quale aveva congiunto il Palazzo ai giardini di Mecenate. E, tuttavia, non poté impedire che tanto il Palazzo quanto la Domus e tutte le costruzioni lì intorno fossero divorate dalle fiamme. Ma fece aprire, come rifugio per il popolo terrorizzato, il Campo Marzio e il Sepolcro di Agrippa e persino i suoi giardini privati e fece costruire abitazioni provvisorie per accogliervi la folla senza mezzi; e furono fatti venire generi di prima necessità da Ostia e dai municipi vicini e il prezzo del frumento fu diminuito fino a tre nummi al moggio. Tuttavia questi provvedimenti, sebbene di carattere popolare, non trovarono approvazione, poiché si era sparsa la voce che, nello stesso tempo in cui la città bruciava, Nerone avesse calcato il palcoscenico del palazzo e, in veste d'aedo, avesse cantato l'eccidio troiano, tentando di far somigliare le sventure presenti agli antichi disastri.

Solo al sesto giorno fu posta fine all'incendio sulla vetta dell'Esquilino, rasi al suolo per lungo tratto gli edifici per lasciare alla violenza continua delle fiamme un terreno sgombro e quasi un cielo sgombro. Non era ancora cessato il terrore né era tornata la speranza del popolo, di nuovo infuriò il fuoco in luoghi più aperti della città e, per ciò, ci fu una minor strage d'uomini: bruciarono, però, più templi degli dei e portici destinati alle passeggiate. E questo incendio ebbe maggior infamia poiché era scoppiato nei possedimenti di Tigellino, che erano stati di Emilio, e sembrava che Nerone volesse per sé la gloria di fondare una nuova città e di darle il suo nome.

Roma, infatti, si divide in quattordici quartieri, dei quali quattro restavano intatti, tre erano stati rasi al suolo, dei sette restanti rimanevano in piedi pochi ruderi rovinati e bruciacchiati.


E questi erano i provvedimenti presi in base alle iniziative umane. In un secondo tempo furono richiesti sacrifici espiatori agli dei e furono consultati i Libri Sibillini, in base ai quali si fece una supplica a Vulcano e a Cerere e a Proserpina e riti propiziatori a Giunone tramite le matrone che avevano marito, dapprima sul Campidoglio, poi presso il mare di Ostia, attintavi l'acqua, fu asperso il tempio e la statua della dea; e le donne celebrarono sellisterni e veglie sacre. Ma non per opera dell'uomo, non per le donazioni del principe o per le cerimonie propiziatrici agli dei si cancellava l'infamante accusa per la quale si credeva che l'incendio era stato ordinato. Perciò, per far tacere tale accusa, Nerone inventò i colpevoli e applicò loro pene straordinarie. Condannò coloro che, invisi per la loro nefandezza, il popolo chiamava Cristiani. Motivo di quel nome fu Cristo che, sotto l'impero di Tiberio, era stato condannato alla croce dal procuratore Ponzio Pilato; sopita momentaneamente, questa perniciosa superstizione prorompeva di nuovo non solo in Giudea, origine di quel male, ma anche in città, dove confluiscono da ogni parte le cose atroci e vergognose e vengono poi celebrate. Perciò, dapprima furono arrestati coloro che confessavano apertamente tale credenza poi, dietro loro segnalazione, una grande moltitudine, non tanto per il crimine d'incendio, quanto accesi d'odio verso il genere umano. E a quelli che andavano a morire fu aggiunto anche lo scherno di morire dilaniati dai cani, coperti di pelli d'animali, oppure crocefissi, oppure arsi e, quando il sole tramontava, bruciavano come torce notturne. Nerone aveva offerto i suoi giardini per questo spettacolo e bandiva i giochi del circo, in veste d'auriga mescolato al popolo o ritto sulla biga. Perciò, sebbene fossero quei supplizi contro persone colpevoli e che meritavano tali originali tormenti, si generava verso di loro un senso di pietà poiché venivano sacrificati non per utilità pubblica, ma alla crudeltà di un uomo.


Silio Vesta e Attico Vestino entrarono in carica quando già era nata e si era ingrandita la congiura, alla quale avevano aderito, a gara, senatori, cavalieri, soldati, anche donne, non solo per l'odio nei confronti di Nerone, ma anche per la simpatia verso Caio Pisone. Egli, nato dalla gens Calpurnia e imparentato con molte ed insigni famiglie grazie alla nobiltà paterna, presso la plebe godeva di un'illustre fama per la sua virtù o per apparenze simili a virtù. Infatti volgeva la sua eloquenza alla difesa dei cittadini, praticava elargizione verso gli amici, era, anche con gli sconosciuti, di affabile conservazione e comnia; erano presenti in lui anche doti che derivano dalla sorte, un corpo slanciato, un bell'aspetto: ma non la gravità dei costumi o la misura dei piaceri; si lasciava andare alla leggerezza e allo sperpero e, talvolta, al lusso, e ciò destava simpatie ai più che, in tanto dolce rilassatezza dei costumi, non vogliono che il sonno potere sia troppo rigido né severo.

L'inizio della congiura non fu dalla cupidigia di Pisone: né, tuttavia, ricorderei facilmente chi sia stato il primo promotore, per ispirazione del quale sia stata agitata quell'idea che molti fecero propria. La fermezza della morte indicò come i più risoluti Subrio Flavo, tribuno della coorte pretoria, e Sulpicio Aspro, centurione; e Anneo Lucano e Plauzio Laterano vi portarono i loro ardenti odi. Rancori personali spingevano Anneo Lucano, poiché Nerone cercava di soffocare la fama dei suoi carmi, incapace di imitarlo: nessuna ingiuria, ma l'amore per lo Stato spingevano Laterano, console designato. Al contrario, Flavio Scevino e Afranio Quinziano, entrambi appartenenti all'ordine senatorio, contro la loro fama, furono tra i primi.

Infatti Scevino aveva un'indole resa molle dal lusso e, inoltre, conduceva una vita assonnata; Quinziano, malfamato per la mollezza del corpo e diffamato con un epigramma infamante di Nerone, andava a vendicare l'offese subite.      






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