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ALESSANDRO MANZONI - La formazione culturale e il rigore logico del metodo, La conversione come conquista culturale, Testi tratti dagli Inni Sacri, Il



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ALESSANDRO MANZONI.


Cronologia della vita e delle opere di Alessandro Manzoni.

1785: nasce a Milano il 7 marzo dal conte Manzoni e da Giulia Beccaria.

1796-98: studia presso i Somaschi e i Barnabiti.

1801: pubblica "Il trionfo della libertà"

1805: si reca a Parigi dalla madre e scrive "In morte di Carlo Imbonati".



1806-l0: frequenta gli ideologues e diventa amico di Fauriel.

1807: morte del padre Pietro, che gli lascia in eredità tutto il suo cospicuo patrimonio.

1808: si sposa a Milano con Enrichetta Blondel, con rito calvinista, poi i due tornano a Parigi.

1809: pubblica "Urania".

1810: conversione al cattolicesimo di Enrichetta e poi di Alessandro, e loro ritorno a Milano.

1812-l5: scrive quattro "Inni Sacri": "La Resurrezione"(1812), "Il Nome di Maria"(1812-l3), "Il Natale"(1813), "La Passione"(1814-l5).

1819: pubblica "Osservazioni sulla morale cattolica. Si reca in Francia presso Fauriel.

1820: tornato dalla Francia, termina la tragedia "Il conte di Carmagnola", cominciata quattro anni prima. Dà inizio all' "Adelchi".

1821: termina l' "Adelchi", scrive "Marzo 1821" e "5 Maggio". Inizia il "Fermo e Lucia".

1822: pubblica l' "Adelchi"; scrive una nuova redazione della "Pentecoste".

1823: pubblica la "Lettre à Monsieur Chauvet" e la lettera a d'Azelio "Sul Romanticismo". Termina "Fermo e Lucia" e "L'appendice storica su la colonna infame".

1825-27: pubblica la rielaborazione di "Fermo e Lucia", con il titolo "I Promessi Sposi".

1827: viaggio a Firenze.

1830-35: lavora al trattato "Della lingua italiana", mai terminato.

1833: morte della moglie Enrichetta Blondel.

1834: lavora ad un "Inno Sacro", "Il Natale" del 1833.

1835-36: scrive un breve trattato sulla lingua "Sentir messa".

1837: sposa Teresa Borri vedova Stampa.

1840: comincia ad uscire a dispense l'edizione definitiva de "I Promessi Sposi"(1840-42).

1844-45: pubblica "Opere varie".

1847: pubblica un frammento di un nuovo "Inno Sacro": "Ognissanti".

1850: pubblica "Del romanzo storico" e "Dell'invenzione".

1860: è nominato senatore.

1861: morte della seconda moglie.

1864: vota per Firenze capitale e per la liberazione di Roma.

1868: come presidente della commissione parlamentare sull'unità linguistica, pubblica "Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla".

1873: muore a Milano il 22 maggio.



La formazione culturale e il rigore logico del metodo.

-Manzoni allievo, a Milano, dei "classicisti illuminati".

Il percorso culturale di Manzoni è intessuto di dubbi e di crisi puntigliosamente sofferte. Dopo una prima educazione esemplata su classici latini ed italiani, Manzoni viene assorbendo la cultura razionalistica ed illuminista. L'ambiente milanese lo porta ad avere rapporti con le varie linee di sviluppo neoclassico (Foscolo, Monti), con i circoli illuministici e soprattutto con gli esuli napoletani (Cuoco, Lomonaco). I suoi esordi letterari sono pervasi di spiriti libertari e giacobini. Nel poemetto epicolirico "Il trionfo della libertà", Manzoni inneggia alla rivoluzione francese, si scaglia contro la tirannide politica e religiosa, esprime la sua fede illuministicamente repubblicana e democratica. Soprattutto i quattro "Sermoni"(1803-l804) sono una satira sferzante dei costumi contemporanei, dove Manzoni individua con lucidità la sua vocazione realistica, il suo interesse per la umanità bassa del mondo contemporaneo. Si possono dunque rintracciare in Manzoni alcune linee di sviluppo che vanno dalla base classica ed illuminista ad una tensione di alta moralità, alla scoperta dello storico quotidiano.


-Manzoni allievo, a Parigi, degli ideologi (intellettuali contro il regime napoleonico).

Le posizioni liberali e il rigorismo morale di questi intellettuali portano Manzoni ad allargare la preparazione culturale e ad approfondire la sua base illuministica. Gli ideologi lo avviano alla poesia popolare, lo riconfermano nel suo impegno di ricerca e di studio dell'uomo. Siamo ad uno dei connotati essenziali della forma mentis manzoniana, a quel rigore logico da tutti ammesso e ammirato, ma che per l'incontro con gli ideologi si precisa meglio e si definisce come esigenza di coordinamento, connessioni necessaria delle parti rispetto ad una totalità. Il programma letterario del Manzoni arriva ad una precisa formulazione nel carme "In morte di Carlo Imbonati"(1806). Totale è la condanna della cultura disimpegnata, accademica o, peggio ancora, venduta ai potenti. Di fronte al caos della storia, ad un vivere sociale ed umano tanto squallido e sconsolato, emerge lucida la coscienza del giovane scrittore sul proprio ruolo di intellettuale, tutto teso all'impegno morale, alla serietà artistica.


La conversione come conquista culturale.

-La conversione: non un approdo, ma l'inizio di una nuova ricerca.

Il contatto con gli ideologi francesi incide anche sulla conversione religiosa del Manzoni. Lo scrittore, infatti, oltre le sollecitazioni degli amici francesi sul piano teorico e su quello metodologico, avverte più profonde esigenze etico-religiose per porre in termini diversi il problema morale e i nodi problematici della storia, lasciati irrisolti dalle elaborazioni teoriche degli intellettuali illuministici e dalle analisi degli ideologi stessi. Siamo al profondo travaglio che porta Manzoni, anche sotto la spinta di avvenimenti biografici, alla conversione del 1810. La conversione, certo, comporta il rifiuto radicale degli aspetti materialistici e atei dell'illuminismo, ma sostanzialmente non intacca le tensioni democratiche e razionalistiche che stanno alla base dell'educazione manzoniana. La conquista della fede, seppur rappresenta per lo scrittore un centro di assestamento, non è un punto di arrivo e non si esaurisce nell'evento per quanto tale e liberatorio. Dal razionalista Manzoni la fede non può essere assunta come un dato consolatorio e pacificante, come inerzia speculativa, ma come forza dinamica, costante e intensa ricerca di sperimentare il messaggio cristiano nella problematicità del reale e della storia. Non un approdo dunque, ma l'inizio di una nuova ricerca.


-Gli Inni Sacri: un'"epopea universal popolare".

Il ritorno alla fede e la riscoperta di un cristianesimo primitivo, evangelico, aurorale, portano Manzoni a ripensare il proprio programma culturale, alla necessità di testimoniare la parabola storico-umana della redenzione e i contenuti evangelici di libertà, fratellanza, carità cristiana. Ed ecco gli "Inni Sacri", concepiti nell'entusiasmo del neofito che vuole celebrare i misteri della fede. Dovevano essere dodici, uno per ogni festività dell'anno liturgico, ma ne vennero composti cinque: "La Resurrezione" (1812), "Il nome di Maria" (1812-l3), "Il Natale" (1813), "La Passione" (1814-l5), "La Pentecoste" (1817-22). Gli "Inni Sacri" si presentano come "epopea universal popolare", di chiaro segno democratico, in sintonia con la ricerca culturale romantica. Di qui una serie di innovazioni tematiche e stilistiche: - esigenza di un nuovo destinatario, che riautentichi nella democrazia evangelica i principi di uguaglianza, di libertà, di fraternità, etc.; e reattivi così le attese e le speranze di tutti, ma soprattutto di certe zone di umanità bassa. - gli "Inni Sacri" si pongono come coralità, dove la cristianità ritrova il senso della fratellanza e della comunità nel rito collettivo del pregare insieme, del testimoniare collegialmente le proprie esigenze morali e sociali. - gli "Inni Sacri" rivelano la volontà di fornire alla comunità cristiana strumenti per analizzare, dopo le delusioni storiche della rivoluzione Francese e di Napoleone, il percorso umano del riscatto e della redenzione, per meditare sulla storia degli uomini e sul significato del loro passaggio sulla terra. - gli "Inni Sacri" presentano nuove soluzioni strutturali, linguistiche e stilistiche: l'uso di una lirica alta è impraticabile, allora Manzoni recupera un tono diverso, quasi a mezza voce, una poesia che aspira ad un andamento prosastico, discorsivo, narrativo, corale. Recupera un lessico biblico e una sintassi più sciolta, in sintonia con il progetto di una lirica corale-popolare che testimoni le aspirazioni di una ritualità collettiva della comunità cristiana. Ma l'eccezionalità di queste innovazioni non raggiunge un preciso punto di fissione, quindi nella raccolta non è difficile trovare cadute ed ambiguità, smagliature in senso lirico-classicheggiante e tracce dell'antica tradizione illustre.


Testi tratti dagli Inni Sacri.

-"La Pentecoste.

È l'ultimo degli Inni Sacri. Fu terminato nel 1822. sono strofe di otto settenari; il I, il III e il V sono sdruccioli, gli altri piani, l'ultimo è tronco. Rime: abcbdeef. Si possono distinguere nell'Inno tre parti: I, vv. 1-48, la discesa dello Spirito sulla Chiesa per darle la forza di compiere la sua opera nel mondo; II, vv. 49-80, gli effetti della diffusione del nuovo messaggio cristiano; III, vv. 81-l44, invocazione allo Spirito Santo perché discenda ancora tra gli uomini. Nella prima parte si delineano due immagini antitetiche della Chiesa: dapprima appare paurosa e inerte, poi attiva nel suo impegno nel mondo (le due immagini contrapposte prenderanno corpo nel romanzo, rispettivamente nella timorosa passività di don Abbondio e nell'attivismo eroico di fra Cristoforo e il cardinale Federigo). Nella seconda parte si insiste sul messaggio di liberazione portato dal cristianesimo a tutti gli uomini. Nella terza parte si propone l'auspicio che il mondo terreno possa tornare a coincidere con il messaggio cristiano. Se il mondo della storia è il trionfo del male, dell'ingiustizia, della violenza,dell'oppressione, l'alternativa vera è nell'altra vita; ma anche nel mondo umano Manzoni ritiene che sia doveroso contrastare il male. Il cristianesimo di Manzoni ha una fondamentale fisionomia pessimistica, ma non si risolve in rassegnazione, dà luogo ad un atteggiamento attivo ed energico, animato dalla fiducia nella possibilità di un relativo superamento dell'ingiustizia. L'ultima parte dell'Inno propone poi i vari argomenti di un quadro della realtà umana, riscattata dalla forza del messaggio cristiano e dall'intervento dello Spirito Santo. In primo piano è il problema della giustizia sociale. Torna un motivo caro a Manzoni: la religione contribuisce a sanare l'ingiustizia inducendo i privilegiati a dare generosamente a chi non ha e dando ai poveri il conforto di un sicuro riscatto. Nelle strofe finali e anche una serie di altri valori, che sono il fondamento della visione manzoniana, e che costituiranno l'intelaiatura dei "Promessi Sposi": la "casta porpora" delle fanciulle (i rossori pudichi di Lucia), le "pure gioie ascose" delle monache (ne offrirà un esempio negativo Gertrude), il "verecondo amor" delle spose (Lucia nella conclusione della vicenda), il "confidente ingegno" dei "baldi giovani" che deve essere "temprato" (si ricordi la baldanza eccessiva di Renzo), lo sgomento che lo Spirito deve ispirare ai "tumidi pensieri del violento" (don Rodrigo), la canizie adorna "di liete voglie sante" (Federigo, Cristoforo). Dal punto di vista formale appare evidente la distanza che separa l'Inno dalla poesia classicistica.




Il passaggio dalle tragedie e alle odi civili.

-La delusione storica e l'esigenza di un più preciso programma di politica culturale.

L'esigenza di un nuovo programma di politica culturale, di fronte all'amara delusione storica degli anni 1815-l821, porta Manzoni a ricorrere alla tragedia, come genere capace di funzionare più organicamente e in profondità che non le liriche degli "Inni Sacri". La tragedia, infatti, è strumento di comunicazione più diretto e quindi, per certi aspetti, più popolare e didattico. Manzoni aspira ad una tragedia storica, quella su cui i teorici del romanticismo avevano puntato il loro interesse. Pertanto alla base della tragedia manzoniana vi è il "vero" della storia umana. Il poeta e lo storiografo, secondo Manzoni, si rivolgono allo stesso oggetto, la verità storica, con la differenza che mentre la storia accerta e descrive nella loro obbiettività le azioni che gli uomini hanno compiuto, la poesia indaga ciò che gli uomini hanno pensato e sentito nel compiere quelle azioni. Sulla base di questi principi nascono il "Conte di Carmagnola" (1816.20) e l'"Adelchi" (1820-22), entrambe di argomento storico. La prima è dedicata alla ura del capitano di ventura F. Bussone, detto il Carmagnola, processato e condannato a morte per tradimento della Repubblica Veneta nel '400; la seconda rappresenta il crollo del dominio longobardo in Italia nell'VIII sec., sotto i colpi dei nuovi conquistatori franchi.


-Le Odi civili.

Manzoni avverte tra i primi l'esigenza di una rivoluzione nazionale e non manca di testimoniare la propria convinta ed appassionata fiducia agli ideali di unità e di indipendenza. Alla caduta di Napoleone, Manzoni formula auspici, con la lirica "Aprile 1814", che il regno italico conservi la sua autonomia. Col "Proclama di Rimini" dà la sua adesione al tentativo di G. Murat, nel 1815, di rendere libera e indipendente l'Italia. L'ode "Marzo 1821" è composta in occasione dei moti carbonari; c'è in quest'ode l'affermazione del proprio ideale nazionale e unitario, c'è un incitamento agli italiani a ribellarsi all'ingiustizia e all'oppressione, sotto l'egida garante di Dio che è amore e giustizia. Il "5 Maggio" è composto nel 1821; nell'ode si celebra la morte di Napoleone, poi con trapassi fulminei la rievocazione delle folgoranti tappe della sua avventura storico-militare, infine si ha la commossa celebrazione della sua anima consegnata alla fede pacificante prima della morte. In quest'ode si ripete, oltre ogni giudizio storico sul personaggio, una lettura morale della politica e Napoleone diviene un simbolo del pessimismo cristiano del Manzoni che tende a svalutare l'azione degli uomini nella storia; tesi, questa, che conclude anche l'"Adelchi" e sarà superata decisamente solo nei "Promessi Sposi".


Testi tratti dalle Odi.

-"Il 5 maggio".

L'Ode è ispirata alla morte di Napoleone, avvenuta il 5 maggio nell'esilio di S. Elena. Le strofe sono composte di sei settenari: il I, il III e il V sdruccioli, il II e il IV piani, rimati fra loro, il VI è tronco. Schema delle rime: abcbde. Vediamo come si distribuisce la materia nel discorso nella sua successione sintagmatica. Si individuano tre momenti: I, preambolo: la morte di Napoleone, l'atteggiamento del poeta di fronte all'evento (strofe 1-4); II, rievocazione della vicenda di Napoleone, che a sua volta è divisa in due parti: a) le imprese vittoriose (strofe 5-9); b) la sconfitta e l'esilio (strofe 10-l4). E il III, conclusione: il soccorso della fede, il trionfo dell'eterno sulla gloria terrena (strofe 15-l8). Ora vediamo il sistema di opposizioni paradigmatiche che si costruisce all'interno di questa successione: I, nelle quattro strofe del preambolo emergono due opposizioni fondamentali: 1) immobilità (della salma) Vs. rapidità dell'alternarsi di vicende; 2) grandezza e gloria Vs. negatività dell'azione: il grande uomo ha seminato con le sue guerre distruzione, sofferenze e morte. II, la parte centrale dell'Ode in cui viene rievocata la vicenda dell'eroe, si articola su un'opposizione spaziale: lo spazio geografico amplissimo, in cui si manifesta il genio militare di Napoleone, Vs. la "breve sponda" dell'isola in cui finisce esule; poi su un'opposizione temporale: il passato glorioso Vs. il presente misero dell'esilio. Quest'ultima opposizione ripropone al suo interno l'opposizione che già si offriva nella prima parte, rapidità dinamica Vs. immobilità. Tutta la rievocazione delle imprese di Napoleone insiste sulla rapidità fulminea degli spostamenti, l'esilio ripropone invece il tema dell'immobilità. III, nell'ultima parte il contrasto passato Vs. presente, vastità spaziale Vs. breve sponda, dinamismo Vs. immobilità, viene superato attraverso l'ingresso di una nuova dimensione, fuori dal tempo e lo spazio: l'eternità ("più spirabil aere", "campi eterni"). In questa prospettiva viene però ripresa l'altra grande opposizione: grandezza e gloria Vs. negatività dell'azione. Ora la gloria, che prima era presentata attraverso le metafore della luce e del rumore, si annulla nel silenzio e nelle tenebre. Nelle opposizioni che reggono la struttura dell'ode, dinamismo Vs. immobilità, luce e rumore della gloria Vs. silenzio e tenebra, si può scorgere, tradotto in immagini il tema di fondo,la meditazione sui grandi uomini della storia. L'azione degli eroi nella storia è svalutata nella prospettiva dell'eterno: la morte mette di fronte al vero significato dell'esistenza. Questa svalutazione dell'azione dei grandi che si riscontra nell'ode è vicino al pessimismo di Adelchi morente. Si può misurare qui la distanza tra la prospettiva cristiana di Manzoni e la prospettiva classica e aneggiante di Foscolo, il suo culto degli eroi, l'affermazione dell'eternità della fama. Ciò non vuol dire che Manzoni neghi la possibilità di agire nella storia e l'eroismo di individui eccezionali, ma che gli individui eccezionali debbano legittimare la loro superiorità ponendola al servizio degli altri uomini.


Il romanzo come progetto cattolico-democratico organico alla borghesia progressista.

-L'interlocutore borghese.

Manzoni ben presto si avvede che neppure nello spazio della lirica patriottica e delle tragedie si è realizzato il suo programma di strategia culturale. Ora si tratta anzitutto di allargare il circuito della partecipazione, individuando un destinatario preciso, rispondente, con cui poter stabilire un dialogo. E l'interlocutore vero ("i miei venticinque lettori") Manzoni lo progetta all'interno della borghesia, e particolarmente della borghesia lombarda, per il suo impegno etico politico, e per essere in grado di gestire un nuovo modello di società progressiva. Dietro a questa nuova scelta del Manzoni c'è un'inquieta e amara delusione per la realtà politica contemporanea, dominata dalla tirannide austriaca che aveva gettato nelle carceri gli amici intellettuali del "Conciliatore".


-Il contenitore romanzo.

Individuato il destinatario, occorre muoversi alla ricerca di un contenitore, vale a dire di un genere letterario, funzionale a quelle scelte: ed ecco il romanzo. Il romanzo moderno corrisponde alla forma letteraria in cui meglio si esprimono i gusti e i valori della borghesia. E' dalla rivoluzione industriale del '700 in poi che il romanzo viene acquistando popolarità e forza letteraria, in corrispondenza alla formazione di nuove organizzazioni culturali e di un nuovo pubblico che può accedere alla lettura; d'altra parte il romanzo è un dibattito di idee, un insieme di problemi. Nei primi vent'anni dell'Ottocento, sulla letteraria europea, oltre a numerosi romanzi, appaiono testi ideologici o di poetica che mettono in discussione il problema della letteratura nei suoi stessi fondamenti e il problema del romanzo. Pietro Borsieri nelle "Avventure letterarie di un giorno" (1816) interviene nella polemica a favore del romanzo, lamentandone la mancanza, progettandone la struttura storica, sottolineandone la funzione pratico-idealogica. Sempre nel 1816 viene tradotto in francese il primo romanzo storico dello scozzese W. Scott, che per alcuni decenni sarà una delle divinità dell'Europa letteraria. Il romanzo manzoniano nasce in un dialogo diretto con la situazione romanzesca europea, e lo scrittore, anche nella fase di passaggio dal "Fermo e Lucia" ai "Promessi Sposi", chiarirà la sua concezione di romanzo come strumento necessario per avviare un processo di svecchiamento della cultura italiana, come strumento duttile di educazione e di progresso. In primo luogo il romanzo, ignoto alla tradizione, permetteva allo scrittore di esprimersi con piena libertà, senza lottare con regole arbitrarie imposte dall'esterno; in secondo luogo gli consentiva di rappresentare fedelmente la realtà senza le idealizzazioni, le astrazioni e l'artificiosità convenzionale che sono proprie della letteratura classicistica, aristocratica e di corte; per ultimo il romanzo permetteva di rivolgersi ad un vasto pubblico, poiché la forma narrativa e il linguaggio accessibile suscitavano facilmente l'interesse di un lettore non colto, in genere respinto dalle tragedie in versi, dalle odi e dai poemi epici.


-Il romanzo realizza i principi romantici.

Manzoni trova nel romanzo lo strumento ideale per tradurre in atto i principi che ispiravano la battaglia romantica per un rinnovamento della cultura italiana in senso moderno, borghese ed europeo. In primo luogo il romanzo risponde perfettamente alla poetica del "vero", dell' "interessante" e dell' "utile", in cui Manzoni sintetizza l'essenza dei principi romantici: consente di rappresentare la realtà senza le astrazioni e gli artifici convenzionali propri della letteratura classicistica, aristocratica e di corte; si rivolge non solo alla casta chiusa dei letterati, ma ad un più vasto pubblico, perché, attraverso la forma narrativa e un linguaggio accessibile, suscita facilmente l'interesse del lettore comune, in genere respinto da tragedie, odi e poemi epici, che trattano argomenti lontani dalla sua esperienza e sono scritti ardua e inaccessibile; è anche facile introdurre nella narrazione l'esposizione di idee, precetti, cognizioni varie: in tal modo il romanzo risponde alle esigenze dell'impegno civile dello scrittore, e fornisce il mezzo di comunicare al lettore notizie storiche, ideali politici, principi morali, secondo quella concezione educativa e utilitaria della letteratura che i romanzi lombardi ereditano dalla precedente generazione illuministica.


-La lingua della borghesia.

Ad un progetto di politica culturale di questo tipo occorreva una lingua funzionale: le forme classicheggianti, auliche, erano impraticabili. Già gli intellettuali dell'illuminismo avevano condotto la battaglia per un rinnovamento linguistico, ma solo Manzoni riuscì a risolvere il problema della lingua nella concretezza del romanzo. Non più l'autorità dei classici e l'imitazione dei medesimi, ma lo "scrivere come il parlare", cioè una prosa moderna, comunicativa, popolare, viva. Di qui la scelta della lingua parlata dalla borghesia colta fiorentina; non la lingua morta dei libri del Trecento e del Cinquecento. Il romanzo storico manzoniano necessitava di una lingua variata secondo le occasioni narrative, capace di armonizzare tutte le istanze dentro una struttura linguistica e stilistica compatta, in grado di garantire naturalezza e vivacità, senza perdere di rigore, senza eccedenze romanzesche ed eccentriche. In questa difficile operazione linguistica il Manzoni fu impegnato per quasi un ventennio, soprattutto tra il '27 e il '40 in cui riscrisse i "Promessi Sposi" secondo il modello linguistico individuato.


-Problematicità del reale e cristianesimo problematico.

Allo scrittore premeva calare la sua dimensione etico-religiosa all'interno della realtà della storia, per mezzo di un romanzo dove la complessità del reale trovasse un punto di convergenza con un Cristianesimo aperto, problematico. E solo là dove le contraddizioni della storia e le sue lacerazioni non riuscivano ad essere spiegate dagli strumenti razionalistici ed illuministici, solo là scattava nel romanzo la soluzione dogmatica e metafisica. Ma ciò fu difetto di strumenti disponibili, non volontà del Manzoni di spiegare i nodi irrisolti della storia in termini trascendenti: nel romanzo la provvidenza non fa mai violenza alla storia, ogni elemento è connotato religiosamente solo e nella misura in cui è stato verificato prima storicamente. I "Promessi Sposi", pertanto, non sono più leggibili come epopea della Provvidenza, ma come l'immenso palcoscenico in cui operano ed interagiscono gli interessi, le passioni, i destini, le convinzioni morali di un secolo (il Seicento), tutto filtrato attraverso la razionalità di uno scrittore che nulla dà per scontato, una saggezza evangelica, una moralità drammatica e lontana da ogni compromesso, una ricerca sempre aperta e pertanto problematica.


-Il Seicento come metafora della contemporaneità.

Il percorso della realtà degli umili nella rappresentazione della civiltà del Seicento, porta Manzoni a condannare il mondo morale, politico, economico delle classi al potere, nei loro vuoto cerimoniali, nei loro privilegi, nella sopraffazione eretta a sistema, nella mentalità ancora feudale, nell'incapacità di emanare e di far rispettare le leggi. In questa violenta critica alla civiltà del Seicento e alle sue classi dirigenti, c'è il senso di un grandioso esame di coscienza collettivo ed il senso di una metafora leggibile in termini di contemporaneità; le parole riferite al Seicento mandano subito ad un altro mondo, a quello italiano contemporaneo del Manzoni. Certo non mancano a tale prospettiva zone incerte, non risolte, e neppure esatte storicamente; certo non sono le prediche di Padre Cristoforo e del cardinale Borromeo a verificare questo programma. E' indubbio però che l'intellettuale Manzoni vuole mettere sotto gli occhi dei suoi contemporanei, con l'esemplarità del Seicento, dei materiali storici tali da consentire una presa di coscienza collettiva degli squilibri storici e politici, delle macroscopiche ingiustizie sociali, delle responsabilità giuridico-amministrative che avevano contribuito a frenare prima e bloccare poi il processo di crescita e di sviluppo progressivo della nazione.


-L'odissea di Renzo.

Il viaggio di Renzo nel romanzo è straordinariamente esemplare, proprio perché è Renzo a intraprendere il cammino rituale di iniziazione di chi è destinato al salto di classe e al ricambio di classe. Durante la drammatica odissea, Renzo sperimenta sulla propria pelle i meccanismi di un sistema sociale aberrante. Se l'odissea di Lucia è caratterizzata dai vizi della società alta e da contenitori a connotazione alta, il percorso narrativo e umano di Renzo è informato alle miserie della società bassa, come luogo aperto che abolisce le distanze inter-umane e la separazione tra le categorie sociali, come luogo di tutte le mescolanze e del mondo alla rovescia. Renzo sperimenta fino in fondo la logica per lui assurda di questo mondo alla rovescia, ed è costretto a complicare sempre di più i propri circuiti mentali ed esperienziali, i propri modelli di realtà.




Dal "Fermo e Lucia" ai "Promessi Sposi".

Il Manzoni incominciò la stesura del romanzo il 24 aprile 1821. L'aveva fatta precedere da profondi studi, continuati anche in seguito, sulla vita del Seicento e condotti sulle storie del Ripamonti, del Verri, e numerose altre memorie e ragguagli della prima metà di quel secolo e della dominazione snola in Italia. Tutte queste opere gli presentavano il quadro di un'età tetra e corrotta. Su questo sfondo, evitando ogni intreccio e intrigo di puro colorito romanzesco, evitando di alimentare la passionalità del lettore coi colpi di scena tanto cari ai romanzieri di professione, il Manzoni si propose di creare un opera il cui scopo doveva essere una rappresentazione di uno stato di fatto e di condizioni così somiglianti alla realtà, che si possano credere una storia vera, che si sia scoperta. Questa storia vera è l'avventura di due giovani promessi sposi del territorio di Lecco: Fermo Spolino e Lucia Zarella. Ma un giorno il loro matrimonio è impedito dal prepotente signorotto del luogo, che impone al curato di non celebrare le nozze. I fatti che ne nascono mostrano come l'ignoranza, i pregiudizi, le colpe degli uomini determinano ovunque il dolore e lo sconvolgimento: finché la provvidenza non interviene a trarre dalla sventura la redenzione e la felicità. Il romanzo intitolato "Fermo e Lucia" dal nome dei due protagonisti, fu terminato il 17 settembre 1823. Ma questa prima stesura, che talvolta s'indica erroneamente col nome tradizionale di "Sposi Promessi", non fu pubblicata dal Manzoni, ed ha visto la luce solo in tempi recenti. In primo luogo dobbiamo notare che si trattava di un romanzo condotto sul gusto scottiano. ½ abbondano perciò tinte forti, vigorosi contrasti, esagerazioni di sentimenti, digressioni fantastiche. Le ure sono delineate in tratti marcati, i fatti suscitano apprensione e curiosità. Fra i personaggi, oltre Lucia, destano particolare interesse Gertrude ed il Conte del Sagrato. Gertrude, anzi Geltrude, occupa con la sua storia di passioni e di fosche avventure una parte così ampia del romanzo che è stato possibile pubblicarla anche a sé. Un ampio spazio è dato anche al Conte del Sagrato, presentato nelle vesti del brigante gentiluomo e violento, odiatore degli oppressori snoli. Leggendo la ina che descrive l'uccisione compiuta da costui di un uomo sul sagrato di una chiesa sarà facile rendersi conto di come i toni del primo romanzo fossero calcati e tali da soddisfare in pieno l'atmosfera romantica del tempo. Infine notiamo che in "Fermo e Lucia" mancano alcune delle più stupende ine liriche dei "Promessi Sposi", quali per riferirsi solo ad un personaggio, a Renzo, quelle del suo viaggio verso l'Adda, della notte della sodaglia (cap. XVII), della vigna abbandonata (cap. XXXIII), della gran pioggia ristoratrice (cap. XXXVII). Non contento della sua opera, il Manzoni, subito dopo il settembre 1823, riprese per le mani il romanzo, ed in un anno di intenso lavoro lo rielaborò tutto, trasformandone intere parti: ridusse le digressioni storiche, soppresse le descrizioni degli amori di Gertrude, eliminò il racconto dei delitti dell'Innominato, cambiò nomi, etc. Con tali operazioni il romanzo assunse un volto nuovo, acquistò una struttura agile e chiara, un tono sereno e temperato, tanto che questa, e non la successiva rielaborazione, appare ad alcuni l'opera più geniale che il Manzoni abbia compiuto. La nuova stesura era presentata alla censura in tre tomi successivi, man mano che erano pronti. Il primo, presentato il 30 giugno 1824 e contenente i cap. I-XI, portava il titolo "Gli Sposi Promessi". Ma il secondo (cap. XII-XXIV) e il terzo (cap. XXV-XXXVIII) portarono il titolo definitivo "I Promessi Sposi". Di volta in volta che i manoscritti ricevevano l'autorizzazione del censore, il Manzoni procedeva alla stampa, ma senza divulgare l'opera. L'ultimo tono ebbe l'imprimatur il 7 luglio 1826, nel 1827 "I Promessi Sposi" ivano nella prima edizione. Di quest'edizione Manzoni non era ancora soddisfatto: nel testo ivano arcaismi, lombardesimi, modi di dire troppo lontani da quel fiorentino che per lui era la vera lingua italiana. Per questo nell'agosto del 1827 venne a Firenze a "risciacquare i suoi panni in Arno" come disse scherzosamente. Tra il '40 e il '42 "I Promessi Sposi" escono nella seconda e definitiva edizione.


Formazione del romanzo.

(1821-l842)

1821-23: è composta la prima stesura del romanzo che ha il titolo

"Fermo e Lucia"; tale stesura non fu mai pubblicata dal

Manzoni: è stata pubblicata da Lesca, nel 1915, erroneamente

col titolo "Gli Sposi Promessi", e poi nel 1954 da Chiari e

Ghisalberti con il titolo "Fermo e Lucia".

1823-25: l'opera è completamente rielaborata e presentata alla

censura, dapprima con il titolo "Gli Sposi Promessi", poi con

quello definitivo "I Promessi Sposi".

1825-27: si procede alla stampa della stesura approvata dalla

censura con le lievi modifiche che nel frattempo il Manzoni vi

apporta. La prima edizione dei "Promessi Sposi"è dunque del '27

1827-40: revisione linguistico-estetica del romanzo.

1840-42: escono "Promessi Sposi" nella seconda edizione.


L'architettura de "I Promessi Sposi".

Le vicende de "I Promessi Sposi" hanno la disposizione di una grande tragedia che, divisa in tre atti proiettati sullo sfondo di gigantesche arcate, si allarga a sempre più vasti orizzonti. Il "primo atto" (cap. I-VIII) segna l'impostazione della vicenda. In questa parte la scena si svolge nel piccolo mondo rustico del villaggio brianzolo e dei suoi dintorni. Tutto qui ha i colori del borgo: i luoghi, con la chiesa e la piazza del villaggio, con le stradette e l'osteria, col palazzotto di don Rodrigo più su da una parte ed il convento di Pescarenico dall'altra: i personaggi principali, come Renzo, Lucia, Agnese, don Rodrigo, don Abbondio, fra Cristoforo, e quelli secondari come Perpetua, fra Galdino, il Griso, il Podestà, Tonio, l'oste, e le ragazze che tornano dalla filanda, e le fanciulle che festeggiano la sposa, ed i convitati del signorotto, ed i popolani che accorrono al suono delle campane. Sono quasi sempre ine di vita intima, quadri di pittura fiamminga, cantucci di piccolo mondo antico. Una volta sola la scena si allarga, ma per inciso, nel narrare la storia di Lodovico: allora e la città, con i suoi palazzi lucenti e i suoi puntigli feroci. Poi, ritorna il borgo. Il "secondo atto" (cap. IX-XXVII) abbraccia un ampio susseguirsi di vicende, nel gran mondo che si apre agli occhi stupiti di Renzo e di Lucia. E' la parte che va dal momento dello sbarco sulla riva destra dell'Adda al lento trascorrere dei mesi nella triste casa di donna Prassede. E' una parte grandiosa: fatti improvvisi, esperienze inaspettate, lotte di opposte passioni nel cuore degli individui e nello spirito delle folle. Possiamo vederla distinta, a sua volta, in due scene diverse, rotanti ciascuna intorno ad uno dei protagonisti: la prima intorno a Renzo avventuratosi in Milano, la seconda intorno a Lucia, affidata al convento di Monza. La prima scena ha un corso immenso nella moltitudine che si dispiega in tutta la forza dell'istinto, e un assolo lirico nella fuga di Renzo verso l'Adda; la seconda scena ha due tempeste di anime, Gertrude e l'Innominato, in mezzo alle quali s'innalza purificatrice la ura di Lucia. Più in disparte da queste ure centrali tante altre creature, ognuna col suo bene o il suo male, con le sue ansie ed i suoi tormenti, e tante volte avvicinate in dialoghi stupendi: il conte Attilio ed il conte zio, Agnese e fra Galdino, il Cardinale e don Abbondio. Il "terzo atto" (cap. XXVIII-XXXVIII) si conduce in un ambiente ancora più ampio, ove i fatti privati sembrano, almeno dapprima, sire per dar luogo alla più terribile vicenda dei fatti pubblici. La guerra e la peste dominano la scena con le moltitudini atterrite, ammorbate. Sono i quadri più cupi del romanzo, i momenti più emozionanti: eppure, trattati anch'essi con quella controllatissima virtù rappresentativa, che anche nello sfrenarsi delle passioni più intense sa trovare le note dell'arguzia e dell'ironia. Poi, raggiunto l'acme del male, la tragedia volge alla catarsi, in cui la funzione redentrice del dolore trova la più completa esaltazione. Renzo compie la seconda andata a Milano: e là, donde la prima volta era stato costretto a fuggire come un ribaldo, trova Lucia e con lei la ragione e la speranza della vita. Ma per quella completezza di costruzione che guida sempre il Manzoni, nello stesso lazzaretto Renzo ritroverà fra Cristoforo e don Rodrigo ambedue vicini, e pur diversi nella conclusione dell'esistenza terrena. Lì il romanzo, virtualmente, finisce. Il racconto che prosegue non esprime che la volontà manzoniana di riportare tutta la vicenda nel corso medio e naturale della vita, e l'amore dell'artista per le sue creature fantastiche, da cui vorrebbe staccarsi più tardi possibile.


Il tempo della storia e il tempo del racconto.

All'inizio il tempo del racconto è molto lento e analitico. I cap. I-XVII narrano gli avvenimenti compresi fra il 7 novembre e il 13 novembre 1628: diciassette moduli per sette giorni. Successivamente, invece, più si allunga il tempo della storia narrata, più quello del racconto si fa condensato e sommario. L'azione narrativa vera e propria si svolge nello spazio di due anni: dal 7 novembre 1628, quando i bravi di don Rodrigo intimano a don Abbondio di non celebrare il matrimonio, ai primi di novembre del 1630 quando finalmente esso può aver luogo. Ma soltanto tredici moduli (XXVI-XXXVIII) bastano a narrare poco meno di ventitré mesi. Tutto ciò si spiega con la necessità, per lo scrittore, di presentare all'inizio i personaggi principali e di mostrarli immediatamente in azione e dunque di procedere nella parte iniziale e centrale in modo più disteso e argomentato, mentre successivamente la narrazione può diventare molto più spedita. Nell'ultima parte, inoltre, rispetto all'azione vera e propria prevale l'intento riflessivo e morale, e con lui, l'esigenza di lasciare al lettore un messaggio ideologico ben definito. Bisogna notare infine che il momento di svolta nel rapporto fra il tempo del racconto e il tempo della storia si realizza fra il XXV e il XXVI modulo, subito dopo la conversione dell'Innominato (XXVI cap.), il suo incontro con il cardinale Borromeo (XXII cap.) e il secondo addio al paese da parte di Lucia, che va a Milano da donna Prassede.


Lo spazio e i cronotopi.

Possiamo distinguere due spazi fondamrntali (il paese e la città), e altri dotati di minore sviluppo narrativo ma talora di eguale importanza simbolica: quello della strada, quello del castello dell'Innominato, quello del convento di Gertrude e di Lucia, quello dell'osteria, quello del lazzaretto. I primi tre sono spazi aperti, gli ultimi tre chiusi, il quarto (il castello) è uno spazio chiuso ma non separato dall'aperto, bensì caratterizzato dal suo dominio sull'esterno. Il paese e la città sono in antitesi. Nell'addio ai monti che chiude l'VIII modulo il paese si presenta ancora come spazio idillico in opposizione alle città tumultuose dove le case che si aggiungono alle case e le strade che sboccano nelle strade levano il respiro. E tuttavia quest'antitesi appare ormai logorata e impotente: il cronotopo dell'idillio paesano è vero solo nel sogno, nel ricordo, nello strazio dell'addio, che ridà intimità e incanto a uno spazio e a un tempo ormai profanati. Il tempo storico è già penetrato dentro il tempo ciclico dell'idillio, distruggendolo. Quando Renzo passerà il confine potrà dire "Sta lì maledetto paese". Né sarà un caso che alla fine la coppia degli sposi vada ad abitare in paese lontano dal paese natale, nel Bergamasco, e poi si stabilisca nei sobborghi stessi di una città, Bergamo. L'opposizione paese città è ormai soltanto un mito del passato e della nostalgia. Resta comunque vero che il paese, pur corrotto, mantiene un suo ordine domestico, in cui i personaggi si riconoscono e si orientano a perfezione. Il disorientamento comincia in città. Nella città domina il movimento; compaiono grandi masse in azione, urlanti e aggressive dapprima nei tumulti per il pane, poi nella caccia agli untori. Il tempo della città è più veloce e concitato. La città è il luogo della violenza non solo del potere, ma anche del popolo, che assale i forni o la casa del vicario di provvisione. Il cronotopo della strada è tipico del romanzo picaresco e del romanzo di viaggio e di avventure: la strada è il luogo del pubblico, degli incontri, delle esperienze. Lo spazio cambia di continuo come le persone che si incontrano: il tempo non è monotono, ma vario, segnato dallo sforzo per giungere ad una meta: nel primo viaggio quella dell'Adda, punto di passaggio obbligato per entrare nel territorio di S.Marco; nel secondo quella di Lucia. La strada è l'itinerario dell'eroe "cercatore", che deve seguire un percorso di iniziazione che lo condurrà sino negli inferi del lazzaretto. Il cronotopo del castello è un topos del romanzo gotico e poi del romanzo storico di Walter Scott. In Scott si caratterizza soprattutto per due modalità: il castello è saturo di tempo passato e di storicità; ha un legame storico con il paesaggio e con l'ambiente circostante. Entrambi questi aspetti compaiono nel palazzo di don Rodrigo. Per quanto riguarda l'interno, il proprietario del castello è mostrato, nel cap. VII, a faccia a faccia con i suoi antenati rappresentati nei quadri appesi alle pareti della sala e "alla presenza di tali memorie" sente crescere la propria inadeguatezza e la propria rabbia. Per quanto riguarda l'esterno, lo spazio che lo circonda ha un evidente dimensione simbolica. Nel "castellaccio" dell'Innominato l'elemento simbolico è ancora più marcato e tutto giocato nel rapporto con l'esterno. L'elemento della storicità degli interni manca del tutto. L'innominato sembra non avere storia né famiglia. All'esterno, invece, il castello esprime la stessa idea di grandezza e di superbia che viene emanata dal personaggio, un'aspirazione all'onnipotenza, che sottende quasi una sfida a Dio: "dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto". Nel romanzo s'incontrano tre osterie: quella del paese natale, dove Renzo si reca con Gervasio e Tonio la sera del matrimonio di sorpresa; quella di Milano la sera dei tumulti; quella di Gorgonzola in cui il giovane ascolta da un mercante il resoconto della giornata in città e delle sue stesse gesta. L'osteria è uno spazio chiuso in cui entra ed esce di continuo la gente; dall'esterno vi penetrano tutti gli echi, le speranze, le notizie. L'interno dell'osteria si contrappone all'esterno, simbolo della serietà, perché si fonda su un tempo improduttivo, tempo-di-non-lavoro, di gioco, di trasgressione. Il convento delle monache di Monza è un luogo chiuso contrapposto e isolato rispetto all'esterno, che rappresenta la vita normale, la possibilità della trasgressione e della fuga. Una sorta di prigione. Il confine con l'esterno è un luogo di tensione, come subito avverte Lucia davanti alla grata del parlatorio. Il tempo è uguale, ripetitivo, immobile, scandito dalla regola. Infine il lazzaretto, gli inferi sulla terra. Esso è un recinti chiuso, fra ospedale e campo di concentramento. Un cielo implacabile, chiuso, oppressivo vi grava sopra: incombe una minaccia e una punizione divina che tutto eguaglia.




Il sistema dei personaggi: "I Promessi Sposi" come romanzo dei rapporti di forza.

I protagonisti sono i due promessi sposi. Per raggiungere l'obiettivo di sposarsi essi ricorrono a coadiuvanti o protettori: padre Cristoforo e il cardinale Federigo Borromeo. Vi si oppone don Rodrigo, cui si aggiunge poi l'Innominato. Per contrastare il matrimonio essi si servono, come strumenti, dapprima di don Abbondio, poi di Gertrude. Il momento di svolta si ha quando l'Innominato passa dal campo degli oppressori a quello dei protettori. Dunque gli otto protagonisti si possono dividere in coppie per similarità, come si è già visto, ma anche in coppie per opposizione: Renzo Vs. don Rodrigo e don Abbondio; Lucia Vs. Innominato e Gertrude; padre Cristoforo Vs. don   Rodrigo; il cardinale Borromeo Vs. don Abbondio. Si noti anche che gli otto personaggi sono divisibili anche come quattro borghesi e quattro nobili e come quattro laici e quattro ecclesiastici.


I personaggi principali.

-Renzo.

Anima semplice ed ottimista, solo ora comincia a conoscere il male del mondo, ma non disposto a lasciarsi piegare da loro. Di fronte alle soverchierie ed alle violenze, il suo animo pacifico ed alieno dal sangue, non pensa che alla vendetta e all'omicidio. Ma da questo lo terranno lontano le parole di fra Cristoforo, l'immagine ed il pianto di Lucia, e, la sua innata onestà ed il forte sentimento religioso. C'è in lui un innato senso della giustizia. Certo è un ingenuo, un povero montanaro che conosce poco del mondo e quindi facile ad essere preso, sviato dagli avvenimenti esterni. Eppure non è un balordo: intuisce l'inganno di don Abbondio, sa far cantare Perpetua, comprende il valore della grida che lo interessa, strappa a Lucia il consenso del matrimonio clandestino. Intelligente abbastanza dunque. Ma soprattutto ci piace perché è veramente buono e generoso. Con Renzo il Manzoni mostra spesso, in sfumature diverse, il suo umano sorriso; il sorriso dell'uomo colto e meditativo che si fissa a guardare l'uomo semplice e buono. Ma il Manzoni è anche vicino a Renzo e più volte lo dipinge con un sottinteso consenso. C'è in Renzo l'esaltazione degli umili, ed una delle più artistiche manifestazioni degli ideali manzoniani di giustizia e di fraternità.


-Lucia.

E' il personaggio più amato dal Manzoni, quello per cui l'autore dice di sentire un po' d'affetto e di reverenza: una creatura che il poeta ha voluto presentarci sotto una luce ideale, pur mantenendola nella realtà degli atteggiamenti di una giovane contadina semplice ed intelligente, religiosa ed innamorata. Il lavoro, la preghiera ed il pianto sono gli atteggiamenti più comuni e più poetici di Lucia. (Lavora nel suo paese, lavora nel monastero a Monza, lavora nella casa del sarto, . ; prega assiduamente ed intensamente, quando ogni speranza terrena sembra crollare, ogni aiuto umano sire; piange, ed il pianto è la sua arma, e le sue lacrime sono eloquenti più di ogni parola. Piange nel raccontare l'incontro con don Rodrigo, piange davanti a padre Cristoforo, . ). Una creatura fatta così è logico che sembrasse ad alcuni povera cosa per una prima donna in veste d'amante, e ad altri un'esagerazione per una povera contadinella senza cultura. Ma è certo che gli uni e gli altri hanno capito ben poco della Lucia manzoniana e niente hanno sentito dall'incanto che da lei emana, sia come ura morale, sia come creazione artistica. C'è in Lucia anche un altro motivo stupendamente umano e poetico: la lotta fra il dovere religioso ed il legittimo sentimento d'amore. Per niente fredda come qualcuno ha voluto trovarla perché non ha mai effusioni sentimentali, Lucia ama il suo promesso sposo con amore intenso vivissimo.


-Padre Cristoforo.

E' la persona che personifica l'ideala cristiano della carità e del sacrificio. Tutta la sua esistenza è dominata dall'amore, che lo fa sollecito verso gli umili. La sua natura impulsiva trova nella religione cristiana un freno e la forza di vincere se stesso. C'è un combattimento continuo tra temperamento e volontà religiosa. Egli è uno dei personaggi più ricchi di vicende ed atteggiamenti: ma sempre conservando una stupenda coerenza che si armonizza con il progressivo elevarsi della sua vita. È soprattutto in due momenti che la sua ura s'innalza nella luce dell'eroismo cristiano; la visita a don Rodrigo nel suo palazzotto e l'opera soccorritrice nel lazzaretto. Nella prima egli è nel vigore delle forze. Le sue parole si fanno sempre più incisive, i suoi accenni sempre più roventi, finche, quando la collera scoppia appassionata, frasi e gesti prorompono in un grandioso crescendo che assume i colori e le minacce della profezia. E quando allo schianto dello sdegno succede il silenzio ed il raccoglimento, l'immagine dell'albero, che al cader del vento, nel forte della burrasca, ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il cielo la manda, non solo conclude stupendamente una scena drammatica, ma stupendamente ritrae la forza della calma evangelica, che ricomponendo la ura di Cristoforo nell'umiltà del cappuccino ne segna la superiorità morale e spirituale. Nel secondo momento padre Cristoforo è invecchiato. È l'epilogo do una vita condotta in un infaticabile apostolato di bontà: un epilogo cui brilla l'interiore certezza di un premio ineffabile. Là le sue parole sono appassionate esortazioni all'amore contro l'ignoranza e la crudeltà degli uomini, e la sua forza produce una luce di cielo sullo squallore e la desolazione della terra.


-L'Innominato.

Fin dalla sua prima presentazione l'Innominato ci appare una ura grandiosa e misteriosa: un tale le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà delle imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. È un personaggio della storia, ma le stesse fonti storiche ne tacciono il nome. Lo stesso avviene per il paesaggio scabro e cupo, su cui s'innalza il castellaccio. Il suo aspetto sinistro potentemente si armonizza col selvaggio signore e contribuisce ad accrescerne il tono di leggenda. Al suo confronto tutti sono ombre meschine, come don Rodrigo ed i suoi bravi, o segni della sua potenza e della sua superiorità. Il fascino epico si armonizza col rispetto e con la venerazione. Era quell'uomo che mai nessuno aveva potuto umiliare, e che si era umiliato da sé: il pentimento fatto non di parole, ma di opere; innalza ancora l'Innominato su un piano diverso da quello comune. Sono ine stupende di psicologia e di dramma, di meditazione e di vita, rivolte a celebrare non la santità di un personaggio ma anche l'idea del bene che la Provvidenza fa risvegliare e rivivere nel cuore degli uomini.


-Il cardinale Federigo Borromeo.

Federigo attuò l'insegnamento evangelico per tutta la vita: nelle manifestazioni della fanciullezza, nei doveri del sacerdozio, nella cura di pastore di anime, . Ora questo è l'uomo che la Provvidenza ha scelto per avviare a lieta conclusione le vicende del romanzo e per portare il calore di un mondo migliore. La sua azione ha quattro momenti essenziali, che convergono a formare la bellezza della creazione artistica. Sono: l'incontro con l'Innominato, la visita a Lucia nella casa del sarto, il dialogo con don Abbondio nella sua parrocchia, l'attività durante la peste di Milano. È proprio in queste situazioni che la ura acquista anche un valore poetico. Il Cardinale ci appare sempre umile ed ardente interprete di Dio: la sua azione crea il clima del dramma sacro: le sue parole hanno il sapore dell'eterno. 


-Don Rodrigo.

È il tipo comune di signorotto prepotente e spregiudicato che si considera padrone di far tutto ciò che vuole e tutti giudica a sé sottoposti. Circondato di bravi, adulato e riverito da coloro che avrebbero dovuto essere i naturali esecutori della legge, cinico e volgare, privo di ogni freno morale e religioso. Don Rodrigo è ben lontano dalla ura terribile e grandiosa dell'Innominato. In lui non c'è niente di quell'animo nobile e generoso, di quella natura disinteressata e tutta d'un pezzo che vibra nel selvaggio signore (l'Innominato). Tutte cose meschine ci sono in don Rodrigo, e basta: orgoglio di casta, puntiglio, sensualità, . Mai un sentimento più alto. Eppure il poeta crea un motivo artistico più sottinteso che espresso: la storia dell'oscura coscienza, che anche don Rodrigo ha della propria malvagità; perché il Manzoni vede che non esiste un'inconsapevolezza totale del bene e del male, e l'assoluta incapacità di distinguere e di volere. Ci sono quindi in questa ura due storie: un'esteriore ed aperta, la manifestazione delle passioni e delle spavalderie nel quadro del Seicento; ed una segreta e profonda, l'interiore coscienza del male e l'oscuro presagio di una misteriosa vendetta.


-Gertrude.

La monaca di Monza è uno dei personaggi su cui più profonda si è rivolta la meditazione del Manzoni. Colpevole ed infelice. Gertrude è vista dal Manzoni in un'acuta indagine psicologica, con profondo e pensoso atteggiamento morale, sdegnoso di fronte alla violenza compiuta sui diritti della natura e sulla fragilità di una creatura umana. Quest'atteggiamento ha principio con il ritratto stesso della monaca, sulla quale uno sguardo attento coglie subito un misterioso e pauroso passato. Dopo il ritratto c'è la storia della monacazione. Infine c'è lo studio del progressivo sconvolgimento dell'animo di Gertrude suora, sentito come naturale risultato della falsa educazione e della soppressione della volontà, ed alimentato dal sempre più violento crescere dell'ardore sensuale. La fiacca volontà di Gertrude sarà di nuovo sopraffatta da quella violenta di Egidio, e costretta a sacrificare a costui l'innocente Lucia, il tormento del rimorso e la lotta dello spirito troveranno altri potenti risalti, che lasceranno questa ura di donna gracile e superba nel fosco fondo del peccato e del rimorso.


-Don Abbondio.

È il personaggio più popolare dei "Promessi Sposi" è la ura con cui l'autore ha dispiegato tutta la sua virtù comica, la sua capacità ritrattistica, le sue doti fantastiche ed umane. Ad ogni ire di don Abbondio sulla scena, spunta nel Manzoni la vena pittorica, ed un soffio di comicità si diffonde per le ine del romanzo. Trovatosi a vivere in una società retta da prepotenti, don Abbondio si è fatto prete senza riflettere sugli obblighi e gli scopi della missione sacerdotale, badando soltanto a procurarsi un vita agiata. Ciò che governa la sua condotta è la paura, che unita alla coscienza della propria debolezza ed ad un morboso attaccamento alla vita, lo rende egoista ed irragionevole. Ha paura di tutto e di tutti: ha paura di quelli che fanno il male e di quelli che preparano le difese. Uomo angusto, soggiogato dal terrore e dal sospetto, vive schiavo delle minuzie della vita; privo di volontà cede a tutti, dopo breve resistenza; debole vuol far passare la sua titubanza per prudenza, e, maestro di calcolo, finisce col non far nulla; incapace per natura a compiere il male si fa strumento dei prepotenti e dei violenti. Eppure da questo spirito così meschino il Manzoni ha ricavato il personaggio più attraente: Manzoni delinea con profonda psicologia una ura eterna di uomo, ma penetra ad indagare gli aspetti più vari di un'età perversa e violenta. Ma la canzonatura è unita alla compassione. Anzi gran parte della vis comica e del valore poetico di don Abbondio derivano dall'armonia di questi due elementi. Altro motivo poetico di questa ura è dato dal fatto che don Abbondio ha sempre l'aria della vittima. Una parola ancora sull'ultimo don Abbondio, quello dopo la morte di don Rodrigo. Che sospiro di sollievo, che esultanza a quella gioia inaspettata! E che parlantina gioconda, che espressioni geniali; che galanteria, anche! È tutto un altro uomo: simpatico, espansivo ed allegro, ma sempre un vile, un animo piccino, piccino, sempre un povero prete fallito!



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