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CESARE PAVESE - Biografia



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CESARE PAVESE

Biografia

Narratore e poeta italiano  (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908-Torino 1950). Nato da una famiglia di origine contadina, presto orfano del padre, compì gli studi a Torino, in un periodo di transizione tra positivismo e idealismo, lotte operaie e fascismo. Pavese imparò la grande lezione dei classici e dei realisti dell'Ottocento e dei contemporanei, strinse amicizia con molti intellettuali torinesi e, dopo essersi laureato nel 1930 con una tesi su W. Whitman, insegnò inglese in scuole serali e private, collaborando intanto a La Cultura con saggi su Lewis, Twain, Lee Masters, Henry, Melville (del quale nel 1932 tradusse magistralmente Moby Dick). Nel 1935, dopo alcuni mesi di carcere scontati per aver servito da tramite fra alcuni militanti antifascisti, fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, ma dopo un anno poté tornare a Torino per un condono. Durante il confino, preparò la stesura di alcuni dei suoi romanzi brevi: Il carcere, che uscì nel 1949 nella raccolta Prima che il gallo canti, nacque proprio dall'esperienza di quel periodo. L'esordio di P. avvenne nel 1936 con le poesie di Lavorare stanca: un genere nuovo, di tipo narrativo, col quale P. passava dal crepuscolarismo gozzaniano di certe sue prime esperienze, al superamento della metrica tradizionale, convinto dalla lezione degli Americani che il verso possa divenire 'strumento' del narrare. Dopo il confino intensificò la sua attività presso la casa editrice Einaudi; nel 1941 pubblicò Paesi tuoi, scritto due anni prima, anche questo accolto, come le poesie, distrattamente dalla critica. Continuava intanto a tradurre scrittori americani contemporanei e classici inglesi; l'armistizio lo sorprese a Roma, ma P. riuscì a tornare a Torino e si rifugiò presso la sorella, in camna. Finita la guerra, si iscrisse al Partito comunista; scrisse saggi, articoli di politica, nuove opere di narrativa, sempre cercando una spinta per uscire dal suo isolamento e da una disposizione essenzialmente lirica: Feria d'agosto (1946), Il comno (1947), La bella estate (1949, premio Strega); Dialoghi con Leucò (1947), in cui rielabora alcuni miti classici e certe interpretazioni moderne dell'umanità 'primitiva', già apparsi in Feria d'agosto; La luna e i falò (1950), nel quale ricompaiono i motivi cari all'autore: le Langhe, le indimenticabili ure di amici, di donne, insieme all'incombente senso di tormentosa delusione per l'esistenza, che P. cercò di nobilitare con l'immagine e il racconto. Sono queste le due componenti essenziali della poetica di P., più stati d'animo, impressioni, momenti lirici che trame e personaggi, tanto sono trasurati in mito: prodotti di un alto decadentismo, non di un soltanto apparente neorealismo. Nel 1950 P. raccolse le sue poesie vecchie e nuove nel volume Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (postumo, 1951); poi, colmata la misura del suo disperato soffrire, si tolse la vita in una camera d'albergo della sua città, in piena estate, la stagione che è un altro dei suoi temi ricorrenti. Il suo diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo nel 1952, racchiude la realtà che P. ha interpretato in una sua chiave unica: il senso della morte, del dolore, della solitudine concepita come una 'gioia feroce' e anche come un tentativo di liberazione, un miraggio, infine, sterile e inutile per chi si sente fatto invece per gli altri. Considerato dalla critica uno dei rappresentanti più significativi nell'ambito della nuova letteratura, P. ha avuto anche il merito, insieme a pochi altri, di aver liberato la nostra narrativa e la nostra cultura da una certa tradizione di provincialismo che l'aveva immobilizzata fino al secondo dopoguerra.BibliografiaL. Mondo, Cesare Pavese, Milano, 1961; M. Tondo, Itinerario di Pavese, Padova, 1965; A. Guiducci, Il mito Pavese, Firenze, 1967; P. Fortuna, Il noviziato di Pavese, Milano, 1968; G. Venturi, Pavese, Firenze, 1969; E. Gioanola, Pavese. La poetica dell'essere, Milano, 1971; Ph. Renard, Pavese. Prison de l'imaginaire, lieu de l'écriture, Parigi, 1972; V. Esposito, Pavese poeta e la critica, Firenze, 1974; E. Catalano, Cesare Pavese fra politica e ideologia, Bari, 1976; G. Pampaloni, Trent'anni con Cesare Pavese, Milano, 1981.






In La luna e i falò, opera conclusiva dell'attività di Pavese, troviamo raccolti i temi che abbiamo trovato, passo passo, in tutta l'opera pavesiana; abbiamo il tema del ritorno: il protagonista ritorna a S.Stefano Belbo, da dove era partito ancora ragazzo per recarsi in America, dove si è arricchito e ora può permettersi una vita agiata. Non è più il ragazzino che veniva mandato a lavorare nei campi, ma è qualcuno oggi che potrebbe essere a sua volta padrone. Altro tema tipico pavesiano è il ritornare con la mente a quella che è stata la vita da ragazzo, però vista alla luce dei nuovi tempi e si tramuta in una ricerca dell'identità del protagonista con il mondo che, oggi, davanti a se, vede ovviamente cambiato. Tutto è cambiato sotto il profilo storico: c'è stata la guerra, la Resistenza, ma è cambiato soprattutto perché è cambiato lui. In La luna e i falò, Pavese è riuscito a sintetizzare tutti gli schemi che aveva in precedenza sperimentato. È riuscito a racchiudere anche i suoi miti: il mito della città e della camna, della fuga e del ritorno e anche, chiaramente, il mito dell'America, ormai tipico dei libri di Pavese, in quanto resta solo un sogno, perché in America non c'è mai andato e non ci andrà mai. Poi ci sono tutti i suoi odii, i suoi interessi, la sua curiosità di conoscere e di capire la vita contadina. Abbiamo insomma il raggiungimento di una perfezione di stile, perché la sintesi di cui sopra non si attua solo nei contenuti, ma soprattutto nello stile. E questo, Pavese lo sapeva? Ne era cosciente o è un fatto casuale? Difficile dirlo, ma a mio parere sembra abbastanza chiaro che Pavese avesse in mente, a questo punto, un disegno ben articolato del suo operato, in modo da poter raggiungere quella perfezione stilistica, che per anni era andato cercando. Ad esempio, il dialetto. Il dialetto in La luna e i falò, si fonde così bene con la lingua in modo da non trovare alcun distacco. Questo era stato uno degli esperimenti di Pavese e ora, alla conclusione del suo operato, è giunto a quel perfetto impasto tanto cercato. Il dialogo non è così ben evidenziato come abbiamo visto in Tra donne sole, comunque i dialoghi tra Nuto, l'amico d'infanzia del narratore ed il narratore stesso, sono però molto significativi, per come riescono a tornare con la mente al passato con un dialogo attivato al presente, ad esempio come il ragazzino Cinto, nel quale il protagonista vede se stesso in tenera età. Infine il tempo, che sappiamo per l'opera pavesiana aver molta importanza. Qui il tempo non è solo il ricordo del protagonista, ma fa da contrasto alle vicende narrate e si fonde con il paesaggio. Tempo che ha un suo ritmo ben preciso, ma che diventa frenetico col precipitare degli eventi, i tragici avvenimenti della guerra, della Resistenza, di alcuni di questi personaggi che, con la morte, determinano il decadere, non solo dell'uomo, ma dell'intera società. La morte, elemento anch'esso tipico dei romanzi di Pavese, esplode, qui, nelle ine finali de La luna e i falò con la stessa violenza con cui esplode nella parte finale di Paesi tuoi. Qui vi è una scena drammatica, come nel caso di Gisella di Paesi tuoi,in cui un personaggio, Valino, compie l'eccidio della propria famiglia e dà fuoco alla casa. Accanto a questo c'è la morte di Irene e Santina, due delle ragazze che il protagonista aveva conosciuto da bambino ed è questo il trascorrere del tempo. Il trascorrere della vita, che viene annientato dal ritmo inarrestabile della realtà che brucia ogni cosa che trova sul proprio cammino. A mio parere, questo è il libro più bello di Pavese, sia per la riuscita compattezza delle varie situazioni, per il suo risultare scorrevole, sia perché studiando tutto l'operato di Pavese ci si sente sollevati vedendo come un uomo sia riuscito a dire tutto quello che aveva da dire, non dicendolo e basta, ma facendo notare come sia difficile comunicare, soprattutto con stessi, tanto che sono stati necessari anni di sperimentazione, sia di stile del comunicare, sia di contenuti, che hanno reso Pavese cosciente di stesso e del suo modo di vivere. In questo libro, Pavese è riuscito a trasformare ogni cosa, ogni evento, ogni personaggio in mito e in simbolo, che era poi l'obiettivo a cui egli tendeva. A questo punto Pavese, dopo essere riuscito ad avere veramente uno stile, dopo averli consumati tutti adoperandoli, forse, ha chiuso anche la sua capacità d'inventare ancora uno stile. Arrivato alla perfezione con La luna e i falò, l'esperienza si è chiusa. Chissà, forse non sarebbe più stato in grado di mettere a punto nuovi stili. In questo senso La luna e i falò, a mio parere, è l'opera conclusiva; non per il fatto che non abbia più scritto perché è morto, ma proprio perché non aveva più niente da inventare. Se non fosse morto, sarebbe rimasto un Pavese che sarebbe riuscito solo a concepire nuove edizioni di La luna e i falò. In pratica, se non si fosse suicidato l'uomo Pavese, si sarebbe suicidato lo scrittore Pavese, in quanto avrebbe avuto coscienza di essere al limite estremo, di aver detto cioè, tutto quello che aveva da dire.



Il 27 agosto 1950, in una camera d'albergo a Torino, Cesare Pavese si tolse la vita. Lasciò scritto a penna sulla prima ina de I dialoghi con Leucò:

'Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.'.1

Con ciò egli ci lascia a questa vita che, a mio parere, va vissuta per quanto ridicola e senza senso possa sembrare, ma lasciandoci rimanda a noi ciò che a lui era stato mandato da anni d'esperienza: il riuscire a comunicare con gli altri. C'è da ricordare, inoltre, che Pavese, con le sue opere e le sue pene è forse riuscito a farci comprendere come nel mondo, così visse la solitudine.



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