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CONTRASTO, IL BOVE, VALENTINO, L'AQUILONE, NELLA NEBBIA, NEBBIA, DI LASSÙ, L'ASSIUOLO, ARANO, X AGOSTO, LAVANDARE, IL TUONO



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CONTRASTO

Dalla raccolta "Myricae", è una ballata minore senza ritornello di due stanze, formata da endecasillabi con rima ABABBC DEDEEC. Nella prima si parla dell'artista, un uomo che crea la sua opera e la mostra con orgoglio; nella seconda si parla del poeta. Chi è il poeta per Pascoli? È un uomo che ha il dono della visione, che poi porge agli altri facendosi intermediario; sa che la poesia è nelle cose, e consapevole di ciò è umile, modesto e schivo perché sa che non è opera sua. A differenza degli uomini comuni che non riescono a cogliere la poesia, lui è abile in questo: la coglie, la elabora e la offre agli altri, non vantandosene come fa invece l'artista. Il poeta dice: "Chi mi sia, non importa", l'artista "Io son l'artista".


IL BOVE

È un sonetto formato da due quartine in rima incrociata e due terzine in rima rinterzata.

Il bove rappresenta il primo potere del poeta: ingrandire per ammirare. S'impossessa di una realtà non rassicurante, misteriosa, che sfugge all'uomo comune, ponendosi in rapporto col mistero. L'ingrandimento del dato reale è un mezzo che permette al poeta di giungere alla percezione dell'essere, ed è legato al senso di paura. Il bove è un veggente, cioè il poeta.


Il bove di Pascoli

Il bove di Carducci

Il punto di vista è del bove, che vede la natura.



Il punto di vista è esterno, inserito nella natura.


Il bove è forte, paziente, solenne, mansueto.

È in un mondo ove il mistero è fondamentale.

La natura è priva d'ombre e sfumature.


Il bove di Carducci risulta più concreto di quello di Pascoli, la natura dove è posto più tranquilla, con energia pura, positiva, solare.


VALENTINO

Componimento di sei quartine in rima alternata.

Valentino non ha le scarpe, infatti sua madre, avendo dovuto risparmiare con fatica e amore per comprargli il vestito nuovo, non ha più soldi. L'impressione generale non è gradevole, ma alla fine il poeta tempra l'atmosfera, invidiando l'ingenuità del bambino, sottratta all'uomo dalle esperienze della vita.


L'AQUILONE

Componimento di ventun terzine in rima incatenata e una strofa composta da un solo verso.

Il poeta è lontano dai luoghi della sua giovinezza, e il tepore del sole gli fa ricordare quando, nel collegio di Urbino, faceva volare gli aquiloni con gli amici. Tra questi, c'è il ricordo d'un amico morto. Egli lo invidia: infatti, andandosene così presto, non ha potuto conoscere i dolori dell'esistenza: meglio dunque la morte che vivere in mezzo ai dolori della vita.


NELLA NEBBIA

Componimento di otto terzine in rima incatenata e una strofa composta da un solo verso.

Il poeta descrive la sua visione dell'alto di un paesaggio sommerso da una bassa coltre di nebbia; non riesce a vedere che le cime degli alberi e delle rovine, si sentono dei cinguettii, l'uggiolare di un cane e, soprattutto, dei passi misteriosi, né vicini, né lontani, né lenti, né veloci. Non si sa a chi essi appartengano. Gli sembra di vedere un'ombra con un pesante fardello (cioè la fatica di vivere), ma solo per un attimo. Quest'ombra nasce dal male di vivere, il tema della poesia. Il poeta trasforma la sua esperienza in immagine, mentre il lettore dall'espressività dell'immagine dovrebbe ricavare l'esperienza.

Pascoli riesce a farci provare le stesse sensazioni che ha provato lui. Ci fa udire, nel quinto verso, le i, le c e le g, suoni striduli e gutturali. Il verbo "uggiolare" ripete il verso lamentoso del cane, udito attraverso la nebbia, che rende i suoni incerti, lontani, sperduti: ciò ne evoca l'impalpabile presenza. Egli inserisce il verso con suoni acuti in mezzo ad altri dal ritmo ampio e lento, con a, n ed o. Si provano così sensazioni fisiche immaginarie: fastidio, difficoltà d'orientamento; la sensazione fisica diventa psicologica, si prova smarrimento, oppressione, angoscia. La nebbia fa sentire l'io piccolo e impotente in un mondo ignoto.


NEBBIA

Componimento tratto dai "Canti di Castelvecchio", formato da cinque sestine, composte da tre novenari, un trisillabo, un novenario ed un trisillabo; i primi e gli ultimi versi di ogni strofa rimano fra loro, mentre gli altri versi sono in rima incrociata.




DI LASSÙ

Madrigale tratto da "Myricae" formato da due terzine legate dalla rima del secondo verso di ognuna e in cui il primo e il terzo verso rimano ed una quartina in rima alternata, composte da endecasillabi piani.

La poesia rappresenta una scena agresta autunnale: il contadino che ara i campi.

L'allodola, nella prima terzina, fa parte di un quadro oggettivo ed è oggetto della visione. Nella seconda, essa diventa il soggetto: vede le coppie di buoi e il contadino al lavoro, in attesa del raccolto. Fra i bovi e il contadino coglie qualche zolla che nel campo umile e nero luccica come uno specchio. Il paesaggio è privo di orizzonti, di ampiezza incontrollata. Il sole rappresenta Dio, e la luce ne testimonia la presenza.

L'allodola è una metafora: è simbolo del poeta, rimpicciolisce le cose per poterle vedere; il mondo le appare rimpicciolito per la posizione defilata, ma così la visione è più estesa. Contemdola, la domina. Come l'allodola è la creatura che loda Dio, così il poeta, che essa simboleggia, si ispira ai più alti sentimenti e, dall'alto della sua contemplazione, domina ciò che appartiene alla vita quotidiana. Il canto è invece simbolo della poesia.


L'ASSIUOLO

Componimento tratto da "Myricae" formato da tre strofe di otto versi, i primi sette dei quali sono novenari piani mentre l'ultimo è un monosillabo ed è uguale in ogni strofa: ognuna di esse si può dividere in due parti in rima alternata.

In una notte di luna s'ode il verso dell'assiuolo, in climax (voce-singulto-pianto); si avverte un senso di mistero provocato dalla luna, che fa luce ma non si vede, e dalla voce, la cui provenienza è ignota. Il paesaggio notturno è illuminato, appunto, da un pallido chiarore lunare; il grido dell'assiuolo è ritmico e ripetitivo; altri rumori sono lo stormire del vento, lo squassare delle cavallette, il cullare del mare, il fru fru fra le fratte. La poesia si conclude senza che nulla accada: è una registrazione di sensazioni visive e uditive.

Il rumore della notte e il grido lontano rappresentano i lutti che hanno funestato la vita del poeta e i morti che non possono più tornare, e la morte che incombe su di lui. Ciò non è detto esplicitamente in un discorso logicamente strutturato: è alluso con una rete d'immagini, con la densità del linguaggio (ad esempio, alba di perla) e con espressioni analogiche.


ARANO

Il componimento è un madrigale di endecasillabi ed è tratto dalla raccolta "Myricae".

I temi sono la stagione autunnale e la liturgia del lavoro campestre che si ripete ciclicamente come un rito. Il poeta, contemdo la natura, dimentica i suoi affanni e ha quasi un moto finale di gioia; è la celebrazione del lavoro agreste in una natura serena, semplice e buona. V'è un unico periodo sintattico che compendia l'intera situazione descritta: nella prima strofa la descrizione del paesaggio autunnale, nella seconda del lavoro degli uomini, nella terza degli umili spettatori della natura, il passero e il pettirosso, che spiano i gesti dell'aratore pregustando il piacere di beccare i semi sparsi. Le tre parole d'inizio di ogni strofa riassumano il contenuto di ognuna.

Le lentezza delle azioni è resa sapientemente da un ritmo altrettanto lento, attraverso l'uso di sapienti pause, dell'aggettivo "lente" (da cui si deduce anche che lo sforzo è tanto), dalla dieresi su "paziente" e dai sei enjambements che frammentano il periodo. I più intensi sono fra i versi 3 e 4, dove si evidenzia la parola "arano", e tra i versi 4 e 5, dove risalta la lentezza del movimento. C'è un'ipallage al verso 6, dove si attribuisce l'aggettivo "paziente" a "marra" anziché a "un"; vi sono inoltre un'onomatopea, un'allitterazione della "i", una similitudine nel verso 10. I termini sono esatti, quasi tecnici ("porche", "pampano", "marra") e rivelano una profonda conoscenza della vita campestre. Ci sono molti indefiniti che universalizzano la scena. Tutte le note di colore ("rosso infuocato", "brillano", "pettirosso", "tintinno d'oro") definiscono la stagione autunnale; i suoni invece danno fatica e allegria.






X AGOSTO

La lirica, tratta da "Myricae", è composta da sei quartine in cui si alternano un endecasillabo ed un novenario in rima alternata.

Il 10 agosto, San Lorenzo, è il giorno delle stelle cadenti e attraverso questo simbolo il poeta ricorda la misteriosa uccisione del padre. Quindi al dolore della famiglia partecipa anche il cielo, ma è una presenza lontana e impotente davanti al male e al dolore degli uomini. Le stelle cadenti diventano il simbolo del pianto che il cielo riversa sulla terra; questa è definita nel verso 24 "atomo opaco del male". La lirica ci immette in un mondo cosmico ove Pascoli sentiva collocata la terra; anche essa fa parte del cielo ma è la sola in tanto folgorio di mondi lucenti ad essere sede del male, per la volontà perversa dei suoi abitanti; lei sola, di tutto il cosmo, è bagnata di sangue e di pianto. Di fronte all'odio e alla malvagità del mondo e della storia, unico spazio protettivo, unico rifugio, unica cellula di resistenza è il nido (= famiglia), che non è però sempre sufficiente a difendere l'uomo dalle ferite della storia.

Dall'analogia tra il dramma dell'uomo e la tragica fine della rondine, emerge l'immagine del nido, simbolo d'innocenza, d'amore e d'unità. Emergono inoltre il tema del martirio innocente e quello dall'amore familiare.


LAVANDARE

Il componimento, tratto da "Myricae", è un madrigale.

Essa rappresenta la condizione esistenziale dell'uomo di abbandono e solitudine, presentata prima da un elemento paesaggistico e poi dalla donna. La malinconica condizione della donna abbandonata trova corrispondenza nello spoglio paesaggio autunnale e soprattutto nell'immagine dell'aratro dimenticato in mezzo al campo. Nella prima terzina prevalgono le sensazioni visive; nella seconda quelle uditive, e l'allitterazione di s e r sottolinea la continuità della cantilena e del battere dei panni. Nella terza l'autore riprende due stornelli (canti d'amore popolari) marchigiani e l'innesta nei suoi versi, riproducendo in tal modo il canto d'amore della lavandaia che lamenta la sua solitudine dopo la partenza senza ritorno dell'amato. L'immagine dell'aratro abbandonato, con la quale la lirica si era aperta, torna alla fine del componimento racchiudendolo in una struttura circolare, e diviene simbolo di abbandono e solitudine.


IL TUONO

Ballata piccola di endecasillabi, il cui primo verso costituisce la ripresa, tratta da "Myricae".

Il tuono rimbomba cupo nella notte nera, e dopo una pausa di silenzio si ripete, rumoreggiando lontano come un'onda di mare che si frange sugli scogli. Solo allora si ha un ritorno alla pace e c'è il canto di una madre che culla il lio.

La lirica non racconta semplicemente un fenomeno naturale, ma rappresenta il mistero della natura, tramite la notte nera e il nulla (che dà smarrimento, paura). La chiave interpretativa è la rima antisemantica fra "nulla" (= spavento, collera della natura) e "culla" (= rifugio contro avversità, mondo degli affetti familiari).

L'allitterazione della n nel primo verso + la paronomasia fra "nella" e "nulla" danno un senso d'attesa iniziale; dopo c'è l'allitterazione di r, u ed o che riproduce mimeticamente il suono del tuono. Tutte le numerose ure del suono presenti danno concretezza al fenomeno. L'anticlimax + la rima di "schianto", "rifranto" e "canto" dà il passaggio dal negativo al positivo, infatti il simbolo del tuono diventa canto. La "e" iniziale rende la continuità fra il filo del suo pensiero e l'evento, e dà l'idea che il poeta volesse continuare un discorso aperto in precedenza. Il polisindeto rallenta il ritmo quando il fenomeno sta per finire; l'asindeto fra "rimbombò", "rimbalzò" e "rotolò" dà un ritmo incalzante e veloce, senza interruzioni, come un treno. C'è uno zeugma (attribuzione di un verbo a due oggetti) che fonde il canto e la culla nell'ultimo verso.







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