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Cesare Pavese - La luna e i falò



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Autore:Cesare Pavese

Titolo:La luna e i falò

Anno:fine 1949

Pubblicato:1950


Notizie sull'autore:


E' uno dei protagonisti della cultura letteraria del dopoguerra ed ha esercitato un grosso fascino su molte generazioni di giovani che, attraverso i suoi romanzi e racconti, spesso hanno iniziato ad accostarsi alla letteratura. Personalità complessa e tormentata, Pavese rappresenta per certi aspetti in maniera esemplare il travaglio di tanti intellettuali italiani che, cresciuti sotto il fascismo, hanno poi dovuto affrontare, spesso in modo problematico e confuso, l'impatto con la nuova realtà del dopoguerra; anche il suicidio, nel momento di maggior successo artistico e professionale, ha contribuito ad alimentare l'immagine di Pavese come scrittore tragicamente solo e incapace di una reale integrazione nella vita.



Il paesaggio delle Langhe, che torna continuamente nelle sue opere, è quello della regione intorno a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, dove Pavese nacque nel 1908. La famiglia possedeva delle terre nella zona; morto precocemente il padre nel 1914, la madre si trasferì definitivamente a Torino, dove Pavese compì tutti gli studi. Al liceo seguì l'insegnamento e l'esempio del professor Augusto Monti: da lui prese l'abitudine a frequentare ambienti antifascisti o critici del regime. All'inizio del 1927, l'anno in cui conseguì la maturità, tentò il suicidio; iscrittosi alla facoltà di Lettere, iniziò a studiare l'inglese e ad interessarsi di letteratura nordamericana, affascinato soprattutto dall'uso che in essa trovava dello slang. Nutrì anche una passione per una soubrette, il primo degli amori piuttosto infelici che caratterizzarono la vita di Pavese. Alle letture di Hemingway, Edgar Lee Masters, Anderson, fece seguito un primo saggio su Sinclair Lewis e la traduzione del suo libro Our Mr. Wrenn; soprattutto Pavese si occupò della poesia di Walt Whitman, sulla quale preparò la tesi di laurea, che discusse nel 1932.

Al 1930 risale la poesia I mari del Sud, che urerà come la prima della raccolta Lavorare stanca. E' il momento delle belle e importanti  traduzioni: Moby Dick di Melville, Riso nero di Sherwood Anderson, Daedalus di Joyce, Il 42° parallelo di Dos Passos. Dal 1934 comincia a collaborare con la casa editrice Einaudi, lavoro che non abbandonerà più. C'era intanto a Torino un'ondata di arresti negli ambienti degli antifascisti, soprattutto di aderenti al movimento "Giustizia e Libertà". Nel 1935 finì in carcere: accusato di avere rapporti con gli ambienti ostili al regime, passò alcuni mesi in prigione; processato fu condannato a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. ½ rimase meno di un anno, perché inoltrò domanda di grazia. Tornato a Torino, la notizia che la donna che amava si era sposata gli causò un crollo psicologico.

Riprende intanto la collaborazione con l'Einaudi e traduce opere di Gertrude Stein, Melville, Defoe, ecc. Nel 1943, per lavoro, si trasferisce alcuni mesi a Roma, dove incontra Alicata e Muscetta. Tornato a Torino, dopo l'8 settembre 1943 Pavese vive un'esperienza che lo segna profondamente: iniziata la lotta partigiana, quasi tutti i suoi amici vi partecipano, mentre lui, impedito, come egli stesso afferma, dall'incapacità all'azione, rimane solo nella città, sempre più spesso sottoposta ai bombardamenti; da qui nasce un tormentoso senso di colpa che lo accomnerà fino alla morte. Si rifugia presso la sorella a Serralunga in Monferrato. Dopo la Liberazione Pavese deve constatare che la guerra partigiana ha creato molti vuoti nella schiera dei suoi amici. Si iscrive al Pci: comincia a scrivere su "l'Unità", ponendosi con grande impegno il problema di quale lingua usare per comunicare con lettori incolti. Dal 1946 inizia anche un periodo di grandissimo fervore compositivo, ed infatti risale agli anni 1946-50 la maggior parte dei suoi racconti e romanzi. Arriva anche il successo: per La bella estate riceve il premio Strega nel giugno del 1950. Ma questo non placa le inquietudini di Pavese; per motivazioni che non sono del tutto chiarite, nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950 assume una quantità mortale di barbiturici; lascia un biglietto: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi".


Analisi del titolo


Il titolo fa riferimento alla credenza contadina che i falò accesi nella notte di san Giovanni, così come le fasi della luna, influenzino l'andamento dei raccolti; influenza intesa in un senso magico-superstizioso. E' un aspetto di uno dei temi del romanzo, quello del conflitto tra la tradizione della cultura contadina e la cultura della modernità (Ripreso nel commento).


Riassunto


Il romanzo è organizzato in 32 brevi moduletti nei quali la narrazione si muove continuamente, frantumandosi, sull'asse del tempo, in un arco che comprende più o meno tutte le età del narratore che parla in prima persona, quindi circa quarant'anni. Perciò non è tanto possibile fare un riassunto dell'opera, quanto indicare i nuclei tematici attorno ai quali si addensa la materia narrata.

Il protagonista e narratore è un uomo di circa quarant'anni che inizia a parlare nel momento in cui è tornato al paese dove è cresciuto: una località delle Langhe, di cui non si dice il nome, che è tuttavia identificabile con S. Stefano Belbo. Egli risiede ancora a Genova, dove ha avviato un'attività commerciale dopo essere stato per parecchi anni negli Stati Uniti, e si reca al paese soprattutto d'estate. Quindi il primo nucleo tematico è formato dai moduli nei quali il protagonista, soprattutto attraverso i colloqui con l'amico d'infanzia Nuto, un falegname, e attraverso i contatti con la gente del posto, riacquista a poco a poco il senso del suo attaccamento a quella terra, che egli percorre in lunghe passeggiate riscoprendo i luoghi e le sensazioni di quando era bambino e adolescente.



Era nato "bastardo", cioè era stato abbandonato e accolto nell'ospedale di Alba; da lì era stato tolto da una famiglia contadina, formata dal Padrino, da Virgilia e da due bambine, perché l'ospedale dava cinque lire al mese per il mantenimento del trovatello. L'infanzia era trascorsa nella povertà e nel lavoro, fino a quando il Padrino, non potendo più tirare avanti, aveva dovuto vendere il podere con la sua casa, "Gaminella", e andare a lavorare come bracciante; allora il bambino era stato messo a servizio alla Mora, una grossa tenuta del signor Matteo, dove era cresciuto ed era diventato un uomo capace di guadagnare la sua giornata; erano stati i contadini della Mora a dargli il soprannome col quale era conosciuto in paese, Anguilla. Arrivato il tempo del servizio militare, era stato mandato a Genova, dove aveva fatto l'attendente di un ufficiale e si era messo con la serva di casa, Teresa. A Genova era rimasto, frequentando una scuola serale e divenendo amico di alcuni operai antifascisti; quando questi erano stati arrestati, Teresa gli aveva procurato un imbarco clandestino per gli Stati Uniti, dove Anguilla aveva fatto molti mestieri, spostandosi sempre più verso ovest, fino a stabilirsi in California. Internato allo scoppio della guerra, in quanto cittadino di un paese nemico degli Stati Uniti, alla fine era tornato in Italia, a Genova.

Al paese ritrova Nuto, con il quale cerca di capire il senso del proprio "andar via" dalle Langhe e del suo ritorno; è poi Nuto, che pur non avendo partecipato direttamente alla Resistenza è stato un fiancheggiatore delle bande partigiane, a spiegare ad Anguilla il senso dello scontro che c'è stato sulle colline e perché, alla fine, tutto sia tornato come prima: i poveri sono sempre più poveri, mentre continuano a comandare i ricchi e i preti. Sotto quest'aspetto diventa illuminante l'episodio del ritrovamento del cadavere di due spie fasciste, uccise durante la lotta armata dei partigiani: il parroco del paese ne approfitta per celebrare solennemente il loro funerale e fare una predica contro il pericolo del comunismo. E' ancora Nuto a narrare le vicende degli abitanti che sono morti durante l'assenza di Anguilla: come siano ssi uno dopo l'altro i componenti della sua vecchia famiglia adottiva, Virgilia, le due sorellastre e, per ultimo, ridotto a chiedere la carità, Padrino.

Su questo s'innesta il secondo nucleo tematico: ora alla "Gaminella" c'è una famiglia di mezzadri, formata dal Valino, sua cognata e la suocera (la moglie è morta); c'è anche un bambino, nato storpio, Cinto. Anguilla va a rivedere la cascina e il podere dov'è stato bambino, vede le condizioni di miseria estrema in cui vive la famiglia di "Gaminella", nella quale la disperazione fa sì che tutti si comportino animalescamente: Valino, ad esempio, ogni sera picchia le donne e Cinto. Tra Anguilla e il bambino si stabilisce un rapporto d'amicizia, perché l'adulto nutre nei confronti di quella creatura sfortunata un sentimento quasi paterno, e soprattutto rivive in lui la sua fanciullezza; comincia a parlargli della possibilità di andar via dalla valle del Belbo, gli regala un coltello simile a quello che aveva avuto anche lui alla sua età, lo protegge. Parlando con Cinto si ricorda dell'usanza di accendere un falò sulle colline nella notte di san Giovanni.

L'altro nucleo tematico è il ricordo della vita alla Mora: Anguilla, allora appena adolescente, aveva conosciuto il Nuto e, soprattutto, aveva avuto occasione di gettare il suo sguardo sulla vita dei "signori": il padrone Matteo, le sue due lie di primo letto, Irene e Silvia, la seconda moglie e l'ultima lia, una bambina ancora, Santa. Questi ricordi sono incentrati sul tema dissoluzione della famiglia borghese: le due lie più grandi erano passate da un fidanzamento sbagliato all'altro, fino a fare entrambe una misera fine: Irene era morta di tifo, Silvia aveva finito per sposare un fannullone dedito al gioco che, diventato padrone della Mora, se l'era mangiata in poco tempo. Anguilla apprende tutto questo da Nuto, che però resta reticente riguardo alla sorte dell'ultima ragazza della Mora, Santa.

Nella conclusione del romanzo si ha il ricongiungimento dei due temi, quello di Cinto e di "Gaminella", e quello alla fine della Mora. Una sera, dopo che la padrona di "Gaminella" ha fatto le parti del raccolto col Valino, questi, impazzito dalla disperazione, uccide le due donne e tenta di ammazzare anche Cinto, che lo minaccia col coltello e fugge; alla fine, l'uomo dà fuoco alla cascina e si impicca nella vigna. Nuto e Anguilla accomnano Cinto sul luogo della tragedia. Nuto, a questo punto, vedendo che Anguilla ha ormai capito in quali condizioni di miseria e di ingiustizia vivono ancora gli abitanti della valle del Belbo, decide di rivelargli l'ultimo segreto: Santa, che si era legata ad alcuni squallidi personaggi del fascismo locale, nel momento in cui era scoppiata la guerra partigiana si era messa a fare il doppio gioco; sfruttando la sua libertà d'accesso ai comandi fascisti e tedeschi, forniva informazioni alle bande partigiane sulle colline. Ma alla fine si scoprì che Santa aveva anche fatto la spia per i fascisti: portata sulle colline era stata uccisa e il suo corpo era stato bruciato.


Commento


Scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949 ma pubblicato nel 1950, La luna e i falò riassume e porta alle forme estreme i caratteri della ricerca artistica di Pavese. Si tratta di un romanzo che non appare privo di battute a vuoto, specie per la difficoltà con cui si amalgamano i tanti temi e le tante storie che l'autore volle condensare in esso; tuttavia la sua importanza deriva proprio dall'ambizione del progetto, che testimonia la chiara coscienza che lo scrittore aveva raggiunto della pienezza dei mezzi espressivi e della validità dei suoi referenti culturali.


Non tutta la critica accolse l'opera con favore, ma rimane il fatto che essa mostra assai chiaramente le sue finalità estetiche e si rivela un indicatore preciso del "metodo" pavesiano di costruire un testo narrativo. La luna e i falò presenta, infatti, una perfetta unione delle due tendenze che vivono nell'opera di Pavese: la tensione a creare una situazione narrativa, uno stile ed una lingua che permettano di rappresentare la realtà con la stessa forza di "persuasione" che possedeva il realismo; in secondo luogo la volontà di sfruttare ancora i caratteri stilistici e linguistici, ma anche gli elementi della trama, per fornire un "surplus" di significato, farne appunto la manifestazione di un mito, attraverso il quale venga illustrata una realtà umana "universale", ben oltre e ben al di là dei limiti della vicenda narrata. In questa convivenza di due tendenze si può senza dubbio vedere l'incontro-scontro di due visioni del mondo, una razionale e l'altra mitica, che in pavese si ritrovano quasi sempre a confronto all'interno delle singole opere.

La luna e i falò recupera, innanzitutto, un vero e proprio archetipo culturale: si può leggere come un ritorno alla terra natale, di cui l'Odissea è il prototipo; il protagonista infatti, dopo aver girato il mondo, ritrova i luoghi della sua fanciullezza, circostanza che introduce inevitabilmente nel racconto l'ansia di tirare delle conclusioni, di cogliere il senso di un'intera esistenza. Ma il romanzo è un vero e proprio repertorio della "mitologia" pavesiana: praticamente ogni suo personaggio e situazione acquista una dimensione mitica, perché nelle varie vicende, nei nuclei narrativi, si sviluppa costantemente un significato simbolico. Lo stesso conflitto tra la cultura contadina e la cultura della modernità non viene risolto dal romanzo, e in ciò si attua la sua dimensione mitica: gli ambiti di mistero inspiegabile rimangono fino alla fine, perché Pavese non vuole indicarne una "soluzione", piuttosto vuole rendere emblematico quel tipo di conflitto, fargli assumere il valore simbolico di tutte le contraddizioni che nella cultura dell'uomo si aprono, tra passato e presente, tra tradizione e innovazione, tra nuovo e vecchio.

E su questo tema si innestano altri miti, altri conflitti; ad esempio quello tra il restare e il partire, che nel romanzo si concretizza nel continuo confronto tra i due protagonisti, Anguilla e Nuto, il ragazzo che è andato in America ed ha girato il mondo e colui che è diventato uomo non muovendosi mai dalla valle del Belbo; ma il carattere complesso, simbolico, di tale confronto è determinato dal fatto che nel romanzo si dimostra come il partire possa essere niente altro che un prepararsi a tornare, e che anche a livello di conoscenza c'è una interscambiabilità tra il macrocosmo (l'America) e il microcosmo (la valle del Belbo).

Questo testo è uno degli esempi più rilevanti, nell'ambito della narrativa italiana,   di quel filone di romanzi e racconti che affrontano il tema della situazione successiva alla guerra, alla caduta del fascismo, alla nascita della repubblica. Quindi la Storia diviene un tema importante nel romanzo, ma che Pavese sviluppa tutto quanto in una dimensione privata, nella quale le scelte morali riassorbono anche quelle politiche e ideologiche dei personaggi.



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