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Giovanni Pascoli con Alexandros



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Giovanni Pascoli con Alexandros


Questa poesia fa parte dei poemi conviviali (1904), ma fu pubblicata per la prima volta nella rivista il convitto. L'autore in essa intende esprimere una propria concezione irrazionalistica della verità, per Pascoli infatti quest'ultima non era data dalla Scienza intesa come sapere forte, ma piuttosto dal Sogno ove si può trovare il mistero della vita umana.

Nella poesia è presente un registro classicistico che è concordante con il tono aulico ed erudito del testo.

In essa Alessandro Magno è il protagonista, avido di conoscenza (rispecchia una visione prettamente medievale). Egli dopo aver conquistato svariati territori fino ad arrivare all'India trova innanzi a se il limite dell'oceano. A questo punto Alessandro si interroga sul senso della vita e prova sconforto quando paragona la propria esistenza come uomo davanti all'infinito, si rammarica inoltre di non poter proseguire il suo viaggio e quindi di non aver più aspettative.


I

  - Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!

Non altra terra se non là, nell'aria,



quella che in mezzo del brocchier vi brilla,


o Pezetèri: errante e solitaria

terra, inaccessa. Dall'ultima sponda

vedete là, mistofori di Caria,


l'ultimo fiume Oceano senz'onda.

O venuti dall'Haemo e dal Carmelo,

ecco, la terra sfuma e si profonda


dentro la notte fulgida del cielo.



II


Fiumane che passai! voi la foresta

immota nella chiara acqua portate,

portate il cupo mormorìo, che resta.


Montagne che varcai! dopo varcate,

sì grande spazio di su voi non pare,

che maggior prima non lo invidïate.


Azzurri, come il cielo, come il mare,

o monti! o fiumi! era miglior pensiero

ristare, non guardare oltre, sognare:


il sogno è l'infinita ombra del Vero.



III


Oh! più felice, quanto più cammino

m'era d'innanzi; quanto più cimenti,

quanto più dubbi, quanto più destino!


Ad Isso, quando divampava ai vènti

notturno il campo, con le mille schiere,

e i carri oscuri e gl'infiniti armenti.


A Pella! quando nelle lunghe sere

inseguivamo, o mio Capo di toro,

il sole; il sole che tra selve nere,


sempre più lungi, ardea come un tesoro.





IV


lio d'Amynta! io non sapea di meta

allor che mossi. Un nomo di tra le are

intonava Timotheo, l'auleta:


soffio possente d'un fatale andare,

oltre la morte; e m'è nel cuor, presente

come in conchiglia murmure di mare.


O squillo acuto, o spirito possente,

che passi in alto e gridi, che ti segua!

ma questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente


e il canto passa ed oltre noi dilegua. -



V


E così, piange, poi che giunse anelo:

piange dall'occhio nero come morte;

piange dall'occhio azzurro come cielo.


Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)

nell'occhio nero lo sperar, più vano;

nell'occhio azzurro il desiar, più forte.


Egli ode belve fremere lontano,

egli ode forze incognite, incessanti,

passargli a fronte nell'immenso piano,


come trotto di mandre d'elefanti.



VI


In tanto nell'Epiro aspra e montana

filano le sue vergini sorelle

pel dolce Assente la milesia lana.


A tarda notte, tra le industri ancelle,

torcono il fuso con le ceree dita;

e il vento passa e passano le stelle.


Olympiàs in un sogno smarrita

ascolta il lungo favellìo d'un fonte,

ascolta nella cava ombra infinita


le grandi quercie bisbigliar sul monte.







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