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IL MITO DI ULISSE, SPIA DELL'UMANESIMO DANTESCO

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IL MITO DI ULISSE, SPIA DELL'UMANESIMO

DANTESCO.


Arrivati ormai al XXVI canto dell'Inferno dantesco, ci rendiamo conto che in più occasioni il poeta ha ripreso mitici personaggi del mondo classico riletti in chiave medievale.

Questo è sicuramente un segnale della mancanza di senso storico che caratterizza il mondo medievale, in cui tutti gli avvenimenti delle epoche precedenti vengono considerati con una visione provvidenziale: tutte le età sono state volute da Dio in preparazione all'avvento di Cristo.

Quindi, tipici personaggi mitici come Caronte, Cerbero e Flegias sono usati da Dante come amministratori della giustizia divina, ed altri eroi classici sono destinati alla dannazione eterna, poiché, nonostante le loro grandi imprese, hanno peccato contro Dio.

Un esempio di questo atteggiamento dantesco è l'episodio di Ulisse, un viaggiatore straordinario, che ha nel poema una funzione uguale a quella di Enea, di San Paolo e di Dante stesso, ma espressa per contraddizione. Il suo viaggio è simbolo della conoscenza basata sul sapere, un sapere che è però di tipo laico: il fallimento di Ulisse è infatti il rifiuto di quel modello di conoscenza tipicamente cristiano.

Ulisse rappresenta perfettamente il concetto latino di humanitas, la virtù dell'eroe che sa anteporre alle lusinghe dei sensi i suoi doveri; il personaggio dantesco sceglie invece come scopo il viaggio, teso a una ricerca della sapientia mundi, una conoscenza approfondita del mondo. Non è una conoscenza negativa, ma precaria perché rivolta alla gloria individuale, che si trasforma poi in una grande solitudine, visto che Ulisse compie il suo ultimo viaggio senza Dio. Il momento più importante del viaggio è il superamento delle colonne d'Ercole oltre le quali l'uomo medievale, profondamente cristiano, vede l'ignoto, la perdizione e la morte. L'approdo alla montagna del Purgatorio è soltanto un'illusione, perché un gorgo avvolge la nave di Ulisse. Nel superare questo limite, l'eroe non è però consapevole di compiere un grave peccato: quel viaggio costituisce per lui un mondo affascinante che ha la curiositas di scoprire. Questo concetto non è soltanto la pura curiosità, ma un forte desiderio di conoscere che deriva dalla spinta intellettuale. L'eroe, spinto dalla curiositas, incita i comni con un'orazion picciola e ha ora compimento il tragico epilogo che nel racconto di Ulisse si concentra in due espressioni, il folle volo e l'alto passo, che ci riportano al canto II, anche se in maniera opposta, poiché questa impresa si conclude con una catastrofe.



E' questo il racconto dell'Ulisse dantesco, un personaggio che presenta alcune differenze con l'eroe omerico: entrambi sono descritti come uomini d'ingegno multiforme, ma se la ura omerica è versatile, mantenendo come punto fermo la giovane età, Dante ci descrive invece un uomo anziano. Perché questa differenza? Sicuramente perché quest'uomo ha finito le sue esperienze, ma soprattutto per farci capire che il folle volo non è stato fatto per incoscienza: l'uomo anziano è saggio, e quel viaggio è frutto della sete di conoscenza. E allora eccolo qui, l'Ulisse dantesco, condannato fra i consiglieri fraudolenti della VII bolgia, e trasformato, insieme al comno Diomede, in una lingua di fuoco. Ciò che resta di questo personaggio non è però il racconto dei suoi inganni, ma la ura di un uomo simbolo della ragione umana, che fallisce quando rifiuta l'aiuto della Grazia divina.

Da parte di Dante c'è quindi un forte coinvolgimento emotivo per Ulisse, che viene però messo da parte per far posto alla giusta condanna divina.





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