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IL ROMANZO FRA OTTOCENTO E NOVECENTO (a cura di Enzo Arnone), I CARATTERI DEL ROMANZO TRADIZIONALE, IL CAPOVOLGIMENTO DI DOSTOEVSKIJ, OGNI ARTE &Egrav

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Il romanzo fra Ottocento e Novecento a cura di Enzo Arnone)


La finalità di questa lezione è di delineare e documentare il quadro della cultura decadente, non in modo diretto, ma toccando solo quegli aspetti della narrativa della prima parte del '900 che esprimono un mutamento delle forme tradizionali del romanzo.
La tesi che si intende sostenere è che alla dissoluzione della struttura tradizionale del romanzo corrisponde una mutata coscienza di sé da parte dell'artista, del significato del mondo e del significato dell'esistenza.
Tale questione, per quel che riguarda il romanzo, presenta dei caratteri singolari, abbastanza autonomi, quasi fosse una letteratura all'interno della letteratura.
C'è da dire che il genere letterario del romanzo è un genere con cui normalmente si instaura un rapporto di consumo: si legge un romanzo, si cerca di capire cosa dice ma difficilmente si istituisce un lavoro di esegesi, di inquadramento in un orizzonte culturale più ampio.
Si procederà ad una sorta di excursus rapido, per flash, cercando di sollecitare la curiosità e offrendo alcuni elementi che permettano di inserire alcune voci dentro il contesto che già si conosce di questa stagione della cultura letteraria europea.




I caratteri del romanzo tradizionale


Per comprendere l'avvenuta modificazione della struttura narrativa, che è anche modificazione del rapporto che l'artista ha istituito con la realtà, si devono individuare i caratteri del romanzo tradizionale.

Il romanzo è un genere letterario che si diffonde in maniera particolare nell'Ottocento. È l'espressione di una posizione, di un rapporto dell'artista di fronte al mondo, teso a spiegarne il significato e la struttura. Per esempio, la lettura de I promessi sposi provoca nel lettore una presa di coscienza di come sia costituito il mondo, di quale sia il centro del rapporti umani, di quale sia il significato dell'esistenza e della storia. Al termine della vicenda, i due promessi ormai sposi, dialogano tra di loro e, ripensando a tutte le circostanze in cui si sono trovati invischiati, spremono il sugo della storia. Quindi il romanzo manzoniano si costituisce attorno ad una precisa definizione della realtà, espressa esaurientemente, anche se il significato eccede sempre l'opera d'arte. Comunque questa definizione della realtà è esaurientemente espressa dalla struttura e dallo svolgimento di tutto il romanzo. Ciò vale per il genere particolare di romanzo ottocentesco che è il cosiddetto romanzo borghese come quello di Balzac, per esempio. Questo tipo di narrazione è l'espressione di un dominio della realtà. L'autore intrattiene, con la materia di cui parla, un rapporto consapevole delle strutture del mondo, del ruolo degli eventi e ne offre la sua personale e particolare interpretazione. In questo senso il protagonista per eccellenza del romanzo borghese è il romanziere che dimostra di possedere il senso del mondo di cui parla, non importa quale esso sia e se contrassegnato dal segno negativo o dal segno positivo. Il romanzo borghese, diceva un critico, è l'espressione di un avvenuto dominio sul mondo da porte della borghesia. E il romanziere compie, attraverso la sua opera, una perlustrazione della realtà di cui la classe che egli rappresenta, cioè la borghesia, ha preso dominio e possesso.
Il romanziere si comporta come il proprietario che va in visita a perlustrare la sua tenuta, a inventariare, a dettagliare, a prendere atto del mondo che gli appartiene magari svelandone le contraddizioni, portandone alla luce le mistificazioni e le ingiustizie.
Il romanzo esprime la fiducia dello scrittore riguardo alla totale spiegabilità del mondo: il mondo è una struttura logica, razionale, che ha un suo ordine, il cui riflesso è l'ordine e la linearità del romanzo.
Il romanzo tradizionale ha un inizio, uno svolgimento e uno scioglimento finale delle contraddizioni che possono essersi prodotte lungo il corso della vicenda.
Solitamente il romanzo è imperniato sulle peripezie di un protagonista, un eroe, attraverso cui il romanziere riflette qualcosa di sé, la sua inconsapevole capacità o volontà di dominio sul mondo circostante tant'è vero che le vicende sono sempre in funzione dello svolgimento e dello sviluppo intellettuale e umano del protagonista.
Un'altra osservazione, che ingloba tutte le varie sfumature attraverso cui si produce il romanzo dell'800, è che le vicende di cui i romanzi trattano, il mondo di rapporti e di sentimenti, la struttura stessa del mondo e della società umana sono costituiti attorno ad un centro ideale, ad un valore, ad un significato capace di dare ragione e di spiegare tutti gli aspetti del mondo: la fede cristiana nel Manzoni oppure l'energia storica del denaro in Balzac. Sono certamente elementi diversi ma tutti svolgono la medesima funzione di catalizzare i rapporti umani.
Questa tradizione narrativa è esemplificata da una struttura di racconto lineare, una sorta di linea retta che parte da un punto preciso e giunge ad un punto d'arrivo. Questa linea retta, a cui si legano i vari elementi della narrazione, costituisce il senso del passaggio dell'uomo sulla terra, durante il quale si realizza la propria autocoscienza in rapporto al mondo. C'è pertanto molto di hegeliano nel romanzo ottocentesco tradizionale perché si gioca su una bipolarità e sull'incontro tra la soggettività e l'oggettività. Il dramma del romanzo risiede nel dover sciogliere tale nodo, nel dover riconciliare il soggetto con l'oggetto, l'uomo con il mondo in cui è calato. La chiave di questa conciliazione è nelle mani del romanziere che, in questo senso, è una sorta di demiurgo in quanto intrattiene un rapporto paterno o paternalistico con l'opera d'arte e con la materia di cui tratta. Il romanzo, quindi, è l'offerta di un sapere già posseduto, già conosciuto.
In questo senso, anche formalmente, il rapporto tra autore e opera è il rapporto tra dominatore e dominato.
Il romanzo borghese dunque consiste non tanto negli argomenti che propone ma in questo tipo di rapporto che si istituisce tra l'artista e l'opera d'arte.


Il capovolgimento di Dostoevskij


Ad un certo punto in una parte lontano dell'Europa, nella seconda metà dell'800, questo sereno rapporto tra romanziere e romanzo viene ad incrinarsi e l'opera d'arte si ribella al suo creatore.

Questo angolo remoto dell'Europa è la Russia e il romanziere è Dostoevskij che, consapevole o meno, è forse il primo a fare l'esperienza dell'autonomia dell'opera d'arte rispetto all'autore.
Infatti l'impianto del romanzo di Dostoevskij è in fondo tradizionale, a sfondo naturalistico. Si può leggere sotto ottiche diverse: psicologica, sociale, metafisica; può essere letto come un romanzo che si pone di fronte alla vicenda dell'uomo come se questa fosse sospesa tra due possibilità: il bene e il male, la redenzione-riscatto e la perdita abissale e demoniaca di sé. È anche il romanzo che pone il protagonista di fronte alle infinite virtualità possibili dell'esistenza. Tuttavia è interessante notare come lo scrittore russo ha strutturato il suo romanzo; formalmente è lo sviluppo di una vicenda tradizionale. Delitto e castigo è infatti la storia di un giovane che commette un orribile delitto, per poi avvedersi dell'enormità di ciò che ha compiuto, è una storia a forti tinte in cui la penetrazione psicologica si unisce al realismo cupo di tante descrizioni. In realtà - osserva il critico Bachtin - su questo impianto tradizionale Dostoevskij innesta quella che è la prima gronde rivoluzione del romanzo contemporaneo: i personaggi di Dostoevskij non coincidono con l'identità del romanziere. Essi, pertanto, non sono oggetto della parola dell'autore. Il senso del romanzo tradizionale è invece che l'autore può permettersi di scrivere un romanzo perché possiede fino in fondo il significato della storia che si accinge o scrivere, come se l'avesse già vissuta.
I protagonisti dei romanzi di Dostoevskii sono come sospesi di fronte alle possibilità dell'esistenza e si costruiscono lungo lo svolgimento del romanzo secondo un'autonomia, secondo un pluralismo. Infatti i protagonisti, le identità, le sfaccettature del mondo sono diverse. Si costituiscono secondo un'autonomia che fa del romanzo non più l'espressione di un sapere, di una cognizione organica del mondo, ma di un'esigenza di vita, di una coralità di protagonisti differenziati fra di loro che aspirano a farsi, a diventare uomini, attraverso lo svolgimento delle vicende e del congegno narrativo.
Nel romanzi di Dostoevskij non è possibile individuare il centro comune attorno a cui ruotano i protagonisti, che costituiscono ciascuno un universo logico ed affettivo distinto da tutti gli altri. È come se ci si trovasse di fronte alla compresenza di più mondi e nella impossibilità di identificare il fattore unificante della realtà. Si spezza pertanto quel centro, quel filo ideale che, nel romanzo manzoniano per esempio, legava gli uomini tra di loro e gli uomini a Dio; oppure, come nel romanzo di Balzac, si spezza quel filo ideale - il denaro, l'avidità umana, le passioni - che rendeva, tutto sommato, intelligibile e comunicabile al suo interno l'universo narrativo. Il romanzo di Dostoevskij è costruito su una violenta frattura che rende quasi impenetrabile il dialogo tra i protagonisti.
Si pensi a I fratelli Karamazov: tre fratelli si incontrano, in ciascuno di essi c'è una sfaccettatura del carattere del padre, che è violento, mistico e sensuale. Tuttavia ognuno di questi tre protagonisti, Ivan, Alësa e Dimitrij - c'è un quarto fratello della cui identità siamo informati soltanto a narrazione inoltrata -, costituisce un universo logico e ideale che non consente una comunicazione esauriente fra di loro. Sono come le strade del mondo.
A questo punto il romanzo di Dostoevskii non è più funzionale alla descrizione della univocità del mondo: l'immagine del mondo non è più unitaria, e perciò definibile, ma è attraversata da una frattura violenta, che impedisce che gli uomini si parlino e si riconoscano in una unità esistenziale, storica, logica e filosofica. Perciò ogni protagonista parla un proprio linguaggio, è soggetto della propria storia e perciò l'autore è come se, discretamente, si ritraesse in un angolo lasciando che le sue creature si incontrino, si scontrino, costruiscano e distruggano la loro esistenza.
La parola, in questo tipo di narrazione, non è in funzione descrittiva e narrativa, ma esprime l'ansia dei soggetti protagonisti del romanzo di diventare se stessi, secondo delle formule e degli itinerari inconciliabili. Ivan e Alësa non si incontreranno anche se cercheranno, in un memorabile colloquio, di comprendersi e di rivelarsi l'uno all'altro ma il mondo di cui parlano è diverso. Che cosa è successo? Che cosa ha prodotto questa incrinatura delle vicende e della struttura del mondo?
È successo, dice Dostoevskij, che si è spezzata l'unica ragione, l'unico evento della storia che rende l'uomo capace di dialogo con l'altro uomo e che perciò, rende comprensibile l'universo abitato dall'uomo. Questo evento è l'evento di Dio, è il legame tra l'uomo e Dio spezzato il quale all'uomo tutto è possibile, anche la contraddizione con se stesso e la soppressione violenta della vita umana tant'è vero che I fratelli Karamazov hanno anche la struttura di un giallo: il terribile padre dei tre fratelli viene ucciso e viene accusato il lio maggiore, Dimitrij, di essere il parricida. Solo a narrazione inoltrata si comprenderà che l'assassino è il quarto lio, un lio illegittimo, che ha ucciso non per odio verso il padre, anche se aveva validi motivi per odiarlo, ma seguendo la suggestione di uno dei tre fratelli, Ivan, lo scettico, il filosofo e il ragionatore, quello che ha elaborato una visione tutta sua del mondo, basata sul rifiuto di Dio, sull'impossibilità della verità, sulla gigantesca esaltazione delle possibilità dell'io. Se Dio non esiste, tutto è possibile: e il quarto lio, il bastardo, il demente uccide per dare corpo e per dare ragione esistenziale a quelli che sembravano i vaneggiamenti di un filosofo fallito o, quanto meno, di un uomo solitario.
Il romanzo di Dostoevskij apre uno squarcio su uno zona inesplorata del mondo: è l'abisso della coscienza umana, quella zona segreta del mondo e dell'uomo in cui si pongono gli umori e i segreti e le emozioni, l'inconscio che appare come un mistero insondato da cui il romanziere si sente attratto.
Perché questo discesa nell'abisso, nel sottosuolo della coscienza dell'uomo possa avvenire, bisogna tuttavia che la struttura del romanzo si modifichi e vada al di là di se stessa, battendo vie inesplorate e leggendo, al di là degli eventi superficiali, il messaggio delle zone profonde della coscienza umana, che non sono immediatamente rilevabili o immediatamente percepibili ma che il romanziere si accinge ad indicare al lettore, attraverso questo viaggio singolare che è il romanzo moderno.
Allora lo schema della struttura narrativa del romanzo, che si impone con Dostoevskij, non è più quello di una linea retta ma quello di una spirale, di un gorgo che si fa sempre più profondo e scende sempre più nelle zone remote e profonde dell'io e del mondo, portando alla luce umori, pulsioni, sentimenti, affezioni, moti dell'animo prima sconosciuti all'uomo.


Ogni arte è a un tempo superficie e simbolo


Nella prefazione de Il ritratto di Dorian Gray Oscar Wilde scrive che ogni arte è a un tempo superficie e simbolo. Ciò significa che l'opera d'arte consta di un elemento superficiale, è quindi l'offerta di un oggetto (l'opera d'arte è un certo modo di porgere a chi legge gli oggetti e, nel caso della letteratura, il primo oggetto è il linguaggio), tuttavia non è costituita solo da questo elemento superficiale: per uno che legge I fratelli Karamazov, questa è la storia più o meno interessante di tre fratelli che vorrebbero capirsi ma che sono di natura diversa. Il romanzo non è esaurito da ciò che dice, dalla struttura materiale che porge bensì nasconde, sotto la superficie del linguaggio, un contenuto inesplorato, il simbolo, il contenuto inavvertito, che è la vera meta del viaggio dell'artista ed è là che il linguaggio vuole arrivare. Quelli che vanno sotto la superficie, lo fanno a loro rischio, dice Oscar Wilde. Per questo il romanzo contemporaneo assume una connotazione di difficile assimilabilità. La prima evidenza che si percepisce, accostando le opere di Joyce o Proust, è quella di una difficoltà ad intendere ciò di cui parlano, ad identificare una linea narrativa omogenea perché la struttura tradizionale si è decomposta. È come una traiettoria impazzita che procede in tutte le direzioni e smaschera continuamente se stessa, mostrando un'ulteriore possibilità di profondità e di discesa nell'abisso dell'io e del mondo.
Perciò se il grafico che si è finora individuato è quello di una linea retta oppure di una spirale, il terzo momento, successivo a quello di Dostoevskij, è rappresentato da una serie di linee che, su un foglio bianco prendono tutte le direzioni possibili. Infatti la struttura del romanzo, dopo Dostoevskil, si frantuma in una miriade di direzioni che rende effettivamente difficile seguire la vicenda, a meno che il lettore non compia un opera di modificazione di sé e del modo in cui è abituato a leggere e che modifichi, a sua volta, il rapporto che ha con il romanzo.
C'è a questo proposito, un'interessante osservazione di Sartre, il quale sostiene che, fino ad ora, conoscere, e quindi leggere ed entrare in rapporto con un oggetto, è stata l'espressione di una filosofia elementare. Vale a dire: fino a questo momento della storia della cultura umana, l'atto conoscitivo è stato l'espressione di una volontà di impadronirsi dell'oggetto conosciuto, è stato come divorare, far proprio, immagazzinare l'oggetto per cui, al termine di una lettura, si poteva dire di possedere una storia e il suo significato.
Con il romanzo moderno questo non è più possibile. Ad una conoscenza, che avviene mediante la presa di possesso dell'oggetto che l'artista ci offre, è necessario sostituire un altro atteggiamento: quello che tende a percepire le allusioni, le infinite dimensioni, le sfumature e la gamma di messaggi che il romanzo tende a comunicare.


La rivoluzione di Proust


Marcel Proust è il più significativo protagonista della rivoluzione del romanzo del '900. Egli è l'autore de La ricerca del tempo perduto. Il titolo originario di questa serie di ampi racconti era Le intermittenze del cuore, facendo riferimento all'accendersi e allo spegnersi di una lampadina. E tale è la posizione del protagonista che, all'interno dei sette romanzi, fa una cosa sola: ricorda. Quindi è un romanzo di memoria. Tuttavia il ricordo di questo giovane non è il ricordo lineare, non è il racconto ordinato della propria esistenza, l'infanzia, l'adolescenza, la giovinezza e la maturità, ma sono degli squarci che la memoria in azione apre su diversi momenti della propria esistenza. Quindi il romanzo è costruito materialmente su diverse dimensioni temporali; è un romanzo o più strati in cui il protagonista, che vive il presente che è la posizione da cui narra, contemporaneamente vive altre epoche della sua esistenza con la stessa evidenza con cui a noi è dato di vivere il presente, l'istante. Che cosa diviene la realtà in questo romanzo? Una stratificazione di più epoche, di più fasi dell'esistenza, indistinte fra di loro come in un sogno in cui il protagonista si muove con libertà o agilità, come se vivesse in un eterno presente.
Che cosa è successo? È andata in crisi la categoria tradizionale del tempo. Il tempo non risponde più ad una successione cronologica, matematica, lineare ma è il tempo della coscienza, cioè senza tempo. Perciò le varie epoche della propria esistenza si intersecano tra di loro. Nell'atto in cui - ed è una scena famosissima - l'uomo immerge un biscotto in una tazza di tè si accende come una lampadina della memoria: in quell'istante la coscienza del protagonista è proiettata in un'altra epoca della sua esistenza, in quella in cui compiva lo stesso gesto. Quindi sulla narrazione di questo atto presente si innesta la narrazione della memoria di un'altra fase della propria esistenza. Avviene che le varie zone del tempo si incrociano, senza che l'uomo possa dire qual è lo spazio temporale in cui egli realmente vive. Si vive in un istante ma si è aperti a tutti gli istanti che, attraverso la memoria, si legano a questo.
Andando in crisi la dimensione lineare, cronologica e matematica del tempo va in crisi innanzi tutto la struttura del romanzo che non è più una narrazione di eventi significativi. Questo cortocircuito della memoria, questo accendersi di quella speciale lampadina del ricordo è alogico, non è dominabile dal soggetto che si sente vivere, che si sente attraversato da questi flussi di memoria. Eppure questi cortocircuiti della memoria costituiscono l'essenza dell'esperienza umana e, perciò, l'essenza della narrazione, struttura stessa del romanzo.
Ciò spiega il motivo per cui la struttura del romanzo di Proust ha una precisa caratteristica che è quella di non avere struttura, di essere una successione indistinta di varie fasi del tempo che documentano questa disintegrazione temporale che altro non è se non il riflesso della disintegrazione dell'io, che non riesce più a dire quale zona del tempo egli viva. Tuttavia non potendo l'uomo dire in quale zona del tempo egli vive, non può dire neanche in quale spazio, in quale angolo del mondo egli sia collocato.
Ecco che, allora, il romanzo, che era espressione di una certezza delle coordinate spaziali e temporali - e perciò della storicità del mondo - si rovescia esattamente nel suo contrario: il romanzo è l'espressione della disintegrazione di ogni categoria del tempo e dello spazio e di ogni nesso causale.
Nell'aprirsi di un mondo di ricordi, quale causalità si produce nell'atto di compiere un gesto? Non c'è nessuna causalità ma solo l'indistinto capriccio della memoria che si sviluppa, che si dirama in tutte le direzioni possibili. Ne consegue che in questa indistinzione del tempo, che è specchio dell'indistinzione dell'io, si produce anche quella struttura atipica del romanzo che consiste nel non avere una struttura. Che cosa documenta questo romanzo? Che l'uomo vive qui ed ora ma che, nello stesso tempo, vive altrove. Tale romanzo è l'espressione di uno scacco, di una crisi e di una perdita dello possibilità di definire sé in un rapporto organico con il mondo.
Tuttavia il primo riflesso di questo perdita di definizione organica del rapporto dell'io con il mondo è nella perdita dell'identità del romanzo, che è un labirinto. Al suo interno possiamo entrare da tutte le direzioni tant'è vero che i sette romanzi de La ricerca del tempo perduto si possono leggere non in successione cronologica; si può cominciare addirittura dall'ultimo, che si intitola Il tempo ritrovato. Qui il mondo non è più quella massa compatta, e perciò dominabile quale era apparso a Manzoni, a Balzac o a Verga; il mondo è un labirinto, pieno di tante finestre e porte di ingresso, all'interno del quale la condizione dell'uomo è quella di essere uno smarrito, un perduto.
Alloro il rapporto tra il romanziere e il romanzo è capovolto: non è più il romanziere che fa il romanzo ma è il romanzo che fa il romanziere, che denuncia la sua impossibilità di possedere il mondo e la sua disintegrazione ultima e profonda e, perciò, il suo scacco di fronte all'esistenza.
Tuttavia questo non è solo l'espressione di una negatività: è anche l'apertura di un nuovo discorso sull'io e sul mondo, è il presentimento che l'essere umano è definito da una virtualità, da una potenzialità senza fine e che l'essere umano è un'apertura all'infinito, il cui segno più impressionante è l'infinità della memoria dell'uomo. È la capacità dello memoria di percorrere, in tutta la sua lunghezza, il tempo senza limiti di sorta e senza dover obbedire alla direzione obbligata del tempo cronologico.
Il mondo quindi può essere conosciuto solo aprendosi all'inesauribilità che la memoria rivela e di cui il romanzo fa fede proprio per questa sua struttura aperta.
Pertanto, perché sette romanzi? Avrebbe potuto scriverne 10, 15 o 20, un numero illimitato come illimitato è l'itinerario della memoria in tutte le direzioni del tempo.


La rivoluzione in Joyce


Un altro documento di questa modificazione che si attua nel territorio del romanzo tradizionale è costituito da Joyce e doi suo romanzo L'Ulisse, che, formalmente, ha la struttura dell'Odissea. Joyce, infatti, non fa altro che prendere a prestito la trama esteriore dell'Odissea, elaborandola e piegandola ad un suo discorso sull'io e sul mondo. L'Ulisse narra le vicende, l'itinerario quasi senza meta, il ritorno a casa del novello Ulisse: Leopold Blumm. La narrazione è circoscritta nell'arco di ventiquattro ore. Il protagonista è un individuo che non ha il coraggio di tornare a casa perché lo aspetta una moglie terribile: bella e sensuale ma che lo tradisce apertamente e con la quale non riesce ad avere un rapporto in cui egli senta che è rispettato nella sua dignità di uomo. È la storia perduta, è la storia di un uomo che rinvia continuamente l'istante di quel confronto oggettivo con la vita, rappresentato dalla dura oggettività della propria moglie.
E lo smarrimento, il rifiuto di Leopold Blumm coincide con il suo perdersi, nell'arco di queste ventiquattro ore, lungo il dedalo delle vie di Dublino.
Attraverso la lettura di questo romanzo, noi seguiamo Leopold Blumm, di origine ebraica (e non è un caso), attraverso i quartieri malfamati di Dublino, nei suoi incontri con prostitute e con ubriachi finché si imbatte in un giovane, Stephen Dedalus, anch'egli alla ricerca di qualcosa, alla ricerca di suo padre, anch'egli preoccupato, desideroso di dimenticare e di ritrovare qualche cosa: il ricordo della madre da cui si sente per metà oppresso e per metà attratto e affascinato.
Il romanzo non ha un corso lineare; è semplicemente una divagazione, un vagabondaggio dell'uomo nella città, dell'io nel mondo.

L'impianto è naturalistico ed è caratterizzato da un'accurata descrizione degli aspetti fisici della vicenda. Addirittura è stato ricostruito l'itinerario di Leopold Blumm in Dublino: sono state ritrovate, dopo un accurato esame in loco della struttura materiale in cui la vicenda si situa, le strade, le case, i punti esatti che Joyce ha descritto.
Tuttavia l'aspetto interessante è il metodo narrativo su cui questo romanzo si struttura: attraverso l'itinerario di Leopold Blumm e di Stephen Dedalus il lettore entra in rapporto con la realtà, con gli oggetti descritti con tanta precisione. Tuttavia ci si accorge che gli oggetti, le cose ordinarie hanno, come dichiara Joyce, un'espansione infinita che egli chioma rediens (irradiazione) traducendo, addirittura, il termine claritas di San Tommaso. Dunque il rapporto di Leopold Blumm con il mondo non è mai totalmente definito e gli oggetti sono incontrati non per quel che sono ma per quel che nascondono. Il mondo infine, in questo romanzo, è un'epifania, è una manifestazione di sensi nascosti e di significati segreti. Per questo il romanzo, attraverso la superficie, attraverso la sua struttura esteriore - le vicende di un uomo comune, che ha paura della vita - ci conduce negli aspetti più segreti del mondo, facendoci conoscere l'animo, l'identità delle cose che, come dice Joyce, balzano verso di noi attraverso i veli dell'apparenza. Pertanto il romanzo anche in questo caso, non esprime una cognizione convenzionale del mondo ma vuole dirci ciò che il mondo nasconde e ciò che si cela negli aspetti più segreti e più profondi della personalità umana: le sue angosce, le sue paure, le sue ripulse, il suo bisogno di vita che, per affermarsi, deve fare i conti con le misteriose ed infinite irradiazioni di significati che provengono dalle cose. La coscienza di tutto questo è nel romanziere che la esprime mediante il linguaggio che non è più convenzionale e narrativo perché il linguaggio non serve più a descrivere i fatti ma le ripercussioni che la realtà ha sulla coscienza dell'autore. Da qui il meccanismo narrativo chiamato monologo interiore o flusso di coscienza in cui prevale la costruzione non ordinata del periodo. In realtà questo è un procedimento voluto proprio perché il romanzo non deve più servire le cattive abitudini del lettore, che vuole il mondo narrato secondo la finzione convenzionale delle successioni cronologiche e causali, bensì deve sviscerare l'io dell'uomo e la struttura segreta del mondo. Ecco perché la scrittura del romanzo ha la stessa cadenza incessante e aritmica del monologo interiore, del pensiero solitario dell'uomo che è attraversato dal flusso di infinite sensazioni e che istintivamente converte il linguaggio. Ciò spiega anche la struttura caotica e apparentemente informe de L'Ulisse di Joyce dopo che è saltata la struttura narrativa convenzionale: quello che interessa non è più il racconto del fatto e, pertanto, al centro non c'è più un eroe che rappresenta il significato o la sintesi del fatti narrati. Al centro del romanzo c'è invece la coscienza che è qualche cosa di sconosciuto al protagonista stesso che solo il linguaggio, con il suo flusso inesauribile, riesce a smascherare, a rovesciare e a portare alla luce.


La novità del romanzo di Kafka


Si era accennato all'interesse che aveva il fatto che Leopold Blumm fosse un ebreo perché, nel delineare l'itinerario del romanzo, ci si imbatte in un altro ebreo: F. Kafka. Che significato assume l'ingresso dell'ebraismo nella letteratura?
Non è casuale perché è il sintomo di un disagio che l'uomo contemporaneo vive, di cui l'ebreo è un tipo significativo. L'ebreo è il disperso, è colui che non ha patria e che non ha identità. L'ebreo è colui che si è macchiato di una colpa terribile: ha ucciso il Dio fatto carne. L'ebreo è colui che ha disobbedito al Padre che ha mandato suo lio e i suoi non lo hanno riconosciuto.
Questi romanzi sono tutte storie di uomini che hanno perso la coscienza di sé e che hanno un problema con il padre: Stephen Dedalus ha un conto aperto con il padre; Kafka, personalmente, aveva un problema aperto con suo padre di cui non sopportava l'autoritarismo. Insomma sono tutte personalità che hanno del problemi familiari. Si è sostenuto che l'ebreo è colui che non ha patria, che non ha più radici e che non sa più chi è.
Il protagonista del più bel racconto di Kafka, Metamorfosi, si chiama Gregor; un giorno si trova ad essere ciò che assolutamente non si aspettava di essere: uno scarafaggio, un essere immondo; l'uomo è ciò che non sapeva di essere; certamente si tratta di un simbolo in cui Kafka denuncia lo smarrimento dell'identità umana. Tuttavia è anche il sintomo di una nostalgia, la nostalgia di un modo di essere umani, un modo di essere uomini che è stato irrimediabilmente perduto.
C'è un brano delle Metamorfosi che rivela l'aspetto positivo di questa linea narrativa. Gregor, che è un rappresentante di commercio, una mattina si sveglia e si ritrova scarafaggio; ha un padre, una madre e una sorella. Evidente è lo sconcerto dei suoi familiari che, tuttavia, imparano, piano piano, a convivere con lui perché pare che l'uomo si possa abituare a tutto. Tuttavia nonostante l'abitudine fatta, la famiglia prova fastidio perché la presenza di questo essere ostacola una socialità adeguata. Per questo motivo, quando arriva gente il povero Gregor viene rinchiuso nella sua stanza ed è costretto a spiare dalla fessura della porta ciò che avviene nella vita, l'identità consapevole e liberamente espressa dagli uomini normali. Un giorno si fa festa in casa di Gregor: ci sono gli ospiti, si suona della musica. «Gregor, attirato dalla musica, si era arrischiato un po' più avanti ed era già con la testa nella sala La sorella suonava così bene! Gregor strisciò ancora un poco avanti e tenne la sua testa sempre più vicino al pavimento, per incontrare possibilmente i suoi sguardi. Era davvero una bestia, se la musica lo commuoveva tanto? Gli sembrava che gli si schiudesse una via verso un nutrimento sconosciuto e tanto desiderato». C'è la nostalgia di una umanità, di un'identità e di un rapporto con la vita, con la bellezza simboleggiato dalla suggestione della musica su questo essere immondo, che ha la scorza di uno scarafaggio ma che ha l'animo sensibile e dolce dell'uomo che si è smarrito e che sente, vive la memoria di una identità; vive la memoria di un legame con la bellezza, con l'infinito, con il padre e con il divino. Il romanzo è la denuncia di questa crisi e di questo smarrimento: rovescia l'uomo nel suo contrario ma, nello stesso tempo, ne indica anche il destino, la radice originaria, questo legame con la bellezza e con la dignità dell'uomo che non si è del tutto spezzato.

C'è un altro brano molto bello: quello dello morte di Gregor. Il padre, in un momento d'ira gli aveva tirato una mela che si era conficcata nelle scaglie della sua schiena e Gregor, con le sue zampette, non poteva togliersela. Ben presto scoprì che non si poteva più muovere affatto. Così si lasciò morire; non se ne stupì. Piuttosto gli sembrò innaturale che fino ad allora si fosse potuto trascinare avanti con quelle esili zampine. Del resto si sentiva relativamente bene. Aveva, è vero, dei dolori in tutto il corpo, ma gli sembrava che lentamente divenissero sempre più tenui e che sarebbero finalmente ssi del tutto. La mela marcia nella sua schiena e la parte infiammata intorno, tutta coperta di un sottile strato di polvere, la sentiva appena. Alla sua famiglia ripensava con commozione ed amore. La sua convinzione sul fatto che doveva sire era forse ancora più decisa di quella della sorella. Egli rimase in questo stato di meditazione vuota e tranquilla finché l'orologio della torre non scoccò le tre di notte. Visse ancora tutto il tempo che il cielo mise a rischiararsi fuori dalla finestra; poi il suo capo, senza volere, si chinò e debolmente gli sfuggì dalle narici il suo ultimo respiro.
È una bestia che muore, ma in questa bestia l'ultimo pensiero è stato per la sorella. È una bestia ed è tale la condizione dell'uomo, sembra dire Kafka. Tuttavia l'uomo, nel fondo oscuro della sua anima e della sua coscienza, rimane un uomo, per questa nostalgia di un legame, per questa nostalgia della infinita bellezza dell'arte, della natura e del cosmo, capace ancora di suscitare corrispondenze in questa immagine deforme dell'uomo in cui si è mutato Gregor.
Il romanzo esprime sempre più radicalmente questa disintegrazione dell'uomo, addirittura questa metamorfosi, questo rovesciamento in un'identità deforme e altra rispetto alla dignità dell'uomo.
Nello stesso tempo tuttavia si fa strada, nel romanzo contemporaneo, la nostalgia per quell'unità originaria dell'uomo con se stesso, dell'uomo con l'altro uomo e dell'uomo con il divino. Il romanzo di Kafka è l'attestazione e la documentazione dell'assurdo dell'esistenza e dell'impossibilità dell'uomo di entrare in rapporto con l'altro uomo.
Protagonista de Il castello è un individuo incaricato di giungere in un castello dove dovrà svolgere la sua funzione, ma passerà tanto tempo prima che questo uomo possa entrarvi. Questo castello è la vita e l'uomo è condannato a restare sempre intorno all'esistenza senza trovare mai la breccia che gli consenta di arrivare fino al centro.

Insomma il romanzo del Decadentismo segue la parabola generale di questo momento della cultura europea: dissolve le sue forme tradizionali. Tuttavia non è solo dissoluzione di strutture, non è solo uno sperimentalismo di forme nuove che rispondono ad una nuova esigenza narrativa. Nella dissoluzione delle strutture tradizionali del romanzo, in realtà, si gioca una partita ben più importante che è quella dell'uomo che riflette sul destino, che si scopre estraneo in questo mondo di cui rinviene le dimensioni infinite, quell'aspetto di mistero che da un lato lo attrae e dall'altro lo respinge. L'uomo si scopre straniero nella propria casa, assetato e affamato di arrivare a comprendere e a sondare gli aspetti più misteriosi e più segreti di questa realtà sempre più inafferrabile.
Tuttavia l'uomo è anche straniero a se stesso perché è fatale che chi perde il rapporto con la propria terra, con il mondo in cui abita, con la storia che lo precede, chi perde il sentimento della oggettività del mondo e quindi della conoscenza e del rapporto con il fattore che unifica gli aspetti disgregati della realtà, si scopra straniero anche a se stesso.


Il caso Svevo


Normalmente quando si parla del Decadentismo italiano si vuole sottolineare una zona, tutto sommato, colonizzata dal Decadentismo francese ed inglese. Rispetto ad essi il Decadentismo italiano rappresenterebbe un fenomeno abbastanza circoscritto e provinciale.
Tuttavia il caso Svevo fa capire che esiste un filone, all'interno del Decadentismo italiano, che ha una sua autonomia e una sua originalità che non è assolutamente riducibile alle matrici franco-inglesi. Infatti la narrativa di Svevo si lega a quella linea che si costituisce col crollo dell'impero austro-ungarico, e che va sotto il nome di cultura mitteleuropea. È una linea che possiamo tracciare da Kafka a Musil, l'autore de L'uomo senza qualità, per arrivare a Svevo. Tale linea si incrocia nel rapporto Joyce-Svevo, rapporto molto profondo e singolare. È singolare che uno scopra la sua vocazione di scrittore nell'incontro con una personalità che non ha le stesse radici culturali, come era Joyce rispetto a Svevo. Si consideri, in particolare, il romanzo Lo coscienza di Zeno: è il tipico romanzo che esprime questo presentimento di un mondo che sta crollando, di una catastrofe incombente che è estrinsecamente identificabile con il crollo dell'impero austro-ungarico ma che, in realtà, è la crisi dell'uomo europeo.
È la storia di un uomo che è in cura da uno psicanalista. Anche in questo caso il protagonista non è l'uomo ma è la sua coscienza, come insinua lo stesso titolo, l'oggetto del romanzo non sono i fatti quanto il riverbero dei fatti nella coscienza, l'irradiazione delle cose che hanno una singolare proprietà di comunicazione con la coscienza umana. È un pacchetto di sigarette che parla alla coscienza di Zeno e costituisce lo spunto di una serie interminabile di riflessioni e di divagazioni, non dominate intellettualmente dal protagonista. È un flusso di emozioni, un flusso di sensazioni che attraversano questa coscienza.
Quindi anche per Svevo il romanzo si apre alla rivelazione del profondo, è funzionale alla messa a nudo dell'identità umana, dell'uomo rivisitato negli aspetti più segreti, in quella zona che la psicanalisi chiama inconscio.
È evidente la lezione freudiana, anche se il rapporto Svevo-Freud è un rapporto estremamente limitato perché si potrebbe dire che è sostanzialmente uno spunto che serve a Svevo per percorrere una traiettoria tutta personale. La psicanalisi non è la soluzione del problema dell'uomo, anzi è costretta a registrare anch'essa un fallimento assistendo allo svanire del protagonista nel labirinto della vita. Un elemento interessante, tuttavia, è costituito dal segnali inediti che si rivelano in questo romanzo: la nuova dimensione della realtà. Nell'attuarsi della crisi esistenziale, nel definirsi della personalità come identità disintegrata e decomposta si può scorgere tuttavia una nuova rinascita delle cose e del mondo, un nuovo significato delle cose che stenta a venire alla luce: è la dimensione infinita del mondo.
Le origini di tale situazione risalgono a 30-40 anni prima della sa di questi romanzi. Il naturalismo e il positivismo hanno fatto coincidere la cultura, e quindi la coscienza dell'uomo, con gli elementi empirici e verificabili della realtà, hanno fatto coincidere l'uomo, e quindi la pensabilità dell'esperienza umana, con gli elementi materiali dell'esperienza umana, così che tutto ciò che non rientra nella verifica empirica della ragione viene espunto. Pertanto la letteratura e la cultura non si interessano più del mistero, semplicemente perché il mistero non esiste.
La letteratura e la cultura del Decadentismo invece sono il tentativo di far rientrare dalla finestra ciò che è stato espulso dalla porta: la dimensione misteriosa e ultimamente inafferrabile del mondo di cui l'uomo non può fare a meno. Questa perdita del mistero e questo sforzo dell'artista di ricostruirlo attraverso il linguaggio, che si rende espressione delle misteriose irradiazioni degli oggetti, è vissuto come dramma, come coscienza della disintegrazione di sé.
Il '900 è l'età dell'ansia; ansia di un tipo umano nuovo, di un volto nuovo del mondo che stenta a venire alla luce. In questi romanzi si può cogliere anche il volto inedito del mondo e dell'io: quello di un uomo riconciliato con la dimensione infinita del proprio io e dello realtà, di un uomo aperto ad un Oltre che trascende il dato fisico e sensibile dell'esperienza e che concepisce l'arte in funzione di questo grande balzo dell'uomo al di là delle cose, al di là degli oggetti, al di là anche delle norme morali convenzionali, ed è la linea dell'estetismo, al di là dei principi convenzionali della morale borghese secondo la linea del nichilismo nietzschiano.

Il punto genetico di questa cultura, che si ramifica in tante direzioni e assume tante sfaccettature, è questa rivolta dell'uomo contro un mondo senza mistero.
È questa la lezione positiva di Svevo che dialoga con il proprio io alla ricerca della forma inedita dell'io e del mondo che è adombrata nel linguaggio. Il linguaggio ha allora la funzione non di descrivere i fatti ma di dischiudere le prospettive dell'ignoto e presenta l'altra faccia della razionalità umana che non accetta di far coincidere l'esperienza con il sensibile.


La duplicazione nei romanzi di Pirandello


Anche Pirandello si inserisce indiscutibilmente nella tradizione naturalistica italiana ed europea. Tuttavia lo scrittore, attraverso l'accettazione dello schema tradizionale del romanzo, giunge a rovesciarlo e dimostra che la realtà non è una, ma nessuna e centomila, che è doppia.
Il romanzo pirandelliano è costruito su vicende poco esemplari, poco significative, come quella di Vitangelo Moscarda, protagonista del romanzo Uno nessuno centomila. Guardandosi allo specchio si sente dire: «Stai guardando da che parte ti pende il naso?», così capisce, per la prima volta, di essere stato uno dal naso storto, mentre credeva di essere uno dal naso dritto.
Questa vicenda banalissima, insignificante e ridicola, avvia un meccanismo di riflessione che porta lentamente il personaggio, l'eroe inizialmente positivo di questa storia, ad una totale disintegrazione non solo di sé, ma anche del mondo e della possibilità dell'uomo di dire e pensare la verità.
In questo senso il romanzo naturalistico che aveva funzione unificante la realtà sotto l'osservazione onnicomprensiva dell'artista-scienziato, si tramuta esattamente nel suo contrario: il romanzo persegue un altro scopo, quello di sostenere l'impossibilità di definire e di contenere la realtà in una definizione, l'impossibilità, quindi, di dire una verità ultima sulle cose, sull'uomo e sulla realtà.
Il fu Mattia Pascal è la testimonianza della duplicità dell'uomo: l'uomo non è univoco, perché è il suo doppio. Si era già rilevata questa frammentazione, questa contrapposizione dei vari soggetti-oggetti del romanzo in Dostoevskij; l'uomo è il suo doppio, perché si registra l'impossibilità dell'uomo di dire se stesso, di cogliersi oggettivamente nella oggettività del mondo. Quindi l'uomo non corrisponde a ciò che egli pensa di sé, ma è la possibilità di un'ulteriorità. L'uomo è una virtualità, l'uomo è un altro in potenza.
Quello che Kafka ha mostrato nella Metamorfosi, allorché avviene la trasformazione dell'uomo in scarafaggio, Pirandello lo fa vedere con la trasformazione dell'uomo in un altro se stesso.
Si tratta di vicende esemplari che tendono ad esprimere lo stesso disagio, la stessa rivolta dell'uomo nei confronti di una società e di una cultura che sono costrittive perché riducono l'uomo alla definizione della scienza o del sapere costituito, ed indicano invece che il destino e l'esigenza umana sono quelli di sfuggire ad ogni definizione, di aprirsi a questa dimensione ignota dell'esperienza umana, a questa dimensione misteriosa della realtà.

Il compito della letteratura e della poesia è proprio quello di accomnare il viaggio dell'uomo, come diceva Rimbaud, dal noto all'ignoto che ha il volto del doppio, del nessuno, dei centomila, ha il volto della bestia, del mostro di Kafka, ha il volto dell'uomo senza qualità di Musil, il volto dell'uomo che ricorda di Proust, dell'uomo che si perde di Joyce. Sono tutte vicende eccezionali, anomale, che vogliono tuttavia raccontare l'ordinarietà dell'esperienza umana, il contenuto elementare dell'esperienza umana, che l'uomo normalmente non vede: la perdita di sé, lo smarrimento, la propria duplicazione, l'impossibilità di dire chi si è.


Conclusione


A questa fase della letteratura ne subentrerà un'altra: quella della risalita dell'uomo da questa estraneità, da questa distanza rispetto a se stesso e rispetto al mondo.
Il romanzo neorealista tenderà a ricostruire la possibilità per l'uomo di dare un significato alla propria esistenza e quindi di ricollocarsi come protagonista nella storia e nella vicenda del mondo. Ecco perché recupera le forme tradizionali del romanzo dell'Ottocento, ammettendo tuttavia in esso una sostanza etica e civile nuova.




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