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'Il primo romanzo: Una Vita'

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'Il primo romanzo: Una Vita'

Il romanzo Una Vita (composto tra il 1887 ed il 1889 ed ambientato a Trieste) narra la vicenda di Alfonso Nitti, impiegato presso la ditta Maller, con una certa cultura umanistica ed ambizioni di scrittore. Egli vive in una camera che ha preso in affitto e soffre per la monotonia e lo squallore della propria esistenza. L'occasione di mutare la propria vita e di realizzare le sue ambizioni gli si presenta quando Annetta, la lia del principale, per suggerimento del colto cugino Macario, prima invita Alfonso a partecipare alle serate letterarie che tiene in casa propria e poi lo sceglie per scrivere un romanzo a quattro mani. Annetta, per noia e capriccio, accetta la corte di Alfonso e s'invaghisce di lui. Con la complicità di Francesca, governante ed amante del Maller, che spera di trarne profitto personale, Alfonso riesce a sedurre Annetta, ma immediatamente scopre di non provare dalla relazione quella gioia che immaginava. Così, dopo una notte d'amore, rifiuta il suggerimento di Francesca di star vicino ad Annetta per sfruttare la situazione e combinare il matrimonio, e fugge al paese natale col pretesto d'assistere la madre (che poi scoprirà davvero malata e che morirà). L'assenza sarà fatale ad Alfonso, infatti, Annetta, passato l'entusiasmo del momento, si fidanza col cugino Macario. Al suo ritorno Alfonso oscilla tra rassegnazione, orgoglio per aver rinunciato ad un amore d'interesse e delusione per vedersi nuovamente risucchiato nella squallida vita di prima. In ditta viene messo da parte e trasferito ad un incarico meno remunerativo. Perde quindi il controllo della situazione: affronta il Maller con minacce fittizie, e cerca di rivedere Annetta, ottenendo però solo di venire sfidato a duello dal fratello di lei. Prima del duello decide di suicidarsi.



Una vita è una sorta di test paradossale, di scommessa impossibile vinta contro ogni previsione. E' la prova di come la forza di un romanzo possa consistere nell'intelligenza della scrittura senza avere l'eleganza della scrittura; di come un pensiero dinamico ed un forte talento costruttivo possano servirsi senza danni di una lingua approssimata, incerta, quasi una lingua di traduzione; di come un andamento narrativo che dimostra goffaggine possa sortire effetti di notevole intensità, fino a rivelarsi come il solo, anzi l'unico modo di dar forma ad un certo materiale; di come, infine, sia la sola voce inevitabile e fatale con cui certe parole possono essere pronunciate. Ecco allora che la lingua di Una Vita, così ineguale e faticata - velocissima e diretta in molti casi, contorta e aggrovigliata in altri, contratta e quasi mutilata in altri ancora - si manifesta energicamente come voce inconfondibile del narratore, e cancella d'un colpo i suoi rapporti con la letteratura contemporanea. Una Vita esce nel 1892. Una ina di diario datata 1899, a distanza di un anno dalla pubblicazione di Senilità, appare molto ferma in proposito:

'Napoleone usava notare quanto non voleva più dimenticare su un foglietto di carta che poi stracciava. Stracciate anche voi le vostre sectiune oh! Formiche letterarie. Fate in modo che il vostro pensiero riposi sul segno grafico col quale una volta fissaste un concetto, e vi lavori intorno alterandone a piacere parte o tutto, ma non permettete che questo primo immaturo guizzo di pensiero si fissi subito e incateni ogni futuro svolgimento'.

Una dichiarazione nettamente antimpressionistica, come si vede. Un progetto che privilegia la struttura e deprime i dettagli. Una Vita risulta la messa in opera di questo progetto. Non è certo un caso che il titolo dato al libro dall'autore, e cambiato dall'editore per ragioni commerciali, fosse Un inetto: un emblema già inconfondibilmente sveviano. Sul romanzo, che sembra avere un impianto naturalistico, Svevo respinge l'opinione comune che sia una verità predeterminata: le sue ragioni sono fondate sul bisogno di un'indagine, un'inchiesta, una ricerca se si vuole, capace di verificare certe intuizioni flessibili su una molto flessibile. A Svevo sono estranei Positivismo e metafisica. L'esigenza di scientificità, fin dai suoi inizi, è un'esigenza che oggi definiremmo totalmente laica, nel senso che non lo interessano formule dogmatiche. Si cercano prove in diverse direzioni (da Schopenhauer a Darwin), muovendosi appunto, sul terreno letterario, secondo quella che poco sopra abbiamo individuato come una disposizione di costruzione sperimentale. In una lettera del 16 marzo 1925 a Valery Larbaud, Svevo scrive:

'Ho riletto Senilità e vedo il libro che m'ero rassegnato a considerare assolutamente inesistente, nella luce che gli è stata data dal vostro giudizio. Ho riletto Una Vita. James Joyce diceva sempre che nella penna di un uomo c'è un solo romanzo (allora egli non aveva neppure pensato a Ulisses) e che quando se ne scrivono diversi si tratta sempre del medesimo più o meno trasformato. Ma in questo caso il mio solo romanzo sarebbe Una Vita'.

E' semplicemente ironia, consapevolezza della propria modernità, della propria anomalia. Svevo sa di aver superato la barriera del Naturalismo, e ciò attraverso l'ironia: l'ironia agisce specialmente nelle pieghe della psiche e nella corrente del tempo fluido che è lo stesso di Proust e di Joyce. Fin dal suo primo romanzo, il triestino percepisce d'essere partecipe di una crisi: la crisi di una borghesia che in sede culturale scontra l'esaurirsi della spinta ottimistica incarnata dal Positivismo, ed in sede economico-politica è costretta a are un disagio ed una serie di conflitti interni, che i diversi imperialismi europei si sforzeranno di eludere scatenando una guerra generale. Lontano dall'esperienza di D'Annunzio come dal Verismo, Svevo s'impegnò a fondo per il suo primo romanzo, probabilmente convinto di essere arrivato al punto più alto della sua ricerca. Questa è la malattia, che è chiamata inettitudine. I 'vinti' sveviani perseguono un solo scopo: imparare a convivere con la propria malattia. Si tratta di un morbo che contagia inesorabilmente tutta la letteratura europea tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, e che ha il suo epicentro nel tramonto della 'Mitteleuropa'. Svevo introduce ciò, ma a differenza degli altri romanzieri europei, vi è una vena ironica sempre più ferma e sistematica, capace di mettere in discussione, interrogativamente, non solo i moduli della scrittura ma addirittura la persona prima dello scrittore. Il tragico, dunque, viene raggiunto attraverso il comico. In Una Vita questo processo ha ancora varie oscillazioni. Nella prima prova narrativa sveviana vi è un attaccamento all'oggetto segnato da una minuzia descrittiva e di una cura dei particolari perfino eccessiva, sulla falsariga delle diffuse immagini naturalistiche (accettate e respinte al tempo stesso), risulta inevitabile per un autore alle prime armi 'nuotare in un mare che sarà il suo, ma senza ancora conoscerne profondità e comportamenti'. L'universo del protagonista Alfonso Nitti presenta quattro ambienti: la banca, casa Maller, Trieste ed il paese d'origine. C'è già in questo primo romanzo sveviano, l'intuizione del senso e della strategia narrativa aperta che vedremo meglio né La coscienza di Zeno e l'urgenza della centralità e dell'imprevedibilità che, con riferimento alla psicoanalisi, Svevo chiama appunto coscienza. Ciò che sta a cuore al giovane romanziere è il destino del protagonista Alfonso Nitti, e la meccanica delle motivazioni che lo determinano a livello psicologico. L'approccio si realizza in Una Vita, dentro la continua difficoltà di superare il fitto reticolo sociologico, descrittivo ed ambientale di cui è intessuta la prima parte del romanzo, necessario allo scrittore per dare credibilità e spessore di verosimiglianza ad un personaggio come Alfonso, provinciale inurbato che muove i primi passi nel mondo del lavoro all'interno della banca Maller. Svevo insiste nel presentare Alfonso intento ai suoi compiti d'impiegato, inquadrandolo durante i quotidiani contatti con colleghi e superiori, tra i quali spicca l'inaccessibile signor Maller, nella cui orbita egli sarà destinato ad entrare in positivo per poi esserne espulso in negativo. Quello che coprirà Alfonso non è nient'altro che una forma inesorabile e indifferente d'oblio sociale, vissuto all'interno di una commedia a conclusione tragica. Alfonso, anche per la sua natura di sognatore, funziona da mezzo d'evasione dal grigiore della vita d'ufficio, ed è perlustrato fin dall'inizio nelle sue pieghe più interne, nel friabile susseguirsi dei suoi progetti di cartapesta. La stessa minuzia analitica si riscontra ad un livello più esteriormente descrittivo nella rafurazione della famiglia presso la quale Alfonso fa squallidamente pensione, trattenendovisi durante gran parte del suo tempo libero. La meschinità dei due ambienti avvilisce il giovane, che sfoga il suo disagio nelle lettere alla madre, proponendosi di rientrare al paese natio troncando la difficile esperienza cittadina. La decisione viene cancellata da una circostanza inaspettatamente favorevole: il signor Maller, al quale il giovane è stato raccomandato dalla signorina Francesca, governante di sua lia Annetta e amica della madre di Alfonso, lo invita a casa sua. Qui Alfonso conosce Annetta, prima fra le creature sveviane ad incarnare il ruolo della donna che si promette e si nega, che si abbandona per ritrarsi subito dopo, vincendo in definitiva sul maschio. Così e, come poi nell'Angiolina di Senilità e nella Carla de La coscienza di Zeno, l'elemento asimmetrico all'interno della perfezione, la linea imprevedibile che conferisce alla fisionomia femminile un più intenso richiamo sessuale e sentimentale:

'Entrò la signorina Annetta e Alfonso si levò in piedi confuso: l'aveva molto agitato la lunga preparazione. Era una bella ragazza, quantunque, come egli disse a Miceni, il suo volto largo e roseo non gli piacesse. Di statura alta, con un vestito chiaro che dava maggior rilievo alle sue forme pronunciate, non poteva piacere a un sentimentale. In tanta perfezione di forme Alfonso trovava che l'occhio non era nero abbastanza e che i capelli non erano ricci. Non sapeva dire il perchè, ma avrebbe voluto che lo fossero'.

Attraverso ciò Svevo aggredisce con forza un problema che sarà poi alla base de La coscienza di Zeno: l'analisi del quadro violentemente contraddittorio di una società che isola l'individuo, la descrizione di un conflitto in atto tra le classi attraverso quello fra un piccolo impiegato ed un sistema socioeconomico completamente estraneo alle sue esigenze, il fallimento cui è destinato chi individua nell'amore disinteressato il tramite per un'ascesa sociale, infine l'oscura coscienza di sentirsi vittima di un ingranaggio incomprensibile. Le speranze di Alfonso, tra l'altro, sono alimentate dalla circostanza che con Annetta concorda di scrivere in collaborazione. Per Svevo non si tratta di un espediente romanzesco: si tratta piuttosto di un'idea strutturale, quella appunto del 'romanzo da farsi', straordinariamente moderna ed anticipatrice di tante esperienze del nuovo secolo (Musil e Pirandello). In ciò si può intravedere il primo segno, ancora non sufficientemente approfondito e risolto, di potenzialità realizzate soltanto nella coscienza dei personaggi, di frammenti di un mondo che riprende consistenza e valore soltanto nella dimensione interiore. Il romanzo-pretesto regge fino al momento di fusione dei due elementi interessati, il corteggiatore e la corteggiata. Ma è bene non perdere di vista il fatto che i due personaggi obbediscono ad un'ambiguità di fondo, nel senso che i loro ruoli ufficiali (Alfonso corteggiatore ed Annetta corteggiata) appaiono quasi intercambiabili, e la posizione dei due viene, così, continuamente sfalsata. Malgrado la seduzione, e magari proprio in virtù di essa, Alfonso perde nei confronti della fanciulla il suo potere contrattuale. Il pianeta che è la casa Maller, e Annetta che ne è il cuore, si allontanano irrimediabilmente. Alfonso torna nel paese natale al capezzale della madre morente. E' ormai entrato, ancora assai giovane, nella sua zona d'ombra. La sua propensione alla fantasticheria, alla progettualità astratta riprendono a dominarlo. La sua è la vocazione del depresso, ed egli non può che onorarla. Il ritorno a Trieste, la ripresa del lavoro bancario e la notizia del fidanzamento di Annetta con Macario, producono una nuova sintesi nel difficile equilibrio del romanzo. L'occhio dello scrittore riprende di mira il microcosmo della banca, ma attraverso un dato ulteriore e differenziante: il fallimento e l'esclusione di Alfonso, la catastrofe del suo piano di scalata sociale. Alfonso pare trasformare la propria sconfitta in una sorta d'illusorio successo, da godersi nel privato cerchio delle sue emozioni. Dal momento che è stata in una qualche misura desiderata da lui, dalle sue debolezze ed incapacità, la rinuncia sembra ribaltarsi in conquista. La resa può somigliare ad uno stato di neutrale beatitudine:

'Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture, stato di rinunzia e di quiete. Non aveva più neppure l'agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare o rinunziare. Non gli veniva più offerto nulla; con la sua ultima rinunzia egli s'era salvato, per sempre, credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto trascinarlo il desiderio di godere. Non desiderava di essere altrimenti. All'infuori dei timori per l'avvenire e del disgusto per l'odio di cui si sapeva oggetto, egli era felice, equilibrato come un vecchio'.

Ciò che davvero conta rilevare è come ci si trovi qui per la prima volta in presenza di quella nozione di senilità, che sarà uno dei fulcri del libro successivo e poi della Coscienza. Ciò che ancora manca è la fusione fra significato tragico ed ironico, che farà delle ulteriori accettazioni e rinunce sveviane, situazioni universali dell'impotenza borghese. Al piccolo borghese Alfonso Nitti lo scrittore ha affidato con notevole lucidità il doppio ruolo di vittima e di ribelle all'interno di una condizione sociale che lo schiaccia. In un mondo le cui costanti sono la lotta, la conflittualità, l'aggressione ed il sopruso, un individuo che si sente incapace alla vita ed al contempo avverte pesantemente la costrizione di un lavoro che non ama, è certo destinato a soccombere. In Una Vita il determinismo naturalistico riesce almeno ad individuare il determinismo sociale che è la regola del mondo capitale. In questa misura esso è utile a Svevo per la definizione dello scacco cui è votato l'antieroe Alfonso, il 'povero impiegatuccio', al quale non sarebbe stato neppure lecito dimostrare il proprio dolore. Alfonso si uccide, ed il romanzo si chiude, in puro stile burocratico-parodico, con secca laconicità, sulla comunicazione che la banca Maller fa di un funerale che avviene con l'intervento dei colleghi e della direzione, per un suicidio le cui cause rimangono' del tutto ignote'. La morte ha chiarito ogni equivoco. In fondo, la personalità ed il destino di un subalterno come Alfonso Nitti non possono risultare, per i suoi superiori, che 'ignoti'. Che la sconfitta del Nitti si consumi a Trieste, 'non più naturalistico ambiente ma segreta matrice di fatti e di situazioni, luogo piuttosto metafisico che geografico o geometrico' (Montale), come altre contemporanee sconfitte romanzesche si consumano a Praga, a Vienna, a Dublino o nella provincialissima Siena, non è certo un caso. La tragedia della solitudine urbana dai tratti anonimi è al tempo stesso specifica e omologa: ogni città diventa capitale del dolore. La Trieste di Una Vita ha già, malgrado certe insufficienze, i tratti espressionistici delle sue consorelle, la stessa spettrale consistenza simbolica.





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