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Il problema della lingua e dello stile, Il pensiero filosofico e politico

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Il problema della lingua e dello stile

All'opera critica e poetica di Dante va il merito di aver dato al volgare italiano dignità di lingua d'arte. Se nella Vita nuova si limita a giustificare l'uso del volgare sul piano della prassi poetica dei rimatori d'amore, nel Convivio Dante avvia un discorso più generale sulla lingua italiana, riconoscendole, nel trattato introduttivo, quei tratti di amabilità, ricchezza, proprietà, bontà che fino ad allora erano attribuiti solo al latino (e al francese). Il tipo stesso di prosa volgare usato nel Convivio (dal periodare complesso e alto, modellato su quello latino-scolastico) e il contenuto delle liriche commentate nell'opera si distaccano dall'operetta giovanile (e Dante stesso ne è cosciente), come si conviene alla diversa esperienza dell'autore, maturata dall'esilio, e alla materia trattata, frutto di studi filosofici e di impegno civile e politico. Il volgare sarà quindi «sole nuovo», che illuminerà sulla via della conoscenza coloro cui «lo sole usato», cioè il latino, «non luce». È il riconoscimento della validità ideale e pratica dell'italiano come lingua di scienza e d'arte. Lo svolgimento puntuale, teorico e applicativo insieme, di questa tesi è contenuto nel De vulgari eloquentia (1304-05), opera latina progettata in 4 libri, ma interrotta al cap. XIV del II libro. Dalle affermazioni dell'autore, che porta a esempio se stesso come poeta della virtù, appare chiaro che la lingua di cui egli tratta è quella d'arte: in particolare, è la lingua, e lo stile, dello stesso Dante, nella sua più alta produzione lirica di ispirazione etica. In questo senso il trattato sulla lingua si riallaccia al Convivio, alle grandi canzoni in esso commentate (concreta applicazione della teoria), a tutta la ricerca stilistica di Dante, aperta dalla Vita nuova e dalle Rime e riassunta e conclusa dalla Commedia. In essa la lingua vive, nello stesso tempo, come mezzo di comunicazione e come creazione artistica di volta in volta innovata, come il «sole nuovo» di cui l'autore aveva sentito la necessità concettuale ed etico-politica e come realizzazione di ben precise scelte stilistiche.




Il pensiero filosofico e politico

Nel 1316, inviando a Cangrande il I canto del Paradiso, Dante indicava nel «morale negotium sive ethica» il 'genere' filosofico cui andava ascritta la Commedia: su eguale metro sono da commisurare le altre opere d'argomento conoscitivo e politico, cioè il Convivio, la Monarchia, le Epistole politiche. La moralità come ricerca del proprio essere da parte dell'individuo e del gruppo sociale si sviluppa, nel pensiero dell'esule fiorentino, come filosofia della pratica e della storia: muovendo dall'esigenza d'autonomia cittadina e dai conflitti di parte, Dante approda a una concezione unitaria e globale della storia e della politica. La base speculativa della posizione dantesca è eclettica, ma identificabile nelle sue componenti fondamentali: il pensiero di Aristotele (mediato attraverso Alberto Magno e San Tommaso); l'eredità classica e postclassica, filtrata attraverso l'esegesi medievale (innanzitutto Virgilio, quindi Cicerone, Seneca, Boezio); la tradizione biblica e le diverse correnti del pensiero religioso cristiano; la conoscenza, parziale, del neoplatonismo; infine, l'influsso dei contemporanei centri di cultura francesi.
Dante accetta la struttura gerarchica e finalistica della società umana del pensiero aristotelico-tomista, ma sviluppa e applica in modo autonomo la teoria dei due fini, naturale e soprannaturale, dell'uomo, giungendo a una valutazione indipendente dell'etica e della metafisica, concepite come provvidenzialmente ordinate ai due fini in modo autonomo. Tale posizione è chiarita nel Convivio (1304-07, la prosa; anteriori di circa un decennio le liriche commentate), opera in volgare di contenuto enciclopedico- didascalico, progettata in 15 trattati (ma interrotta al IV) e contenente nel primo, proemiale, l'esposta lode del volgare. Illustrando nel II la lettera e l'allegoria della canzone Voi ch'intendendo, Dante identifica la «donna gentile» dei versi con la filosofia, «bellissima e onestissima lia de lo Imperadore de lo universo» (cioè di Dio) e fonte di spirituale amore; sulla stessa traccia si muove il III trattato, a commento di Amor che nella mente, che della filosofia canta le lodi in chiave stilnovistica. Infine, Infine, abbandonata la veste al legorica con la terza canzone (Le dolci rime), Dante può ordire nel IV trattato un commento esclusivamente e apertamente didattico, che gli consente di introdurre il tema politico: contro la definizione di nobiltà come bene ereditario data da Federico II, non solo è ribadito il concetto stilnovistico di nobiltà legato alla 'virtù' individuale, ma si afferma l'autonomia dell'autorità filosofica (in particolare di Aristotele) di fronte a quella imperiale, e il dominio di quest'ultima sulla terra tutta, giustificandone la provvidenziale universalità e romanità. È questo il tema della Monarchia, opera latina in 3 libri, che compendia organicamente il pensiero politico dantesco e ne espone analiticamente i punti. Particolarmente importante è il libro III, dove l'autore entra nel vivo della polemica contemporanea contro i decretalisti, sostenitori della supremazia papale nei confronti del potere politico (ierocrazia): egli confuta l'asserita dipendenza dell'imperatore dal pontefice e dichiara illegittima la donazione di Costantino, riaffermando l'indipendenza dei due poteri e la loro autonoma e diretta provenienza divina. Il contenuto della Monarchia, la sua ampiezza teoretica, la sua acutezza metodologica, i toni biblici e ispirati dello stile si riallacciano da un lato alle Epistole politiche, dall'altro alla Commedia. Le une rispecchiano i primi tempi dell'esilio (Epistola I, in nome della parte bianca, per la pacificazione tentata dal cardinale Niccolò da Prato), le successive speranze legate all'elezione imperiale di Enrico VII (Epistole V, VI, VII, 1310-l1, ai signori d'Italia, agli scellerati Fiorentini, a Enrico, per caldeggiare e sostenere la sua discesa in Italia), le speranze ultime di ravvedimento della Chiesa e dei suoi ministri (Epistola XI, 1314, ai cardinali italiani) in un crescendo continuo dagli interessi cittadini all'impegno ecumenico, politico e spirituale; la Commedia, ponendo via via l'accento - non solo nei cosiddetti canti 'politici' - sulla città, sui regni, sull'impero, richiama l'umanità tutta, nei capi, nei popoli, negli individui, al riconoscimento dei propri compiti e al rispetto dei propri limiti, mentre asserisce vigorosamente la mutua indipendenza delle sfere d'azione religiosa e politica, sociale e metafisica.




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