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Le novelle di Pirandello - Trama, Ciaula scopre la luna, La carriola, La patente, Il treno ha fischiato, C'è qualcuno che ride, La trappola

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Le novelle di Pirandello

Trama



Ciaula scopre la luna:

La novella è divisa in tre momenti. Il primo si svolge in piena luce, all'esterno della cava e presenta la ribellione dei lavoratori, che non accettano di prestare lavoro straordinario; la scena è affollata dall'insieme dei picconieri che abbandonano rumorosamente la cava ignorando le minacce del soprastante Cacciagallina. Egli finisce quindi per costringere il vecchio zi' Scarda ad effettuare il lavoro, che a sua volta si impone sul suo caruso Ciaula, un poveraccio. In questa prima fase domina il discorso diretto, che sottolinea momenti di clamore e concitazione; la descrizione dell'ambiente è di tipo verista, sul modello verghiano, con uso preciso di termini tecnici (picconieri, soprastante), gergali e dialettali (calcara, calcherone, caruso) ed espressioni popolari e sintatticamente vicine al parlato (che neanche un leone; Oggi per noi il Signore non fa notte).



Il secondo momento, una volta usciti di scena i picconieri, si svolge all'interno della cava ed occupato dalla descrizione di zi' Scarda, del suo vizio della lacrima, del suo rapporto con Ciaula, di cui vengono fornite le notizie essenziali. In questa fase viene meno il discorso diretto e alla descrizione esterna dei personaggi si affiancano considerazioni di tipo psicologico, con adozione del punto di vista del personaggio.

Nel terzo momento, il più importante, il centro d'interesse è unicamente Ciaula, con la sua paura prima e il suo stupore poi, quando scopre la luna. La descrizione è di tipo interiore, psicologico, attraverso il punto di vista di Ciaula stesso; il movimento del protagonista procede dall'interno della cava, dal buio alla luce, dal basso in alto, sia in senso spaziale sia morale. L'impressione iniziale di descrizione verista cede completamente; l'interesse è tutto concentrato sullo stato d'animo del personaggio, solo con se stesso di fronte alla luna.


La carriola:

Un avvocato ripeteva quotidianamente un rito, unico modo per sentirsi vivo tra la piatta vita della sua professione e del suo ruolo sociale. Era questo un rito particolare, che avrebbe compromesso la carriera del suddetto se fosse stato scoperto. L'unico timore dell'avvocato - professore era che la sua vittima potesse rivelare il segreto, pur nella sua impossibilità di comunicare.

Tutto era iniziato in treno, di ritorno da Perugia. Il protagonista si era reso conto, prima sul convoglio e quindi sulla soglia di casa, di non riconoscersi nel suo corpo, nel suo aspetto, nel suo compito di ricercato professionista, marito e padre di famiglia. La sua facciata era stata creata artificialmente, senza alcun intervento dell'individuo che si vedeva usurpata la vita, vita che forse non aveva nemmeno iniziato a vivere. Chi è impegnato ad esistere non ha infatti tempo di sviluppare questo genere di riflessioni, perché conduce la sua esistenza. Chi conosce e vede la propria vita, invece, ne esce fuori, e smette di trascorrerla. Tuttavia gli obblighi familiari indussero l'avvocato ad aprire per l'ennesima volta la porta di casa e recarsi nello studio. Aveva egli una vecchia cagna che, con l'avanzare degli anni, aveva imparato ad apprezzare il silenzio della stanza del professore. Questo, come ogni giorno, dopo essersi assicurato di non essere visto da nessuno, prese le due zampine di dietro della cagna e le fece fare la carriola. L'atto caricava il protagonista come un cannone, se non fosse per lo sguardo che la bestia, sbigottita, rivolgeva al padrone dopo il rito. All'avvocato non era concesso scherzare, e quel semplice atto costituiva il suo svago maggiore. La scoperta di tale rito avrebbe distrutto la sua esistenza.


La patente:

Il giudice D'Andrea era una persona sulla quarantina, il cui aspetto era caratterizzato da elementi di molteplici razze. La condotta morale era però l'opposto della sua sbilenca facciata: chiunque lo avesse conosciuto avrebbe potuto confermarlo.
Non aveva potuto nella sua vita vedere molte cose, ma pensava moltissimo, soprattutto la notte, osservando le stelle dalla finestra e trastullandosi coi suoi capelli da negro. Questo errare della mente terminava con la luce del giorno, quando il giudice doveva andare ad amministrare la giustizia. Assolveva al suo compito con la massima puntualità, rinunziando al pranzo pur di concludere ogni pratica; tuttavia questa meticolosità gli accresceva la pena del lavoro. Neppure i suoi pensieri notturni lo aiutavano, anzi, sembravano essere avversi al mestiere di giudice istruttore.
Una sola pratica sfuggiva a questa precisione. D'Andrea, dopo aver provato inutilmente ad occuparsene, domandava consigli ai colleghi, i quali al solo sentir nominare Chiàrchiaro si prodigavano in scongiuri. Quella di Chiàrchiaro era una causa persa: aveva egli infatti accusato due persone di aver fatto gli scongiuri al suo passaggio, essendo convinzione comune che il suddetto fosse uno iettatore. Il giudice non aveva idea di come adempiere al suo lavoro, perciò mandò a chiamare l'interessato che, puntualmente, si presentò. L'aspetto di Rosario Chiàrchiaro lo rendeva certamente una persona poco raccomandabile. D'Andrea volle sapere il perché di quella causa, che considerava persa in partenza. L'accusatore stesso aveva fornito prove dell'innocenza degli imputati, e tutto ciò non faceva che aumentare i dubbi del giudice. Chiàrchiaro un tempo lavorava ma, per la sua fama di iettatore, fu licenziato e lasciato sul lastrico. Soltanto una certificazione del suo potere avrebbe potuto risollevarlo, in modo da farsi are per non trovarsi vicino, e portar male, a fabbriche o botteghe. Tutto ciò che voleva era una patente da iettatore.


Il treno ha fischiato:

La novella narra la vicenda di Belluca, un "impiegatuccio" usualmente mite e sottomesso, che una sera, pur essendo stremato per la stanchezza, non riesce ad addormentarsi e, ad un certo punto, sente nel silenzio il fischio lontano del treno. Questo fischio sarà dunque la chiave di volta che farà riemergere il protagonista da quel suo modo di vivere come "una bestia bendata" che "girava la stanga del molino"; una metafora questa che esprime perfettamente la sua inconsapevolezza del mondo esterno in quanto egli è, appunto, come una bestia bendata, sia l'infelicità e la monotonia di quella sua vita "impossibile", che il narratore paragona ad un mostro a cui doveva per forza appartenere quella coda, cioè l'improvvisa pazzia, mostruosa se considerata da sola ma che, una volta "riattaccata" al mostro apparirà come "una coda naturalissima".

Quindi possiamo dire che Bellica, attraverso queste metafore, ci appare come la vittima di una vita "mostruosa"che lo comanda come gli uomini comandano le bestie.

Belluca grazie al fischio di quel treno viene così travolto dal mondo esterno, di cui si era dimenticato, e "ebbro" per questa riscoperta, una volta in ufficio il giorno seguente, non lavora più come al solito e all'ira del suo capo-ufficio per la prima volta reagisce gridando che ormai non può più vivere così ora che il treno ha fischiato.

Ovviamente i suoi colleghi non lo capiscono, anzi credendolo pazzo lo ricoverano in un manicomio.

L'ufficio e il manicomio infatti, assieme alla casa, sono i luoghi chiusi che rappresentano la "non vita" di Belluca, cioè la sua vita prima del fischio del treno come se egli fosse stato murato vivo in una stanzetta per molto tempo, lontano dal mondo esterno di cui non ricorda più l'esistenza; solo il fischio di quel treno sarà in grado di squarciare quel grigio silenzio e riportare così in un solo attimo, con una forza travolgente tutta la bellezza e l'energia degli spazi aperti e sconfinati come la Siberia, le foreste del Congo e tutti i ricordi di una vita lontana, di un Belluca giovane, trascorso a visitare città come Firenze, Bologna, Torino e Venezia assaporandone la bellezza e la vita stessa.

Belluca quindi dopo essere stato travolto dal mondo esterno appare come impazzito. Ma questa sua presunta pazzia è interpretata in modi diversi dai suoi colleghi, dal narratore e da Belluca stesso.

Infatti mentre i primi si fermano ad un'analisi superficiale in cui prendono semplicemente atto della sua improvvisa stranezza, che lo rende irriconoscibile rispetto al Belluca che erano soliti conoscere, e per questo si spaventano e, come per quietare i loro animi turbati, lo definiscono pazzo.

Più profonda è invece l'interpretazione della voce narrante che accogli "in silenzio la notizia" di tale pazzia e ne dà una spiegazione estremamente razionale e logica; egli infatti sostiene che tale evento era prevedibile considerando la vita "impossibile" che Belluca conduceva, una vita così impossibile tante che un evento comunissimo era in grado di dar luogo in lui ad effetti tanto straordinari quanto incomprensibili.

Diversa è infine la spiegazione che Belluca stesso dà della sua pazzia: egli non si definisce pazzo ma più semplicemente "ebbro di vita", sconvolto da quel mondo dimenticato e che ora gli era entrato dentro tutto in una sola volta.


C'è qualcuno che ride:

La situazione descritta nella novella è apparentemente normale: alcuni notabili si riuniscono in una città di cui non è specificato il nome. La riunione assume la fisionomia di una festa di carnevale e nessuno dei presenti è a conoscenza della ragione per cui è stato invitato ( l'invito "è sonato in città come l'appello a un'adunata").

Le persone hanno quindi un atteggiamento di perplessità e non  sanno in che modo agire e cosa fare; tutti temono di domandare la ragione di questa adunanza per paura che il motivo sia una "grave decisione". Si diffonde un clima di inquietudine e non sembra strano che qualcuno dei presenti scoppi in una risata, anche se questo può essere interpretato come uno sdegno e un'offesa personale.

Questo riso proviene da una ragazza giovane, poi dall'uomo che la sta inseguendo, successivamente si individua una terza persona "un ometto elasticocce va ballonzolando" padre dei due ragazzi.

La folla rimane stupita perché non riesce a comprendere il motivo della risata dei tre personaggi. Alla fine della novella è invece la massa stessa di gente che si concede una ilarità furibonda; quindi padre e li, sentendosi incompresi escono dalla stanza e se ne vanno.


La trappola:

La novella si presenta come un monologo di un individuo anonimo che confessa ad un imprecisato interlocutore le proprie ossessioni.

Egli inizialmente dichiara che il buoi e il silenzio atterriscono l'uomo, il quale in ogni istante della sua vita cerca disperatamente la luce del sole. La realtà è fasulla ed artificiale, così come gli oggetti che la compongono. Lo specchio di una stanza è come se incarnasse la verità cruenta; il protagonista ha cercato infatti di riuscire a guardare in questo specchio una sua immagine diversa da quella reale di illudersi "di non essere sempre quell'uno".

Egli quindi ha avuto la tentazione di truccarsi come "un attore di teatro", ma riflettendo è giunto alla conclusione che anche indossando una maschera il suo corpo sarebbe comunque rimasto quello di sempre.

Costui si sente come dentro una trappola della morte, una trappola cioè che lo ha staccato "dal flusso della vita"; vorrebbe riuscire a fare qualcosa di grandioso prima di morire e per dare uno sfogo alla rabbia che questa sua condizione ha generato.

Odia il genere femminile proprio perché ritiene che esso costituisca appunto una trappola per tutti gli uomini, e stabilisce questo anche in base alla propria esperienza personale; dichiara infatti di essersi invaghito di una donna sposata con la quale ha avuto un rapporto sessuale; da questa unione nascerà un lio che però il protagonista non vedrà mai ("Io non vedrò il mio rimorso. Non lo vedrò").

La novella si chiude con la tematica della luce, il protagonista cioè invita il suo interlocutore ad andare fuori perché ritiene che abbia bisogno di rivedere il sole.


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