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MELODRAMMA E METASTASIO



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MELODRAMMA E METASTASIO


Durante tutto il Cinquecento è pratica assai diffusa nelle corti quella di "cantare alla viola per recitare", come ricorda lo stesso Baldassar Castiglione nel suo Libro del Cortegiano: alcune testimonianze eloquenti sono le raccolte di frottole per voce e liuto di Ottaviano Petrucci, i madrigali di Verdelot adattati da Adrian Willaert, la diffusione di certe melodie (come la romanesca e il Ruggero) che servivano per la lettura cantata dei poemi epici, in particolare dell'Orlando furioso. Verso la metà del secolo Alfonso della Viola (1508 ca.-l570), maestro di cappella nella Ferrara di Ercole II d'Este, compose le musiche per molte delle rappresentazioni teatrali che si tenevano a corte: la tragedia Orbecche (1541) di Giovambattista Giraldi detto Cinzio, la favola pastorale Il sacrificio (1555) di Agostino Beccari, l'Aretusa (1563) di Alberto Lollio, Lo sfortunato di Agostino Argenti (1567).

Un caso a parte è rappresentato dagli intermedi, che erano episodi di intrattenimento musicale e scenico posti tra un atto e l'altro di tragedie, commedie, favole pastorali: particolarmente famosi per il fasto delle scene furono quelli composti nella Firenze granducale per le nozze dei vari membri della famiglia Medici. In occasione del matrimonio del granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena (1589), Emilio de' Cavalieri si occupa dell'allestimento di numerosi intermedi rappresentati fra gli atti della commedia La pellegrina di Girolamo Barbagli, alla quale collaborarono per le musiche Cristofano Malvezzi, Giulio Caccini, Jacopo Peri.



All'inizio del XVII secolo il melodramma aveva già raggiunto risultati prestigiosi: dopo le prime esperienze della Camerata de' Bardi, si erano avuti autori di assoluto rilievo come Ottavio Rinuccini in campo poetico e Claudio Monteverdi in quello musicale. Nel corso del Seicento, tuttavia, il "teatro per musica" aveva subìto un'involuzione che aveva condotto i testi a perdere gran parte della loro importanza a favore dei virtuosismi dei cantanti e della spettacolarità della messa in scena: la parola, in sostanza, si era ridotta a un pretesto, a un puro supporto funzionale a cui non si richiedevano particolari qualità di stile e tanto meno di creatività. I librettisti, quindi, privati di un ruolo autonomo, non si preoccupavano più della logica, dell'originalità e neanche del buongusto dei testi, che spesso scadevano a livello di farsa buffonesca e ripetitiva, erano sciatti sul piano linguistico e incoerenti su quello dell'intreccio. A questa situazione aveva già tentato di porre rimedio il veneziano Apostolo Zeno, ma il vero riformatore del melodramma fu Pietro Metastasio: alla sua istintiva capacità di associare armoniosamente musica e poesia, alla finezza del suo gusto letterario e al suo sicuro talento teatrale si deve il ritorno del melodramma alla dignità e al decoro che i suoi gloriosi trascorsi esigevano. Il Metastasio intervenne in primo luogo a semplificare e razionalizzare le trame, recuperando un criterio di verosimiglianza e riconsegnando al testo un ruolo centrale e non subalterno rispetto alla musica e alle scenografie. A questo scopo, egli trasse ispirazione dal mondo eroico e dai miti dell'antichità, delineando psicologie essenziali ma ben rilevate, elaborando trame semplici e in grado di coinvolgere immediatamente il pubblico, attenuando la rigidità delle unità aristoteliche di luogo, di tempo e di azione, e introducendo spesso un "lieto fine" in assoluta violazione della tradizione tragica. Sotto il profilo stilistico, poi, la lingua metastasiana offre uno straordinario esempio di fluidità e di armonia, tanto che il suo trasformarsi in musica giunge come un esito del tutto naturale. Queste caratteristiche riconducono al gusto per la semplicità e per l'equilibrio che fu proprio dell'Arcadia, con un'accentuazione in senso razionalistico che deriva probabilmente dall'influenza esercitata sul Metastasio da uno dei suoi principali maestri, il filosofo sectiunesiano Gregorio Caloprese. Oltre che al melodramma, il Metastasio si dedicò alla poesia lirica, in cui i caratteri arcadici emergono con maggiore evidenza: la dolcezza, la musicalità e la scorrevolezza del suo verseggiare attenuano alcune punte di sofferenza che ogni tanto sembrano voler affiorare, subito neutralizzate da quel tono medio, fra il disincantato e il malinconico, in cui la poetica dell'Arcadia seppe esprimere i suoi esiti più convincenti.








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