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PLAUTO - Personaggi



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PLAUTO



Personaggi. I personaggi di P. non sono dei caratteri individuali ma delle maschere fisse, dei 'tipi', e per questo già noti al pubblico nel momento stesso in cui si presentano sulla scena: anche i loro nomi propri servono esclusivamente a ribadirne la fissità del ruolo scenico.

I personaggi maggiori. Questi i più importanti:

*L' 'adulescens': il giovane innamorato è sempre languido e sospiroso, perduto in un amore che lo travolge e lo paralizza, incapace di superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri 'alti' e patetici della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici, voluti dall'autore. P. non prende mai sul serio la sua storia né i suoi lamenti d'amore: lo guarda divertito, costringendolo spesso a subire i lazzi spiritosi del servus.



*Il 'senex': il vecchio viene caratterizzato in modi diversi: è il padre severo e perennemente beffato, che cerca inutilmente di impedire i costosi amori degli adulescentes (come nella 'Mostellaria'); ma talvolta è anche un ridicolo e grottesco concorrente dei li nella battaglia, senza esclusione di colpi, per la conquista della donna desiderata (come nell' 'Asinaria' o nella 'Casina'). Nelle vesti dell'amico o del vicino, ha a disposizione un ricco ventaglio di funzioni drammatiche: può ad esempio essere alleato dei giovani (come nel 'Miles gloriosus') oppure fornire un burlesco doppio del senex innamorato (come nel 'Mercator').

*La 'meretrix': minore importanza rivestono i ruoli femminili, anche perché non è infrequente che la ragazza desiderata non compaia mai in scena (come nella 'Casina') o svolga una particina marginale. Il ruolo femminile più importante è proprio quello della 'cortigiana', una ura sconosciuta in Roma prima che nascesse la palliata, e che era invece consueta nel mondo greco: nella 'palliata' plautina possono essere sia libere che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più grande desiderio è quello di essere riscattate dall'amante. Naturalmente, l'espediente dell' 'agnizione' (per cui, vd oltre) può consentire loro il felice passaggio dalla condizione di amanti a quella di spose. Alcune di loro, poi, sono abilissime e sfrontate (come nel 'Truculentus'), altre dolci e sensibili (ed è questo il caso più frequente).

*La 'matrona': accanto alla ura dell'etera, risalta per contrasto quella della matrona, madre dell'adulescens e sposa del senex, quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto se 'dotata' (cioè provvista di dote). Accade che spesso il senex sia vittima delle sue ire furibonde (come nell' 'Asinaria'). Non manca qualche eccezione: la nobile ura di Alcmena nell' 'Amphitruo' o le due spose fedeli nello 'Stichus'.

*Il 'parasitus': presente in ben nove commedie di P., il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi della 'palliata', caratterizzato dalla fame insaziabile e dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per il disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante e vitale nella sua mai placata ingordigia, il parassita non lesina lodi iperboliche e servizi di ogni genere nei confronti dei suoi benefattori, che naturalmente sono anche vittime delle sue sfavillanti battute, come accade nella famosa scena d'esordio del 'Miles gloriosus'.

*Il 'miles gloriosus': come la cortigiana, anche il miles, il soldato mercenario che si mette al servizio di chi lo a meglio, era una ura consueta nei regni ellenistici ma sconosciuta in Roma, dove all'epoca di P. il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del 'gloriosus', cioè del millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai compiute, spacciandosi per giunta per gran seduttore: è insomma un conquistatore immaginario di nemici e di donne, prontamente smentito dagli avvenimenti della commedia. E' probabile che i Romani, ridendo di questi milites ellenistici, si sentissero - per contrasto - orgogliosi del proprio valore militare.

*Il 'leno': anche il lenone, il commerciante di schiave e sfruttatore di prostitute, era una ura sconosciuta presso i Romani. P. ne fa la ura più odiosa, anche perché di norma costituisce il maggior ostacolo al compimento dei desideri del giovane innamorato. Ma va subito aggiunto che nel teatro plautino non esistono personaggi buoni o cattivi, perché non esiste una partecipazione e un coinvolgimento emotivo nelle vicende, già scontate fin dall'inizio: l'odiosità, come l'avidità, sono solo i caratteri fissi che definiscono la maschera del lenone, irrevocabilmente destinato alla sconfitta e alla beffa. Colpisce molto di più, invece, la sua formidabile vitalità, la sua capacità di esser superiore a ogni giudizio morale, come rivela la bellissima gara di insulti che adulescens e servus ingaggiano contro di lui dello 'Pseudolus'.

*Il 'servus': è la ura più grandiosa, il vero motore delle fabulae plautine, personaggio sfrontato e geniale, spavaldo orditore di incredibili inganni a favore dell'adulescens e contro l'arcigna taccagneria dei senes o l'avidità dei formidabili lenoni. Senza di lui, non ci sarebbe storia; la storia, anzi, è quasi sempre il risultato delle sue invenzioni e delle sue creazioni: P. lo definisce in vari luoghi come un 'architetto' (Palestrione, nel 'Miles Gloriosus'), un 'poeta' (Pseudolo, nello 'Pseudolus'), un 'generale' (ancora in riferimento a Pseudolo e Palestrione), finendo palesemente per identificarsi nella sua ura.

La sua ingegnosità è accomnata da una lucida visione degli eventi e da un'ironia dissacrante, che non risparmia niente e nessuno, nemmeno l'amato padroncino per il quale il servo rischia ogni volta le ire del vecchio padrone: la sua forza è la giocosità creativa delle sue invenzioni, la gratuità un po' folle e anarchica delle sue scommesse, naturalmente sempre vinte; su di lui incombe perennemente la minaccia delle sferze e delle catene, gli strumenti di punizione dello schiavo, a cui tuttavia il servo plautino risponde con la forza superiore dei suoi geniali raggiri. Fiero e orgoglioso delle proprie mosse, si autoglorifica spesso, rivolgendosi al pubblico nella posa plateale di chi ambisce a un applauso (un tipico esempio, questo, della tecnica 'metateatrale' del nostro autore, per cui vd. oltre).



P. ce ne dà anche un ritratto fisico, che corrisponde convenzionalmente alla sua maschera: 'rosso di pelo, panciuto, gambe grosse, pelle nerastra, una grande testa, occhi vivaci, rubicondo in faccia, piedi enormi' ('Pseudolus', 1218-l220). La deformità mostruosa del fisico sembra una sfida al destino, e un segno della vitalità trionfante del teatro plautino, che rappresenta una sorta di universo rovesciato, nel quale i servi trionfano sui padroni e i li sui padri, sovvertendo ogni codice sociale e facendosi beffe di ogni legge. Aristotele aveva scritto che gli schiavi sono più vicini agli animali che agli uomini. Il servo plautino, mostruoso nel corpo, dirompente nel linguaggio (spesso osceno e volgare), spudorato negli atteggiamenti, animalesco nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più intelligente, e risulta perciò anche il più simpatico, quello per il quale il pubblico 'tifa' fin dall'inizio della rappresentazione.

Il ruolo del 'personaggio' Fortuna. E' importante, però, ricordare che niente riuscirebbe al servo, o alla sua astuzia, senza l'ausilio determinante della 'fortuna' (Tyche), che ne contempera - e di molto - il merito del successo, contribuendo - col suo 'valore stabilizzante' - a 'rimettere le cose a posto'.

I personaggi minori. Non mancano, accanto ai ruoli principali, altre ura occasionali: la ruffiana ('lena'), una sorta di doppio femminile del 'leno', per lo più rappresentata come vecchia e beona; l'ancella ('ancilla'), servetta al seguito della 'meretrix' (più spesso) o della matrona, quasi sempre complice negli affari delle sue padrone; il 'cocus', il più delle volte ingaggiato per luculliani banchetti; il 'puer', lo schiavetto generalmente a ruoli di contorno; l'usuraio ('fenerator'), sempre pronto ad entrare in scena nei momenti più inopportuni per riscuotere del denaro, naturalmente prestato per riscattare una cortigiana; la citarista ('fidicina'); il 'medicus'.

Considerazioni sulla poetica e sullo stile.

La particolarità degl'intrecci. Come visto, gl'intrecci delle commedie plautine derivano da originali greci, sono abbastanza complicati, ma altrettanto ripetitivi e caratterizzati da elementi convenzionali; 16 su 20 presentano infatti la stessa situazione di base: l'amore ostacolato di un adulescens per una giovane cortigiana: l'ostacolo è la mancanza di denaro (l'adulescens dipende economicamente dal padre) per ottenerne i favori o per 'riscattarla'. Può essere innamorato anche di una fanciulla onesta ma senza dote, e, in questo caso, gli ostacoli sono gli impedimenti sociali che ne derivano. L'adulescens lotta (ancora) per far trionfare l'amore contro qualche antagonista, il padre, il lenone o il miles gloriosus, il mercenario che compra la cortigiana. In questa lotta, egli viene aiutato da un amico, da un vecchio comprensivo o da un parassita, ma, soprattutto dal 'servus callidus' (scaltro). Spesso la commedia si risolve in una serie di inganni organizzati da quest'ultimo per ingannare il padrone e carpirgli il denaro necessario all'adulescens. Ogni commedia termina con un lieto fine: i giovani vengono perdonati dai padri, che si riconciliano anche con i servi; i danni e le beffe spettano ai personaggi esterni alla famiglia, quali il miles e il lenone. Spesso il lieto fine coincide con il matrimonio, che è reso possibile dal 'topos' dell' 'agnizione' o 'riconoscimento': si scopre infine che la ragazza era nata libera da genitori benestanti, ma esposta o rapita dai pirati.

Il 'rimettere le cose a posto' e lo 'straniamento'. Come si vede, in generale lo scioglimento tipico consiste in un 'rimettere le cose a posto'; ed è chiaro che il pubblico trova in questo movimento dal disordine all'ordine un particolare piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo in scena - al di là degli estrinseci dettagli esotici, che garantiscano un adeguato 'straniamento' (P. ci tiene a sottolineare che ciò che avviene sulla scena è solo finzione, solo gioco, e vuole scongiurare il più possibile il 'transfert' degli spettatori, ricorrendo nella 'Casina' o nel 'Mercator' o altrove ad opportuni esempi di 'metateatro') - è perfettamente compatibile con l'esperienza problematica e quotidiana della Roma del tempo. Tuttavia, ed è importante, sia chiaro che (come accennato) nessuna pretesa insegnativa o moraleggiante governa queste vicende tipiche.



I riferimenti alla romanità. Frequenti, di contro, sono i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es., nelle similitudini e nelle metafore di tipo militare: il servo presenta spesso la sua lotta contro i suddetti 'antagonisti' come una battaglia o una guerra in cui egli fa parte del generale vittorioso. Ciò non stupisce in testi scritti in un periodo storico in cui Roma passava vittoriosamente da una guerra all'altra, anche se, in verità, non c'è traccia dei grandi avvenimenti dell'epoca: Canne, Zama, le guerre contro la Macedonia, la Siria, l'Etolia. C'è chi ha voluto vedere qualche allusione storica in alcuni passi, ma si tratta, comunque, di accenni vaghi e velati, tanto che si può dire che P. si mantenne sostanzialmente lontano dai grandi affari di stato, e cercò altrove motivi ed ispirazione per le sue commedie.

Il rapporto coi modelli e la 'contaminatio'. Non ci sono pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie plautine, per cui non possiamo valutare l'indipendenza, l'originalità di P. rispetto ai modelli greci.

Tuttavia, una delle differenze fondamentali che comunque possiamo cogliere con la commedia di Menandro (ma modelli altrettanto validi sono Difilo, Filemone, Demofilo), per quanto concerne le trame, è che, mentre quello cerca la coerenza e l'organicità degli intrecci, P. sacrifica al contrario spesso le esigenze di verosimiglianza e di logica per il suo intento di trarre effetti comici dalla singola scena. Altra differenza è che il teatro di Menandro è un teatro grosso modo antropocentrico e 'psicologico', mentre P. è portato ad accentuare i tratti caricaturali dei personaggi tipici, ricavandone maschere grottesche. Lo stesso 'amore' non è visto come sentimento autentico, bensì come mera caricatura. Si parla, anche, di 'rovesciamento burlesco della realtà', in una visione quasi carnascialesca: alla fine della commedia, sono i giovani a trionfare sui vecchi, le mogli sui mariti; ma con ciò, ancora, P. non vuole mettere in discussione i rapporti vigenti all'interno della società, vuole solo, semplicemente, far divertire.

Nei prologhi delle sue commedie, P., alludendo alla sua attività, parla poi di 'vertere barbare' ('tradurre dal greco al latino'): infatti, P. fa suo il punto di vista dei greci, per i quali ogni lingua non greca è barbara. Le commedie plautine, tuttavia, come si può arguire, non sono semplici trasposizioni dal greco, ma libere interpretazioni di quei modelli: egli, infatti, ricorre alla cosiddetta 'contaminatio', inserisce cioè in una commedia derivata da un originale greco una o più scene, uno o più personaggi attinti da un'altra commedia sempre greca, mescolando insomma l'originale con altre commedie [secondo alcuni critici, p. addirittura 'contaminava' se stesso, ovvero ripeteva, con modificazioni e varianti, alcuni motivi dei suoi stessi drammi, che a lui maggiormente piacevano e il cui successo era già stato da lui sperimentato].

La funzione della musica. Altra prova dell'originalità di P., è il fatto che egli dà molto spazio alla musica e al canto (circa i due terzi del numero complessivo dei versi prevedevano il suono del flauto), mentre nelle commedie di Menandro sono molto scarse le parti composte in metri lunghi o in metri lirici. In P. troviamo i 'cantica', metri lirici cantati e altre parti in versi o metri lunghi recitati e accomnati dal flauto. Nella metrica, insomma, P. è un maestro: egli foggia, seguendo le necessità della lingua latina, i già noti senari giambici e versi quadrati in varietà di forme, peraltro sottomesse a sottili regole. La mescolanza dei metri si precisa nelle due forme del 'deverbium' (parti recitate senza accomnamento) e, come detto, del 'canticum' (recitativo accomnato), alternate con estrema libertà. Ciò significa che P. riscriveva parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione. Particolarmente rilevante, così, è la presenza delle parti liriche e polimetriche, dai ritmi assai variati, mossi e vivaci: esse occupano complessivamente circa 3000 versi, cioè un settimo del totale, e avevano la funzione di dar rilievo, con il contributo determinante del ritmo e della musica, ai momenti di più forte concitazione e di più intensa emotività. E' probabile, comunque, che il potenziamento dell'elemento lirico-musicale sia stato stimolato dalla consuetudine e dalla predilezione del pubblico romano per i tipi di spettacolo in cui la musica, il canto e la danza avevano un ruolo fondamentale. [A tal proposito, invito ad integrare opportunamente questa parte con le considerazioni generali relative al teatro romano, che si trovano nell'apposito modulo].



L'atteggiamento 'antigreco'. Un altro aspetto del teatro plautino è l'atteggiamento nei confronti dei greci: è significativo, a riguardo, un passo del 'Curculio', in cui l'omonimo protagonista, egli stesso greco, pur parla male dei Greci: sta attraversando una via e gli danno fastidio questi Greci che hanno invaso le vie della città e vanno in giro col capo coperto, carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le osterie in cerca di chi possa offrire loro in bicchiere di vino. È chiaro che P. sfrutta a fini comici quel sentimento di ostilità nei confronti dei Greci, tipica di una parte della società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. P. conia addirittura un verbo, 'pergraecari', che significa più o meno 'gozzovigliare alla greca', vivere in modo dissoluto, proprio come farebbero i Greci. Alcuni studiosi hanno inserito per questo motivo il teatro plautino nell'entourage catoniano, ma questa posizione pare però poco sostenibile, dato che il nostro, come visto, vuole solo 'risum movere', e non schierarsi politicamente, rinunciando a trasmettere qualsiasi tipo di messaggio.

L'essenza definitiva della comicità plautina. In ultima analisi, volendo azzardare una schematizzazione, si può affermare che la comicità plautina può essere di 3 generi:




1. di situazione: basata, cioè, sugli equivoci e sugli scambi di persona, con successiva 'agnizione', che porta al lieto fine;

2. di carattere: basata sull'accentuazione caricaturale e macchiettistica dei difetti dei protagonisti;

3. bassa: basata su battute volgari e sull'esasperazione di sentimenti naturali.



E' ovvio che le commedie, che rispettano tutt'e tre le condizioni sovresposte, risultano essere quelle meglio riuscite e più gradite al pubblico: e, quindi, in prima linea, l''Amphitruo' e lo 'Pseudolus'.

La lingua. Come visto, la tecnica linguistica, che si piega genialmente in battute e motteggi, riveste un ruolo fondamentale nell'economia della comicità plautina: l'autore la riempie spesso di espressioni greche o grecizzanti, quando addirittura non rinuncia, come accennato in 'Poenulus', a servirsi di idiomi perlomeno inusitati, come il punico. A ciò, si aggiungano parole mezzo latine e mezzo greche, le quali dovevano suonare ridicole alle orecchie del pubblico (ad es. 'pultifagus' = 'mangiapolenta'), grecismi con terminazione latina ('atticissare' = 'parlare greco'), parole formate da più radici ('turpilucricupidus' = 'desideroso di turpi guadagni'), oltre a neologismi veri e propri ('dentifrangibula', riferito ai pugni che 'rompono i denti'; 'emissicius', che si manda alla scoperta di qualcosa e perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi iperbolici e ridicoli ('ipsissimus', stessissimo; 'occisissimus', uccisissimo). Il sermo dei personaggi plautini è inoltre arricchito da fantasmagorici giochi di parole, identificazioni scherzose (ad es. 'Ma è forse fumo questa ragazza che stai abbracciando?' 'Perché mai?' 'Perché ti stanno lacrimando gli occhi!' Asin.619), espressioni alle quali si aggiungono doppi sensi e, su un piano più propriamente stilistico, da allitterazioni, anafore ed ogni sorta di ura retorica.

Malgrado queste caratteristiche, tuttavia, la lingua di P., eccezion fatta naturalmente di alcuni tratti particolari (per es. dei discorsi degli schiavi), non è quella del volgo e del popolino, ma risente di una certa raffinatezza, che derivava dalle discussioni del Senato, dalle assemblee del popolo e dei tribunali, e per la quale essa s'innalzava sul livello della parlata popolare, pur conservando di questa la schiettezza e la spontaneità: una lingua, insomma, non propriamente popolare, ma che il popolo altresì capisce ed apprezza.







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