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Tempi difficili



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Tempi difficili



LIBRO PRIMO

. LA SEMINA

I

. L'UNICA COSA NECESSARIA

«Ora quello che voglio sono Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i Fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient'altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei li, con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore!».



La scena si svolgeva in un'aula spoglia, anonima, monotona, lugubre; per dare enfasi a queste osservazioni l'oratore sottolineava ogni fase, tracciando con l'indice quadrato una linea sulla manica del maestro. A dare ancora più enfasi alle parole dell'oratore c'erano il muro quadrato della sua fronte con le sopracciglia per base e, sotto, gli occhi, comodamente annidati in due oscure e ombrose caverne scavate nel muro stesso. A dare ancora più enfasi c'era la voce dell'oratore, inflessibile, secca, autoritaria. A dare ancora più enfasi c'erano i capelli dell'oratore, che crescevano ispidi a corona intorno alla testa, calva sulla sommità, simili a una foresta di pini destinati a proteggere dal vento quella lucida superficie, tutta bitorzoli, che pareva la crosta di una torta di prugne, come se nel cranio non ci fosse abbastanza spazio per contenere tutti i solidi fatti che vi erano pigiati. L'atteggiamento deciso dell'oratore, l'abito quadrato, le gambe quadrate, le spalle quadrate, perfino la cravatta, annodata per serrarlo alla gola con una stretta implabile - anche questa un fatto - tutto serviva a dare ancora più vigore all'enfasi.

«Nella vita servono fatti, signore, soltanto Fatti!».

L'oratore, il maestro e la terza persona adulta presente indietreggiarono un poco e, facendo girare tutto intorno lo sguardo, scrutarono i piccoli vasi disposti qua e là, in ordine, pronti a ingollare galloni e galloni di fatti, che li avrebbero colmati fino all'orlo.

II

. LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Thomas Gradgrind, signore. Uomo concreto. Un uomo di fatti e calcoli. Un uomo che parte dal principio che due più due fa quattro e basta; un uomo che non si lascia convincere a concedere niente di più. Thomas Gradgrind, signore - decisamente Thomas - Thomas Gradgrind. Regolo, bilancino, tavola pitagorica sempre in tasca, signore, sempre pronto a pesare e a misurare ogni particella di natura umana e a dire esattamente a quanto ammonta il tutto. Mera questione di cifre, semplice operazione aritmetica. Potreste sperare di far credere qualche sciocchezza a George Gradgrind, ad Augustus Gradgrind, a John Gradgrind, a Joseph Gradgrind (tutti personaggi ipotetici, non reali), ma non Thomas Gradgrind, no, signore!

Era così che mentalmente il signor Gradgrind presentava se stesso alla sua cerchia privata di conoscenze e al pubblico in generale. Era così, sostituendo è ovvio alla parola signore le parole ragazzi e ragazze che Thomas Gradgrind ora presentava Thomas Gradgrind ai piccoli recipienti che aveva dinnanzi e che bisognava stipare di fatti.

Nel fissarli con sguardo fiammeggiante dal fondo delle caverne già descritte, sembrava una specie di cannone che, carico di fatti fino all'imboccatura, si preparasse a scagliarli d'un sol colpo al di là delle regioni dell'infanzia. Faceva anche venire in mente un apparecchio galvanico, pronto a sostituire con un cupo meccanismo le tenere fantasie giovanili che andavano spazzate via.

«Ragazza numero venti», disse Gradgrind puntando quadratamente l'indice quadrato, «non conosco quella ragazza. Chi è?».

«Sissy Jupe, signore», spiegò il numero venti arrossendo, alzandosi e facendo un inchino.

«Sissy non è un nome», osservò Gradgrind. «Non farti chiamare Sissy. Fatti chiamare Cecilia».

«È mio padre che mi chiama Sissy, signore», rispose la ragazzina con un tremito nella voce, facendo un altro inchino.

«Non ha alcun motivo per farlo. Diglielo che non deve. Cecilia Jupe. Vediamo: cosa fa tuo padre?».

«Lavora con i cavalli in un circo, signore, se lo consentite».

Gradgrind aggrottò la fronte e, con la mano fece un gesto come per scartare quella discutibile occupazione.

«Non ne vogliamo sapere di cose del genere qui; non devi dirci queste cose. Tuo padre doma i cavalli, vero?».

«Sì, signore, se lo consentite: quando ce n'è qualcuno da domare, lo domano nell'arena del circo».

«Non nominare l'arena del circo qui. Bene, allora devi dire che tuo padre fa il domatore di cavalli. Cura anche i cavalli ammalati, vero?».

«Oh sì, signore».

«Benissimo! Allora è veterinario, maniscalco e domatore di cavalli. Dammi la definizione di cavallo».

(A quella imperiosa richiesta, Sissy Jupe si sentì terribilmente allarmata.)

«Ragazza numero venti incapace di definire il cavallo!» sentenziò Gradgrind a edificazione generale dei piccoli recipienti.

Ragazza numero venti non possiede fatti su uno degli animali più comuni! La definizione di cavallo di qualche ragazzo ora. La tua, Bitzer».

Il dito quadrato si mosse qua e là per puntarsi improvvisamente su Bitzer, forse perché costui sedeva, per caso, sulla traettoria dello stesso raggio di sole che, filtrando attraverso una delle nude finestre della stanza dalle pareti bianchissime, illuminava Sissy. Ragazzi e ragazze erano disposti in due gruppi compatti, divisi al centro da uno stretto passaggio; Sissy, seduta all'angolo di una fila al sole, stava all'inizio del raggio di cui Bitzer, il quale si trovava all'angolo della fila sull'altro lato, qualche banco più avanti, riceveva la fine. Ma, mentre i capelli e gli occhi della ragazza erano così neri che al sole si accendevano di colore ancora più vivo e lucente, Bitzer aveva occhi e capelli così chiari che, illuminati da quello stesso raggio, parevano sbiadirsi del tutto. I freddi occhi non sarebbero sembrati neppure occhi, se non fosse stato per le ciglia cortissime che, per costrasto con qualcosa che era ancor più scialbo, ne mettevano in evidenza la forma. I capelli tagliati corti avrebbero potuto benissimo essere la semplice continuazione delle lentiggini che gli punteggiavano la fronte e il resto del volto; la pelle, esangue e diafana in modo innaturale dava l'impressione che, se si fosse tagliato, ne sarebbe sprizzato sangue bianco.

«Bitzer», disse Thomas Gradgrind, «dai tu la definizione di cavallo».

«Quadrupede. Erbivoro. Quaranta denti, cioè ventiquattro molari, quattro canini e dodici incisivi. La muta avviene in primavera; nei paesi umidi cambia anche le unghie. Zoccoli duri che però richiedono la ferratura. Età riconoscibile da segni nella bocca». Così (e molto di più) Bitzer.

«Ora, ragazza numero venti, sa che cos'è un cavallo», disse Gradgrind.

Sissy Jupe fece un altro inchino e, se avesse potuto diventare più rossa, sarebbe arrossita ancora di più. Bitzer, dopo un rapido battito di palpebre rivolto a Thomas Gradgrind, con la luce che, posandosi sulle ciglia tremule, le faceva assomigliare alle antenne di un insetto laborioso, tornò a sedersi premendo le mani sulla fronte coperta di lentiggini.

Si fece allora avanti il terzo signore. Era un uomo abilissimo nel semplificare e banalizzare; un funzionario del governo, a suo modo (e anche a quello di molti altri) un pugile di professione, sempre in allenamento, sempre pronto ad ammannire agli altri un suo sistema; sempre a pontificare dal podio del suo piccolo incarico ufficiale, sempre pronto a combattere tutta quanta l'Inghilterra. Aveva un vero genio per venire al sodo, in qualsiasi luogo su qualsiasi argomento e, sempre usando una terminologia pugilistica, si dimostrava un osso duro. In ogni dibattito si buttava a capofitto: colpiva col destro il primo argomento che gli capitava sotto tiro, poi continuava con il sinistro, si fermava, scartava, bloccava, metteva alle corde l'avversario (combatteva sempre tutta quanta l'Inghilterra) e gli piombava addosso con tutto il suo peso. Finiva sempre per mettere fuori combattimento il buon senso e per cancellare nello sfortunato avversario la percezione del tempo.

Dalle massime autorità aveva avuto l'incarico di preparare l'avvento del Millennio della burocrazia, quando sulla terra avrebbero regnato soltanto funzionari governativi.

«Molto bene», disse questo gentiluomo con un sorriso pieno di vigore, incrociando la braccia. «Ecco un cavallo. Ora, ragazzi e ragazze, voglio chiedervi una cosa. Tappezzereste una camera con ure di cavalli?».

Dopo un attimo di silenzio, una metà dei ragazzi rispose in coro: «Sì, signore!»; al che l'altra metà, leggendo sul volto del gentiluomo che il sì non andava bene, gridò in coro: «No, signore!», come è consuetudine in simili circostanze.

«No, naturalmente no. E perché no?».

Un attimo di silenzio. Un ragazzo grosso e tardo, che respirava con l'affanno, si arrischiò a rispondere che a lui non andava una camera tappezzata di carta perché preferiva l'intonaco.

«Devi tapezzarla», ribatté il gentiluomo con un certo calore.

«La tappezzeria ci deve essere, ti piaccia o non ti piaccia», confermò Thomas Gradgrind. «Non venirmi a raccontare che non la tappezzeresti. Cosa vuol dire che non vuoi tappezzarla, ragazzo mio?».

«Ve lo spiegherò il perché», disse il gentiluomo dopo un cupo silenzio. «Vi spiegherò perché non si deve tappezzare una stanza con ure di cavalli. Nella realtà, nei fatti, vi è mai capitato di vedere cavalli che passeggiano su e giù per i muri di una stanza?».

«Sì, signore», da una metà. «No, signore», dall'altra.

«No, naturalmente», continuò il gentiluomo, lanciando uno sguardo indignato alla metà che aveva sbagliato. «Ebbene non dovete vedere in nessun luogo cose che non vedete di fatto; in nessun luogo dovete avere cose che non avete di fatto. Quello che si chiama Gusto è soltanto un sinonimo di Fatto».

Thomas Gradgrind con la testa fece un segno di approvazione.

«Questo è un principio nuovo, una scoperta, una grande scoperta», disse il gentiluomo. «Bene, vi metterò alla prova un'altra volta. Immaginiamo di dover mettere un tappeto in una stanza. Scegliereste un tappeto con un disegno a fiori?».

Poiché cominciava a essere convinzione generale che con quel gentiluomo, il «No, signore» era sempre la risposta esatta, il coro dei no fu clamoroso. Solo pochi distratti risposero sì, e fra questi Sissy Jupe.

«Ragazza numero venti», disse il gentiluomo, sorridendo con la tranquilla consapevolezza di chi sa.

Sissy arrosì e si alzò.

«Così, nella stanza - o in quella di tuo marito, se fossi già donna e avessi marito - metteresti un tappeto con disegni a fiori?», chiese il gentiluomo. «Perché?».

«Se lo consentite, signore, amo molto i fiori», rispose la ragazza.

«E per questo li metteresti sotto i tavoli, le sedie, e lasceresti che la gente li calpestasse con scarpe pesanti?».

«Non ne soffrirebbero, signore, se lo consentite, non si schiaccerebbero né appassirebbero, sarebbero sempre una copia di qualcosa che è bello e gradevole alla vista, e io potrei immaginare».

«Ahi, ahi, ahi! Non devi immaginare!», tuonò il gentiluomo, tutto contento di essere arrivato tanto facilmente al punto. «Ecco! Non devi mai immaginare!».

«Non devi farlo, Cecilia Jupe», ripeté solennemente Thomas Gradgrind. «Non devi mai fare nulla di simile».

«Fatti, fatti, fatti», ribadì il gentiluomo. «Fatti, fatti, fatti», ripetè Thomas Gradgrind.

«Dovete sempre farvi guidare e governare dai fatti», disse il gentiluomo. «Speriamo di avere tra poco un consiglio di fatti, composto da funzionari di fatti, che impongano al popolo di essere un popolo di fatti. Al bando la parola immaginazione! Non dovete averci a che fare. Nessun oggetto d'uso o di ornamento deve contenere nulla che contraddica i fatti. Nei fatti non si cammina sui fiori e così non dovrete comminare sui fiori di un tappeto; non si vedono uccelli esotici o farfalle appollaiarsi o posarsi sui piatti, quindi non vi sarà consentito di disegnare sul vasellame uccelli e farfalle. Non ci sono quadrupedi che passeggiano su e giù per le pareti, perciò non dovrete avere sulle pareti immagini di quadrupedi. Per tutti questi scopi, dovrete usare combinazioni e varianti (nei colori fondamentali) di ure geometriche che si possono provare e dimostrare. Ecco la nuova scoperta. Ecco il fatto. Ecco il gusto».

La ragazza fece una riverenza e si rimise a sedere. Era molto giovane e pareva spaventata dall'aspetto fattuale che il mondo sembrave offrire.

«Signor Gradgrind, se ora il signor M'Choakumchild vuol tenere la prima lezione, sarò lieto, com'è vostro desiderio, di osservare il suo metodo».

Gradgrind si dimostrò molto soddisfatto. «Signor M'Choakumchild, non aspettiamo che voi».

Il signor M'Choakumchild esordì nel migliore dei modi. Era uscito di recente dalla stessa fabbrica che, usando identici metodi e ispirandosi agli stessi principi aveva plasmato, oltre a lui, altri centoquaranta maestri, come se si fosse trattato di gambe di pianoforte. Aveva superato tutti gli esami possibili e aveva risposto a volumi interi di domande astruse. Ortografia, etimologia, sintassi e prosodia, biografia, astronomia, geografia e cosmografia generale, teoria delle proporzioni, algebra, agrimensura e livellazione, musica vocale e disegno dal vero: aveva tutto sulla punta delle sue dieci gelide dita. Con molta fatica si era fatto strada fino al molto Onorevole Consiglio Privato di sua Maestà, sezione B, e aveva colto il fiore dai rami più alti delle scienze fisiche e matematiche, del francese e del tedesco, del latino e del greco. Sapeva tutto su tutti i bacini idrici del mondo (qualunque cosa fossero), e tutta la storia di tutti i popoli e tutti i nomi di tutti i fiumi e di tutte le montagne e tutti i prodotti, usi e costumi di tutti i paesi, e tutti i rispettivi confini e la loro posizione in relazione ai trentadue punti della bussola. Ah, perfino eccessivo, questo M'Choakumchild. Se solo avesse imparato un po' di meno, quanto meglio e quante più cose avrebbe insegnato!

In questa lezione preparatoria, M'Choakumchild si mise all'opera come la Morgiana dei quaranta ladroni, scrutando dentro i vasi che gli stavano dinnanzi, osservandoli uno a uno, per vedere quello che contenevano. Dimmi, mio buon M'Choakumchild, sei proprio sicuro che, riempiendoli tutti fino all'orlo con la tua scienza bollente, riscirai a uccidere la furtiva immaginazione che vi si cela, o talvolta solo a mutilarla e surarla

III

. UNO SPIRAGLIO

Il signor Gradgrind se ne tornò a casa felice e contento. La scuola era sua ed era sua precisa intenzione farne una scuola esemplare. Era sua precisa intenzione avere studenti esemplari, proprio com'erano esemplari i piccoli Gradgrind.

C'erano cinque ragazzi Gradgrind, tutti esemplari. Fin dalla più tenera età erano stati imbottiti di nozioni, messi in pista e fatti correre come leprotti. Non appena avevano cominciato a fare i primi passi da soli, eccoli instradati verso le aule scolastiche. Il primo oggetto con cui avevano fatto conoscenza o di cui serbavano memoria era un'enorme lavagna sulla quale un orco arcigno aveva tracciato spaventosi segni bianchi.

Non che i piccoli Gradgrind sapessero alcunché sugli orchi, di cui ignoravano persino il nome. Severamente proibito dai Fatti! Uso questa parola per indicare un mostro, con Dio solo sa quante teste, arroccato in un castello di nozioni, pronto a ingabbiare l'infanzia e a trascinarla negli oscuri covi della statistica.

Nessuno dei piccoli Gradgrind aveva mai visto un volto nella luna; la conoscevano benissimo prima ancora di sapere parlare correttamente. Nessuno dei piccoli Gradgrind aveva imparato l'assurda filastrocca: «Brilla, brilla, piccola stella, in cielo sei tanto bella! Che fai lassù nel cielo blu?». Nessuno dei piccoli Gradgrind si era mai posto questa domanda perché, all'età di cinque anni, tutti avevano già sezionato l'Orsa Maggiore con la bravura di un professor Owen e guidato il Carro con la perizia di un ferroviere. Nessuno dei ragazzi Gradgrind vedendo una mucca in un campo, avrebbe pensato a quella con le corna ricurve - sempre di una filastrocca - che gettò in aria il cane che morse il gatto che ammazzò il ratto che mangiò il malto, o a quell'altra mucca, ancora più famosa, che ingoiò Pollicino: nessuno dei Gradgrind aveva mai sentito parlare di questi famosi personaggi: per loro, le mucche erano soltanto animali quadrupedi, erbivori, ruminanti, forniti di numerosi stomaci.

Il signor Gradgrind s'incamminò verso la sua solida dimora senza fronzoli, chiamata Stone Lodge. Prima di costruirla si era praticamente ritirato dal suo commercio di ferramenta all'ingrosso, e ora si guardava intorno alla ricerca di una buona occasione per fare quadrare qualche conto in Parlamento. Stone Lodge sorgeva in mezzo a una landa, a un paio di miglia da una grande città che in un'accurata guida turistica viene chiamata Coketown.

Un tratto regolare sul volto della camna: ecco Stone Lodge. Non il minimo artificio attenuava o adombrava quell'irriducibile fatto piazzato nel bel mezzo del paesaggio. Una grande casa quadrata, con un imponente colonnato che ne oscurava le principali finestre, come le folte sopracciglia ombreggiavano gli occhi del proprietario. Una casa misurata, calcolata, collaudata. Sei finestre su un lato della porta, sei sull'altro; un totale di dodici su un'ala, di dodici sull'altra; fra le due ali, sommando, ventiquattro in tutto. Un prato, un giardino, un vialetto, tutto preciso come in un manuale di botanica. Gas e aerazione, scarichi e impianto idraulico, tutto di prima qualità. Ganci e putrelle di ferro, tutto ininfiammabile da cima a fondo; montacarchi meccanici per le domestiche con tutte le loro scope e spazzoloni; tutto quello che il cuore può desiderare.

Tutto? Ma sì, credo di sì. I ragazzi Gradgrind avevano anche stipetti per ogni branca della scienza. Avevano uno stipetto conchigliologico e uno stipetto metallurgico e uno stipetto mineralogico; gli esemplari erano disposti in bell'ordine, con tanto di etichetta, i pezzi di pietra e di minerale sembravano essere stati strappati dai blocchi originari da qualche strumento ostico quanto il loro nome. E, per parafrasare l'oziosa filastrocca il Peter Piper, che mai era giunta fino alle loro stanze di bimbi: se gli incontentabili ragazzi Gridgrind avessero ancora desiderato qualche cosa, che cosa potevano, in nome del cielo, desiderare ancora gli incontentabili ragazzi Gradgrind?

Il loro padre camminava: esultante e soddisfatto. A modo suo, era un padre affettuoso, ma senza dubbio (se fosse stato costretto, come Sissy Jupe, a dare una definizione) si sarebbe descritto come un padre «eminentemente pratico». Andava molto orgoglioso di quell'eminentemente pratico, che pareva fatto apposta per lui. Non c'era dibattito o assemblea pubblica a Coketown, nel quale un qualche cittadino non cogliesse l'occasione per alludere all'eminentemente pratico amico Gradgrind. E ciò faceva sempre molto piacere all'amico eminentemente pratico. Sapeva di meritarselo quell'attributo, e la cosa gli andava a genio.

Aveva raggiunto quella sorta di terra di nessuno al limitare della città che, non essendo né città né camna, aveva gli svantaggi di entrambi, quando gli giunse all'orecchio una musica. La banda, al seguito del circo che si era installato in un baraccone di legno, era indaffaratissima a pestare e a battere sugli strumenti. Una bandiera sventolante in cima al tempio annunciava all'umanità che era il Circo Equestre Sleary a sollecitare il contributo della popolazione. Sleary in persona, una grossa statua moderna con una cassetta per il denaro sotto il braccio, sistemato in una nicchia da cattedrale gotica. Avrebbe inaugurato lo spettacolo il numero della signorina Josephine Sleary che, proclamavano gli striscioni lunghi e stretti dei manifesti, si sarebbe esibita in un grazioso esercizio equestre tirolese. Tra gli altri divertimenti, tutti meravigliosi e sempre rigorosamente castigati che bisognava vedere per credere, c'era il numero del signor Jupe che, quel pomeriggio, avrebbe presentato, in una divertente esibizione, Merrylegs, il cane sapiente. Si sarebbe poi esibito lui stesso nella strabiliante impresa di gettare da dietro la schiena, fin sopra la testa, in rapida successione, settantacinque pesi in modo da formare in aria una compatta fontana di ferro, impresa mai tentata prima né in quello né in nessun altro paese, e che aveva strappato applausi così fragorosi a folle entusiaste che non si poteva non ripeterlo. Inoltre, sempre signor Jupe avrebbe intrattenuto il pubblico, nei frequenti intervalli tra un numero e l'altro, con la sua collezione di frizzi e battute shakepeariane. E per finire, li avrebbe estasiati apparendo nei panni di William Button di Tooley Street, nella bellissima e divertentissima ippocommedia Il viaggio del sarto a Brentoford.

Thomas Gradgrind naturalmente non badò a simili sciocchezze e, da uomo pratico qual era, continuò per la sua strada, allontanando dai propri pensieri quei rumorosi insetti e affidandoli mentalmente a un correzionale. Ma una svolta della strada lo portò sul retro del baraccone dove erano radunati molti ragazzi che cercavano furtivamente di spiare le meraviglie nascoste di quel luogo.

Questo lo spinse a fermarsi. «Pensare che questi vagabondi distolgono le giovani canaglie da una scuola esemplare!» disse.

Poiché si frapponeva uno spiazzo coperto di erbacce e di rifiuti tra lui e le giovani canaglie, tolse dalla tasca del panciotto l'occhialetto per vedere se, tra i ragazzi, ce ne fosse qualcuno che conosceva, al quale ordinare di andarsene. Fenomeno quasi incredibile, benché visibilissimo, chi scorse se non la sua metallurgica Louisa che guardava incantata attraverso uno spiraglio nelle tavole e il suo matematico Thomas che, steso per terra riusciva a vedere soltanto uno zoccolo del grazioso spettacolo equestre tirolese. Ammutolito dallo stupore, Gradgrind si diresse verso il luogo dove la sua famiglia si stava disonorando, appoggiò una mano sulla spalla dei due colpevoli e tuonò: «Louisa! Thomas!».

Entrambi si alzarono, rossi e sconcertati; Louisa, tuttavia, fissò il padre con una baldanza maggiore di quella del fratello. Thomas, infatti, non levò lo sguardo, ma si rassegnò a farsi portare a casa come una macchina.

«Oh, stupore, ozio e follia!», tuonò Gradgrind, trascinandoseli via per mano, «che fate qui voi due?».

«Volevamo vedere com'erano», rispose brevemente Louisa.

«Com'erano?».

«Sì, padre».

Avevano entrambi un'espressione imbronciata, soprattutto la ragazza; eppure, attraverso il disasppunto, affiorava, ad animare il suo volto, una luce che non trovava nulla su cui posarsi, un fuoco che non trovava nulla da bruciare, un'immaginazione soffocata che in qualche modo riusciva a mantenersi viva. Non era la vivacità naturale di una giovinezza lieta, ma giuzzi incerti, avidi, dubbiosi, che avevano qualche cosa di doloroso, simili ai mutamenti d'espressione che compaiono sul viso di un cieco, quando a tentoni cerca la strada.

Adesso era, una ragazzina di quindici o sedici anni, ma, un giorno non lontano, sarebbe diventata improvvisamente una donna. A questo pensava il padre, mentre la guardava. Era carina. Avrebbe potuto diventare un tipo caparbio (pensava lui, nel suo modo eminentemente pratico), se non fosse stata educata come si deve.

«Thomas; i fatti parlano chiaro, eppure mi è difficile credere che proprio tu, con la tua educazione e le tue risorse, abbia trascinato tua sorella a uno spettacolo del genere».

«Sono stata io a trascinare lui» si affrettò a dire Louisa. «Io gli ho chiesto di venire».

«Mi spiace sentire una cosa simile. Ne sono davvero addolorato. Non migliora la posizione di Thomas e peggiora la tua, Louisa».

La ragazza fissò il padre, ma non una lacrima le irrigò le guance.

«Tu! Tu e Thomas, voi che potete accedere al mondo della scienza; tu e Thomas che, lo si può ben dire, siete pieni di fatti; tu e Thomas educati all'esattezza matematica; tu e Thomas, in un posto così!», ruggì Gradgrind. «In una posizione così degradante! Ne sono sbalordito!».

«Ero stanca, padre. Sono stanca da molto tempo», disse Louisa.

«Stanca? di che?», chiese il padre stupito.

«Non so di tutto credo».

«Non una parola di più» replicò Gradgrind. «Parli come una bambina piccola; non voglio sentire altro». Riaprì bocca, soltanto dopo aver percorso circa mezzo miglio in silenzio; allora con voce grave esordì: «Che cosa direbbero i tuoi amici, Louisa? Non attribuisci alcun valore alla buona opinione che hanno di te? Che cosa direbbe il signor Bounderby?».

Al sentire questo nome, la lio gli lanciò un'occhiata scrutatrice, significativa per la sua intensità. Gradgrind non se ne accorse, perché, prima ancora che egli tornasse a fissarla, la ragazza aveva abbassato lo sguardo.

«Che cosa direbbe il signor Bounderby?» riprese e, per tutta la strada, fino a quando non giunsero a Stone Lodge, mentre, in preda a profonda indignazione, riconduceva a casa i due furfantelli, continuò a ripetere a intervalli: «Che cosa direbbe il signor Bounderby?», come se il signor Bounderby fosse la signora Grundy.

IV

. IL SIGNOR BOUNDERBY

Se non era una signora Grundy, chi mai era il signor Bounderby? Ebbene, Bounderby era molto vicino al cuore di Gradgrind; vicino quanto può esserlo a un uomo del tutto privo di sentimenti un altro uomo, attrettanto privo di sentimenti, quando fra i due si instaura un rapporto spirituale quale l'amicizia. Così erano vicini, o, se il lettore preferisce, così erano lontani.

Era ricco: banchiere, commerciante, industriale e chissà che altro ancora. Un uomo chiassoso, grande e grosso, con lo sguardo fisso e una risata metallica. Un uomo fatto di una stoffa ruvida e grezza che pareva essere stato stiracchiato per coprire un tale corpaccione. Un uomo con una testa grande e una fronte sporgente, solcata alle tempie da grosse vene turgide, e sul viso una pelle così tesa che sembrava tenergli aperti gli occhi e sollevate le sopracciglia. Un uomo che dava l'impressione di essere gonfiato come un pallone e pronto ad alzarsi in volo. Un uomo che non si stancava mai di tuonare che lui si era fatto da solo; un uomo che si vantava sempre, con il suo vocione strombazzante, che lui, un tempo, era stato povero e ignorante. Un uomo che era uno schiacciasassi dell'umiltà.

Di uno o due anni più giovane del suo amico eminentemente pratico, Bounderby sembrava più vecchio; i suoi quarantasette o quarantotto anni avrebbero potuto essere sette o otto di più, senza per questo destar la meraviglia di nessuno. Aveva pochi capelli. Si poteva pensare che li avesse perduti per il troppo parlare e che quelli rimasti fossero sempre ritti e in disordine perché continuamente squassati dal vento delle sue smargiassate.

Nel salotto buono di Stone Lodge, in piedi davanti al camino, scaldandosi al fuoco, Bounderby faceva alla signora Gradgrind alcune considerazioni sul fatto che quel giorno era il suo compleanno. Si era messo davanti al fuoco un po' perché, malgrado il sole, quello era un freddo pomeriggio di primavera, un po' perché, all'ombra di Stone Lodge, si aggirava sempre lo spettro dell'intonaco umido, un po' perché, in tal modo, si trovava in una posizione dominante dalla quale poteva soggiogare la signora Gradgrind.

«Non avevo scarpe ai piedi. Quanto alle calze, non le conoscevo neppure per nome. La giornata in un fosso, la notte in un porcile: ecco dove ho festeggiato il mio decimo compleanno. Non che il fosso rappresentasse una novità, perché sono nato in un fosso».

La signora Gradgrind, un mucchietto sparuto di scialli, fragile di corpo e di mente, pallida, con gli occhi rossi, da sempre intenta a prendere medicine del tutto prive di effetto, e che, non appena dava segno di essere prossima a tornare in vita, veniva invariabilmente travolta da qualche fatto inoppugnabile catapultatele addosso, la signora Gradgrind espresse la speranza che si trattasse almeno di un fosso asciutto.

«No, bagnato fradicio. Due spanne d'acqua», disse il signor Bounderby.

«Abbastanza da far buscare un raffreddore a un bambino», osservò la signora Gradgrind.

«Raffreddore? Sono nato con un'infiammazione ai polmoni e, credo, un'infiammazione a tutto quanto può infiammarsi», rispose Bounderby. «Per anni sono stato un vero e proprio relitto. Mai visto niente di simile. Ero malaticcio; non facevo che piagnucolare e lamentarmi; per non parlare, poi, di come ero sporco e cencioso: non mi avreste toccato nemmeno con le molle».

La signora Gradgrind gettò un vago sguardo verso le molle come se, nel suo stato di prostrazione mentale, quella fosse l'unica cosa che poteva fare.

«Non so proprio come sia riuscito a spuntarla», proseguì Bounderbury. «Forse perché ero un tipo deciso. Sono sempre stato un tipo deciso, lo sono oggi e lo ero anche allora, probabilmente. Ed eccomi qui, signora Gradgrind; non devo ringraziare nessuno, solo me stesso».

In tono umile e sommesso la signora Gradgrind espresse la speranza che almeno la madre

«Mia madre? Se la filò, signora!».

La signora Gradgrind, stupefatta come al solito, si accasciò, sconfitta.

«Mia madre mi lasciò a mia nonna», disse Bounderby, «e mia nonna, da quel che ricordo, è stata la donna più malvagia e perfida che sia mai esistita. Se per caso riuscivo a procurarmi un paio di scarpe, me le strappava e andava a bersele. Proprio così! Mia nonna se ne stava a letto e tracannava quattordici bicchieri di liquore prima di colazione!».

La signora Gradgrind sorrise debolmente, senza dare altro segno di vita. Come al solito, aveva l'aria di un trasparente mal disegnato, rafurante un'immagine di donna e insufficientemente illuminata da dietro.

«Aveva una drogheria», continuò Bounderby, «e mi teneva nella cesta per uova. È stata la culla che ho avuto nell'infanzia: una vecchia cesta per le uova. Non appena sono stato abbastanza grande per filarmela, me la sono data a gambe naturalmente. Sono diventato un vagabondo e, invece di una sola vecchia che mi picchiava e mi faceva patir la fame, sono stato picchiato e ridotto alla fame da gente di tutte le età. Avevano ragione. Perché avrebbero dovuto fare altrimenti? Ero un seccatore, un piantagrane, una peste. Lo so benissimo».

L'orgoglio di Bounderby di essersi meritato, in un'epoca della vita, la grande distinzione sociale di quei titoli onorifici, seccatore piantagrane e peste, si trovò apato solo dopo che li ebbe ripetuti per tre volte, con voce stentorea.

«Era destino che me la cavassi, signora Gradgrind. Ma, destino o no, ce l'ho fatta. Me la sono cavata, anche se nessuno mi ha mai dato una mano. Vagabondo, fattorino, vagabondo manovale, facchino, commesso, capufficio, socio, ecco Josiah Bounderby di Coketown. Ecco i miei precedenti e la mia vittoria. Josiah Bounderby ha imparato a leggere dalle insegne dei negozi, signora Gradgrind, ed è arrivato a distinguere le ore osservando l'orologio del campanile di St. Giles a Londra, sotto la guida di un ubriacone storpio, ladro recidivo e vagabondo cronico. Provate a parlare a Josiah Bounderby di Coketown di scuole comunali, di scuole modello, di scuole professionali e di tutta la sfilza di scuole esistenti, e Josiah Bounderby di Coketown vi dirà, chiaro e tondo, che è tutto bello e tutto buono - questi lussi lui non li ha mai avuti - ma ben venga la gente decisa, coi pugni solidi - l'educazione che ha formato lui non fa per tutti e questo lui lo sa - ma tale è stata, potrete costringerlo a bere olio bollente, ma non riuscirete mai a fargli negare i fatti della sua vita».

Giunto al punto culminante della sua orazione, Josiah Bounderby, che ormai si era riscaldato, tacque. Tacque proprio nel momento in cui il suo amico eminentemente pratico, sempre accomnato dai due colpevoli, metteva piede nella stanza. Vedendolo, l'amico eminentemente pratico si fermò e volse su Louisa uno sguardo di rimprovero che diceva chiaramente: «Ecco il tuo Bounderby!».

«Bene», rimbombò la voce di Bounderby, «che succede? Che guaio ha combinato il giovane Thomas?».

Parlava del giovane Thomas, ma continuava a fissare Louisa.

«Nostro padre ci ha sorpresi a spiare nel circo», mormorò Louisa in tono altero, senza alzare gli occhi.

«Quasi avrei preferito, sorprenderli a leggere poesie, signora Gradgrind», intervenne il marito con fare altezzoso.

«Povera me!», piagnucolò la signora Gradgrind. «Come avete potuto, Louisa e Thomas! Mi meraviglio di voi! Mi fate rimpiangere di aver messo su famiglia, ve lo assicuro. Magari non ne avessi una, mi vien voglia di dire! In tal caso mi piacerebbe proprio sapere cosa avreste fatto!».

Gradgrind non sembrò per nulla colpito da quei convincenti rimproveri. Aggrottò le sopracciglia con impazienza.

«La mia povera testa dolorante! Perché, invece del circo, non siete andati a guardare le conchiglie, i minerali e tutte quelle altre cose che avete», gemette la signora Gradgrind. «Lo sapete, no, che non ci sono maestri di circo, che non si tengono corsi di circo, che non si conservano i circhi negli stipetti. E allora che c'è da sapere sul circo? Ci sono tante cose da fare, se proprio volete tenervi occupati. Con la testa in questo stato non potrei ricordare nemmeno la metà dei nomi di fatti di cui dovreste occuparvi».

«Ma è proprio questa la ragione!», ribattè Luisa con aria imbronciata.

«Non dirmi che la ragione è questa! Non è affatto vero!» replicò la signora Gradgrind. «Va' subito a studiare la tua qualcosologia». La signora Gradgrind, che non aveva mentalità scientifica, era solita spedire i li a studiare con questa ingiunzione di carattere generale. A dire il vero, la provvista di fatti della signora Gradgrind era deprecabilmente misera, ma il signor Gradgrind, nell'innalzarla al suo alto rango matrimoniale, era stato infuenzato da due ragioni. In primo luogo, non c'era niente da dire né sulle sue doti né sulla sua dote; in secondo luogo non aveva grilli in testa. Per grilli in testa, egli intendeva l'immaginazione e, probabilmente, lei ne era priva quanto esserlo un essere umano che non abbia ancora raggiunto la perfezione dell'idiozia assoluta. La semplice circostanza di trovarsi sola in comnia del marito e del signor Bounderby fu sufficiente ad annientare quest'ammirevole signora, senza l'ulteriore apporto di qualche altro fatto. Si accasciò di nuovo, senza che nessuno le badasse.

«Bounderby», esordì Gradgrind, avvicinando la sedia al fuoco, «avete sempre mostrato un interesse così vivo per i miei li, soprattutto per Louisa, che non cerco una giustificazione dicendovi che questa scoperta mi ha profondamente turbato. Mi sono dedicato sistematicamente a educare alla ragione i miei ragazzi (come sapete). La ragione è (come sapete) la sola facoltà alla quale deve tendere l'insegnamento. Eppure, Bounderby, quello che è accaduto oggi, per quanto trascurabile in se stesso, starebbe a indicare che nella mente di Thomas e di Louisa si è insinuato qualcosa che è - o meglio non è - (non trovo termini migliori per esprimermi) un elemento che non andava incoraggiato e che non ha nulla a che fare con la ragione».

«In effetti, non ha senso stare a guardare con interesse un branco di vagabondi», osservò Bounderby. «Quando ero vagabondo io, nessuno mi guardava con interesse. Questo è sicuro».

«Veniamo allora al punto», disse il padre eminentemente pratico», «da dove salta fuori questa volgare curiosità?».

«Ve lo dico io da dove: da una immaginazione oziosa».

«Spero proprio di no», disse l'eminentemente pratico, «ma vi confesso che, mentre tornavo a casa, mi è balenato questo dubbio».

«Da una immaginazione oziosa, Gradgrind», ripeté Bounderby. «Brutta cosa per tutti, ma pessima addirittura per una ragazza come Louisa. Dovrei chiedere scusa alla signora Gradgrind per aver usato espressioni un po' forti, ma lei sa benissimo che non sono certo un tipo raffinato io. Chi si aspetta di trovare raffinatezze in me, ci rimane male. Non ho avuto una educazione raffinata io!».

«E se», riprese Gradgrind, pensoso, con le mani affondate nelle tasche, gli occhi infossati fissi sul fuoco, «e se la governante oppure un domestico avesse suggerito qualcosa ai ragazzi? E se Louisa e Thomas avessero letto qualcosa? E se, malgrado tutte le precauzioni, qualche inutile libro di racconti fosse entrato in casa? Perché è strano, è incomprensibile che questo accada a ragazzi tirati su, fin dalla culla, a forza di regolo e di squadra».

«Un momento!», gridò Bounderby che, per tutto questo tempo, se ne era rimasto in piedi, come prima, accanto al caminetto, e ora sembrava sul punto di travolgere anche i mobili con la sua esplosiva umiltà. «La lia di uno di quei vagabondi non è per caso nella vostra scuola?».

«Cecilia Jupe, così si chiama», disse Gradgrind, guardando l'amico con aria folgorata.

«Un momento!», ripeté Bounderby. «Come è arrivata qui?».

«Be', in effetti ho appena visto quella ragazza. È venuta appositamente, qui, a casa nostra, per iscriversi alla scuola, perché non è della città e sì, avete ragione, Bounderby, avete ragione».

«Un momento!», tuonò ancora Bounderby. «Louisa l'ha vista quando è venuta?».

«L'ha indubbiamente vista giacché è stata lei a parlarmi della domanda di iscrizione. Ma Louisa l'ha vista, ne sono sicuro, in presenza della signora Gradgrind».

«Signora Gradgrind», chiese Bounderby, «che cosa è avvenuto esattamente?».

«Oh, la mia povera salute così malferma!», gemette la signora Gradgrind. «La ragazza voleva iscriversi a scuola e il signor Gradgrind vuole che tutte le ragazze vadano a scuola. Louisa e Thomas dicevano tutti e due che la ragazza voleva andare a scuola e che il signor Gradgrind voleva che tutte le ragazze andassero a scuola. Come contraddirli, dato che i fatti erano questi!».

«Ascoltatemi, Gradgrind», intervenne Bounderby, «mandate a spasso quella ragazza e non se ne parli più».

«La penso anch'io così».

«Agire tempestivamente», disse Bounderby, «è sempre stato il mio motto fin dall'infanzia. Quando mi è venuta l'idea di filarmela dalla cesta di uova e di piantar mia nonna, non ho esitato un attimo. Fate come me: agite subito!».

«Siete a piedi?», gli chiese l'amico. «Ho l'indirizzo del padre. Forse non vi spiace venire in città con me?».

«Certamente no!», rispose Bounderby. «Purché si agisca con prontezza».

Detto fatto, Bounderby si calcò il cappello in testa - un gesto che compiva sempre, quasi a dimostrare che lui per tutta la vita era stato troppo occupato a farsi una posizione per imparare il modo giusto di portare il cappello - e, mani in tasca, si diresse verso l'ingresso. «Non porto guanti», aveva l'abitudine di dire. «Non li avevo quando mi sono arrampicato su per la scala del successo; non sarei arrivato così in alto, se li avessi indossati!».

Mentre se ne stava in attesa per qualche minuto nell'ingresso, dato che il signor Gradgrind era salito al piano di sopra a cercare l'indirizzo, Bounderby aprì la porta dello studio dei ragazzi e diede una occhiata a quella stanza serena: con il pavimento ricoperto da un tappeto, aveva, malgrado gli scaffali gli armadietti pieni zeppi di strumenti scientifici e filosofici, l'aspetto accogliente e allegro di un negozio di barbiere. Louisa, con la testa languidamente appoggiata alla finestra, aveva lo sguardo fisso nel vuoto, mentre il giovane Thomas, accanto al fuoco, sbuffava con aria vendicativa. Adam Smith e Malthus, i due Gradgrind più piccoli, stavano studiando sotto sorveglianza, mentre la piccola Jane, con il volto impastricciato di argilla bianca, di matita e di lacrime, si era addormentata su volgari frazioni.

«Tutto a posto, ora, Louisa; tutto a posto, piccolo Thomas», li rassicurò Bounderby, «però non dovete fare mai più una cosa simile. Mi assumo la responsabilità di affermare che per vostro padre l'incidente è chiuso. Non merito un bacio, Louisa?».

«Prendetelo pure, signor Bounderby», rispose Louisa. Dopo un attimo di silenzio gelido, attraversò lentamente la stanza; quindi sollevò con aria scontrosa la guancia verso di lui, tenendo il viso rivolto dall'altra parte.

«Sei sempre la mia piccina, vero, Louisa?», disse Bounderby. «Arrivederci, Louisa».

Uscì, ma lei non si mosse e con un fazzoletto cominciò a sfregarsi la guancia che lui aveva baciato, fino a farla diventare rossa. Cinque minuti dopo, era ancora intenta a sfregarsela.

«Che hai, Lou?», trovò da ridire il fratello imbronciato. «Ti farai un buco in faccia».

«Potresti anche tagliarmi via il pezzo con un temperino, Thomas. Non verserei una lacrima!».

V

. LA NOTA DOMINANTE

Coketown, verso la quale dirigevano i loro passi Gradgrind e Bounderby, era un trionfo di fatti; non c'era la benché minima traccia di fantasia lì, non più di quanto ce ne fosse nella signora Gradgrind. Prima di eseguire l'intera melodia, facciamo risuonare la nota dominante: Coketown.

Era una città di mattoni rossi o, meglio, di mattoni che sarebbero stati rossi, se fumo e cenere lo avessero consentito. Così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo. C'era un canale nero e c'era un fiume violaceo per le tinture maleodoranti che vi si riversavano; c'erano vasti agglomerati di edifici pieni di finestre che tintinnavano e tremavano tutto il giorno; a Coketown gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante come la testa di un elefante in preda a una follia malinconica. C'erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro, e tante strade strette ancora più uguali fra loro; ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, che entravano e uscivano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso scalpiccio sul selciato, per svolgere lo stesso lavoro; persone per le quali l'oggi era uguale all'ieri e al domani, e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire.

Questi attributi di Coketown erano in gran parte inseparabili dall'industria che dava da vivere alla città; su questo sfondo, in contrasto, c'erano gli agi del vivere che si diffondevano in tutto il mondo; c'erano la raffinatezza e la grazia del vivere che contribuivano - non indaghiamo in quale misura - a creare quella gentildonna elegante che storceva il nasino al solo sentir nominare il luogo or ora descritto.

Non c'era nulla a Coketown che non stesse a indicare una industriosità indefessa. Se i seguaci di una setta religiosa decidevano di erigere una chiesa - cosa che avevano fatto i seguaci di diciotto sette - ne saltava fuori un pio magazzino di mattoni rossi, sormontato, a volte (ma soltanto negli esemplari più raffinati), da una campana racchiusa in una specie di gabbia per uccelli. Unica eccezione era la Chiesa Nuova: un edificio intonacato che, sopra alla porta principale, aveva un campanile quadrato con in cima quattro pinnacoli simili a robuste gambe di legno. In città tutte le insegne degli edifici pubblici erano negli stessi identici austeri caratteri bianchi e neri. La prigione avrebbe potuto essere l'ospedale, l'ospedale avrebbe potuto essere la prigione, il municipio avrebbe potuto essere o l'uno o l'altro oppure tutti e due, o anche qualsiasi altra cosa, perché nulla, nelle linee aggraziate di quegli edifici, serviva a identificarli. Fatti, fatti, fatti dappertutto nell'aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti dappertutto in quello immateriale. Era un fatto la scuola di M'Choakumchild, era un fatto la scuola di disegno, erano fatti i rapporti fra padrone e operaio; solo fatti si estendevano fra l'ospedale in cui si veniva alla luce e il cimitero, e quello che non si poteva esprimere in cifre, che non si poteva comperare al prezzo più basso e vendere a quello più alto, non esisteva, non sarebbe esistito mai, nei secoli dei secoli, Amen.

In una città così dedita al fatto, così trionfalmente sicura della sua supremazia, naturalmente tutto andava a gonfie vele, vero? Be', non proprio. No? Povero me!

No. Dai suoi altiforni la città non usciva splendente e radiosa come un pezzo d'oro purificato dal fuoco. C'era innanzitutto un mistero imbarazzante: chi erano i seguaci delle diciotto sette religiose? Di chiunque si trattasse non erano certamente gli operai. Strana sensazione quella che si provava alla domenica mattina, quando, passeggiando per le strade, ci si rendeva conto quanto fossero pochi coloro che, rispondendo al barbaro richiamo della campana che faceva impazzire la gente con i nervi a pezzi o ammalata, lasciavano i loro alloggi, le loro anguste stanze, gli angoli delle strade dove indugiavano con aria svogliata, guardando quelli che si recavano in chiesa o alla cappella, come se la cosa non li riguardasse affatto. Non erano soltanto i forestieri a notare tanta indifferenza; a Coketown stessa era sorta un'associazione i cui membri, a ogni sessione della camera dei Comuni, inoltravano indignate petizioni, sollecitando l'emanazione di una legge che imponesse con la forza a quella gente di diventare religiosa. Veniva poi la Lega della Temperanza, la quale protestava perché quella stessa gente si ubriacava, - che si ubriacasse era certo, tanto di statistiche lo provavano - e dimostrava (durante l'ora del tè) che nessun argomento umano o divino (tranne una medaglia) l'avrebbe persuasa a non farlo. Veniva poi il chimico e farmacista il quale, statistiche alla mano, dimostrava che, quando quella gente non si ubriacava, si metteva a fumare oppio. Seguiva il cappellano della prigione, uomo di vasta esperienza, che con una mole di statistiche superiore a tutte le precedenti, dimostrava che quella stessa gente frequentava luoghi ignobili, nascosti ai più, dove ascoltava ignobili canzoni e guardava ignobili danze e, chissà?, magari anche ci partecipava. Proprio in uno di questi posti un certo A.B., età ventiquattro anni, condannato a diciotto mesi di cella di isolamento - era stato traviato. Così almeno sosteneva lui (non che si fosse mai dimostrato degno di fede), dicendo di essere convinto che, in caso contrario, sarebbe diventato un cittadino modello dalla morale ineccepibile. Venivano poi i signori Gradgrind e Bounderby, i due gentiluomini che in quel momento attraversavano Coketown, entrambi eminentemente pratici, che, se necessario, avrebbero potuto fornire altre statistiche, frutto della loro personale esperienza e confermate da casi che loro stessi avevano visto e conosciuto; da tutto questo risultava chiaro - anzi era l'unica cosa chiara - che questa era tutta gentaglia, signori, che non sarebbe mai stata riconoscente per quello che si faceva per il loro bene; che era sempre in subbuglio, che non sapeva quello che voleva, che viveva di quanto c'era di meglio e comperava burro fresco; che insisteva nel volere vero caffè e non voleva sentirne parlare di carne che non fosse di prima scelta e che, nonostante tutto questo, era sempre scontenta e intrattabile. In breve era la morale della vecchia filastrocca:

C'era una vecchietta: sapete cosa faceva?

Da mangiar e da bere in tavola metteva;

Mangiare e bere erano tutta la sua dieta,

Eppur la vecchietta non se ne stava mai quieta.

Che ci sia qualche analogia, mi chiedo, fra il caso della popolazione di Coketown e il caso dei piccoli Gradgrind? Certo, nessuno di noi, gente di buon senso, abituata alle cifre, ha bisogno di sentirsi dire, oggi, che per decenni si è ignorato uno degli elementi essenziali alla vita dei lavoratori di Coketown. Che c'era in tutti loro un'immaginazione che aspirava ad attingere a una vita piena e sana, anziché lottare per sopravvivere. Che quanto più il loro lavoro era pesante e monotono, tanto più anelavano a qualcosa che apportasse loro un qualche sollievo fisico - svaghi che incoraggiassero il buon umore e l'allegria, e dessero loro una ventata di gioia - qualche festa riconosciuta per fare un innocente giro di danza al suono di una musica trascinante - qualche iniziativa in cui non avesse messo il naso M'Choakumchild - tutti desideri che è giusto e doveroso apare, altrimenti le cose continueranno ad andare male fino a che le leggi stesse della Creazione non saranno abrogate.

«Abita a Pod's Endnon so dove sia Pod's End», disse Gradgrind. «Dov'è, Bounderby?».

Bounderby sapeva che era in città, ma niente di più. Si fermarono quindi un attimo per guardarsi intorno.

In quello stesso istante una ragazza, che Gradgrind riconobbe, svoltò da dietro l'angolo della strada, correndo con il terrore dipinto in volto. «Ehilà», gridò. «Fermati! Dove vai? Fermati!». La ragazza numero venti si arrestò ansimante e fece una riverenza.

«Perché corri all'impazzata per strada? Lo sai che è sconveniente?», chiese Gradgrind.

«Ioio ero inseguita, signore», ansimò la ragazza, «e volevo scappare».

«Inseguita?», ripeté Gradgrind. «Chi mai inseguirebbe te?».

La risposte venne, improvvisa e inaspettata, dal ragazzo Bitzer, scialbo ed esangue, che, non prevedendo di trovare ostacoli sul marciapiede, girò da dietro l'angolo a tutta velocità, finì per sbattere contro il panciotto di Gradgrind e rimbalzò sulla strada.

«Che succede, ragazzo?», chiese Gradgrind. «Che cosa fai? Come osi buttarti addosso alla gente in questo modo?».

Bitzer raccolse il berretto che nello scontro era finito per terra, poi, arretrando di qualche passo e sfregandosi sulla fronte, disse, a propria difesa, che era stato un caso.

«Questo ragazzo ti correva dietro, Jupe?», domandò Gradgrind.

«Sì, signore», rispose lei riluttante.

«Non è vero, signore!», protestò con foga Bitzer. «Non sino a quando lei si è allontanata correndo da me. La gente del circo è famosa per parlare a vanvera. Lo sai che quelli del circo vanno famosi per parlare a vanvera?», ripeté rivolto a Sissy. «In città, signore, se mi consentite, tutti sanno che quelli che lavorano nei circhi ignorano la tavola pitagorica», concluse Bitzer, cercando di accattivarsi Bounderby.

«Faceva delle spaventose boccaccemi ha fatto paura!», disse la ragazza.

«Oh! Sei anche tu come tutti gli altri! Anche tu vivi in un circo!», esclamò Bitzer. «Non l'ho nemmeno guardata, signore. Le ho chiesto se avrebbe saputo dare la definizione di cavallo domani a scuola e mi sono offerto di ripetergliela. Lei è scappata e io le sono corso dietro, signore, per insegnarle a rispondere, quando sarà interrogata. Non ti sarebbe mai venuto in mente di dire queste bugie, se non fossi stata una del circo».

«A quanto pare, i ragazzi sono bene informati su quello che fa la loro comna», osservò Bounderby. «Ancora una settimana, e l'intera suola si sarebbe messa in fila a spiare».

«Lo credo anch'io», rispose l'amico. «Bitzer, gira i tacchi e torna a casa. Jupe, resta qui un momento. Fatti cogliere ancora a correre in quel modo, ragazzo mio, e avrai mie notizie dal maestro. Hai capito? Va'!».

Il ragazzo interruppe il suo rapido battere di palpebre, si sfregò la fronte, diede un'occhiata a Sissy, si voltò e sparì.

«E ora, ragazza mia», riprese Gradgrind, «accomna me e questo signore da tuo padre. Stavamo andando da lui. Che cos'hai in quella bottiglia?».

«Gin», disse Bounderby.

«Oh, no, signore! Sono i nove olii».

«I cosa?», ruggì Bounderby.

«I nove olii, signore, per fare un massaggio a mio padre».

«Perché diavolo, massaggi tuo padre con i nove olii?», inquisì Bounderby, prorompendo in una risata breve e fragorosa.

«La gente del circo li usa sempre, quando si fa male nell'arena, signore», spiegò la ragazza, girandosi a guardare indietro per accertarsi che il suo inseguitore se ne fosse andato. «Qualche volta si fanno molto male».

«Ben gli sta, a quei cialtroni buoni a nulla», commentò Gradgrind, e lei alzò gli occhi a guardarlo, con un misto di paura e di stupore.

«Perbacco!», esclamò Bounderby. «Ero più giovane di te quattro o cinque anni di meno ed ero tutto lividi che nemmeno dieci, venti quaranta olii mi avrebbero guarito. Non me li facevo con le acrobazie; erano le bastonate che mi buscavo. Non ballavo sulla corda, ballavo sulla nuda terra a suon di frustate con la corda».

Gradgrind, per quanto severo, era meno duro di Bounderby. Tutto considerato, non era neanche un cattivo diavolo, anzi sarebbe stato buono, se solo, tanti anni prima, avesse fatto male i calcoli nel dosare gli ingredienti che avrebbero contribuito a formargli il carattere.

Nello svoltare in una viuzza, in un tono che, secondo lui, doveva essere rassicurante, disse: «Siamo a Pod's End, vero Jupe?».

«Sì, signore Se non vi dispiace, signore, abito qui».

Alla luce del crepuscolo, si fermò davanti alla porta di una locanda piccola e brutta, illuminata all'interno da incerte luci rosse. Misera e malandata com'era, sembrava che, per mancanza di clienti, si fosse data al bere e, percorsa tutta la strada della degradazione, fosse ormai, proprio come gli alcolizzati, prossima alla fine.

«C'è solo da attraversare la stanza, signore, salire le scale e aspettare un attimo che accenda la candela. Se sentite un cane, signore, non badateci! È Merrylegs. Abbaia soltanto».

«Merrylegs e i nove olii, eh!», esclamò Bounderby con la sua risata metallica, entrando per ultimo. «Non c'è che dire per uno che si è fatto da sé».

VI

. IL CIRCO EQUESTRE SLEARY

La locanda si chiamava L'arme di Pegaso, anche se sarebbe stato più opportuno chiamarla Le zampe di Pegaso; ma, sotto il cavallo alato dell'insegna, stava scritto proprio L'arme di Pegaso. E subito sotto, su un cartiglio ondeggiante, spiccavano i seguenti versi che vi aveva tracciato il pittore:

Da buon malto buona birra fai,

Entra e te ne accorgerai;

Da buon vino buon cognac trai,

Dacci un fischio: in mano te lo troverai!

Sul muro, dietro il piccolo banco sudicio, in cornice e sotto vetro, stava un altro Pegaso, molto suggestivo, tutto coperto di stelle d'oro con le ali di vero velo e con eterei finimenti di seta rossa.

Si era fatto troppo buio fuori perché si potesse scorgere l'insegna, e non c'era abbastanza luce dentro per vedere il quadro, sicché a Gradgrind e a Bounderby fu risparmiato l'affronto di quelle stravaganze fantasiose. Seguirono la ragazza su per la ripida scala senza incontrare nessuno, e si fermarono al buio, mentre lei cercava una candela. Si aspettavano di sentire da un momento all'altro Merrylegs, ma fanciulla e candela riapparvero senza che il cane sapiente, ammaestrato alla perfezione, avesse abbaiato.

«Mio padre non è nella nostra stanza, signore», disse con un'espressione di viva sorpresa. «Se non vi dispiace entrare, andrò subito a cercarlo».

Entrarono; e Sissy, dopo aver offerto loro due sedie, si allontanò con passo rapido e leggero. Era una stanza triste miseramente ammobiliata con un letto. Appeso a un chiodo c'era il berretto da notte bianco, illeggiadrito da due penne di pavone e da un codino volto all'insù, che quel pomeriggio il signor Jupe aveva indossato per vivacizzare il suo numero di castigate facezie shakespeariane; non c'era attorno altro indumento o altro segno della sua presenza o del suo mestiere. Quanto a Merrylegs, il rispettabile antenato di questo cane sapiente, invece di entrare nell'arca, doveva esserne rimasto fuori, perché nessuna traccia percepibile alla vista o all'udito ne attestava la presenza all'Arme di Pegaso.

Sentirono aprirsi e chiudersi le porte del piano di sopra, mentre Sissy passava dall'una all'altra in cerca del padre; sentirono voci che esprimevano viva sorpresa; poi la ragazza ridiscese di gran carriera, aprì un vecchio baule malandato, lo trovò vuoto, si guardò intorno, le mani giunte, il volto spaventato.

«Mio padre deve essere ritornato al circo, signore. Non so perché ci sia andato, ma deve essere lì. Lo porterò qui in un minuto». Si allontanò velocemente, senza la cuffia, con i lunghi capelli neri sciolti infantilmente sulle spalle.

«Che vuol dire? Portarlo qui fra un minuto?», disse Gradgrind. «È a più di un miglio di distanza!».

Prima che Bounderby potesse rispondere, sulla soglia ve un giovane che, dopo essersi presentato con un «Se mi consentite, signori!», entrò nella stanza, tenendo le mani in tasca. Il viso rasato, scarno, dalla carnagione olivastra, era ombreggiato da una grande massa di capelli bruni, con la riga in mezzo, raccolti intorno alla testa. Le gambe erano robuste, ma troppo corte per essere proporzionate al resto; petto e spalle erano troppo larghi, proprio come erano troppo corte le gambe. Indossava una giacca da cavallerizzo e calzoni attillati; una sciarpa gli cingeva il collo e intorno gli aleggiava una fragranza in cui confluivano vari aromi; olio per lampada, buccia d'arancia, lia, mangime per cavalli, segatura; l'aspetto era quello di uno strano centauro, a metà strada fra lo stalliere e l'attore. Nessuno avrebbe potuto stabilire dove cominciasse l'uno e finisse l'altro. Nei sectiunelloni, questo signore veniva indicato come E.W.B. Childers, meritatamente celebre per i volteggi a cavallo nel ruolo del Cacciatore Solitario delle Praterie del Nord America, celebrato numero in cui lo affiancava, nella parte del lio, un ragazzino con un viso da vecchio, che in quel momento gli era accanto. Issato a gambe in alto e testa in giù sulle spalle del padre che lo teneva stretto per un piede e gli reggeva la testa nel palmo della mano, si faceva portare in giro mostrando così come siano rudi le manifestazioni di affetto che i cacciatori solitari riservano alla prole. In un altro numero, questa stessa giovane promessa, adorna di riccioli, di ghirlande e di ali, con il viso sbiancato dal bismuto e le guance rosse, si metteva a volteggiare nelle vesti di un Cupido così grazioso da costituire, per la parte materna degli spettatori, la maggior attrazione dello spettacolo. Nella vita privata, però, due tratti distintivi - una giacca da frac inadatta per la sua età e una voce roca - lo facevano apparire molto equestre, dandogli l'aria di un fantino in un ippodromo.

«Se mi consentite, signori», esordì E.W.B. Childers, girando lo sguardo intorno alla stanza, «siete voi che desiderate vedere Jupe, vero?».

«Proprio così», ammise Gradgrind. «La lia è andata a chiamarlo, ma non posso aspettare. Se non vi dispiace, quindi, vi lascerò un messaggio per lui».

«Vedete, amico mio», intervenne Bounderby, «noi siamo gente che conosce il valore del tempo, e voi siete gente che non conosce il valore del tempo».

«Non ho l'onore di conoscervi», rispose Childers, dopo averlo squadrato dalla testa ai piedi, «ma se intendete dire che con il vostro tempo voi fate più soldi di quanti ne faccia io con il mio, sono propenso a credere, almeno a giudicare dall'aspetto, che abbiate ragione».

«E una volta fatti, direi che siete anche capace di tenerveli stretti, i vostri soldi», aggiunse Cupido.

«Chiudi il becco, Kidderminster», disse Childers (Signorino Kidderminster era il nome mortale di Cupido).

«Cosa è venuto a far qui che ci tratta con tanta arroganza?», brontolò Kidderminster, rivelandosi persona piuttosto suscettibile. «Se avete voglia di dirci villanie, acquistate un biglietto per lo spettacolo e tanti saluti!».

«Kidderminster, chiudi il becco!», disse Childers alzando la voce. Poi rivolto a Gradgrind: «Signore, stavo parlando con voi. Forse non sapete (suppongo che non vi si possa annoverare fra i nostri spettatori) che negli ultimi tempi Jupe ha perso colpi.»

«Perso cosa?», chiese Gradgrind, lanciando un'occhiata all'onnipotente Bounderby perché lo soccorresse.

«Ha perso colpi».

«Doveva saltare quattro volte attraverso i cerchi, e non ci è riuscito mai», disse Kidderminster. «Ha perso colpi anche con le bandierine e, quanto agli schiocchi, è stato un disastro».

«Non ha fatto quel che doveva fare: corto nei salti e incerto nelle capriole», spiegò Childers.

«Oh», disse Gradgrind, «questo allora vuol dire perdere colpi?».

«In senso generale, perder colpi è proprio questo», rispose Childers.

«I nove olii, Merrylegs, perder colpi, i cerchi, le bandierine, gli schiocchi!», sbottò Bounderby con una risata delle risate. «Che strana comnia per un uomo come me che da solo è arrivato in alto».

«Ritornate in basso», ribatté Cupido. «Santo cielo! Se siete salito tanto in alto, come ci fate capire, scendete un poco».

«Ecco un giovanotto invadente», disse Gradgrind e si voltò a guardarlo con le sopracciglia corrugate.

«Avremmo chiamato qualche giovane gentiluomo per venirvi incontro, se avessimo saputo della vostra visita», ribatté Cupido per nulla intimorito. «Peccato che, difficili come siete, non vi siate fatti annunciare! Siete sulla corda, vero?».

«Che cosa dice quello screanzato?», chiese Gradgrind guardandolo, quasi sull'orlo della disperazione. «Siamo sulla corda?».

«Su, via di qui!», intervenne Childers, spingendo il giovane amico fuori della stanza con modi piuttosto consoni alla prateria. «Questo parlar di corde non vuol dir niente. Volete darmi un messaggio per Jupe?».

«Sì».

«Allora», proseguì Childers in fretta, «è mia opinione che non lo riceverà mai. Voi conoscete bene Jupe?».

«Mai visto in vita mia».

«A questo punto dubito che lo vedrete mai. Secondo me se l'è data a gambe».

«Volete dire che ha abbandonato sua lia?».

«Sì», rispose Childers accennando di sì con il capo, «voglio proprio dire che ha tagliato la corda. L'hanno trombato ieri sera, l'hanno trombato l'altro ieri sera, l'hanno trombato oggi. Ultimamente l'hanno trombato sempre. Non può andare avanti così!».

«Perché lo trombano?», chiese Gradgrind, facendo uno sforzo per dire quella parola che pronunciò con riluttante solennità.

«Le giunture cominciano a diventargli rigide e lui è quasi finito», rispose Childers. «Può ancora farcela a imbonir la gente, ma non ci caverà certo abbastanza da metter il pane sotto i denti».

«Imbonire la gente!», ripeté Bounderby. «Eccoci da capo».

«Se al signor non piace imbonitore, possiamo dire oratore, uno che persuade la gente a comprare il biglietto», disse E.W.B. Childers, facendo cader dall'alto la spiegazione e accomnandola con una scrollata dei lunghi capelli che si misero a ondeggiare tutti insieme. «Ora, signore, va detto che quest'uomo non soffriva tanto per la trombatura in sé, quanto per l'idea che la lia lo sapesse».

«Buona questa!», lo interruppe Bounderby. «Questa è proprio buona, Gradgrind. Un uomo che vuole tanto bene alla lia da piantarla! Diabolicamente buona, ah, ah! Voglio dirvi una cosa, giovanotto. Non sono sempre stato quello che sono oggi. So come vanno queste cose. Forse vi sorprenderà sapere che anch'io sono stato piantato da mia madre».

Non senza una punta di malizia, E.W.B. Childers rispose che la cosa non lo meravigliava affatto.

«Bene», continuò Bounderby, «sono nato in un fosso e mia madre mi ha piantato. La giustifico per questo? No. L'ho mai giustificata per questo? No. Come la definisco per questo? La peggior donna che sia mai esistita al mondo, dopo mia nonna ubriacona. Non ho orgoglio di famiglia, non mi frullano in testa frottole fantasiose o sentimentali. Pane al pane e vino al vino: senza paura e senza presunzione chiamo la madre di Josiah Bounderby di Coketown con gli stessi nomi con cui l'avrei chiamata se fosse stata la madre di Dick Jones di Wapping. E lo stesso faccio con quest'uomo. È un furfante che se l'è filata, un vagabondo, ecco cos'è, per dirla a chiare lettere nella nostra lingua».

«Quello che è o non è, in inglese o in francese, non me ne importa nulla», replicò E.W.B. Childers, voltandosi. «Mi limito a raccontare al vostro amico come stanno le cose; se non vi va di sentire, andate fuori a prender aria. Se volete blaterare, che è quanto state facendo, fatelo per lo meno a casa vostra», protestò E.W.B. con dura ironia. «Non qui dentro, se nessuno ve lo chiede. Avrete una casa nostra, no?».

«Probabile», rispose Bounderby ridendo e facendo tintinnare alcune monete.

«E allora andate a blaterare lì, per favore», disse Childers. «Questa casa non ha mura molto solide e, se insistete, rischia di venir giù».

Dopo aver di nuovo squadrato Bounderby dalla testa ai piedi, Childers distolse lo sguardo da lui e si rivolse a Gradgrind, come se l'argomento fosse chiuso.

«Un'ora fa Jupe ha mandato la lia a fare una commissione, e poi l'hanno visto che se la svignava, il cappello sugli occhi e, sotto il braccio, un pacco legato con un fazzoletto. La ragazza non ci crederà mai; fatto sta che lui ha tagliato la corda e l'ha lasciata».

«Perché, in nome del cielo, non crederà mai a una cosa simile?», chiese Gradgrind.

«Perché quei due erano un'anima sola, perché non si separavano mai, perché fino a oggi sembrava che lui l'adorasse», spiegò Childers, facendo un passo o due per guardare nel baule vuoto. Sia Childers sia Kidderminster camminavano con un'andatura molto curiosa: tenevano le ginocchia rigide con studiata ostentazione e le gambe divaricate molto più di quanto non facciano in genere gli uomini. Era l'andatura di tutti gli uomini del circo di Sleary, e serviva a dimostrare che passavano la vita stando in sella.

«Povera Sissy!», esclamò Childers scuotendo ancora la chioma e guardando nel baule vuoto. «Peccato che suo padre non le abbia insegnato un mestiere! Ora la lascia senza niente in mano».

«È un'opinione che vi fa onore, voi che non avete mai imparato un mestiere», disse Gradgrind in tono di elogio.

«Io non ho mai imparato un mestiere? Ma se ho cominciato quando avevo sette anni!».

«Oh, davvero!», esclamò Gradgrind piuttosto risentito, come se lo avessero imbrogliato per essersi fatto una buona opinione. «Non ero al corrente che ci fosse la consuetudine di avviare i giovani a».

«All'indolenza!», si intromise Boundbery, dando in una sonora risata. «No, per Giove, nemmeno io lo sapevo!».

«È sempre stata un'idea fissa di suo padre», riprese Childers fingendo di ignorare la presenza di Bounderby, «quella di darle un'istruzione con tutti i crismi. Come gli sia saltato in mente lo ignoro; so soltanto che questa idea non se l'è mai tolta dalla testa. Un po' qui, un po' lì, in questi sette anni le ha insegnato a leggere, a scrivere, a far di conto».

A questo punto E.W.B. Childers si levò le mani di tasca, le passò sul volto e sul mento, e rivolse a Gradgrind uno sguardo che rivelava molta perplessità e poca speranza. Fin dall'inizio aveva cercato di accattivarsi la simpatia di quel gentiluomo per amore della ragazza rimasta sola.

«Quando Sissy è stata ammessa alla scuola, lui era contento come una pasqua. Non saprei dire il perché, visto che non siamo fissi qui, ma andiamo e veniamo. Forse aveva già da tempo in mente di fare quello che ha fatto - è sempre stato un po' matto - e avrà creduto di sistemare la lia. Se per caso siete venuti qui stasera a dirgli che avete intenzione di aiutarla», proseguì Childers, passandosi ancora una volta la mano sul viso e scoccandogli un'altra occhiata ingraziante, «sarà veramente una fortuna, un bel colpo di fortuna che cade a proposito; un bel colpo che cade a proposito!».

«Tutto il contrario!», replicò Gradgrind. «Sono venuto qui per dirgli che l'ambiente cui appartiene sua lia la rende soggetto non idoneo a frequentare la scuola, e che non deve venirci più. Tuttavia, se il padre l'ha veramente abbandonata, senza che lei c'entri per nulla Bounderby, vorrei parlarvi».

A questa richiesta, il signor Childers, con grande discrezione, uscì dalla stanza con la sua andatura da cavallerizzo e rimase sul pianerottolo continuando a passarsi le mani sul viso e a fischiettare sommessamente. Gli giunsero alle orecchie frammenti dei discorsi di Bounderby: «No, io dico di no. ½ consiglio di no. Assolutamente no». Da Gradgrind, invece, venivano, in tono molto più basso, le parole: «Se non altro per mostrare a Louisa a che cosa conducono quegli svaghi che hanno suscitato in lei tanta inutile curiosità e dove si va a finire di questo passo. Esaminate la cosa da questo punto di vista, Bounderby».

Nel frattempo, i vari componenti della comnia di Sleary erano scesi dai piani superiori dove alloggiavano, si erano raccolti sul pianerottolo e, a forza di star lì a chiacchierare fra loro e con Childers, tutti insieme, si erano un po' alla volta intrufolati nella stanza. C'erano, fra i tanti, anche due o tre donne giovani e belle, con i rispettivi due o tre mariti, due o tre madri e i relativi otto o nove li, che, quando era necessario, davano il loro contributo alla magia del circo. Il padre di una di queste famiglie era solito tenere in equilibrio su una lunga pertica il padre di un'altra; il padre di una terza famiglia faceva spesso, con i precedenti due padri, una piramide di cui lui era la base e Kidderminster il vertice; tutti i padri sapevano stare in equilibrio sulle botti ballando o rimanendo immobili, afferrare palle e coltelli, far roteare scodelle, cavalcare qualsiasi cosa, saltare oltre qualunque cosa, senza arretrare davanti a nessuna difficoltà. Tutte le madri sapevano (e lo facevano ogni sera) ballare sul filo e sulla corda, volteggiare su cavalli non sellati: nessuna aveva molte riserve a mostrar le gambe; e quando la comnia arrivava in città, una di loro conduceva da sola una biga greca trainata da sei cavalli. Si consideravano spigliati e accorti; non erano né lindi né ordinati nel vestiario; le situazioni familiari erano tutt'altro che trasparenti; e, quanto alla conoscenza delle lettere, sarebbero stati sì e no capaci, unendo i loro sforzi, di stilare una letterina stenta, quale che fosse l'argomento. Eppure c'era in loro una straordinaria dolcezza, quasi infantile, una particolare incapacità a essere pungenti e cattivi, un'inesauribile disponibilità ad aiutarsi e a mostrarsi solidali nella sventura, cose tutte che meritano il rispetto e la generosa considerazione che siamo soliti tributare alle consuete virtù di qualsiasi altra classe di persone esistente al mondo.

Ultimo a ire fu il signor Sleary in persona: un omaccione, come già detto, con un occhio che teneva fisso e uno che invece muoveva, una voce (e possiamo chiamarla voce) che sembrava l'ansito di un mantice spompato, l'aria fiacca e la testa confusa di uno che non è mai sobrio e mai del tutto ubriaco.

«nore!», cominciò il signor Sleary che, essendo asmatico, respirava a fatica e non riusciva a pronunciare correttamente la 's'. «Fervo voftro! Brutto affare quefto, peffimo! Avete fentito che il mio clown con il fuo cane hanno levato le tende, a quanto pare».

Si rivolgeva a Gradgrind, che rispose: «Sì».

«Bene, nore», riprese, levandosi il cappello e lisciandone la fodera con un fazzoletto che teneva all'interno, proprio a questo scopo. «Avete intenzione di fare qualcofa per la bimba, nore?».

«Intendo farle una proposta non appena torna», disse Gradgrind.

«Fono lieto di fentirvi parlare cofì, nore. Non che voglia liberarmi della piccola, ma neppure voglio intralciarla. Anche fe è già grandicella, fono difpofto a infegnarle il meftiere. Ho la voce roca, nore, e quelli che non mi conofcono, fanno difficoltà a capirmi, nore. Anche voi, fe fofte ftato in gioventù al caldo e al gelo, al gelo e al caldo, al caldo al gelo nell'arena, come ho fatto io, anche voi avrefte perfo la voce, proprio come è capitato a me, nore».

«Lo credo anch'io», disse Gradgrind.

«Che cofa prendete, nore, mentre afpettate? Prendete uno ferry? Ordinate pure, nore!», disse il signor Sleary con cordiale ospitalità.

«Niente per me, grazie», disse Gradgrind.

«Non va bene dire niente, nore. Che ne penfa il voftro amico? Fe non avete ancora cenato, bevete un bicchiere di amaro».

A questo punto, Josephine, la lia di Sleary, una graziosa biondina di diciotto anni, che era stata messa in sella quando ne aveva solo due, e a dodici aveva fatto un testamento, che portava sempre con sé, nel quale esprimeva la volontà di essere condotta alla sepoltura da due pony pezzati, esclamò: «Papà, zitto! Eccola di ritorno!». E Sissy entrò nella stanza di corsa come ne era uscita. Nel vederli tutti lì riuniti, nel vedere l'espressione dei loro volti, nel vedere che suo padre non c'era, proruppe in un pianto irrefrenabile e andò a rifugiarsi contro il petto della più brava equilibrista, in quel periodo incinta, che si inginocchiò per coccolarla e piangere con lei.

«Full'anima mia, è proprio ftraziante», disse Sleary.

«Oh, papà caro, dove sei andato? Te ne sei andato per cercare di farmi del bene, lo so! Te ne sei andato per amor mio, ne sono sicura! Povero, povero papà! Finché non tornerai, sarai solo, infelice e indifeso, senza di me». Era commovente sentirla dire queste cose, con il viso rivolto in alto, le braccia tese come se volesse, stringendola in un abbraccio, fermare l'ombra del padre che si allontanava. Nessuno osò parlare fino a che Bounderby, impaziente, non decise che era venuto il momento di prendere in mano la faccenda.

«Su brava gente», cominciò, «è una vergogna perdere tempo in questo modo. Spieghiamole come stanno le cose. Gliene parlerò io, se vi va, io che a mia volta sono stato piantato. Su, come ti chiami? Sappi che tuo padre è fuggito - ti ha abbandonata - e non sperare di rivederlo più finché vivrai».

Gliene importava così poco dei fatti a quella gente, ed erano tutti così irrecuperabilmente degenerati al riguardo che, invece di essere conquistati dal buon senso di Bounderby, se ne risentirono profondamente. Gli uomini mormorarono «Vergogna!»; le donne reagirono con un «Bruto!» e Sleary, prendendo da parte Bounderby, gli tenne un discorsetto.

«Ve lo voglio proprio dire, nore! Per parlare chiaro e tondo, tagliate corto e lafiate perdere. È tutta brava gente, quefta che lavora per me, ma fono anche abituati ad agire in fretta e, fe non vi fbrigate a feguire il mio conlio, vi butteranno fuori a calci dalla fineftra, dannazione!».

Bounderby si acquietò davanti a quel bonario suggerimento, e Gradgrind colse l'occasione per illustrare il suo progetto eminentemente pratico.

«Non serve a niente mettersi a discutere se questa persona si farà vedere prima o poi, oppure no. Se ne è andato, e per il momento non si prevede che ritorni. Su questo, penso, siamo tutti d'accordo».

«Fì, fiamo d'accordo, nore. Non divaghiamo!».

«Molto bene! Io, che sono venuto qui per comunicare al padre della povera Jupe che sua lia non avrebbe potuto essere più accolta a scuola, dato che motivi pratici, nel merito dei quali non occorre che mi addentri, si oppongono a che i li di gente del circo frequentino le lezioni, io ora sono disposto, in considerazione delle mutate circostanze, a formulare una proposta. Sono disposto a prendermi cura di te, Jupe, a darti un'istruzione, a provvedere a te. L'unica condizione che pongo (oltre a quella della buona condotta, che viene prima di tutto) è che tu decida qui, immediatamente, se seguirmi o no. Inoltre, se decidi di venire con me, resta inteso che non dovrai più avere alcun contatto con nessuno di questi tuoi amici. Queste osservazioni sono tutto ciò che ho da dire sull'argomento».

«A quefto punto», intervenne Sleary, «devo anch'io dire qualcofa, nore, perché fi efaminino i due lati della medaglia. Cecilia, fe vorrai, potrai imparare il meftiere. Conofi già che tipo di lavoro è, e conofi le tue comne. Emma Gordon, che adeffo ti tiene in braccio, ti farebbe da madre, e Jofephine farebbe una forella per te. Non voglio paffare per un angelo, non ti prometto di effere tutto latte e miele e di non tirare un paio di beftemmie, fe ti capiterà di fbagliare. Quello che voglio dire è che - di buono o di cattivo umore - non ho mai picchiato un cavallo e non fono mai andato più in là di una beftemmia al fuo indirizzo. Non penfo quindi di cominciare alla mia età a farlo con una cavallerizza. Non ho la tempra dell'oratore, nore, ho folo detto quello che fentivo di dover dire».

L'ultima parte del discorso era diretta a Gradgrind che l'accolse con un solenne cenno del capo e quindi osservò:

«Voglio dirti una sola cosa, Jupe, per influenzare la tua decisione: una buona istruzione pratica è altamente auspicabile e, a quanto mi è dato di capire, anche tuo padre era dello stesso avviso».

Queste ultime parole fecero un grande effetto sulla ragazza che smise di singhiozzare, si scostò un poco da Emma Gordon e si mise a fissare in faccia l'uomo che le offriva la propria protezione. Tutti percepirono l'intensità del mutamento e insieme emisero un luogo sospiro che stava a dire chiaramente: «Se ne andrà!».

«Rifletti bene, Jupe, su quello che hai intenzione di fare», l'ammonì Gradgrind. «Non ti dico altro: valuta a fondo la tua decisione».

«Quando papà ritornerà», implorò la ragazza dopo un minuto di silenzio, scoppiando ancora in lacrime, «come farà a trovarmi, se me ne vado?».

«Puoi star tranquilla», disse calmo Gradgrind che trattava tutta la faccenda come se fosse un calcolo aritmetico. «Puoi star tranquilla. In tal caso tuo padre cercherà, penso, il signor».

«Fleary, mi chiamo Fleary, nore. Non me ne vergogno. Conofiuto in tutta l'Inghilterra per aver ato fino all'ultimo centefimo».

«cercherà il signor Sleary, il quale gli dirà dove sei andata. Non ti tratterrò contro la tua volontà, e a tuo padre non sarà difficile in qualsiasi momento trovare Thomas Gradgrind di Coketown. Sono molto conosciuto».

«Molto conofiuto», ripeté Sleary, facendo roteare l'occhio mobile. «Fiete uno di coloro che impedifcono a quella preziofa cofa che è il denaro di affluire nella mia caffetta, nore, ma per il momento lafiamo perdere».

Ci fu un attimo di silenzio, poi, tenendo il volto fra le mani, la ragazza disse tra i singhiozzi: «Datemi la mia roba; datemi la mia roba e lasciatemi andare prima che mi si spezzi il cuore!».

Le donne si riscossero e con aria triste si misero a riunire la sua roba - fu questione di pochi istanti perché non era molta - e a riporla in una cesta che aveva spesso viaggiato con loro.

Sissy rimase seduta per terra per tutto il tempo, singhiozzando e coprendosi gli occhi. Gradgrind e il suo amico Bounderby, vicini alla porta, erano pronti a condurla via. Sleary, in mezzo alla camera, attorniato dagli uomini della comnia, se ne stava nella stessa posa che aveva quando, in mezzo all'arena, la lia Josephine si esibiva nel suo numero. Gli mancava soltanto la frusta.

Riempita in silenzio la cesta, le donne porsero a Sissy la cuffia e, dopo averle ravviato i capelli in disordine, gliela misero in testa. Poi le si fecero intorno, si chinarono su di lei con grande naturalezza, baciandola e abbracciandola; portarono i bambini perché la salutassero: in tutto e per tutto si comportarono da donne di buon cuore, semplici e un po' sventate.

Ma Sissy non aveva ancora preso commiato dalla componente maschile della comnia; ciascuno di loro dovette aprir le braccia (quando il signor Sleary era nei paraggi, tutti assumevano sempre un'aria molto professionale) per darle un bacio di addio; si ritirò immalinconito solo Kidderminster, nel cui carattere, nonostante la giovane età, aleggiava un sentore di misantropia, e che, lo sapevano tutti, aveva anche accarezzato progetti matrimoniali nei confronti di Sissy. Sleary si tenne in disparte fino all'ultimo. Spalancando le braccia, le afferrò le mani e, se Sissy anziché in lacrime fosse stata di un umore più appropriato, l'avrebbe fatta balzare su e giù, come fanno i maestri di equitazione, quando si congratulano con le giovani cavallerizze dopo un esercizio difficile.

«Addio, mia cara», disse Sleary. «Farai fortuna, fpero, e neffuno di noi, tuoi poveri comni, verrà a feccarti, ne fono certo. Peccato che tuo padre fi fia portato via il cane; è una gran feccatura eliminare dallo fpettacolo il numero col cane. Ma, a penfarci bene, non farebbe fervito a nulla fenza il fuo padrone, quindi fa lo fteffo».

Detto questo, rimase a guardarla con l'occhio fisso, mentre con quello mobile non perdeva di vista gli altri, poi la baciò, scosse la testa e la affidò a Gradgrind, quasi si trattasse di un cavallo.

«Eccola, nore», disse, dopo averle lanciato un'occhiata professionale, come se la ragazza fosse uno degli spettatori tra il pubblico. «Ne farete foddiffatto. Addio, Cecilia!».

«Addio, Cecilia! Addio, Sissy! Dio ti benedica, cara!». Un risuonar di voci in tutta la stanza.

Ma l'occhio del maestro di equitazione aveva notato la bottiglia dei nove olii che Sissy stringeva al petto; allora intervenne con un: «Lafia la bottiglia, cara; è troppo pefante da portare. A te ormai non ferve. Dalla a me!».

«No, no!», rispose la ragazza scoppiando di nuovo in lacrime. «Oh, no! Lasciatemela per quando torna papà. Ne avrà bisogno. Non pensava di andarsene, quando mi ha mandato a comprarla. Devo tenerla per lui, vi prego».

«Fa' pure, mia cara. Vedete anche voi, nore, come ftanno le cofe. Addio Cecilia. Le mie ultime parole per te fono: rifpetta l'impegno prefo, obbedifi al nore e dimenticaci. Ma fe, quando farai grande, fpofata e ricca, incontrerai mai della gente del circo, non effere altera e fprezzante con loro; non effere fuperba; parlane con benevolenza fe potrai, e penfa che ti farebbe potuta andar peggio. La gente deve divertirfi, nore, in un modo o nell'altro», continuò Sleary, reso più roco che mai dal tanto parlare, «non fi può fempre lavorare, non fi può fempre ftudiare. Cercate negli uomini quello che di meglio hanno da dare, non di peggio. Mi fono fempre guadagnato da vivere nel circo con i cavalli, fapete, ma credo di poter riaffumere tutta la filofofia sull'argomento, dichiarando di cercare in noi quello che di meglio abbiamo da darvi, non di peggio».

La filosofia di Sleary fu proposta ai due gentiluomini, mentre questi scendevano le scale; l'occhio fisso e anche quello mobile della filosofia persero ben presto di vista, nell'oscurità della strada, le tre ure e il cesto.

VII

. LA SIGNORA SPARSIT

Bounderby era celibe e, quindi, a mandare avanti la sua casa, dietro compenso di un certo stipendio annuo, provvedeva un'anziana signora. Signora Sparsit, così si chiamava la gentildonna, ed era un personaggio di tutto rilievo al seguito del carrozzone di Bounderby, lanciato trionfalmente in avanti, con dentro questo bel campione di modestia.

Non solo la singora Sparsit aveva visto giorni migliori, ma aveva parentele importanti. A quei tempi era ancora in vita una sua prozia che si chiamava Lady Scadgers. Il defunto signor Sparsit, di cui la nostra gentildonna era la vedova, era stato da parte di madre «un Powler». Solo la gente poco informata e un po' ottusa, che veniva da chissà dove, a volte mostrava di ignorare che cosa fosse un Powler e arrivava al punto da non sapere con precisione se si trattasse di una ditta, di un partito politico o di una setta religiosa. Ma le menti più elette e coltivate non avevano bisogno di sentirsi dire che i Powler erano una vecchia famiglia che faceva risalire gli antenati così lontano che non c'era da sorprendersi se qualche volta si dileguavano; il che era accaduto con una certa frequenza per colpa di speculazioni sbagliate, di interventi azzardati, di transazioni finanziarie con ebrei e del tribunale dei debitori insolventi.

Il defunto signor Sparsit, un Powler da parte di madre, aveva sposato questa gentildonna, Scadgers da parte di padre. Lady Scadgers (una vecchia grassissima, smodatamente avida di carne di manzo, con una gamba misteriosa che da quattordici anni rifiutava di scendere dal letto), aveva architettato quel matrimonio in un periodo in cui il giovane signor Sparsit, appena giunto a maggiore età, si distingueva soprattutto per il corpo magrissimo, sorretto a fatica da due stecchi di gambe lunghe e secche, e sormontato da una testa di cui non è il caso di parlare. Dallo zio aveva ereditato un ragguardevole patrimonio, ma aveva contratto debiti per tutto il suo ammontare prima ancora di entrarne in possesso, soltanto per raddoppiarli subito dopo. Così, quando era morto a ventiquattro anni (teatro del decesso: Calais; causa: il cognac), non aveva lasciato nel benessere la sua vedova, dalla quale si era separato subito dopo la luna di miele. L'inconsolabile signora, di quindici anni più anziana di lui, ai ferri corti con la sola parente, Lady Scadgers, in parte per far dispetto a vossignoria, in parte per sopravvivere, si era messa a lavorare. Ed eccola, in età matura, con un naso romano che ricordava quello di Coriolano, le sopracciglia nere che erano piaciute a Sparsit, eccola a preparare il tè per la prima colazione di Bounderby.

Se lui fosse stato un conquistatore e la signora Sparsit una principessa prigioniera legata, a mo' di trofeo, al suo carro trionfale, Bounderby non avrebbe potuto fare al riguardo un chiasso maggiore di quello che già faceva. La vanità, che lo induceva a svalutare la propria origine, lo portava a esaltare quella della signora Sparsit. Mentre negava che una sola circostanza favorevole avesse allietato la sua giovinezza, attribuiva infinite opportunità a quella della signora Sparsit, il cui cammino sarebbe stato cosparso da una profusione di rose appena sbocciate. «E come è andata a finire, signore?», era solito chiedere. «Per cento all'anno (le do cento, cifra che lei ha la compiacenza di definire generosa) eccola qui, a casa di Josiah Bounderby di Coketown, a far la governante».

Faceva un tal parlare delle alterne sorti, che non pochi ne rimasero convinti e se ne servirono in varie occasioni con molta disinvoltura e spregiudicatezza. Era una caratteristica esasperante di Bounderby non solo mettersi a cantare le proprie doti, ma indurre anche gli altri a farlo. Si annidava in lui una infezione morale contagiosa: quella di sproloquiare. Gente che non lo conosceva e che altrove sarebbe rimasta in disparte, nei banchetti di Coketown balzava in piedi e con gran chiasso si metteva a incensarlo. Nella parole di costoro, Bounderby diventava il simbolo della Corona, della bandiera, della Magna Charta, di John Bull, dell'Habeas Corpus, della Dichiarazione dei Diritti, del principio che «per un inglese la sua casa è il suo castello», della Chiesa e di Dio Salvi la Regina, tutto insieme. E se, come spesso accadeva, l'oratore citava i celebri versi:

Sorge e cade il potente;

Ad innalzarlo e ad abbatterlo basta un niente

era chiaro a tutti che si riferiva alla triste storia della signora Sparsit.

«Signor Bounderby», disse la signora Sparsit, «andate molto adagio con la colazione stamane, signore».

«Ebbene, signora, penso al capriccio di Tom Gradgrind,» - Tom Gradgrind, pronunciato con tono disinvolto e deciso, come se qualcuno tentasse invano di corromperlo, offrendogli somme enormi, per fargli dire Thomas - «al capriccio di Tom Gradgrind, signora, di prendersi in casa quella ragazza del circo».

«La ragazza aspetta di sapere se deve andare direttamente a scuola oppure a Stone Lodge», disse la signora Sparsit.

«Aspetterà», rispose Bounderby, «aspetterà fino a che non lo dirò io. Tom Gradgrind arriverà tra poco. Se desidera far rimanere la ragazza qui ancora per un paio di giorni, potrà restarci naturalmente, signora».

«Certo che potrà, se così volete, signor Bounderby».

«Gli ho detto che avrei provveduto io a sistemare la ragazza per la notte in modo che ci dormisse sopra prima di decidere se presentarla o meno alla signorina Louisa».

«Davvero, signor Bounderby? Molto gentile da parte vostra».

Mentre sorseggiava il tè, le narici coriolanesche della signora Sparsit si dilatarono un poco e le sopracciglia nere si contrassero.

«A me è già chiarissimo», disse Bounderby, «che la gattina non trarrà alcun vantaggio da una simile comnia».

«Parlate della signorina Gradgrind, signor Bounderby?».

«Sì, signora, parlo di Louisa».

«Dato che avete accennato soltanto a una gattina e dato che le ragazze in questione sono due, non capivo a chi alludesse la vostra espressione».

«A Louisa», ripeté Bounderby, «a Louisa, a Louisa».

«Siete davvero un secondo padre per Louisa, signore».

La signora Sparsit sorseggiò di nuovo il tè e, mentre chinava le sopracciglia aggrottate sulla tazza fumante, le sue fattezze classiche parvero evocare le divinità infernali.

«Se aveste detto che sono un secondo padre per Tom (il giovane Tom, naturalmente, non il mio amico Tom Gradgrind), avreste colto nel segno. Ho infatti intenzione di assumerlo nel mio ufficio. Lo prenderò sotto le mie ali, signora».

«Davvero? Non credete che sia troppo giovane, signore?».

Il 'signore' che la nostra gentildonna rivolgeva a Bounderby era una parola molto cerimoniosa, intesa più a dar tono a lei che la usava, che a esprimere ossequio per lui.

«Non lo prenderò subito; prima deve finire di rimpinzarsi di studi. E ne avrà a sufficienza, per l'amor del cielo!», disse Bounderby. «Chissà come ci resterebbe, quel ragazzo, se sapesse com'era vuota la mia testa quando avevo la sua età.» - Cosa che, detto fra parentesi, il ragazzo sapeva benissimo perché l'aveva sentito ripetere a non finire.

«È incredibile quanto mi sia difficile intrattenermi con gli altri, da pari a pari, su molti argomenti. Per esempio: stamattina vi ho parlato di saltimbanchi. Che cosa ne sapete voi dei saltimbanchi? Quando fare salti nel fango della strada sarebbe stato per me una manna dal cielo, un vero e proprio terno al lotto, voi andavate all'opera italiana. Uscivate dall'opera italiana, signora, vestita di raso bianco, tutta ingioiellata e scintillante. E io, allora, non avevo neppure il penny che serviva a comprar la torcia per farvi strada».

«Sì, signore», rispose la signora Sparsit con composta tristezza, «ho frequentato l'opera italiana fin da quando ero bambina».

«Anch'io, signora», disse Bounderby, «ma dalla parte sbagliata. ½ assicuro che il pavimento del porticato davanti al teatro era un letto molto duro. Persone come voi, signora, abituate fin dall'infanzia a dormir in letti di piume, non immaginano, se non l'hanno provato, quanto sia duro dormire per terra. No, no, inutile, parlare di saltimbanchi a voi. Dovrei parlarvi di ballerini stranieri, del West End di Londra, di May Fair, di signore e signori importanti, di onorevoli».

«Confido, signore», rispose con tranquilla rassegnazione la signora Sparsit, «che non vi sentiate in dovere di far niente di simile. Spero di aver imparato ad adattarmi e ad accettare le vicissitudini della vita. L'interesse che trovo ad ascoltare le vostre istruttive esperienze - non mi stanco mai di sentirle - non è cosa da iscrivere a proprio merito perché si tratta, credo, di convincimento generale».

«Bene, signora», disse il padrone, «forse ci sono persone che si compiacciono ad ascoltare quello che nel suo modo un po' rozzo Josiah Bounderby ha da raccontare sulle vicissitudini della sua vita. Ma voi, signora, siete nata in mezzo al lusso, ammettetelo. Via, sapete benissimo di essere nata in mezzo al lusso!».

«Non lo nego, signore», rispose la signora Sparsit scuotendo la testa.

Bounderby si sentì in obbligo di alzarsi e di guardarla, tenendo la schiena al fuoco. Non c'era dubbio: quella donna dava lustro alla sua posizione.

«Vivevate tra la crema della società. Alta, altissima società!», disse sfregandosi le gambe per scardarle.

«È vero, signore», rispose la signora Sparsit, affettando un'umiltà che era esattamente il contrario dell'atteggiamento pomposo di Bounderby, il che evitava il pericolo di scontrarsi con lui.

«Frequentavate gli ambienti alla moda, con tutto quel che segue», disse ancora Bounderby.

«Sì, signore», confermò la signora Sparsit con l'aria di essere avvolta da un alone di vedovanza sociale. «È proprio vero».

Piegandosi sulle ginocchia, Bounderby si abbracciò letteralmente le gambe per la soddisfazione e scoppiò in una risata. In quel momento vennero annunciati il signore e la signorina Gradgrind, e Bounderby accolse il primo con una stretta di mano e la seconda con un bacio.

«Possiamo far venire qui la ragazza, Bounderby?».

«Sicuro». Così fu chiamata Cecilia Jupe. Nell'entrare, fece una riverenza a Bounderby, al suo amico Tom Gradgrind, a Louisa; ma, nella sua confusione, sfortuna volle che dimenticasse la signora Sparsit. Bounderby, che se ne accorse, pensò bene di intervenire tuonando:

«Ti voglio dire una cosa, ragazza mia. Quella signora lì, con la teiera in mano, è la signora Sparsit. Quella signora è come una padrona qui dentro, ha parentele molto in alto. Di conseguenza, se ti capiterà ancora di metter piede in una qualsiasi stanza di questa casa, ricordati che non ci starai per molto, se non ti comporterai nei riguardi di quella signora con tutto il rispetto. Non mi importa un fico secco di come ti comporti verso di me, perché io non ho nessuna pretesa di essere qualcuno. Non ho parentele in alto, anzi non ho nessuna parentela, e vengo dalla feccia del mondo. Ma ci tengo molto a come ti comporti con quella signora: o sarà con rispetto e deferenza, oppure qui dentro non metterai più piede».

«Spero, Bounderby», disse Gradgrind con voce conciliante, «che sia stata soltanto una distrazione».

«Il mio amico Tom Gradgrind pensa, signora Sparsit, che sia stata soltanto una disattenzione. Probabile. Ma, come ben sapete, signora, non ammetto disattenzioni o distrazioni nei vostri confronti».

«Siete molto buono, davvero, signore», rispose la signora Sparsit, scuotendo la testa con solenne umiltà. «Non merita parlarne».

A Sissy, che durante tutto quel tempo, con le lacrime agli occhi, aveva cercato debolmente di scusarsi, il padrone di casa fece il cenno, con un gesto della mano, di avvicinarsi al signor Gradgrind. La ragazza rimase immobile a fissarlo; accanto al padre, Louisa se ne stava in atteggiamento freddo e distaccato, gli occhi bassi, mentre Gradgrind parlava in questo modo:

«Jupe, ho deciso di prenderti in casa mia perché tu possa assistere, quando non sarai a scuola, la signora Gradgrind che è piuttosto ammalata. Ho raccontato alla signorina Louisa (eccola qui la signorina Louisa) l'infelice, ma inevitabile, fine della tua precedente carriera; sta a te renderti conto che tutta quella storia appartiene al passato e non deve più, per nessun motivo, essere ricordata. Da oggi comincia la tua vera storia. Tu non hai nessuna istruzione, lo so».

«Sì, signore», rispose lei con un inchino.

«Avrò la soddisfazione di educarti con grande rigore, e sarai per quelli che verrai a conoscere, la prova in carne e ossa dei vantaggi del sistema di educazione che ti verrà impartito. Ti recupereremo e ti plasmeremo. Avevi l'abitudine di leggere a tuo padre e all'altra gente con cui ti ho trovata, vero?», chiese Gradgrind, facendole cenno di avvicinarsi e abbassando la voce.

«Solo a papà e a Merrylegs, signore. A papà, voglio dire, ma c'era sempre anche Merrylegs».

«Lasciamo stare Merrylegs, Jupe», disse Gradgrind, aggrottando per un attimo le sopracciglia. «Non ne voglio sentir parlare. Se ho ben capito, avevi l'abitudine di leggere a tuo papà, è così?».

«Oh, sì, signore, moltissime volte. Erano i momenti più felici, sì, i più felici che abbiamo trascorso assieme, signore!».

Solo quando Sissy, sopraffatta dal dolore, scoppiò in lacrime, Louisa alzò gli occhi e la guardò.

«Che cosa leggevi a tuo padre, Jupe?», chiese Gradgrind con voce ancora più bassa.

«Di fate, signore, le storie di fate, la storia del nano, del gobbo, dei folletti», singhiozzò la ragazza, «dei».

«Silenzio!», la interruppe Gradgrind. «Basta così. Non una parola di più su queste dannosissime sciocchezze. Bounderby, ecco un caso che esige un intervento educativo di grande rigore; lo seguirò con il massimo interesse».

«Bene», replicò Bounderby, «vi ho già detto quel che ne penso; non mi prenderei certamente la briga. Ma benissimo, benissimo dato che avete deciso così, benissimo».

E fu così che padre e lia portarono Cecilia Jupe a Stone Lodge e, per strada, Louisa non disse neppure una parola né in un senso né nell'altro. E Bounderby si accinse alle sue occupazioni quotidiane. E per tutta la sera, la signora Sparsit, raccolta in meditazione dietro le sue sopracciglia, rimase a riflettere nell'oscurità malinconica di quel rifugio.

VIII

. NON USARE MAI L'IMMAGINAZIONE

Facciamo risuonare ancora una volta la nota dominante prima di continuare la melodia.

Quando aveva una mezza dozzina di anni in meno, Louisa era stata sorpresa un giorno a esordire, in una conversazione con il fratello, con queste parole: «Tom, a volte immagino», al che Gradgrind - era lui che l'aveva colta a esprimersi in tal modo - si era fatto avanti e aveva ammonito: «Louisa, non immaginare mai!».

Ecco la molla che azionava il misterioso congegno meccanico capace di educare la ragione, senza piegarsi a coltivare sentimenti e affetti. Non usare mai l'immaginazione! Sistemare tutto, in qualche modo, servendosi di addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni, e non usare mai l'immaginazione. Portatemi un bambino ai suoi primi passi, diceva M'Choakumchild, ed io mi impegno a non fargli mai usare l'immaginazione.

Ora avveniva che ci fossero a Coketown, oltre allo stuolo di bambini in grado di fare i primi passi, anche tantissimi altri che, a dispetto del passare del tempo, erano rimasti bimbi e camminavano verso il mondo infinito da venti, trenta, quaranta, cinquant'anni e anche di più. E poiché questi portentosi bimbi erano creature troppo inquietanti e sospette per essere lasciate libere di aggirarsi in una qualsiasi comunità umana, ecco che le diciotto sette religiose si azzuffavano e si tiravano per i capelli, nel tentativo di mettersi d'accordo sui passi da intraprendere per migliorarli: il che non avvenne mai. Risultato sorprendente, se si considera il felice adattamento dei mezzi al fine. Per quanto divergessero su tutti i punti concepibili e inconcepibili (soprattuto inconcepibili), su uno, però, concordavano unanimi: quei disgraziati bimbi non dovevano usare mai l'immaginazione. La setta numero uno diceva che si doveva metter tutto sul piano della fede; la setta numero due sosteneva che si doveva metter tutto sul piano dell'economia politica; la setta numero tre scriveva per loro libretti pesanti come mattoni per dimostrare che il bambino buono, quando diventa grande approda invariabilmente alla cassa di risparmio, mentre quello cattivo, da grande, finisce invariabilmente ai lavori forzati. La setta numero quattro, nel penoso tentativo di essere faceta (in realtà era assai malinconica), fingeva penosamente di avere in serbo pozzi di scienza nei quali questi bambini dovevano essere attratti con le lusinghe. Tutte le sette erano però d'accordo che i ragazzi non dovessero mai usare l'immaginazione.

C'era a Coketown una biblioteca aperta a tutti. Gradgrind si lambiccava il cervello su quello che la gente andava a leggere in quella biblioteca: punto di confluenza di fiumicelli e rivoletti di tabelle statistiche che sfociavano nel grande mare tempestoso dei tabelloni statistici, dove nessun tuffatore riusciva a raggiungere una qualche profondità senza tornare a galla pazzo. Era una situazione davvero scoraggiante, ma un triste fatto, che perfino questi lettori insistessero nell'usare l'immaginazione. Fantasticavano sulla natura umana, sulle passioni umane, sulle speranze e sui timori degli uomini, sulle lotte, sui trionfi, sugli affanni, sulle gioie e sui dolori, sulla vita e sulla morte di uomini e di donne comuni. Qualche volta, dopo quindici ore di lavoro, si sedevano a leggere vere e proprie fole che parlavano di uomini e donne più o meno come loro, e di ragazzi che, più o meno, somigliavano ai loro. Stringevano al petto De Foe invece di Euclide e, in genere, sembrava che traessero più diletto da Goldsmith che da Cocker. Gradgrind si dava da fare per capire, facendo a mente, oppure con carta e matita, quella strana somma, senza mai riuscire a comprendere quel totale tanto imprevedibile.

«Sono stanco di questa vita, Lou. La odio, e, tranne te, odio tutti», disse quello snaturato di Thomas Gradgrind lio, verso sera, nella stanza che sembrava un salone di barbiere.

«Non odierai Sissy, Tom?».

«Odio doverla chiamare Jupe. E lei mi odia», disse Tom imbronciato.

«No, non è vero, Tom. Ne sono sicura».

«Deve odiarmi», disse Tom, «deve odiarci e detestarci tutti quanti. Non la lasceranno stare in pace, credo, finché non l'avranno avuta vinta. È già pallida come la cera, e pesante come me».

Il giovane Thomas esprimeva tali sentimenti, seduto a cavalcioni su una sedia, davanti al fuoco; teneva le braccia sulla spalliera e il viso cupo appoggiato sulle braccia. Seduta accanto al caminetto, nell'angolo più buio, la sorella guardava ora lui, ora le scintille che cadevano sulla pietra.

«Quanto a me», disse Tom, scompigliandosi i capelli che cadevano con gesto scontroso, «sono un mulo, ecco quel che sono! Ostinato come un mulo, stupido come un mulo, soddisfatto come un mulo, con la stessa voglia di tirar calci».

«Non a me, spero, Tom».

«No, Lou, non farei mai del male a te. Ti ho già detto che sei un'eccezione. Non so cosa farei incarcerato in questo carcere» - Tom fece una breve pausa per trovare un'espressione abbastanza efficace ed eloquente per definire il tetto paterno, e quell'allitterazione sembrò dargli un attimo di sollievo - «incarcerato in questo carcere, se non ci fossi tu».

«Davvero, Tom? Lo dici sul serio?».

«Certamente! Ma a che serve parlarne?», replicò Tom, fregandosi il viso sulla manica della giacca, quasi a mortificare la carne e a mantenerla in sintonia con il suo umore.

«Tom», disse la sorella che era rimasta a fissare in silenzio le scintille, «a mano a mano che passa il tempo e si avvicina il giorno in cui sarò grande, mi siedo spesso qui, davanti al fuoco, a pensare. È un gran peccato che io non riesca a fare amare almeno a te questa casa e a farti andar d'accordo con gli altri. Io non so fare quello che sanno fare le altre ragazze. Non so suonare per te, non so cantare. Non so allietarti con le mie parole, perché non vedo mai nulla di divertente, non leggo mai libri piacevoli, di quelli che sarei contenta di raccontare per rincuorarti, quando sei stanco».

«Neppure io. Sotto questo aspetto, sono mal ridotto come te; in più sono un mulo, cosa che tu non sei. Poiché nostro padre si era prefisso di fare di me o un pedante o un mulo, visto che non sono diventato un pedante, ne consegue ragionevolmente che sono un mulo. E lo sono», disse Tom con disperazione.

«È un peccato», disse Louisa dal suo angolo dopo un'altra pausa meditabonda. «È un peccato, una gran sfortuna per tutti e due».

«Tu sei una ragazza, Louisa», dise Tom, «e una ragazza ne esce meglio di un uomo. Non ti manca nulla. Sei l'unica gioia che io abbia; riesci a rallegrare perfino questo posto e mi fai fare quello che vuoi».

«Sei un caro fratello, Tom, e, fino a che penserai così di me, non mi importerà nulla di sapere che non è vero. Perché è proprio così, Tom, ne sono desolata». Gli si avvicinò per abbracciarlo e poi ritornò nel suo angolo.

«Se almeno riuscissi a raccogliere tutti i fatti di cui sentiamo sempre parlare», disse Tom digrignando i denti con ira, «e tutte le cifre insieme a tutti quelli che le hanno inventate! Li metterei su mille barili di polvere e li farei saltare in aria tutti insieme. A ogni modo, quando andrò con il vecchio Bounderby, avrò la mia rivincita».

«La tua rivincita, Tom?».

«Mi divertirò a girare, a vedere, ad ascoltare. Mi vendicherò del modo in cui mi hanno allevato».

«Non illuderti, Tom. Bounderby la pensa come nostro padre, solo che è assai più duro e molto meno buono».

«Oh», esclamò Tom ridendo, «non me ne importa. So come trattare il vecchio Bounderby e tenermelo buono».

Le loro due ombre si stagliavano nette contro il muro, ma quelle dei grandi armadi della stanza si confondevano sulle pareti e sul soffitto al punto che su fratello e sorella sembrava incombesse un'oscura caverna. Una immaginazione accesa - se mai tanto tradimento avesse potuto annidarsi lì - avrebbe ravvisato fra quelle ombre anche l'ombra dei loro discorsi e il suo approssimarsi e incombere sul loro futuro.

«Come farai a tenertelo buono? È un segreto, Tom?».

«Se è un segreto, non è certamente difficile da capire: sei tu. Tu sei la sua cocca, la sua prediletta. Farebbe tutto per te. Quando mi dirà qualcosa che non mi va giù, gli risponderò: 'Mia sorella Lou ne sarà addolorata e delusa, signor Bounderby. Mi ha sempre assicurato che sareste stato molto più indulgente con me'. Se non lo calmeranno queste parole, non ci sarà altro da fare».

Tom rimase ad aspettare una risposta a queste sue osservazioni, ma non ottenendola, si strinse con più forza alla spalliera della sedia, si arruffò i capelli, fece uno sbadiglio, poi alzando all'improvviso lo sguardo, chiese:

«Ti sei addormentata, Lou?».

«No, Tom. Sto guardando il fuoco».

«Si direbbe che tu veda nel fuoco cose che io non sono mai riuscito a scorgervi. Ecco un altro vantaggio di essere donna, suppongo».

«Tom», chiese la sorella lentamente, in uno strano tono di voce, come se, tentando di leggere nel fuoco le cose che diceva, non le scorgesse con chiarezza, «aspetti con ansia questo cambiamento che ti porta dal signor Bounderby?».

«C'è una cosa che va detta a questo proposito», rispose Tom scostando la sedia e alzandosi, «ed è che, se non altro, me ne andrò da questa casa».

«C'è da dire una cosa al riguardo», ripeté Louisa con lo stesso strano tono di voce di prima, «ed è che, se non altro, me ne andrò da questa casa. Sì».

«Mi dispiacerà lasciarti, Lou. Ma devo andarmene, lo sai, che mi piaccia o no. Preferisco, allora, andare dove posso trarre qualche vantaggio dalla tua influenza, anziché in un luogo dove la perderei del tutto. Capisci?».

«Sì, Tom».

La risposta, sebbene non recasse traccia di esitazione, tardò tanto a venire che Tom, avvicinatosi a Louisa, si appoggiò alla spalliera della sua sedia, per osservare, dallo stesso punto, il fuoco che tanto la avvinceva e per vedere se mai riuscisse a capirne qualche cosa.

«Tranne il fatto che è un fuoco», disse Tom, «mi sembra stupido e vuoto come tutto il resto. Che cosa ci vedi? Un circo, forse?».

«Nulla di particolare, Tom. Ma da quando lo guardo, mi metto a immaginare quel che ne sarà di te e di me, quando saremo grandi».

«Immagini ancora cose?», chiese Tom.

«Ho pensieri ribelli che continuano a inseguire l'immaginazione».

«Allora, Louisa, ti prego», interruppe la signora Gradgrind che aveva aperto la porta senza farsi sentire, «di non dir mai nulla del genere, per amor del cielo, sventata che non sei altro, oppure tuo padre non la finirà più. E tu, Thomas, è davvero una vergogna - oh, la mia povera testa non mi dà un attimo di pace! - è una vergogna che un ragazzo, allevato come sei stato allevato tu, con una educazione che è costata tanto, si faccia cogliere mentre incoraggia la sorella a fantasticare, sapendo che suo padre lo ha espressamente proibito».

Louisa negò che Tom avesse partecipato a quel terribile delitto, ma la madre le chiuse la bocca con una risposta che non ammetteva replica: «Louisa, non parlarmi così, nello stato di salute in cui mi trovo. Se tu non fossi stata incoraggiata, non lo avresti fatto: è moralmente e materialmente impossibile».

«Sono stata incoraggiata, mamma, soltanto dalle scintille rosse che sprizzavano dal fuoco e si spegnevano. Mi è venuto da pensare a quanto sia breve, dopo tutto, la vita, e quanto poco io possa sperare di concludere».

«Sciocchezze!» disse la signora Gradgrind, con un barlume di energia. «Sciocchezze! Non startene lì a dirmi in faccia cose del genere, Louisa, quando sai benissimo che, se tuo padre viene a saperlo, non la finisce più. Dopo tutta la pena che si è presa per te! Dopo tutte le lezioni che hai frequentato, dopo tutti gli esperimenti che hai visto! Dopo che io stessa ti ho sentita, malata com'ero, quando avevo il fianco destro paralizzato, discutere con il tuo maestro sulla combustione e sulla calcinazione e sulla calorificazione e su tutte quelle altre parole in ione che per poco non mi facevano impazzire, devo ora sentirti parlare in modo così assurdo di cenere e di scintille! Se almeno», singhiozzò la signora Gradgrind, prendendo una sedia e tirando fuori l'argomento più conclusivo, prima di soccombere sotto quelle mere parvenze di fatti, «se almeno non avessi mai avuto una famiglia! Allora avreste capito cosa vuol dire stare senza di me!».

IX

. I PROGRESSI DI SISSY

Tra M'Choakumchild e Gradgrind, Sissy Jupe non aveva una vita facile, e, nei primi mesi, quando era ancora, per così dire, in prova, più di una volta ebbe l'impulso di scappare. I fatti le grandinavano addosso con tanta violenza per tutto il giorno, e la vita in genere le si apriva davanti come un libro mastro così rigorosamente compilato, che sarebbe certamente scappata, se non l'avesse trattenuta un pensiero.

È davvero deplorevole, ma il pensiero che la tratteneva non era frutto di un processo aritmetico; era lei stessa ad autoimporselo sfidando tutti i conteggi, tutti i calcoli delle probabilità che un qualsiasi contabile avrebbe ricavato sulla base di quelle premesse. La ragazza non credeva che il padre l'avesse abbandonata: viveva nella speranza che tornasse e nella convinzione che sarebbe stato più contento se lei fosse rimasta dov'era.

L'incresciosa insipienza con la quale Sissy si aggrappava a questo pensiero consolatorio, rifiutando il superiore conforto della consapevolezza, sostenuta da solide basi matematiche, che suo padre era un vagabondo snaturato, colmava di pietà Gradgrind. Che fare? M'Choakumchild dichiarava che la ragazza era ottusa nel calcolo; che, una volta apprese un paio di cose sulla sfera terrestre, non aveva più dimostrato alcun interesse a conoscerne le esatte misure; che era molto lenta nell'imparare le date, a meno che non si collegassero a qualche fatto doloroso, che scoppiava in lacrime quando le si chiedeva di calcolare subito (a mente) il costo di duecentoquarantasette cuffie di mussolina a quattordici pence e mezzo l'una; che a scuola era l'ultima; che solo il giorno prima, dopo che per otto settimane le erano stati inculcati i principi dell'economia politica, un bimbetto alto meno di un metro l'aveva corretta, perché alla domanda: «Qual è il principio primo di questa scienza?», aveva dato l'assurda risposta: «Fare agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te».

Scuotendo la testa, Gradgrind osservava che la faccenda si era messa male, che sarebbe stata necessaria una lunga e paziente macinazione al mulino del sapere mediante sistemi, schede, registri, rapporti e tavole statistiche dalla «a» alla «z», e che quella Jupe doveva rigar dritto. Così, a forza di rigar dritto, Sissy si fece più triste, ma non più accorta.

«Mi piacerebbe essere come voi, signorina Louisa», disse una sera, mentre Louisa cercava di chiarirle alcuni dubbi sulle lezioni del giorno dopo.

«Lo credi davvero?».

«Saprei tante cose, signorina Louisa. Tutto quello che ora mi è difficile, mi diventerebbe facile».

«Non è detto che saresti migliore, Sissy».

Dopo una breve esitazione, Sissy suggerì: «Ma nemmeno peggiore, signorina Louisa». Al che la signorina Louisa rispose: «Non lo so».

L'intesa fra le due ragazze era assai limitata, sia perché la vita a Stone Lodge procedeva col ritmo monotono di una macchina, scoraggiando i rapporti tra le persone, sia per la proibizione fatta a Sissy di accennare al suo passato. Le ragazze erano perciò quasi estranee l'una all'altra; Sissy, i grandi occhi bruni fissi con aria perplessa sul volto di Louisa, non sapeva se continuare a parlare o starsene in silenzio.

«Sei certo molto più utile tu alla mamma e più carina con lei di quanto lo sia mai stata io», riprese Louisa. «Tu accetti te stessa più di quanto io accetti me stessa».

«Ma, se mi consentite, signorina Louisa», osservò Sissy, «io sono io sono così stupida!».

Con una risata più vivace del solito, Louisa le disse che col tempo sarebbe diventata più assennata.

«Non sapete», disse Sissy sull'orlo delle lacrime, «quanto sia stupida. A scuola non faccio che sbagliare; il signore e la signora M'Choakumchild mi interrogano sempre, ma io do sempre risposte sbagliate. È più forte di me. Mi vengono spontanee».

«Il signore e la signora M'Choakumchild non sbagliano mai, vero, Sissy?».

«Oh, no!», si affrettò a rispondere. «Sanno tutto, loro!».

«Dimmi qualcuno degli sbagli che hai fatto».

«Me ne vergogno un poco», rispose Sissy con una certa riluttanza. «Oggi, per esempio, il signor M'Choakumchild ci spiegava la Prosperità Naturale».

«Penso che si trattasse della Prosperità Nazionale», osservò Louisa.

«Sì, proprio così non è la stessa cosa?».

«Meglio dire Nazionale, se ha detto così», replicò Louisa con distaccato riserbo.

«Prosperità Nazionale. Ha detto: 'Ora quest'aula è una nazione. In questa nazione ci sono cinquanta milioni in danaro sonante. È una nazione ricca? Ragazza numero venti, non pensi che questa sia una nazione ricca e che tu ti trovi in un condizione di prosperità?'».

«Che cosa hai risposto tu?», chiese Louisa.

«Signorina Louisa, ho detto che non lo sapevo. Ho detto che non sapevo decidere se quella era una nazione ricca oppure povera, e se io ero in una condizione prospera o no, se prima non sapevo chi aveva il danaro e se me ne veniva una parte. Ma questo non c'entrava per nulla, le cifre non lo dicevano», disse Sissy asciugandosi gli occhi.

«Hai fatto un grosso sbaglio», osservò Louisa.



«Sì, signorina Louisa, ora lo so. Poi il signor M'Choakumchild ha detto che mi avrebbe fatto ancora un'altra domanda. 'Quest'aula', ha spiegato, 'è un'immensa città di un milione di abitanti. Di questo milione solo venticinque muoiono di fame per le strade ogni anno. Che cosa hai da dire su questa percentuale?' Io ho osservato - non riuscivo a trovar niente di meglio - che, secondo me, era molto brutto per quelli che morivano di fame, e che per loro non faceva differenza se gli altri erano un milione oppure un milione di milioni. E così ho di nuovo sbagliato».

«Certo, che hai sbagliato».

«Allora il signor M'Choakumchild ha detto che mi avrebbe fatto ancora un'altra domanda. Ha detto: «Ecco le strampistiche».

«Le statistiche», corresse Louisa.

«Sì, signorina Louisa, - mi viene sempre da strampalare, ecco un altro dei miei sbagli - le statistiche degli incidenti che avvengono in mare. 'I dati dimostrano', ha detto il signor M'Choakumchild, 'che in un dato momento centomila persone sono in mare per un lungo viaggio e che solo cinquecento finiscono o annegate o bruciate. Qual è la percentuale?'. Io ho risposto, signorina», e qui, mentre confessava pentita il suo grave errore, Sissy si mise a singhiozzare forte, «ho risposto che non c'era percentuale».

«Non c'era percentuale, Sissy?».

«No, signorina, non c'era; le percentuali non significano niente per i parenti e gli amici dei morti. Non imparerò mai», concluse Sissy. «Il peggio è che il mio povero papà desiderava tanto che io imparassi e io mi sforzo di imparare perché lui voleva così, ma ho proprio paura che l'istruzione non mi piaccia».

Louisa rimase a fissare la bella testina che la ragazza aveva umilmente reclinato davanti a lei, con un moto dettato dal turbamento, fino a che non la rialzò per guardarla. Allora le chiese:

«Tuo padre sapeva molte cose per desiderare che anche tu avessi un'istruzione, Sissy?».

Sissy ebbe un attimo di esitazione, prima di rispondere, facendo chiaramente capire che si stavano avventurando su un terreno proibito. Allora Louisa aggiunse: «Nessuno ci sente e, anche se accadesse, sono sicura che non c'è niente di male in una domanda tanto innocente».

«No, signorina Louisa», rispose Sissy scuotendo la testa, sentendosi incoraggiata, «papà sa molto poco. Sa a malapena scrivere e la sua scrittura risulta a malapena comprensibile. Per me è chiarissima».

«E tua madre?».

«Papà diceva che era molto istruita. È morta quando sono nata io. Era ». Sissy diede la notizia con nervosismo, «era una ballerina».

«Tuo padre l'amava?». Louisa poneva le domande con quella curiosità vivace, intensa e incontrollata che le era caratteristica; una curiosità andata fuori strada come una creatura messa al bando e rifugiatasi in luoghi solitari.

«Oh, certamente! L'amava quanto amava me. Papà mi voleva molto bene soprattutto per amor suo. Mi portava con sé, quando ero bambina. Non ci siamo mai separati da allora».

«Eppure ti ha abbandonata, Sissy».

«Per il mio bene, soltanto per questo. Nessuno lo capisce come lo capisco io; nessuno lo conosce come lo conosco io. Quando se n'è andato per il mio bene - non se ne sarebbe mai andato se fosse stato per il suo bene - sono sicura che il cuore gli si è quasi spezzato. Fino a che non tornerà, non avrà un attimo di gioia».

«Parlami ancora di lui», chiese Louisa. «Poi non ti chiederò più nulla. Dove abitavate?».

«Viaggiavamo per il paese e non avevamo una dimora fissa. Papà è un». Sissy bisbigliò la terribile parola, «un clown».

«Uno di quelli che fanno ridere la gente?», chiese Louisa con un cenno del capo per mostrare che aveva capito.

«Sì, ma qualche volta la gente non rideva e allora papà scoppiava in lacrime. Negli ultimi tempi non capitava quasi mai che la gente ridesse, e papà tornava a casa disperato. Papà non è come gli altri. Forse quelli che non lo conoscevano come me e non gli volevano bene come me, pensavano che non avesse la testa a posto. Qualche volta gli facevano brutti scherzi, ma non sapevano quanto se la prendesse a male e come si chiudesse in se stesso, quando era solo con me. Era molto, molto più timido di quanto si potesse credere».

«In quei momenti la tua presenza gli era di conforto?».

Sissy fece cenno di sì con la testa, mentre lacrime le rigavano il viso. «Spero di sì, lui sosteneva che era così. Proprio perché era diventato così pieno di paura e tremava sempre, proprio perché si considerava un poveraccio debole, ignorante, senza speranza (sono parole sue), voleva che io imparassi molte cose, che fossi diversa da lui. Spesso gli leggevo per fargli coraggio, e a lui piaceva moltissimo. Erano libri cattivi (non devo parlarne mai qui dentro), ma noi non sapevamo che facessero male».

«A lui piacevano?», domandò Louisa, guardandola con occhi scrutatori.

«Moltissimo! Lo hanno distratto molte volte da quello che gli faceva male davvero. Più e più volte, durante la notte, dimenticava i suoi guai per fantasticare su quello che avrebbe fatto il sultano: avrebbe lasciato che la bella sposa continuasse la storia, oppure le avrebbe fatto tagliare la testa prima che la finisse?».

«È sempre stato buono con te tuo padre? Fino all'ultimo?», chiese Louisa, violando il gran principio e fantasticando sempre di più.

«Sempre, sempre!», rispose Sissy, giungendo le mani. «Più buono di quanto io non riesca a dire. Soltanto una sera si è arrabbiato, ma non con me, con Merrylegs. Merrylegs» - con voce sommessa diede la terribile spegazione - «è un cane sapiente».

«Perché si è arrabbiato col cane?», chiese Louisa.

«Tornati a casa dopo lo spettacolo, papà disse a Merrylegs di saltare sulla spalliera di due sedie e di starci ritto sopra: era uno dei suoi giochi. Il cane fissò papà e non obbedì subito. Tutto era andato male quella sera e papà non era riuscito a divertire il pubblico. Si mise a gridare che perfino il cane si accorgeva che lui non ce la faceva più, che neppure Merrylegs aveva compassione. Lo picchiò, io mi spaventai e dissi: 'Papà, papà, non far male a quella creatura che ti vuole tanto bene. Il cielo ti perdoni, papà, fermati!'. Smise subito; il cane era tutto coperto di sangue e papà si sedette per terra a piangere con Merrylegs in braccio, e questi cominciò a leccargli la faccia».

Vedendo la ragazza singhiozzare, Louisa si avvicinò a lei, le prese la mano, la baciò e le sedette accanto.

«Raccontami ancora, Sissy, come se n'è andato tuo padre. Ti ho fatto tante domande, puoi raccontarmi la fine. La colpa - se mai si può parlare di colpa - è tutta mia, non tua».

«Cara signorina Louisa», disse Sissy, coprendosi gli occhi e scoppiando di nuovo a piangere, «quel pomeriggio sono tornata a casa da scuola e ho trovato che papà era appena rientrato anche lui, dal circo. Si dondolava seduto sulla sedia accanto al fuoco come se non stesse bene. Gli ho chiesto: 'Ti sei fatto male papà?' (gli era capitato qualche volta di farsi male come capita a tutti) e lui ha risposto: 'Un pochino, mia cara'. Quando mi sono chinata per guardarlo in viso, mi sono accorta che piangeva. Più gli parlavo e più lui nascondeva la faccia; all'inizio tremava e diceva soltanto 'Mia cara, tesoro mio'».

In quel momento, nella stanza entrò Tom, con l'aria di uno che non ha nulla da fare. Guardò le due ragazze con un'indifferenza che attestava una totale mancanza di interesse per tutto ciò che non lo riguardava e, in quel momento, perfino quell'interesse languiva.

«Sto facendo qualche domanda a Sissy, Tom», gli disse la sorella. «Non occorre che te ne vada, ma, per un poco almeno, non interromperci, Tom caro».

«Benissimo», replicò Tom, «solo che nostro padre ha portato qui il vecchio Bounderby e voglio che tu venga in salotto. Se ci sei tu, ho buone probabilità che il vecchio Bounderby mi inviti a cena, mentre, se non ci sei, di probabilità non ne ho neanche una».

«Vengo subito».

«Voglio esserne sicuro, ti aspetterò», disse Tom.

Sissy riprese a voce più bassa: «Alla fine, il povero papà mi disse che di nuovo non era piaciuto al pubblico, che mai più sarebbe piaciuto, che era un disonore e una sventura, che io me la sarei cavata meglio senza di lui. Gli ho detto le parole più affettuose che mi venivano dal cuore; a poco a poco, lui si è calmato e io mi sono seduta vicino e gli ho parlato della scuola e di quello che era stato detto e fatto là. Quando non ho avuto più nulla da raccontare, mi ha messo le braccia al collo e mi ha baciato tante volte. Poi mi ha pregata di andargli a comprare una cosa che adoperava sempre, perché si era fatto male e mi ha raccomandato di andarla a prendere nel posto migliore, all'altro capo della città. Dopo avermi baciato un'altra volta, mi ha lasciata andare. Ero già arrivata in fondo alle scale, quando sono ritornata per tenergli comnia ancora un poco. Dopo aver aperto la porta, gli ho chiesto: 'Papà, posso prendere Merrylegs con me?'. Papà, scuotendo la testa, ha risposto: 'No, Sissy, no, non prendere nulla di mio'. L'ho lasciato seduto accanto al fuoco e, povero, povero papà, deve essere stato allora che gli è venuta l'idea di andarsene per cercar di far qualche cosa per il mio bene perché, quando sono tornata, non c'era più».

«Su, sbrigati a presentarti al vecchio Bounderby, Lou», protestò Tom.

«Non c'è altro, signorina Louisa. Ho sempre pronti per lui i nove olii e so che tornerà. Quando vedo il signor Gradgrind con una lettera in mano, mi manca il respiro e mi si annebbiano gli occhi, perché penso che sia una lettera di papà o del signor Sleary per conto di papà. Il signor Sleary ha promesso di scrivere non appena avrà sue notizie, e io sono convinta che manterrà la parola».

«Su, sbrigati per il vecchio Bounderby, Lou!», insistette Tom, con un fischio di impazienza. «Se ne andrà, se non ti sbrighi».

Da quel momento, ogni volta che Sissy, facendo un inchino al signor Gradgrind in presenza di tutta la famiglia, gli chiedeva con voce rotta: «Scusatemi, signore, se vi disturbo ma avete ricevuto qualche lettera per me?», Louisa interrompeva il suo lavoro, qualunque fosse, e aspettava la risposta con la stessa ansia di Sissy. E quando Gradgrind dava la solita risposta: «No, Jupe, niente del genere», il tremito delle labbra di Sissy si rifletteva sul volto di Louisa e il suo sguardo pieno di pietà seguiva Sissy fino alla porta. Non appena la ragazza usciva, Gradgrind coglieva l'occasione per far notare, che, se quella ragazza avesse ricevuto una solida educazione adatta all'età, avrebbe potuto dimostrare a se stessa, sulla base di principi inconfutabili, quanto fossero infondate quelle fantasiose speranze. Eppure sembrava (non certo a lui perché non vedeva niente del genere) che una fantasiosa speranza potesse radicarsi con la stessa forza di un fatto.

Osservazione, questa, che si riferisce esclusivamente a Louisa; quanto a Tom, il giovane si avviava a sancire il trionfo di un particolare calcolo, un calcolo abbastanza comune, che tiene conto di un numero soltanto: il numero uno, cioè se stesso. La signora Gradgrind, da parte sua, se mai esprimeva una qualche opinione in proposito, facendo capolino dagli scialli in cui era avviluppata, come un ghiro che esce dal letargo, era solita dire:

«Il cielo mi guardi! La mia povera testa! Quella povera ragazza Jupe è così insistente a proposito delle sue noiosissime lettere. Parola mia, sul mio onore, sembra che io sia destinata a vivere in mezzo a cose che si trascinano all'infinito. È davvero incredibile, ma sembra proprio che non debba mai vedere la conclusione di nulla».

A questo punto lo sguardo di Gradgrind si posava su di lei, e sotto l'influenza di quel semplice e gelido fatto, la donna ripiombava nel suo torpore.

X

. STEPHEN BLACKPOOL

Sono abbastanza incline a ritenere che il popolo inglese sia messo sotto pressione più di qualunque altro popolo su cui splenda il sole. Forse è questo ridicolo carattere distintivo che mi spinge a intrattenerlo offrendogli qualche svago.

Nella parte più industriosa di Coketown, nelle fortificazioni più segrete e recondite di quella orribile cittadella dove mura di mattoni sbarravano il passo alla natura con la stessa prepotenza con cui custodivano gas ed esalazioni mefitiche; nel cuore di quel labirinto di cortili che si succedevano a cortili, di vicoli che si susseguivano a vicoli, tutti costruiti a pezzi e bocconi in un posto scelto a caso, solo perché un tizio qualsiasi ne aveva bisogno urgentemente; in questo cuore dove gli edifici, ammassati in un insieme disarmonico, si addossavano, appiccicati l'uno all'altro, fino a esserne soffocati; nella nicchia più remota di questo grande serbatoio, ormai quasi del tutto esaurito, dove i camini, per creare le necessarie correnti d'aria, avevano una infinita varietà di forme - e uno era tutto storto, l'altro tutto striminzito - come a indicare la natura di coloro che nascevano in ciascuna di quelle case; in mezzo alla folla di Coketown, chiamata genericamente la 'manodopera' - una razza di esseri che sarebbe stata tenuta in maggior considerazione, se la Provvidenza avesse ritenuto opportuno fornirli soltanto di mani o, come avviene per alcune specie inferiori di esseri marini, soltanto di mani e stomaci - in questo luogo viveva un certo Stephen Blackpool, di quarant'anni.

Stephen sembrava più vecchio, ma aveva avuto una vita difficile. Dicono che ogni vita abbia rose e spine; ma, nel caso di Stephen, doveva esserci stato un disguido o uno sbaglio, perché qualcuno si era preso le sue rose, mentre a lui erano toccate le spine dell'altro, in aggiunta alle proprie. Per usar le sue parole, aveva avuto un mucchio di guai. Tributando a questo fatto una forma di omaggio un po' grossolano, tutti lo chiamavano il vecchio Stephen.

Era un uomo curvo, con la fronte solcata da rughe, un'espressione pensosa in volto, la testa piuttosto grossa, tipica di un uomo tenace, coperta da capelli grigi, lunghi e sottili. Il vecchio Stephen avrebbe potuto passare per un uomo particolarmente intelligente, date le sue condizioni. Ma non lo era. Non apparteneva a quella 'manodopera' che, mettendo insieme, nel corso di molti anni, i rari intervalli di libertà, ora padroneggiavano scienze difficili o possedevano nozioni sulle cose più improbabili. Non aveva nessun posto tra la 'manodopera' che sapeva far discorsi o presiedere dibattiti. Migliaia di suoi comni di lavoro sapevano, all'occasione, parlare meglio di lui. Era bravo al telaio meccanico ed era uomo di assoluta integrità. Lasciamo che sia lui stesso a mostrarci quello che era, e che altro c'era in lui, se di fatto c'era qualcos'altro.

Nelle grandi fabbriche che, quando erano illuminate, sembravano palazzi fatati (almeno così dicevano i viaggiatori che vi passavano accanto in treno), le luci erano tutte spente; le campane, dopo aver annunciato la fine del lavoro al calar della notte, ora tacevano; la «manodopera», uomini e donne, ragazzi e ragazze, ritornava a casa, scalpicciando sul selciato. Il vecchio Stephen era fermo in mezzo alla strada, pervaso dalla vecchia sensazione che l'arresto delle macchine provocava sempre in lui: la sensazione che tutto quell'enorme congegno avesse sferragliato e si fosse arrestato nella sua testa.

«Non vedo ancora Rachael», disse.

Era una sera umida, e molte giovani donne gli passavano accanto a gruppi, gli scialli tenuti stretti sotto il mento, per proteggere il capo dalla pioggia. Conosceva bene Rachael, un'occhiata ai vari gruppi era sufficiente a dirgli che lei non c'era.

Quando non passò più nessuno, si allontanò dicendo in tono di disappunto: «Be', m'è scappata ancora».

Non aveva superato tre isolati, quando scorse davanti a sé una ura femminile avvolta in uno scialle. La guardò con tanta intensità che l'avrebbe riconosciuta anche se, a muoversi da un lampione all'altro, ora illuminata dal fascio di luce, ora immersa nell'oscurità, fosse soltanto l'ombra e non la persona che la proiettava. Camminando con un passo che era, al tempo stesso, rapido e leggero, si affrettò fino a che non ebbe raggiunto quella ura, poi, ripresa l'andatura normale, chiamò: «Rachael!».

Alla luce del lampione la donna si voltò, e, sollevando un poco il cappuccio, mostrò un viso ovale, con un incarnato olivastro e lineamenti delicati, illuminato da due occhi dolci e incorniciato da capelli di un nero corvino. Non era un volto appena sbocciato, ma quello di una donna di trentacinque anni.

«Ah, sei tu!». Disse queste parole accomnandole con un sorriso che si indovinava soltanto, perché del suo volto non si scorgeva nulla, tranne i begli occhi, poi abbassò ancora il cappuccio e insieme proseguirono il cammino.

«A me mi pareva che tu eri dietro, Rachael».

«No».

«Uscita presto stasera?».

«Qualche volta esco prima, Stephen; qualche volta dopo. Non si può fare affidamento su di me per quando torno a casa».

«Neanche per quanto esci, mi pare a me, Rachael».

«No, Stephen».

La guardò con un'espressione di disappunto, ma nella quale si leggeva la convinzione paziente e rispettosa che lei avesse sempre ragione, qualunque cosa facesse. Alla donna non sfuggì quell'espressione, e, quasi a ringraziarlo, gli posò, per un momento, una mano leggera sul braccio.

«Siamo veri amici, vecchi amici e adesso cominciamo a diventare anche vecchi d'età».

«No, Rachael, tu sarai sempre giovane».

«Sarebbe davvero strano se uno di noi due invecchiasse e l'altro no, Stephen, dato che siamo vivi entrambi», rispose lei ridendo, «ma siamo amici da tanto tempo che faremmo una cattiva azione e sarebbe un vero peccato, se ci nascondessimo l'onesta verità. Meglio se non facciamo troppa strada insieme. Soltanto qualche volta! Sarebbe davvero triste se non dovessimo farlo mai più», disse con un'allegrezza che cercò di comunicare a lui.

«È gravoso in ogni modo, Rachael».

«Cerca di non pensarci; ti sembrerà più sopportabile».

«Ho cercato per molto tempo, ma non è stato così. Ma hai ragione: la gente potrebbe parlare anche di te. Hai significato molto per me in tutti questi anni, Rachael; a me hai fatto molto bene, mi hai tirato su con la tua allegria, tanto che, oggi, quello che dici è legge per me. Sì, un'ottima legge, migliore di molte leggi vere».

«Non crucciarti per le leggi, Stephen», si affrettò a rispondere, non senza lanciargli un'occhiata apprensiva, «lasciale stare».

«Sì», ribatté lui, annuendo un paio di volte, «lasciamole stare, lasciamo stare tutto. Qui c'è imbroglio, là c'è paura».

«Sempre un imbroglio?», chiese Rachael, accarezzandogli ancora il braccio, quasi volesse distrarlo dai pensieri nei quali si era immerso, mentre, camminando, mordicchiava le estremità del fazzoletto che portava allentato intorno al collo. La carezza ebbe effetto immediato. Stephen lasciò cadere le cocche del fazzoletto, si voltò verso di lei, sorridente e, scoppiando in un'allegra risata, disse: «Sì, Rachael, ragazza mia, è tutto un imbroglio».

Avevano percorso un bel pezzo di strada, ed erano quasi giunti alle loro case. Prima veniva quella della donna. Sorgeva in una stradina, uno di quei vicoli dove l'impresario di pompe funebri (che ricava una bella somma dall'unica, povera, squallida forma di pompa in uso in quei quartieri) teneva una scala nera, perché coloro che avevano concluso il loro incerto brancolare quotidiano su e giù per scale troppo strette, potessero scivolare fuori da questo mondo operoso dalla finestra. Rachael si fermò all'angolo e, mettendo la mano in quella di lui, gli augurò la buona notte.

«Buona notte, mia cara, buona notte!».

Rachael, con l'incedere composto della sua ura aggraziata, si allontanò lungo la strada buia e Stephen rimase a guardarla, finché non sve in una casetta. Non c'era forse piega del suo ruvido scialle che non avesse un suo incanto agli occhi di quell'uomo, non c'era sfumatura della sua voce che non avesse un'eco profonda nel suo cuore. Quando l'ebbe perduta di vista, Stephen riprese la via di casa, alzando ogni tanto gli occhi al cielo percorso da nuvole rapide e tempestose. Ma si stava rasserenando ormai e aveva smesso di piovere; guardando in basso le ciminiere di Coketown che svettavano alte sulle profonde fornaci sottostanti, la luna disegnava sui muri tutto intorno le ombre titaniche delle macchine a vapore a riposo. Mentre camminava, l'uomo sembrava rasserenarsi con la notte. La sua casa, che si trovava in una viuzza simile all'altra, ma ancora più angusta, era sopra un negozietto. In questa sede non importa sapere come mai ci fosse gente che decideva di comprare o vendere miseri giocattoli mescolati a giornalacci e carne di maiale (c'era anche un cosciotto: la posta di una lotteria da estrarsi la sera seguente). Da uno scaffale prese un mozzicone di candela, lo accese a un altro mozzicone di candela sul banco, senza disturbare la padrona del negozio che dormiva nella sua stanzetta, e salì fino al proprio alloggio.

Consisteva di una sola stanza che, grazie a vari inquilini, aveva una certa dimestichezza con la scala nera; ma in quel momento era linda quanto può esserlo una stanza simile. Su una vecchia scrivania, in un angolo, c'erano alcuni libri e qualche foglio scritto; il mobilio era decoroso e sufficiente e, malgrado l'aria sporca, la stanza era pulita.

Nell'avvicinarsi al camino per appoggiare la candela su un tavolo rotondo a tre gambe che si trovava lì accanto, Stephen inciampò contro qualche cosa. Indietreggiando, abbassò gli occhi, e la cosa, levandosi, assunse la forma di una donna seduta.

«Santo cielo, donna!», gridò Stephen balzando all'indietro. «Sei tornata?».

E che donna era! Una creatura distrutta, ubriaca, appena in grado di reggersi seduta, appoggiando al pavimento una mano sporca, mentre con l'altra cercava invano di scostare dal viso i capelli arruffati la cui sporcizia, finendo negli occhi, le annebbiava la vista. Una creatura disgustosa nei suoi cenci logori, umidi e infangati, ma ancora più disgustosa nella degradazione morale, tanto che, al solo vederla, si provava ripulsione.

Dopo aver imprecato una volta o due con impazienza e dopo alcuni tentativi per ravviarsi i capelli con le unghie della mano che non le serviva a sostenersi, la donna riuscì a scostarli quel tanto che bastava per poter vedere l'uomo. Poi ondeggiò in avanti e indietro con tutto il corpo, facendo con il braccio debolissimo gesti che sembravano intesi ad accomnare uno scoppio di risa, sebbene sul viso l'espressione fosse stolida e inebetita.

«Ehi, bello, sei qui?». Le parole - un suono rauco e indistinto - le uscirono dalle labbra, beffarde; poi la testa le ricadde sul petto.

«Tornata?», strillò dopo qualche minuto, come se quelle parole fossero appena state pronunciate. «Sì! Tornata di nuovo e per sempre! Tornata? Sì, tornata. Perché no?».

Eccitata dall'assurda violenza con la quale aveva parlato, si alzò faticosamente e rimase in piedi, con le spalle appoggiate al muro; faceva dondolare, reggendola per il nastro, una cuffia cenciosa e lercia, e cercava di fissare Stephen con aria di disprezzo.

«Ti rovinerò, venderò ancora tutto quello che hai, venderò ancora e venderò centinaia di volte», gridò in un tono che esprimeva un furore minaccioso e sembrava il preludio a una danza di sfida.

«Togliti dal letto!». Stephen era seduto sulla sponda e teneva il viso nascosto fra le mani. «Togliti da lì. È il mio letto; io ci ho diritto a starci!».

Mentre la donna avanzava, traballando incerta, lui si scostò rabbrividendo e, sempre con il viso tra le mani, si portò all'estremità opposta della stanza. Lei si lasciò cadere pesantemente sul letto e subito prese a russare forte. Stephen si abbandonò su una sedia e per tutta quella notte si mosse una sola volta: per gettarle addosso una coperta, come se tenere le mani davanti agli occhi non fosse sufficiente a nascondergliela, neppure nell'oscurità.

XI

. SENZA VIA D'USCITA

I palazzi fatati si illuminarono tutti prima che la pallida luce dell'alba rivelasse i mostruosi serpenti di fumo che si snodavano sopra Coketown. Uno scalpiccio di zoccoli sul selciato, un rapido squillare di sirene ed eccoli!, gli elefanti in preda a una triste follia, pronti ad affrontare la pesante fatica quotidiana, ben lustrati e oliati in vista del monotono lavoro.

Attento, pacato, tenace, Stephen si chinò sul telaio. Strano contrasto quello fra gli uomini immersi nella foresta di telai e le macchine su cui ciascuno di loro faticava, che stridevano, laceravano, stritolavano. Tutti voi, che siete brava gente tanto ansiosa, non abbiate timore: l'Arte non riuscirà a sopraffare la Natura. Mettete, l'una accanto all'altra, l'opera di Dio e l'opera dell'uomo: dal confronto sarà sempre la prima a uscirne con onore, si tratti pure di un esercito di 'manodopera' insignificante.

Centinaia e centinaia di 'mani' al lavoro in questa fabbrica; centinaia e centinaia di cavalli vapore. Conosciamo fino all'ultima unità quello che può fare una macchina, ma neppure tutti i contabili della tesoreria nazionale, messi assieme, riusciranno mai a calcolare quale sia la capacità di agire nel bene o di operare nel male, di amore o di odio, di patriottismo o di scontento, la capacità di corrompere la virtù in vizio o di esaltare il vizio in virtù, che si annida nell'animo di ciascuno di questi schiavi mansueti, con i loro volti composti e i gesti regolarmente scanditi. Nessun mistero nella macchina; un insondabile mistero perfino nel più umile di loro - per sempre. E se sovvertissimo i sistemi dell'aritmetica che usiamo per stimare gli oggetti materiali e valutassimo con altre misure queste oscure entità ignote!

La luce del giorno si fece più intensa; il suo chiarore si vedeva fuori della fabbrica e perfino dentro, contro l'illuminazione splendente degli impianti. Le lampade furono spente e il lavoro proseguì senza interruzione. Cominciò a piovere; i serpenti di fumo, colpiti dalla maledizione di tutta quella tribù, si misero a strisciare per terra. Nel cortile dove si ammassavano i detriti, all'esterno della fabbrica, un velo di pioggerellina e di umidità avvolse i vapori che uscivano dagli scarichi, i rottami di barili e di ferro vecchio, i cumuli luccicanti di carbone, e, dappertutto, la cenere.

Il lavoro andò avanti fino a che non squillò la campana del mezzogiorno. Di nuovo batter di zoccoli sul selciato: per un'ora, telai, ruote, uomini riposavano i loro ingranaggi.

Stephen, uscendo dalla fabbrica, si incamminò nel vento umido, lungo le fredde strade bagnate. Si allontanò dai comni di lavoro e dal suo quartiere, prendendo soltanto un pezzo di pane per mangiarselo durante il cammino, diretto verso la collina dove abitava il padrone: una casa rossa con imposte nere all'esterno e verdi all'interno, con due gradini bianchi che conducevano a una porta nera su cui stava scritto, su una targhetta di bronzo BOUNDERBY, in caratteri che gli somigliavano. Subito sotto, la maniglia di bronzo brunito sembrava un punto fermo, anch'esso brunito.

Il signor Bounderby era a tavola. Stephen se lo era aspettato. Il domestico poteva avere la compiacenza di annunciare al padrone che uno degli operai lo pregava di concedergli licenza di parlargli? Messaggio di rimando: come si chiama l'uomo? Stephen Blackpool. No, non c'era niente contro Stephen Blackpool, niente che lo indicasse come un piantagrane; sì, poteva entrare.

Stephen Blackpool nel salotto. Il signor Bounderby (che Stephen conosceva appena di vista) a tavola, davanti a cotoletta e sherry.

La signora Sparsit, accanto al caminetto, seduta che pareva in sella, all'amazzone, con un piede in una staffa, era intenta a lavorare a maglia. Si addiceva al ruolo e alla dignità della signora Sparsit non pranzare. Sentiva il dovere di sovrintendere ufficialmente al pasto, ma con il messaggio sottinteso che, per una persona del suo rango, il pranzo era una debolezza.

«Bene, Stephen», cominciò Bounderby, «cosa c'è?».

Stephen fece un inchino. Non un gesto servile - uriamoci se questi uomini fanno mai una cosa del genere! Che il cielo vi assista, signore, se mai li coglierete a farlo, anche se stanno con voi da vent'anni! - e, in omaggio alla signora Sparsit, si infilò nel panciotto le cocche del fazzoletto che portava intorno al collo.

«Non ci hai mai dato grane», disse Bounderby, versandosi dello sherry. «Non sei mai stato uno scalmanato. Non sei uno di quelli - quanti ce ne sono! - che si aspettano di avere una carrozza con un tiro a sei, di nutrirsi a base di zuppa di tartaruga e di cacciagione, servendosi di un cucchiaio d'oro». - Secondo Bounderby, era questo l'obiettivo, l'unico scopo diretto e immediato che si proponevano tutti gli operai insoddisfatti. - «Sono quindi sicuro che non sei venuto qui per lamentarti e protestare. Lo so prima ancora che tu me lo dica».

«No, signore, non ci sono venuto qui per 'sta cosa».

Bounderby si mostrò gradevolmente sorpreso, malgrado la precedente radicata convinzione. «Molto bene», replicò. «Tu sei uno che lavora sodo e ha la testa sulle spalle; non ho preso un granchio. Dimmi allora perché sei venuto. Dato che non sei qui per reclamare, dimmi di che cosa si tratta. Che hai da dirmi? Sputa il rospo, ragazzo mio!».

Stephen lanciò un'occhiata in direzione della signora Sparsit.

«Se lo desiderate, signore, posso andarmene», si offrì la gentildonna con grande abnegazione, facendo finta di togliere il piede dalla staffa.

Bounderby la trattenne con un gesto della mano, bloccandosi col boccone in bocca prima di inghiottirlo. Poi, ritraendo la mano e ingoiando il pezzo di cotoletta, si rivolse a Stephen:

«Questa brava signora nasce bene, è di alto rango. Non metterti in testa che, siccome è alle mie dipendenze e mi manda avanti a casa, non sia di alto anzi di altissimo lignaggio! Se le cose che hai da dire non si possono mettere in piazza davanti a una che è nata signora, allora lei se ne andrà; se invece le cose che hai da dire si possono dire davanti a una signora, nata signora, lei starà proprio dove è ora».

«Signore, da quando sono al mondo, non ci ho mai detto niente, spero, che non va bene a una signora nata signora», fu la risposta di Stephen, che arrossì lievemente.

«Molto bene!», disse Bounderby scostando il piatto e appoggiandosi allo schienale della sedia. «Sputa fuori!».

«Ci sono venuto qui», esordì Stephen, sollevando, dopo un attimo di riflessione, lo sguardo che aveva tenuto puntato a terra, «per chiederci consiglio a voi. Ci ho proprio grande bisogno. Mi sono maritato un lunedì di Pasqua diciannove anni fa, tanto tempo è passato e quante disgrazie! Lei ci era una bella liola, carina, e tutti a me mi dicevano bene di lei. Be', poi è finita male assai presto. Non per colpa mia, questo no! Dio sa che non ci sono stato per lei un cattivo marito!».

«Ne ho sentito parlare», disse Bounderby. «Ha cominciato a bere, ha piantato il lavoro, ha venduto i mobili, impegnato i vestiti, è precipitata sempre più in basso».

«Io ci ho portato pazienza con lei».

(«Tanto peggio per te che hai fatto queste sciocchezze», disse fra sé Bounderby, rivolto al bicchiere di vino).

«Io ci ho portato pazienza. Ho cercato di dirci che no, non andava bene, tante volte. Ho tentato questo e quell'altro. Tornavo a casa e trovavo che era sparito tutto, che non ci rimaneva niente dentro, tutto quello che avevo al mondo, e lei buttata per terra, sul pavimento, ubriaca fradicia. Non una volta, non due venti volte!».

Attestavano le sofferenze che aveva sopportato i solchi che si facevano sempre più profondi sul suo volto, mentre raccontava queste cose.

«Di male in peggio, di peggio in peggio. Lei mi ha lasciato. A me, me ne ha combinate di tutti i colori, me ne ha combinate! Poi ci è tornata indietro da me, una, due, tre volte! Cosa ci potevo fare per tenermela lontano? Ho camminato per le strade di notte per non tornare a casa. Ci sono andato sul ponte perché volevo buttarmi giù e farla finita. Ho sopportato tutto questo perché mi ci ero impegnato quando ero giovane!».

La signora Sparsit, cincischiando con il lavoro a maglia, sollevò le soppracciglia di stampo romano e scosse la testa come per dire: «I grandi della terra conoscono le afflizioni al pari degli umili. Volgete lo sguardo su di me per rendervene conto!».

«Ci ho dato tanti soldi a lei per starsene lontana. In questi cinque anni ci ho dato molti soldi. Ho di nuovo una casa decente. Ho avuto una vita dura e triste, ma senza più vergogna e paura a ogni momento. Ieri sera sono tornato a casa ed eccola lì, in terra. Eccola!».

Sotto la tensione di tanta sofferenza, con la forza della disperazione, per un attimo Stephen si infiammò quasi acceso da una vampata di orgoglio. Ma subito riprese l'atteggiamento abituale: curvo, con il viso meditabondo, rivolto verso Bounderby, e una strana espressione mista di perplessità e di perspicacia, come se dentro di sé fosse assorto a sbrogliare un arduo problema; col cappello tenuto stretto nella mano appoggiata sul fianco; il braccio destro che sottolineava ogni parola con gesto di vigorosa ed aspra eloquenza, efficace anche quando si interrompeva nel momento in cui Stephen, un po' curvo, ma non chiuso in se stesso, smetteva di parlare.

«Ne ero al corrente; sapevo tutto da tempo, tranne l'ultima novità. Brutto affare; ecco che cos'è, un gran brutto affare. Meglio se rimanevi com'eri, senza stare a sposarti. Ormai è troppo tardi per recriminare».

«Fu un matrimonio alla pari, signore, per quanto riguarda l'età?», chiese la signora Sparsit.

«Hai sentito quello che ti ha chiesto questa nobildonna? Fu un matrimonio alla pari per quanto riguarda l'età, questo pasticcio nel quale ti sei cacciato?».

«Sì, sì. Io avevo ventun anni; lei ci aveva venti».

«Davvero, signore?», intervenne la signora Sparsit rivolgendosi al padrone con soave placidità. «Supponevo, tenuto conto che si tratta di un'unione tanto infelice, che ci fosse una grande differenza di età».

Bounderby lanciò alla brava signora un'occhiata in tralice, stranamente impacciata e, per darsi coraggio, si versò ancora un po' di sherry.

«Be', non vai avanti?», chiese con una certa irritazione a Stephen Blackpool.

«Sono venuto qui da voi, signore, per chiedervi come fare a togliermi di torno questa donna». L'espressione fra perplessa e perspicace del volto di Stephen si accentuò, mentre, dal canto suo, la signora Sparsit emetteva un flebile gemito, come se fosse stata gravemente offesa nei propri principi morali.

«Che cosa vuoi dire?», chiese Bounderby avvicinandosi al caminetto e volgendo le spalle al fuoco. «Che cosa dici? L'hai sposata nella buona e nella cattiva sorte».

«Non ce la voglio più attorno. Non ce la faccio. Se mi ci sono adattato per tanto tempo è perché ci ho trovato la compassione e il conforto della più brava ragazza che una così non si trova e non si troverà mai più in nessun posto. Se non c'era lei, diventavo matto».

«Desidera essere libero per sposare la donna cui ha accennato Temo che le cose stiano così, signore», fece notare con voce sommessa la signora Sparsit, scandalizzata dall'immoralità della gente del popolo.

«È vero. Quello che ci dice questa signora è giusto. Proprio così; volevo proprio parlare di questo. Io ci ho letto nei giornali che la gente su, (beati loro! non ci auguro niente di male!) non sono legati nel bene e nel male, ma che dai loro matrimoni infelici possono venirne fuori e risposarsi. Non vanno d'accordo perché ci hanno caratteri che sono male combinati, e allora, in casa, uno ci sta in una camera e l'altro in un'altra, e vivono per conto suo. Noi, povera gente, abbiamo una sola camera, non possiamo fare così. E se neanche questo sistema funziona, ci prendono l'oro e i soldi e ci dicono: questo per me, questo per te, e se ne vanno uno di qui, uno di là. Noi non possiamo. Loro si tirano fuori per cose assai meno gravi di quelle che sono capitate a me. Per questo io devo togliermi di torno questa donna e voglio sapere come».

«Non ci sono 'come'», replicò Bounderby.

«Se la picchio, signore, una legge mi punisce, no?».

«Sicuro».

«Se l'abbandono, una legge mi punisce, no?».

«Sicuro».

«Se sposo l'altra ragazza, una legge mi punisce, no?».

«Sicuro».

«Se vivo con lei senza sposarla - ci dico che è possibile, ma in realtà non lo è perché lei è tanto buona - una legge punisce me, punendo tutti i miei li innocenti, vero?».

«Sicuro».

«Allora, in nome di Dio, mostratemi una legge che invece mi aiuta».

«Ehm! È un vincolo santo», cominciò Bounderby, «e deve essere tenuto in grande considerazione».

«No, non parlate così, signore! Non si può tenerlo in gran considerazione, se è come quello che mi è toccato a me. No, se è come quello che mi è toccato a me. Questo è tenere in poca considerazione. Sono un tessitore, vado in fabbrica da quando ero bambino, ma ci ho occhi per vedere e orecchie per sentire. Io ci leggo scoraggiato nei giornali, tutti i tipi di giornali, in tutti i momenti - anche voi li leggete, lo so! - come questa impossibilità - ma non è vera impossibilità - di togliersi mai, a nessun prezzo, le catene che ci legano l'uno all'altra porta a spargere sangue in questo nostro paese e porta molta gente sposata a picchiarsi, ammazzarsi, morire. Voglio mettere bene in chiaro questo. Che il mio è un caso grave e io voglio - se voi sarete tanto buono da dirmelo - sapere quale legge mi aiuta».

«Sai che ti dico?», intervenne Bounderby, ficcandosi le mani in tasca. «Che questa legge c'è, esiste».

Stephen, riprendendo il suo fare pacato e concentrandosi al massimo, fece cenno di sì col capo.

«Ma non fa per te. Ci vogliono soldi; ci vuole una barca di soldi!».

«Quanto può venirmi a costare a me?», chiese Stephen con calma.

«Devi presentare istanza all'ufficio dove è stato registrato il matrimonio, poi devi presentare istanza di divorzio in tribunale, poi devi presentare istanza alla Camera dei Lord, poi devi ottenere una legge del Parlamento che ti autorizza a risposarti: questo ti viene a costare (se tutto fila liscio) da mille a millecinquento sterline. Forse anche il doppio».

«Non c'è nessun'altra legge?».

«No, nessun'altra».

«Allora, signore», disse Stephen pallido in volto, gesticolando con la destra, come se volesse propalare tutto ai quattro venti, «è tutto un imbroglio, un grande imbroglio. Prima muoio, meglio è».

A questo punto la signora Sparsit si sentì di nuovo turbata dall'empietà della gente del popolo.

«Calma, calma, non dire sciocchezze, amico mio, su cose che non sai. E non chiamare imbroglio le istituzioni del tuo paese, altrimenti, una bella mattina, ti ci trovi tu in un imbroglio. Le istituzioni del tuo paese non sono affar tuo, e quello che devi fare tu è badare ai tuoi affari. Non ci si sposa per giocare a prendere o lasciare; il matrimonio è nella buona e nella cattiva sorte. Se, poi, lei è stata la tua cattiva sorte, tutto quello che possiamo dire è che avrebbe potuto essere la tua buona sorte».

«È tutto un imbroglio, un grande imbroglio!», concluse Stephen, scuotendo la testa e dirigendosi verso la porta.

«Sta' un po' a sentire, tu!», riprese Bounderby a mo' di commiato. «Tu, con le tue idee insensate, hai scandalizzato questa nobildonna che, come ti ho già detto, è una vera signora, e che, come non ti ho già detto, ha avuto anche lei i suoi guai matrimoniali dell'ordine di decine di migliaia di sterline, dico, Decine di Migliaia di Sterline!» (ripeté queste parole con voluttà). «Fino a oggi sei sempre stato uno che ha lavorato sodo; ma ho l'impressione, e te la dico pari pari, che ti stia mettendo su una cattiva strada. Hai ascoltato qualche furbastro venuto da chissà dove - ce n'è sempre in giro - e se vuoi fare qualcosa di buono, dammi retta!, tirati fuori. Sai bene», a questo punto Bounderby assunse un'espressione di grande sagacia, «io ho fiuto, anzi ne ho molto di più di tanta altra gente, forse perché da giovane ho dovuto tenere il naso incollato al lavoro. In quello che hai detto, sento odore di zuppa di tartaruga, cacciagione, cucchiai d'oro. Sì, proprio così», tuonò Bounderby, scuotendo la testa con aria di saperla lunga. «Per Giove, sì!».

Scuotendo la testa in modo ben diverso, con un profondo sospiro, Stephen disse: «Grazie, signore, vi auguro una buona giornata». Lasciò Bounderby che si gonfiava d'orgoglio davanti al proprio ritratto appeso al muro, quasi volesse esploderci dentro; lasciò anche la signora Sparsit che continuava a cincischiare con il suo lavoro a maglia, il piede sempre nella staffa, più avvilita che mai per aver contemplato i vizi della gente del popolo.

XII

. LA VECCHIA

Il vecchio Stephen discese i due gradini bianchi e chiuse la porta nera con la targhetta di bronzo brunito, aiutandosi con il punto di bronzo brunito, al quale diede una lustrata di commiato con la manica della giacca, visto che ne aveva appannato la lucentezza col calore della mano. Attraversò la strada tenendo gli occhi fissi al suolo e stava allontanandosi tristemente, quando si sentì toccare sul braccio.

Non era quella la mano che avrebbe dovuto toccarlo in quel momento - la mano che avrebbe placato le acque tempestose del suo cuore, come aveva placato la furia del mare la mano dell'amore e della pazienza più sublime - era però una mano di donna. Una vecchia, ancora alta e aggraziata, anche se sfiorita dal tempo: ciò vide Stephen quando si fermò e volse la testa.

Gli abiti erano semplici e lindi, aveva sulle scarpe il fango della camna ed era appena arrivata da un viaggio. L'agitazione che trapelava dai suoi gesti nell'inconsueto fragore delle strade, lo scialle di ricambio adagiato sul braccio, il pesante ombrello, il cestino, i guanti larghi dalle dita troppo lunghe, che le sue mani non erano abituate a portare, tutto rivelava una vecchia di camna, nei semplici abiti della festa, venuta a Coketown per qualche importante occasione. Con la capacità di osservazione propria della sua classe, a Stephen Blackpool bastò un'occhiata per cogliere tutti questi particolari; quindi, per sentire meglio ciò che la donna voleva chiedergli, chinò il volto attento, un volto che, come quello di tanti lavoratori, a forza di stare per ore e ore con gli occhi fissi e le mani attive in mezzo a un incredibile frastuono, aveva acquistato quell'espressione concentrata che siamo abituati a riconoscere nei lineamenti dei sordi.

«Vi prego, signore, non siete forse uscito dalla casa di quel gentiluomo?», chiese la vecchia additando la casa del signor Bounderby. «Credo che siate voi a meno che non abbia seguito la persona sbagliata».

«Sì, signora», rispose Stephen. «Ero io».

«Avete, scusate la curiosità di una vecchia, avete visto il signore?».

«Sì, signora».

«E com'era? Prestante, sicuro, schietto, cordiale?». Si raddrizzò tutta, per adattare l'atteggiamento alle sue parole, e Stephen ebbe l'impressione di averla già vista e di non aver provato molta simpatia per lei.

«Oh sì», rispose osservandola con maggiore attenzione, «era proprio così».

«Sano come un pesce?», chiese la vecchia.

«Sì», rispose Stephen. «Mangiava e beveva, grande e grosso e tuonante come un temporale».

«Grazie!», disse la vecchia con gioia grandissima. «Grazie!».

Stephen non l'aveva mai vista prima, ne era sicuro. Eppure c'era nella sua mente una vaga reminiscenza, come se più volte avesse sognato una vecchia che le rassomigliava.

Lei prese a camminargli accanto, e Stephen, adeguandosi bonario al suo stato d'animo, le disse che Coketown era un posto molto operoso. Al che la vecchia rispose: «Davvero! Spaventosamente operoso!». Poi le chiese se veniva dalla camna, come dava a vedere. Al che la donna gli rispose affermativamente.

«Con l'accelerato, stamattina. Ho fatto quaranta miglia con l'accelerato, stamattina; rifarò le stesse quaranta miglia oggi pomeriggio. Stamattina ho fatto nove miglia a piedi fino alla stazione e, se non trovo nessuno che mi dia un passaggio, le rifarò anche stasera. Mica male, alla mia età!», disse la vecchia ciarliera con gli occhi che luccicavano di allegria.

«Davvero! Non fatelo troppo spesso!».

«No, no. Una volta all'anno», rispose lei scuotendo la testa. «Vengo regolarmente, ogni anno, per girare per le strade e guardare i signori».

«Soltanto per guardarli?», chiese Stephen.

«Mi basta», rispose la vecchia, con grande convizione ed entusiasmo. «Non chiedo di più. Me ne sono stata qui, su questo lato della strada, per vedere uscire quel gentiluomo», disse volgendo il capo verso la casa del signor Bounderby. «Ma questa volta è in ritardo e non l'ho visto. Siete invece uscito voi. Ora se devo tornarmene senza avergli dato neppure un'occhiata - mi basta un'occhiata - be', avrò visto voi che avete visto lui. Mi accontenterò». Detto questo, scrutò Stephen come per imprimersi nella memoria i suoi lineamenti, e dai suoi occhi sve quella luce che c'era stata fino a poco prima.

Stephen era molto perplesso: anche concedendo che ci potesse essere una grande varietà di gusti, gli pareva, pur con tutto il rispetto che aveva per i patrizi di Coketown, che costoro fossero una fonte di interesse molto inconsueta per giustificare quel gran daffare. In quel momento passavano davanti alla chiesa e, dando un'occhiata all'orologio, lui affrettò il passo. Era diretto al lavoro? si informò la donna, accelerando il proprio, senza nessuna fatica. Sì, era ora ormai. Non appena le ebbe detto dove lavorava, la vecchia si fece ancora più strampalata di prima.

«Siete felice?», chiese.

«Mah ci abbiamo tutti, i nostri guai, signora», le rispose Stephen in modo evasivo perché, a quanto pareva, la vecchia dava per scontato che lui dovesse essere felicissimo, e Stephen non se la sentiva di deluderla. C'erano tanto guai al mondo, lo sapeva, e se la vecchia che aveva vissuto tanti anni, pensava che lui di dispiaceri ne avesse pochi, tanto di guadagnato per lei, perché a lui non costava nulla lasciarla in quella convinzione.

«Già, già! Guai di famiglia, volete dire?», chiese lei.

«A volte. Ogni tanto», rispose Stephen senza dar troppo peso a quelle parole.

«Ma a voi, che lavorate con un signore come lui, i guai di famiglia non vi verranno dietro fino in fabbrica, vero?».

No, no, non gli venivano dietro, l'assicurò Stephen. Niente da dire sulla fabbrica. (Non giunse al punto di dirle, per farle piacere, che lì dentro vigeva una sorta di Diritto Divino, ma negli ultimi tempi mi è capitato di sentire affermazioni quasi altrettanto grandiose).

Erano ormai arrivati nella nera stradina nei pressi della fabbrica, e i lavoratori vi si affollavano da tutte le parti. La campana suonava, il serpente era già molto lungo con tante spire, l'elefante si stava preparando. La bizzarra vecchietta trovava bellissima perfino la campana. Era la più meravigliosa campana che avesse mai sentito, disse, aveva un suono stupendo!

Infine, quando Stephen si fermò per stringerle la mano prima di entrare, lei gli chiese da quanto tempo lavorasse in quella fabbrica.

«Dodici anni», le rispose.

«Sento il dovere», disse la donna, «di baciar la mano, che ha lavorato in questa fabbrica per dodici anni!». E, afferrandogliela, se la portò alle labbra, per quanto Stephen cercasse di trattenerla. Quale armonia, oltre alla sua età e alla sua semplicità, aleggiasse intorno a lei, Stephen non avrebbe saputo dirlo, ma quell'incredibile gesto aveva in sé qualche cosa che non era né fuori luogo né fuori tempo: un qualche cosa che forse nessun altro avrebbe potuto fare con tanta serietà o con un'aria così spontanea e commovente.

Lavorava al telaio già da una buona mezz'ora, pensando alla vecchia, quando, girando attorno alla macchina per metterla a punto, gettò un'occhiata dalla finestra che era nel suo angolo, e la vide che ancora guardava la mole dell'edificio, persa in ammirazione. Incurante del fumo, del fango, dell'umidità, per non parlare dei due lunghi viaggi, la donna contemplava estasiata la fabbrica, come se il cupo rombo che proveniva da tutti quei piani fosse per lei una musica esaltante.

Poi la vecchia si allontanò e la giornata svanì con lei: si riaccesero le luci e il treno espresso turbinò proprio accanto al palazzo fatato, sulle arcate poco distanti, con uno sferragliare appena percettibile sopra il frastuono e lo strepito delle macchine in funzione. Già da tempo i pensieri di Stephen erano alla squallida stanza sopra il negozietto, e alla disgustosa ura che gravata sul suo letto, ma ancor di più sul suo cuore.

Le macchine rallentarono, ebbero qualche sussulto, come un polso che stia per spegnersi; si fermarono. Di nuovo la campana; le luci abbaglianti si spensero, il calore si disperse; le fabbriche rimasero a incombere nella notte nera di pioggia, con le alte ciminiere che svettavano verso il cielo, come tante torri di Babele in lizza l'una contro l'altra.

Soltanto la sera prima, era vero, Stephen aveva parlato con Rachael, e aveva fatto anche un pezzo di strada con lei; ma adesso aveva addosso questo nuovo fardello, e nessun altro avrebbe saputo dargli un attimo di sollievo. Per questo motivo e perché sapeva di desiderare quella calma che soltanto la voce di lei riusciva a dargli, pensò di ignorare, per quella sera, l'avvertimento di aspettare per incontrarsi ancora che lei gli aveva dato. L'attese, ma Rachael gli era sfuggita. Se ne era andata via. In nessun'altra notte dell'anno gli sarebbe stato così gravoso rinunciare a quel volto paziente.

Oh, meglio non avere una casa dove posare le membra che averne una e avere orrore di entrarvi! Mangiò e bevve, solo perché era sfinito, senza neppure curarsi di quel che mangiava e beveva; vagabondò sotto la pioggia fredda, pensando e pensando, rimuginando e rimuginando.

Non avevano mai accennato a un nuovo matrimonio; ma, anni prima, Rachael aveva mostrato molta pena per lui, e, a lei sola, Stephen aveva aperto il cuore, contratto e chiuso per tanto tempo, parlandole delle sue disgrazie; e sapeva bene che, se fosse stato libero di chiedere la sua mano, lei avrebbe accettato. Pensò alla casa verso la quale, in quello stesso momento, avrebbe potuto dirigere i suoi passi, con il cuore traboccante di gioia e d'orgoglio; all'uomo diverso che avrebbe potuto essere, quella sera stessa; alla levità del suo cuore, ora così pesantemente oppresso; all'onore riacquistato, al rispetto di se stesso, alla serenità, tutto in frantumi. Pensò a come aveva sprecato gli anni migliori della sua vita, a come, giorno dopo giorno, si guastasse il suo carattere; pensò al suo orribile destino, legato com'era, mani e piedi, a una donna morta nello spirito, tormentata da un demone che ne aveva preso le sembianze. E pensò a Rachael così giovane, quando le circostanze li avevano fatti incontrare la prima volta, così matura adesso e, fra breve, vecchia. Pensò a tutte le ragazze, a tutte le donne che Rachael aveva visto andare spose, a tutte le famiglie che aveva visto crescere intorno a sé, alla pacata compostezza con la quale se n'era andata per la propria strada solitaria e quieta - per lui - e alle volte in cui aveva visto il suo volto benedetto velarsi di una malinconia che lo tormentava con rimorso e disperazione. Rievocò la sua immagine confrontandola con l'altra, infame, vista la sera prima; pensò come mai fosse possibile che l'intera vita terrena di una donna così dolce, buona, caritatevole, dovesse essere sottomessa a quella di una creatura tanto spregevole!

Con la mente piena di questi pensieri - piena al punto da dargli la spiacevole sensazione di essere diventato più grosso, di trovarsi in un rapporto nuovo e insano con tutti gli oggetti accanto ai quali passava, e di vedere arrossarsi l'alone intorno ai lampioni avvolti dalla pioggerellina - andò in cerca di un riparo a casa.

XIII

. RACHAEL

Una candela ardeva debolmente alla finestra: più di una volta la scala nera vi era stata appoggiata per far scivolare via quanto c'è di più prezioso al mondo per una moglie che si dibatte nelle difficoltà e per una nidiata di bambini che hanno fame; e agli altri suoi pensieri Stephen aggiunse la dolorosa riflessione che, di tutte le disgrazie dell'esistenza terrena, nessuno è distribuito con mano più ineguale della morte. La disparità della nascita è nulla al confronto. Se, per esempio, fossero nati quella notte, nello stesso istante, il lio di un re e il lio di un tessitore, che cosa sarebbe stata quella differenza a paragone della morte di una qualsiasi creatura umana utile, utile a un'altra, o da questa amata, mentre quella donna spregevole continuava a vivere!

Tristemente varcò la soglia di casa, a passi lenti trattenendo il respiro. Salì fino alla porta della sua stanza, l'aprì ed entrò.

Vi regnavano pace e tranquillità, e Rachael era seduta accanto al letto.

Volse il capo verso di lui e lo splendore del suo volto rischiarò le tenebre nell'animo di Stephen. Era seduta accanto al letto a vegliare e assistere sua moglie. Per meglio dire, Stephen vedeva che qualcuno vi era disteso sopra e sapeva fin troppo bene di chi si trattasse; ma Rachael aveva sistemato una tenda che nascondeva la donna ai suoi occhi. Erano stati portati via i luridi abiti, e nella stanza c'erano alcune vesti appartenenti a Rachael. Ogni cosa era al suo posto, in ordine, proprio come la metteva lui; il fuoco era stato appena attizzato, il caminetto era stato pulito da poco. Ebbe l'impressione di vedere tutto questo sul volto di Rachael e non guardò altro. Lacrime di tenerezza gli salirono agli occhi impedendogli di guardare, ma non prima di aver visto con quanto sincero trasporto lei l'osservasse e come i suoi occhi traboccassero di lacrime.

Rachael si volse verso il letto e, una volta sicura che fosse tutto tranquillo, parlò con voce bassa, pacata e incoraggiante.

«Sono contenta che tu sia finalmente arrivato Stephen. Hai fatto tardi».

«Ho fatto una camminata ».

«L'ho immaginato. Ma è una sera molto brutta per andare in giro. Piove a dirotto e tira un forte vento».

Il vento? Sì, soffiava violento: ascoltalo come rugge nel camino e come ulula sempre più forte. Era stato fuori con un vento simile e non se ne era neppure accorto!

«Sono stata qui anche prima, Stephen. La padrona di casa è venuta a cercarmi all'ora di pranzo. C'era qualcuno che aveva bisogno di essere assistito, mi ha detto. Aveva ragione. Si è persa andando in giro, Stephen. È anche ferita, si è fatta male».

Lentamente Stephen si avvicinò a una sedia, si sedette di fronte a lei, la testa china.

«Sono venuta a fare quel poco che potevo. Prima di tutto, perché da ragazze abbiamo lavorato insieme; poi perché la corteggiavi e l'hai sposata, quando eravamo amiche».

Stephen, con un gemito sommesso, posò la fronte aggrottata sulla mano.

«Poi conosco il tuo cuore. Sei troppo buono e generoso per lasciarla morire, o anche soltanto soffrire, senza aiutarla. Sai chi ha detto: chi è senza peccato scagli la prima pietra! Sono stati in tanti a farlo. Tu non sei uomo da scagliare nemmeno l'ultima pietra, Stephen, adesso che lei è scesa così in basso!».

«Oh, Rachael, Rachael!».

«Hai sofferto in modo crudele, il cielo te ne renda merito!», aggiunse lei con voce grave. «Sono la tua povera amica, con tutto il cuore e con tutta l'anima».

Le ferite cui aveva accennato Rachael erano, a quanto pareva, intorno al collo di quella donna che si era autoesclusa dalla società. Rachael le medicò sempre restando dietro il paravento. Immerse in una catinella, dopo averci versato del liquido da una bottiglia, una pezzuola di lino; poi con delicatezza appoggiò la stoffa sulla piaga. Sul tavolino a tre gambe che era stato avvicinato al letto c'erano due bottiglie. Rachael aveva usato una di queste.

La bottiglia non era però così distante che Stephen, seguendo con lo sguardo la mano di Rachael, non riuscisse a leggere quello che vi era scritto a grossi caratteri: impallidì mortalmente e sembrò pervaso da un improvviso terrore.

«Rimarrò qui, Stephen», disse Rachael rimettendosi tranquillamente a sedere al suo posto, «fino a che le campane non suoneranno le tre. Sarà necessario rifare la medicazione a quell'ora, poi potrà riposare fino al mattino».

«Devi riposarti per andare a lavorare domani, cara».

«Ho dormito bene la notte scorsa. Posso star sveglia per molte notti, se è necessario. Sei tu che hai bisogno di riposo, pallido e stanco come sei. Cerca di dormire su quella sedia, mentre io veglio. Non hai chiuso occhio la notte scorsa, sono sicura. Domani il lavoro sarà molto più pesante per te che per me».

Stephen sentiva il rumore della pioggia e l'ululo del vento, e gli sembrò che la collera di poco prima si aggirasse ancora lì intorno pronta a riafferrarlo. Rachael l'aveva cacciata e l'avrebbe tenuta lontano; Stephen si affidava a lei per proteggersi da se stesso.

«Non mi riconosce, Stephen; borbotta nel dormiveglia e si guarda intorno. Ho cercato di parlarle un paio di volte, ma non dà segno di accorgersene. Meglio così. Quando tornerà in sé avrò fatto tutto ciò che è in mio potere fare, e lei non ricorderà nulla».

«Quanto tempo si pensa che resterà in questo stato?».

«Il dottore ha detto che forse tornerà in sé domani».

Gli occhi di Stephen si posarono di nuovo sulla bottiglia e un tremito lo percorse, facendolo rabbrividire tutto. Rachael pensò che si fosse gelato camminando sotto la pioggia. «No, non era la pioggia», spiegò lui. «Era la paura».

«Paura?».

«Sì, sì! Quando camminavo. Quando pensavo. Quando». Un altro fremito, e Stephen si alzò, passandosi fra i capelli bagnati una mano che tremava come quella di un paralitico.

«Stephen!».

Gli si avvicinò, ma lui tese un braccio per fermarla.

«No! No, ti prego, no! Lasciami che ti guardo che stai seduta vicino al letto. Lasciami che ti guardo così buona e piena di carità. Lasciami che ti guardo come ti ho vista quando sono entrato. Non ti vedrò mai più bella di così. Mai, mai, mai!».

Fu assalito da un altro tremito violento e si abbandonò sulla sedia. Gli ci volle un po' per riuscire a controllarsi, e, tenendo un gomito sul ginocchio e la testa appoggiata sulla mano, volse lo sguardo su Rachael. Alla luce incerta della candela, attraverso le lacrime che gli velavano gli occhi, gli parve di vedere un'aureola intorno alla sua testa. Avrebbe potuto benissimo crederlo e ci credette, mentre fuori il vento scuoteva la finestra, faceva sbattere la porta di sotto, si aggirava per la casa rumoreggiando e gemendo.

«Speriamo che quando starà meglio, ti lascerà in pace e non ti farà del male. Speriamolo ora come ora. Starò zitta perché devi dormire».

Stephen chiuse gli occhi più per farle piacere che per riposare la testa stanca, ma un po' alla volta, mentre stava ad ascoltare, smise di sentire il fragore del vento, che divenne il rumore del suo telaio e il suono delle voci, compresa la sua, di quella giornata, che ripetevano le cose che erano state dette. Alla fine anche questa parziale coscienza si dissolse in un sogno lungo e agitato.

Gli sembrava di essere in chiesa per sposarsi con una persona che da tempo aveva un posto nel suo cuore, ma non era Rachael, e questo lo sorprese pur in quella immaginaria felicità. Durante la cerimonia, mentre riconosceva, tra la gente, alcuni che sapeva in vita e molti che sapeva morti, sopraggiunsero le tenebre e, subito dopo, ci fu una luce abbagliante. L'improvviso chiarore promanava da un imperativo della tavola dei dieci comandamenti e le parole illuminavano tutta la chiesa. Quelle stesse parole echeggiavano in ogni angolo come se le lettere di fuoco fossero provviste di voce. A quel punto la scena cambiò davanti e intorno a lui; nulla rimase come prima, tranne lui stesso e il pastore. Si trovavano in pieno giorno davanti a una folla così immensa che - gli venne da pensare - se tutti coloro che ci sono al mondo si fossero raccolti in un solo posto, non avrebbero potuto essere di più. Tutti provavano orrore per lui e, tra i tanti milioni di occhi fissi sul suo volto, non ce n'era uno che lo guardasse con bontà o comprensione. Se ne stava su un palco, sotto il telaio del suo lavoro; una voce leggeva il servizio funebre; allora capì che si trovava lì per essere messo a morte. Un attimo dopo, il palco sprofondò e lui sparì.

Quale incantesimo lo avesse ricondotto alla solita vita e ai luoghi che gli erano familiari, non riusciva a immaginarlo, eppure in qualche modo ci era ritornato, ma sul suo capo pendeva la condanna di non poter mai più, né in questo mondo né nell'altro, per tutte le infinite ore dell'eternità, vedere il volto di Rachael e sentire la sua voce. Mentre vagava senza posa, disperato, alla ricerca di qualcosa che non conosceva (sapeva soltanto di essere condannato a cercarla), si sentiva in preda a un innominabile, orribile terrore, a una paura mortale, in una forma particolare, che si trasmetteva a tutto ciò che lo circondava. Qualunque cosa guardasse prendeva, prima o poi, quella forma, e lo scopo della sua infelice esistenza era di impedire a coloro che incontrava di riconoscerla. Fatica inutile! Se li conduceva fuori delle stanze dove quella forma si trovava, se chiudeva i cassetti e gli armadi che la contenevano, se allontanava i curiosi dai luoghi dove era sicuro che se ne stava acquattata, se li portava nelle strade, perfino le ciminiere delle fabbriche finivano con l'assumere quella forma, e su tutto era impressa una parola.

Il vento aveva ripreso a soffiare, la pioggia tamburellava sui tetti, e i vasti spazi attaverso i quali aveva vagabondato si erano contratti nelle quattro pareti di quella stanza. Il fuoco si era spento, ma gli sembrava di aver appena chiuso gli occhi. Sulla sedia, accanto al capezzale, Rachael pareva assopita. Se ne stava immobile, avvolta nello scialle. Il tavolino era al suo posto, vicino al letto, e sopra, nel suo vero aspetto e nelle sue reali dimensioni, si trovava la forma che con tanta insistenza era sa nel sogno. Gli sembrò che la tenda si muovesse. Guardò ancora e ne fu certo. Vide una mano protendersi e tastare intorno. Poi la tenda si mosse in modo percettibile, e la donna che giaceva nel letto la scostò e si mise seduta.

Gli occhi turbati e sbarrati, nei quali si leggevano disperazione, follia, smania, scrutarono la stanza, sfiorarono l'angolo dove Stephen dormiva sulla sedia. Gli occhi tornarono a posarsi su di lui; mentre lo fissava la donna, si fece schermo contro la luce, con una mano. Ancora una volta percorsero tutta la stanza, notando appena Rachael e, forse, senza neppure percepirne la presenza; poi si puntarono ancora sull'angolo dove stava Stephen. Quando, tenendo sempre la mano davanti agli occhi - non tanto per guardarlo, quanto per cercarlo con l'istinto di una bestia - lei tornò a fissare l'angolo, Stephen pensò che in quei lineamenti devastati e nell'animo che ben vi era riflesso, non c'era traccia della donna che aveva sposato diciotto anni prima. Se non l'avesse lui stesso vista ridursi pian piano in quello stato, non avrebbe mai creduto che si trattasse della stessa persona.

Per tutto quel tempo, era rimasto a fissarla, inerte e impotente, quasi fosse sotto un incantesimo.

In uno stato di insonnolito stordimento, borbottando insensatezze fra sé, la donna rimase seduta per un po', con le mani alle orecchie, reggendosi la testa. Ben presto riprese a guardarsi intorno. Ed ecco che, per la prima volta, i suoi occhi si posarono sul tavolino e sulle due bottiglie che vi erano appoggiate.

D'improvviso la donna volse lo sguardo verso l'angolo dove stava Stephen, con la stessa espressione di sfida che aveva avuto la notte precedente. Si mosse con cautela, senza far rumore, e allungò la mano avida. Prese un bicchiere e rimase per un po' a decidere quale delle due bottiglie scegliere. Infine la sua mano stolta si pose sulla bottiglia che racchiudeva una morte rapida e sicura e, davanti agli occhi di Stephen, strappò il tappo con i denti.

Sogno o realtà: Stephen non trovò né la voce né la forza per muoversi. Se è realtà, ma se il tempo della vita terrena assegnatole non è ancora giunto al termine, svegliati, Rachael, svegliati!

Anche la donna ebbe lo stesso pensiero. Guardò Rachael mentre, lentamente, cautamente, si versava nel bicchiere il contenuto della bottiglia. Se l'era ormai portato alle labbra. Un istante ancora e non ci sarebbe stato più niente da fare, anche se, a soccorrerla con tutti i mezzi possibili, si fosse svegliato l'intero mondo. Ma, in quel momento, Rachael si svegliò di soprassalto, soffocando un grido. La donna lottò, la colpì, l'afferrò per i capelli, ma Rachael aveva preso il bicchiere.

Stephen balzò dalla sedia. «Questa notte terribile, Rachael, è un sogno o una realtà?».

«Va tutto bene, Stephen. Mi ero addormentata. Sono quasi le tre. Silenzio! Sento le campane!».

Il vento portava i rintocchi dell'orologio della chiesa. Rimasero ad ascoltare e sentirono battere tre colpi. Stephen la guardò, vide il suo pallore, osservò i capelli in disordine, i graffi rossi sulla fronte, e fu certo che non era stato un sogno, che i suoi sensi - vista e udito - erano stati vigili. In mano, Rachael teneva ancora il bicchiere.

«Ho pensato che dovevano essere le tre», disse versando nella bacinella con gesto misurato e calmo il contenuto del bicchiere e intingendovi una pezzuola come aveva fatto prima. «È un bene che sia rimasta. Fatto questo, avrò finito. Ecco! Adesso è di nuovo tranquilla. Butterò via le poche gocce che restano perché è pericoloso lasciar questa roba in giro, anche se è poca». Nel dir così, versò sulla cenere il liquido rimasto nella catinella e ruppe la bottiglia sulla pietra del focolare.

Non le rimaneva altro da fare, salvo avvolgersi nello scialle, prima di uscire nel vento e nella pioggia.

«Mi lasci che ti accomno a quest'ora, Rachael?».

«No, Stephen. Ci vuole un minuto per arrivare a casa mia».

«Non hai paura di lasciarmi solo con lei?», le chiese a voce bassa, mentre uscivano dalla stanza e si avviavano alla porta.

«Stephen?», disse Rachael guardandolo e, a quel punto, lui cadde in ginocchio davanti a lei, su quella misera scala, e si portò alle labbra l'orlo del suo scialle.

«Sei un angelo! Sii benedetta, sii benedetta!».

«Sono la tua povera amica, Stephen, te l'ho detto. Gli angeli non sono così. Fra loro e un'operaia che lavora, piena di difetti, c'è un abisso. La mia sorellina, che non è più di questo mondo, è tra loro».

Mentre diceva queste parole, alzò gli occhi pervasi di mite bontà, poi li riabbassò sul volto di lui.

«Sei tu mi hai fatto diventare buono da cattivo che ero. Mi hai fatto desiderare umilmente di diventare come te; ho avuto paura di perderti, quando questa vita finirà e tutto questo imbroglio non ci sarà più. Sei un angelo; forse hai salvato la mia anima!».

Rachael lo guardò, in ginocchio, ai suoi piedi, con lo scialle ancora in mano, e, nel vedere l'espressione tormentata del suo viso, il rimprovero le morì sulle labbra.

«Ero disperato, quando sono tornato a casa. Non avevo più speranze, ero furioso perché a me mi avevano detto di essere irragionevole per aver detto una sola parola di protesta. Ti ho detto di aver avuto paura. Era la bottiglia del veleno sul tavolino. Non ci ho mai fatto male ad anima viva, io, ma quando ho visto lì il veleno, all'improvviso ho pensato: 'Chissà cosa potevo fare a me o a lei o a tutti e due'».

Con il terrore sul volto, Rachael gli pose le mani sulla bocca per impedirgli di aggiungere altro. Con la mano libera Stephen le afferrò, mentre con l'altra continuava a tenere l'orlo dello scialle. Stringendogliele, disse in fretta:

«Poi ti ho visto, Rachael, seduta vicino al letto. Ti ho vista lì per tutta la notte. Nel mio sonno pieno di incubi sapevo che eri lì. Ti vedrò sempre. D'ora in poi, quando vedrò lei o mi capiterà di pensare a lei, vedrò sempre anche te. Ti sentirò sempre al mio fianco - tu che sei tanto più buona di me - quando mi verranno in mente cose che mi fanno arrabbiare. Penserò al momento - e cercherò di affidarmi a quel momento - che insieme ce ne andremo lontano, nel paese dove c'è la tua sorellina, al di là dell'abisso che ci divide».

Le baciò ancora l'orlo dello scialle e la lasciò andare. Con voce spezzata Rachael gli augurò la buona notte e uscì in strada.

Il vento soffiava ancora impetuoso dalla parte dove fra poco sarebbe sorto il nuovo giorno. Aveva spazzato dal cielo le nuvole e la pioggia si era esaurita, o se ne era andata da qualche altra parte; le stelle splendevano. In strada, Stephen, a testa nuda, rimase a guardarla mentre si allontavana rapida. Quello che era lo splendore delle stelle lucenti a paragone della maliconica candela, che ardeva debolmente alla finestra, era, nella tormentata fantasia di quell'uomo, Rachael a paragone delle comuni esperienze della sua vita.

XIV

. IL GRANDE INDUSTRIALE

Il tempo procedeva a Coketown come procedevano le macchine della città: tanto materiale lavorato, tanto combustibile utilizzato, tanta energia consumata, tanto danaro guadagnato. Ma, meno inesorabile del ferro, dell'acciaio e dell'ottone, il tempo recava le sue mutevoli stagioni perfino in quella landa desolata di fumo e di mattoni, e rappresentava l'unico elemento degno di nota nella terribile uniformità del luogo.

«Louisa è quasi una donna», disse il signor Gradgrind.

Con i suoi innumerevoli cavalli vapore, il tempo continuava a fluire, ignaro e immemore di quanto si diceva, e così accadde che il giovane Thomas si trovò più alto di un piede rispetto all'ultima volta che suo padre ci aveva prestato attenzione.

«Thomas è quasi un uomo», disse il signor Gradgrind.

La macina del tempo lavorò sul giovane Thomas, mentre suo padre ci pensava sopra, ed eccolo lì, con la marsina a code e la camicia al colletto inamidato.

«È venuto il momento che Thomas vada da Bounderby», disse il signor Gradgrind.

Senza perderlo di vista per un attimo, il tempo lo condusse alla Banca Bounderby, gli fece frequentare assiduamente casa Bounderby, gli impose l'acquisto del primo rasoio e gli consentì di applicarsi con grande diligenza ai suoi calcoli tutti centrati su se stesso, il numero uno in ogni circostanza.

Questo stesso grande industriale, con la sua infinita varietà di lavoro sotto mano, in ogni stadio del processo di sviluppo, passò Sissy alla propria macina e ne ottenne una cosina davvero graziosa.

«Jupe», disse il signor Gradgrind, «temo proprio che sia inutile che tu continui ad andare a scuola».

«Lo temo anch'io, signore», rispose Sissy, facendo una riverenza.

«Non ti nascondo, Jupe», proseguì Gradgrind, corrugando le sopracciglia, «che il risultato del tuo tirocinio mi ha deluso mi ha profondamente deluso. Sotto la guida del signore e della signora M'Choakumchild, non hai acquisito neppure una minima parte di quel bagaglio di scienze esatte che avrei desiderato per te. Ti mancano tantissimi fatti. Hai una conoscenza molto limitata dei numeri. Sei decisamente indietro e meno che mediocre».

«Sono spiacente, signore», rispose Sissy, «purtroppo so che è vero. Eppure mi sono applicata con tutte le mie forze».

«Sì», ammise il signore Gradgrind, «sì, credo proprio che tu ce l'abbia messa tutta. Ti ho tenuta d'occhio. Niente da ridire da questo punto di vista».

«Grazie, signore. A volte mi veniva da pensare», Sissy si fece esitante a questo punto, «che forse cercavo di imparare troppe cose e che, se avessi potuto impararne un po' meno, chissà».

«No, Jupe, no», intervenne Gradgrind scuotendo la testa con aria assorta ed eminentemente pratica. «No, il corso che hai seguito, lo hai seguito secondo i principi del sistema - il sistema - e quindi non c'è niente da aggiungere. Posso solo supporre che le vicende dei tuoi primi anni di vita siano state troppo sfavorevoli allo sviluppo della tua capacità di ragionamento, e che abbiamo cominciato troppo tardi. Tuttavia, come ho già detto, sono deluso».

«Avrei tanto desiderato, signore, dar prova migliore, a testimonianza della vostra bontà verso una povera ragazza abbandonata che non aveva nessun diritto nei vostri confronti e non poteva vantare alcuna pretesa alla vostra protezione».

«Non piangere», disse Gradgrind, «non piangere. Non mi lamento di te. Sei una brava ragazza affezionata, buona, onesta e questo ci deve bastare».

«Grazie, signore, grazie infinite», disse Sissy facendo una riverenza che esprimeva tutta la sua gratitudine.

«Sei utile alla signora Gradgrind e (in senso più ampio) sei d'aiuto a tutta la famiglia. Questo l'ho saputo dalla signorina Louisa e, a dire la verità, l'ho notato io stesso. Spero perciò», proseguì il signor Gradgrind, «che tu sia soddisfatta di come stanno le cose».

«Non avrei niente di più da desiderare, se non».

«Ti capisco», intervenne Gradgrind, «ti riferisci a tuo padre. Ho sentito dire dalla signorina Louisa che conservi ancora quella bottiglia. Be', se avessi imparato meglio la scienza di come si ottengono risultati esatti, adesso saresti più avveduta a questo riguardo. Non dirò altro».

In realtà, era troppo affezionato a Sissy per disprezzarla; l'avrebbe fatto, se non l'avesse trattenuto l'affetto, dal momento che aveva pochissima considerazione per le capacità di calcolo della ragazza. In qualche modo si era fatta strada in lui l'idea che qualcosa, in quella ragazza, non potesse essere espresso secondo le consuete classificazioni. La capacità di Sissy di dare definizioni meritava un voto molto basso; la sua conoscenza della matematica era praticamente inesistente; tuttavia, non era affatto sicuro che, se qualcuno gli avesse chiesto di inquadrarla in questa o in quella categoria, lui ci sarebbe riuscito.

In alcune fasi della manifattura del tessuto umano, i processi del tempo sono molto rapidi. Per il giovane Thomas e per Sissy, entrambi in uno di questi stadi della loro trasformazione, i mutamenti si verificarono nel corso di un anno o due; mentre il signor Gradgrind, che, a quanto pareva, aveva raggiunto la stabilità, non subì alcun mutamento.

Nessun mutamento, salvo uno, che però non aveva alcun nesso con l'inesorabile avanzare di Gradgrind attraverso la macina degli anni. Il tempo lo incalzò spingendolo dentro un meccanismo un po' rumoroso e piuttosto sporco - non certo un ingranaggio importante - e lo fece membro del Parlamento per la circoscrizione di Coketown: un membro rispettato per i suoi pesi precisi all'oncia e le sue misure, uno dei tanti rappresentanti della tavola pitagorica, uno dei tanti onorevoli sordi, uno dei tanti onorevoli muti, uno dei tanti onorevoli ciechi, uno dei tanti onorevoli storpi, uno dei tanti onorevoli morti a ogni altra considerazione. Perché altrimenti vivremmo in terra cristiana milleottocento anni dopo la nascita di nostro Signore?

In tutto questo tempo Louisa aveva percorso un lungo tratto della sua strada; procedeva tranquilla, composta, riservata, incline a osservare al crepuscolo le scintille che cadevano e si spegnevano nella grata del camino: da quando suo padre le aveva detto che era quasi una donna - sembrava proprio ieri - le aveva a malapena prestato attenzione fino al giorno in cui non si accorse che era ormai donna.

«Proprio una donna!», disse Gradgrind pensoso. «Povero me!».

Subito dopo questa scoperta, per parecchi giorni fu più meditabondo che mai, e sembrava che avesse la mente occupata da un unico pensiero. Una sera, mentre si apprestava ad uscire e Louisa era andata a salutarlo perché non sarebbe rientrato fino a tardi e l'avrebbe rivisto soltanto il mattino dopo, la prese fra le braccia e guardandola con molto affetto, esclamò:

«Mia cara Louisa, sei una donna!».

Lei gli rispose con lo stesso sguardo rapido e indagatore che gli aveva rivolto la sera in cui era stata scoperta al circo; poi abbassò gli occhi. «Sì, padre».

«Mia cara», disse Gradgrind, «devo farti un discorso serio. A te, da sola. Vieni nella mia stanza domani dopo colazione, va bene?».

«Sì, padre».

«Hai le mani fredde, Louisa. Non stai bene?».

«Sto benissimo, padre».

«Sei contenta?».

Di nuovo lo fissò e sorrise in un modo tutto suo.

«Sono contenta come sempre, come lo sono sempre stata, padre».

«Molto bene», disse il signor Gradgrind. Le diede un bacio e uscì; Louisa ritornò nella sua tranquilla stanza che sembrava un negozio di barbiere e, con il gomito appoggiato sulla mano, si mise a osservare le fragili, effimere scintille che così in fretta diventavano cenere.

«Sei lì, Lou?», chiese il fratello, affacciandosi alla porta. Si era fatto un giovanotto di mondo, ma non particolarmente simpatico.

«Caro, Tom», rispose lei, alzandosi per abbracciarlo, «quanto tempo è che non vieni a trovarmi?».

«Be', sono stato molto occupato alla sera, Lou, e durante la giornata il vecchio Bounderby mi fa sgobbare. Ma quando tira troppo la corda, lo stuzzico parlandogli di te, e così andiamo avanti. A proposito! Nostro padre ti ha detto niente di speciale ieri o oggi?».

«No, Tom, ma stasera mi ha detto che desidera parlarmi domattina».

«Ah, proprio quel che pensavo! Lo sai dov'è andato stasera?», chiese facendosi molto serio.

«No».

«Te lo dico io allora. È col vecchio Bounderby. Sono lì, nella banca, a confabulare. Perché proprio nella banca, chiederai? Anche questo ti dirò. Per star alla larga dalla signora Sparsit, che ha le orecchie molto lunghe».

Con la mano sulla spalla del fratello, Louisa continuò a fissare il fuoco. Il fratello la guardò in viso con maggiore interesse del solito, poi cingendole la vita, l'attrasse affettuosamente a sé.

«Mi vuoi bene, vero, Lou?».

«Sì, Tom, anche se lasci passare tanto tempo senza venire a trovarmi».

«Be', sorellina mia, quando dici queste cose, sei molto vicina ai miei pensieri. Potremmo essere molto più spesso insieme, vero? Quasi sempre insieme, ti pare? Mi sarebbe di grande vantaggio, se tu decidessi nel senso che so io, Lou. Sarebbe una cosa spendida per me. Una cosa assolutamente stupenda!».

L'atteggiamento meditabondo di Louisa sconcertò Tom che l'osservava con grande attenzione. Non riusciva a leggere nulla sul suo volto. La strinse fra le braccia e le posò un bacio su una guancia. Lei ricambiò il bacio senza distogliere lo sguardo dal fuoco.

«Allora, Louisa! Sono venuto perché volevo darti un'idea di quello che bolle in pentola; ma immagino che tu abbia indovinato di che si tratta, anche se non lo sai con certezza. Non posso fermarmi perché sono impegnato con degli amici stasera. Non ti dimenticherai dell'affetto che hai per me, vero?».

«No, caro Tom, non me ne dimenticherò».

«Sei un tesoro. Addio, Lou».

Lo abbracciò con trasporto, augurandogli la buona notte, e lo accomnò alla porta. Dalla soglia di casa si vedevano i fuochi di Coketown che illuminavano l'orizzonte. Louisa rimase a guardarli con intensa fissità, ascoltando i passi del fratello che se ne andava. Si spensero in fretta, come contenti di allontanarsi da Stone Lodge. Louisa rimase lì, anche dopo che lui se ne fu andato e tutto fu di nuovo silenzio. Pareva che, prima nel fuoco che ardeva dentro la casa, e poi nella bruma rossastra che accendeva l'orizzonte fuori casa, cercasse di capire quale tessuto avrebbe ricavato il più grande e antico di tutti i tessitori, da quella fibra che, filata, era già divenuta una donna. Ma la sua fabbrica è un luogo segreto, il suo lavoro silenzioso, le sue mani mute.

XV

. PADRE E LIA

Il signor Gradgrind non aveva nulla del Barbablù, anche se, piena, zeppa com'era di libri blu, la sua stanza era tutta di quel colore. Erano lì a dimostrare, come un esercito rafforzato in continuazione dall'arrivo di nuove reclute, tutto quel che si può dimostrare (che per lo più è tutto quello che si vuole dimostrare). In quella stanza magica venivano valutate, quantificate e, infine, sistemate le più complesse questioni sociali - se solo gli interessati l'avessero saputo! Era come un astronomo che, in un osservatorio senza finestre, vuole dare ordine all'universo stellato, servendosi soltanto di penna, carta, inchiostro. Nel suo osservatorio (e quanti ce ne sono di simili!) il signor Gradgrind non aveva alcun bisogno di osservare le miriadi di esseri umani che gli brulicavano intorno: su una lavagna tracciava i loro destini; con una spugnetta sporca cancellava le loro lacrime.

In questo osservatorio, dunque, - una stanza severa, con un inesorabile orologio statistico che scandiva ogni secondo con un colpo secco che pareva una martellata su una cassa da morto - Louisa riparò nel mattino stabilito. Da una finestra si vedeva Coketown; quando lei si sedette accanto al tavolo del padre, scorse le alte ciminiere e le spire di fumo che si profilavano grevi e cupe in lontananza.

«Mia cara Louisa», esordì il padre, «ti ho già avvertito, ieri sera, di prestare molta attezione a quanto ci diremo. Hai ricevuto un'ottima educazione e, sono felice di dirlo, sai rendere giustizia a quello che ti è stato insegnato; insomma mi fido del tuo buon senso. Non sei impulsiva, non sei romantica; sei abituata a valutare le cose con fermo, imperturbabile distacco, proprio come dettano la ragione e il buon senso. So che con questi criteri valuterai e giudicherai quello che sto per dirti».

Attese, dando a vedere che sarebbe stato lieto se lei avesse aggiunto qualcosa, ma Louisa non disse una parola.

«Louisa cara, sei la destinataria di una proposta di matrimonio che mi è stata inoltrata».

Di nuovo si interruppe, rimanendo in attesa; di nuovo non ottenne risposta. Ne fu sorpreso tanto da sentirsi indotto a ripetere in tono affettuoso: «Una proposta di matrimonio, mia cara». Al che, senza dare segno di alcuna emozione, lei rispose:

«Ho sentito, padre. ½ seguo con attenzione, ve lo assicuro».

«Bene!», disse Gradgrind sorridendo, dopo un attimo di smarrimento. «Sei ancora più imperturbabile di quanto mi aspettassi. O forse non sei del tutto impreparata a sentire l'annuncio che ho il compito di portarti?».

«Non posso dirlo finché non saprò di che si tratta, padre. Preparata o impreparata, desidero sapere tutto da voi. Desidero che siate voi a riferirmelo, padre».

Strano a dirsi, ma in quel momento il signor Gradgrind era meno padrone di sé di quanto non lo fosse la lia. Prese un tagliasectiune, lo rigirò, lo posò, lo riprese e si mise a contemplare la lama, cercando di decidere come andare avanti.

«Quello che dici, mia cara Louisa, è molto ragionevole. Mi sono assunto l'incarico di comunicarti che insomma il signor Bounderby mi ha annunciato che da molto tempo osserva i tuoi progressi con particolare interesse e soddisfazione, e che da molto tempo attende il momento nel quale offrirti la sua mano. Quel momento, che ha atteso così a lungo e, certamente, con grande costanza, è alla fine giunto. Il signor Bounderby ha formulato a me la sua proposta di matrimonio, mi ha pregato di portarla a tua conoscenza e di manifestarti la sua speranza che vorrai considerarla con favore».

Silenzio tra i due. L'inesorabile orologio statistico più cupo che mai. In lontananza, fumo nero e pesante.

«Padre», chiese Louisa, «pensate che io ami il signor Bounderby?».

Profondamente sconcertato da questa domanda inattesa, il signor Gradgrind rispose: «Bimba mia, io veramente non posso essere io a dirlo».

«Padre», incalzò Louisa con lo stesso tono di voce, «mi chiedete di amare il signor Bounderby?».

«Mia cara Louisa, no. No, non chiedo nulla».

«Padre», proseguì lei senza desistere, «il signor Bounderby mi chiede di amarlo?».

«È davvero difficile rispondere alla tua domanda, mia cara».

«Difficile rispondere sì o no, padre?».

«Certo, mia cara. Perché» - ecco che c'era qualcosa da dimostrare e questo gli ridiede lo slancio - «perché la risposta dipende, nel suo contenuto, dal significato che diamo all'espressione. Ora, il signor Bounderby non fa a te il torto, e non lo fa neppure a se stesso, di aspirare a qualcosa di fantasioso, di fantastico o (sto usando dei sinonimi) di sentimentale. Gli sarebbe servito a ben poco vederti crescere sotto i suoi occhi, se poi si fosse dimenticato di tenere nella dovuta considerazione il tuo buon senso, per non parlare del proprio, e si fosse rivolto a te partendo da un presupposto del genere. Perciò, forse l'espressione stessa - è soltanto un suggerimento - è un po' fuori luogo».

«Che cosa mi consigliereste di usare al suo posto, padre?».

«Ebbene, mia cara Louisa, poiché me lo chiedi, ti consiglierei di esaminare il problema alla stessa stregua di come sei abituata a valutare tutti gli altri problemi, partendo da fatti tangibili», rispose Gradgrind, ormai del tutto padrone della situazione. «Forse gli ingenui e gli stolti complicano questi argomenti con fantasie insensate e altre assurdità del tutto irrilevanti, se valutate con raziocinio - del tutto irrilevanti - ma non è complimento dirti che mi aspetto ben altro da te. Ora, quali sono i fatti in questo caso? Tu hai, facciamo cifra tonda, vent'anni; Bounderby, facciamo ancora cifra tonda, ne ha cinquanta. C'è differenza di età fra voi, ma, da un punto di vista sociale e patrimoniale, non c'è nessuna differenza; al contrario c'è grande affinità. Il problema, perciò, si può formulare nei seguenti termini: quest'unica differenza è un ostacolo al matrimonio? Se vogliamo esaminare il problema da tutti i lati, non sono elementi trascurabili le statistiche, per quanto disponibili, relative all'Inghilterra e al Galles. Le cifre dimostrano che in una percentuale assai alta l'età dei coniugi è molto diversa e che, in oltre tre quarti dei casi, è l'uomo a essere più vecchio. È interessante notare, a riprova, che si tratta di legge di vasta portata, che risultati analoghi si hanno tra gli indigeni dei possedimenti inglesi in India, tra le popolazioni di una vasta zona della Cina e tra i Calmucchi della Tartaria, almeno stando ai dati fornitici da coloro che hanno visitato quelle regioni. La disparità cui ho accennato cessa quasi di essere vera e propria disparità; si può dire che virtualmente scompaia».

«Con quale parola, padre, mi consigliate di sostituire l'espressione che ho appena usato? L'espressione fuori luogo?», chiese Louisa senza modificare il suo atteggiamento di imperturbabile compostezza, malgrado quei dati così confortanti.

«Louisa, mi sembra che non ci sia niente di più semplice. Se ti attieni rigorosamente ai fatti, l'unico problema di fatto che ti si pone è il seguente: il signor Bounderby mi ha chiesto di sposarlo? Sì. La sola domanda che ti rimane è: lo sposerò? Niente di più semplice».

«Lo sposerò?», ripeté Louisa con voce decisa.

«Precisamente. Louisa cara, sono tuo padre e mi compiaccio di constatare che non affronti il problema con i pregiudizi e le abitudini di molte giovani donne».

«No, padre, no».

«Ora ti lascio giudicare da sola. Io ti ho esposto la situazione nei termini in cui se la prospetta una mentalità pratica; te l'ho esposta così come, a suo tempo, ce la siamo prospettata tua madre ed io. Il resto, cara Louisa, spetta a te di deciderlo».

Fin dall'inizio Louisa l'aveva fissato con grande intensità. Ora, appoggiato allo schienale della sedia, con lo sguardo a sua volta fisso sulla lia, avrebbe forse potuto percepire un istante di fuggevole esitazione, durante il quale Louisa aveva sentito l'impulso di gettarglisi fra le braccia e aprirgli i segreti a lungo soffocati nel suo cuore. Ma per accorgersene, avrebbe dovuto superare d'un sol balzo le barriere artificiali che per tanti anni aveva eretto tra sé e gli indefinibili moti dell'animo umano, che continueranno a eludere tutte le astuzie dell'algebra, anche le più sottili, fino al giorno in cui le trombe del giudizio non abbatteranno l'algebra stessa. Ma le barriere erano troppe e troppo alte, perché potesse scavalcarle. Il suo volto inflessibile, utilitaristico, concreto, portò la lia a irrigidirsi; l'attimo dello slancio fu inghiottito nell'insondabile pozzo del passato, si mescolò a tutte le occasioni perdute che vi si sono inabissate.

Distolse lo sguardo da lui e rimase a fissare a lungo, in silenzio, verso la città, finché il padre non le chiese: «Cerchi una risposta nelle ciminiere di Coketown, Louisa?».

«Sembra che laggiù ci sia soltanto una pigra e compatta coltre di fumo, ma quando scende la notte, divampa il fuoco, padre!», rispose lei, voltandosi di scatto.

«Lo so benissimo, Louisa. Non so cosa c'entri questa tua osservazione». E, per rendergli giustizia, diremo che era sincero.

Louisa fece un lieve gesto della mano come per accantonare quel discorso e, concentrando di nuovo l'attenzione su di lui, disse: «Padre ho pensato spesso che la vita è molto breve». Al che Gradgrind subito interloquì, dato che l'argomento era uno dei suoi cavalli di battaglia.

«È breve, non c'è dubbio, mia cara. Eppure è stato dimostrato che la durata media della vita umana è aumentata negli ultimi anni. Lo provano inconfutabilmente calcoli di varie comnie di assicurazione sulla vita e di numerosi enti pensionistici, oltre ad altri dati sicuramente esatti».

«Parlo della mia vita, padre».

«Davvero? Ebbene, Louisa, non occorre che ti faccia notare che la tua vita è governata dalle stesse leggi che governano la vita della comunità».

«Fino a che la mia vita durerà, desidererei fare il poco che posso e il poco che sono adatta a fare. Che importanza ha?».

«Che importanza? Che importa cosa, mia cara?», replicò Gradgrind con aria smarrita nel tentativo di capire le ultime tre parole dette dalla lia.

«Il signor Bounderby mi chiede di sposarlo», continuò lei con decisione e fermezza, in modo diretto, senza badare a quella interruzione. «La domanda che devo porre a me stessa è: lo sposerò? È così, vero, padre? Mi avete detto di fare così, vero, padre?».

«Certamente, mia cara».

«E sia così allora. Poiché il signor Bounderby si compiace di prendermi in questo modo mi ritengo soddisfatta di accettare la sua proposta. Ditegli, padre, quando lo riterrete conveniente, che questa è la mai risposta. Ripetetegliela parola per parola, se potete, perché vorrei che lui sapesse quello che ho detto».

«È molto giusto essere precisi, mia cara», replicò suo padre in tono di approvazione. «Mi atterrò a questa tua richiesta che è davvero molto opportuna. Hai qualche particolare desiderio quanto al periodo del matrimonio, bimba mia?».

«Nessun desiderio, padre. Che importanza ha?».

Il signor Gradgrind aveva accostato un po' la sedia per esserle più vicino e le aveva preso la mano. Queste parole ripetute lo colpirono come qualcosa di stonato. Rimase un attimo a guardarla, poi, sempre tenendole la mano, aggiunse:

«Louisa, non ho ritenuto necessario rivolgerti una domanda perché l'eventualità in essa implicita mi sembrava troppo remota. Ma forse avrei dovuto farlo. Non hai mai accarezzato in segreto qualche altro progetto matrimoniale?».

«Padre», rispose lei quasi con scherno, «che altra proposta avrebbe potuto essere fatta a me? Chi ho mai incontrato? Dove mai sono stata? Quali sono mai le esperienze del mio cuore?».

«Mia cara Louisa, hai fatto bene a correggermi. Volevo soltato compiere il mio dovere», replicò Gradgrind, rassicurato e soddisfatto.

«Che ne so io, padre, di predilezioni e di fantasie; di aspirazione e di affetti?», riprese Louisa coi suoi modi pacati. «Che cosa so di quella parte del mio animo dove queste frivolezze avrebbero potuto allignare? Quali possibilità di fuga ho avuto da problemi che si potevano dimostrare e dalle situazioni reali che si potevano afferrare?». Nel dire queste cose, serrò la mano quasi a stringere un oggetto concreto, poi la riaprì lentamente come per lasciar cadere polvere o cenere.

«È vero, mia cara, è vero», assentì il genitore eminentemente pratico.

«Ebbene, padre, che strana domanda da fare a me!», continuò lei. «Quelle predilezioni infantili che, così ho sentito dire, sono tanto diffuse fra i bambini, non hanno mai trovato nel mio cuore un innocente rifugio. Siete stato così sollecito con me che io non ho mai avuto un cuore di bimba; sono stata educata così bene che non ho mai sognato le cose che sognano i bimbi; mi avete trattata con tanta saggezza dalla culla fino a oggi che non ho mai creduto alle cose in cui credono i bimbi e non ho mai avuto paure infantili».

Il signor Gradgrind, molto commosso da questo successo e dal riconoscimento che gli veniva reso, disse:

«Mia cara Louisa, mi rihi ampiamente delle cure che ti ho dato. Dammi un bacio, mia cara liola».

Così la lia lo baciò, e lui, trattenendola fra le braccia, aggiunse: «È venuto il momento in cui posso dirti, lia mia prediletta, quanto mi renda felice la saggia decisione che hai preso. Il signor Bounderby è uomo di notevoli qualità, e l'insignificante disparità - se mai esiste - che si può notare fra voi è più che compensata dalla maturità del tuo giudizio. Nell'educarti è sempre stato mio scopo, fin da quando eri bimba, fare di te una persona senza età, se così posso esprimermi. Dammi ancora un bacio, Louisa, e andiamo da tua madre».

Così fecero: scesero in salotto, dove l'illustre signora, incontaminata dalle sciocchezze, se ne stava sdraiata come al solito, mentre Sissy lavorava accanto a lei. Nel vederli entrare, diede qualche debole segno di vita e, poco dopo, quella esangue, diafana creatura si mise a sedere.

«Signora Gradgrind», disse il marito che aveva atteso con una certa impazienza quel coronamento della sua impresa, «permettetemi di presentarvi la signora Bounderby».

«Oh! allora avete sistemato tutto! Be', Louisa, spero proprio che tu possa godere di buona salute, perché, se appena sposata, ti sentirai la testa che ti scoppia, come è successo a me, non penso proprio che tu sia da invidiare, anche se tu credi di esserlo - ne sono sicura - come credono tutte le ragazze. Ad ogni modo, ti auguro buona fortuna, mia cara, e spero che trarrai giovamento da tutte quelle logìe che hai studiato. Lo spero proprio. Voglio congratularmi con te, dandoti un bacio, Louisa, ma non toccarmi la spalla destra perché è tutto il giorno che sento un formicolio. Ed eccomi qui», piagnucolò la signora Gradgrind, stringendosi di nuovo nei suoi scialli, dopo l'affettuosa cerimonia, «a tormentarmi mattina, pomeriggio e notte, a pensare a come dovrò chiamarlo!».

«Signora Gradgrind, cosa intendete dire?», chiese il marito con aria solenne.

«Come dovrò chiamare lui, signor Gradgrind, quando avrà sposato Louisa! Dovrò pur chiamarlo in qualche modo. Non è pensabile che continui a rivolgergli la parola senza mai sapere come chiamarlo», disse la signora Gradgrind con un misto di cortesia e di disappunto.

«Non posso chiamarlo Josiah perché è un nome che non sopporto. Voi, come ben sapete, non ne volete sapere di Joe. Dovrò chiamare mio genero 'signore'? Non credo, a meno che, malata come sono, non debba essere presa a calci dai parenti. Come chiamarlo allora?».

Poiché nessuno dei presenti sapeva cosa suggerire in una circostanza tanto drammatica, la signora Gradgrind tornò a estraniarsi dalla vita per il momento, non senza aver aggiunto alle disposizioni precedenti questo codicillo:

«Quanto al matrimonio, tutto quel che chiedo, Louisa, - e lo chiedo mentre sento un fremito in petto che mi arriva fino alla pianta dei piedi - è che si faccia presto. Altrimenti, sarà un'altra di quelle cose che non so mai come vanno a finire, ne sono sicura».

Quando il signor Gradgrind aveva presentato la futura signora Bounderby, Sissy aveva girato la testa di scatto e aveva rivolto a Louisa uno sguardo in cui si leggevano stupore, compassione, pena, perplessità e un'infinità di altri sentimenti. Pur senza guardarla, Louisa se lo era aspettato e lo aveva percepito. Da quel momento fu impenetrabile, fredda, orgogliosa, tenne Sissy a distanza e mutò radicalmente nei suoi confronti.

XVI

. MARITO E MOGLIE

All'annuncio della sua felicità, il primo fastidio che Bounderby dovette affrontare fu quello di comunicare la notizia alla signora Sparsit. Non sapeva decidersi sul modo migliore per farlo e non sapeva quali sarebbero state le conseguenze di quel passo. Sarebbe partita lì per lì, armi e bagagli, per andare da Lady Scadgers, o avrebbe decisamente rifiutato di levar le tende da quella casa? Si sarebbe mostrata mesta o furibonda, in lacrime o in collera? Le si sarebbe infranto il cuore o avrebbe infranto uno specchio? Il signor Bounderby non sapeva che cosa aspettarsi. Poiché la cosa andava fatta, non gli restava che farla: perciò dopo alcuni tentativi di scrivere una lettera senza riuscire a concludere nulla, decise di affrontare l'argomento a tu per tu.

Nel rientrare a casa, la sera scelta per quella importante incombenza, si premurò di fare un salto in farmacia a comperare un flacone dei sali più potenti che ci fossero. «Per Giove! Se la prende in chiave di svenimenti, le scarnificherò il naso con questa roba». Ma, pur con tutte quelle precauzioni, quando mise piede in casa aveva un'aria tutt'altro che ardimentosa e ve alla presenza dell'oggetto di tante preoccupazioni come un cane che sia consapevole di essere appena uscito dalla dispensa.

«Buonasera, signor Bounderby!».

«Buonasera, signora, buonasera!». Tirò in avanti la sedia e la signora Sparsit tirò indietro la sua, come a dire: «È il vostro caminetto, signore. Lo riconosco di mia spontanea volontà. È vostro diritto occupare tutto lo spazio, se così credete opportuno».

«Non andate fino al Polo Nord, signora!», protestò lui.

«Grazie, signore», rispose quella gentildonna, spostandosi un pochino in avanti, ma non tanto da raggiungere la posizione di prima.

Il signor Bounderby rimase seduto a guardarla, mentre lei, con un paio di forbici acuminate e implacabili, praticava dei buchi, per qualche imperscrutabile scopo ornamentale, in una pezza di batista: occupazione, quella, che insieme alle sopracciglia cespugliose e al naso romano, suggeriva con grande vivezza l'immagine di un falco intento a strappare gli occhi a un misero uccellino. Era così assorta nel suo lavoro che passarono parecchi minuti prima che sollevasse lo sguardo e, quando lo fece, il signor Bounderby richiamò la sua attenzione con un cenno del capo.

«Signora Sparsit», esordì mettendo le mani in tasca e assicurandosi con la destra che il tappo del flacone fosse pronto per l'uso, «ho avuto talvolta l'occasione di dirvi che non siete soltanto una gran signora per nascita e che avete modi da gran signora, ma che siete anche una donna di grande buon senso».

«Signore, non è infatti la prima volta che avete avuto la compiacenza di onorarmi, rivolgendomi espressioni simili e dimostrando così la buona opinione che avete di me».

«Signora Sparsit, sto per darvi una notizia che vi lascerà di stucco».

«Sì, signore?», ribatté lei con aria interrogativa e grande compostezza di modi. Era solita indossare i mezzi guanti e ora colse l'occasione per deporre il lavoro e per lisciarseli.

«Signora, mi sposerò con la lia di Tom Gradgrind».

«Sì, signore?», replicò la signora Sparsit. «Vi auguro di essere felice, signor Bounderby. Oh, davvero, signore, vi auguro tutta la felicità!». Parlò con tanta condiscendenza e, nello stesso tempo, dimostrando tanta commiserazione per lui, che Bounderby - assai più sconcertato che se lei avesse scagliato la scatola da lavoro contro lo specchio o si fosse accasciata sul tappeto - riavvitò stretto il tappo del flacone dei sali che teneva in tasca e pensò: «Dannazione a lei! Chi avrebbe mai immaginato che la prendesse in questo modo!».

«Vi auguro di cuore di essere molto felice sotto tutti i punti di vista», disse la signore Sparsit, facendo cadere le parole dall'alto. Sembrava che in qualche modo, da un momento all'altro, avesse acquisito il diritto di poterlo compatire per il resto dei suoi giorni.

«Be', signora, vi sono obbligato. Spero proprio di esserlo», rispose Bounderby in tono lievemente risentito e con voce che, suo malgrado, suonò sommessa.

«Lo sperate, signore? Ma, naturale, certo che lo sperate», disse la signora Sparsit affabilmente.

Seguì da parte del signor Bounderby una pausa molto impacciata. La signora Sparsit riprese placidamente a lavorare, dando di tanto in tanto un colpetto di tosse, che sembrava simboleggiare la sua forza d'animo e la sua sopportazione.

«Be', signora, date le circostanze, non credo che una persona come voi possa accettare di restar qui, anche se naturalmente sarebbe la benvenuta».

«Oh, no, signore! Certamente no! Non potrei pensarlo per nessun motivo!». La signora Sparsit scosse il capo, sempre con quella sua aria di superiorità, cambiando leggermente il colpetto di tosse: ora tossicchiava come se si fosse risvegliato in lei lo spirito profetico, ma preferisse tenerselo strozzato in gola.

«Ad ogni modo, signora, ci sono delle stanze nella Banca dove una gentildonna come siete voi, signora per nascita e per educazione, farebbe davvero colpo in qualità di governante, e se le stesse condizioni».

«Chiedo scusa, signore. Avete avuto la bontà di usare sempre l'espressione 'gratifica annuale'».

«D'accordo, signora: gratifica annuale. Se ritenete di poter accettare la stessa gratifica annuale, non vedo perché dovremmo separarci a meno che non lo desideriate voi».

«Signore, l'offerta si addice alla vostra generosità e se la posizione che avrò alla Banca sarà tale che potrò occuparla senza scendere ancora nella scala sociale».

«Certo che lo è!», esclamò Bounderby. «Non crederete che ve l'avrei offerta, se così non fosse. A una signora che ha frequentato l'alta società come avete fatto voi! Non che io ci tenga a quella società, ma voi, sì, voi ci tenete!».

«Siete molto sollecito, signor Bounderby».

«Avrete delle stanze tutte per voi, carbone e candele e tutto il resto. Una cameriera si occuperà di voi e ci sarà il portatorce per proteggervi. Insomma, sarete in una situazione che oserei definire davvero soddisfacente».

«Signore, non occorre aggiungere altro. Nel lasciare l'incarico e i compiti che avevo qui, non sarò liberata dalla dura necessità di guadagnarmi il pane prestando servizio alle dipendenze altrui» - avrebbe potuto dire il rognone, perché questa leccornia accomnata da una salsa bruna era il suo piatto prediletto per cena - «ma preferisco riceverlo dalle vostre mani che da quelle di chiunque altro. Perciò, signore, accetto la vostra offerta con viva gratitudine e con profonda riconoscenza per la benevolenza dimostratami in passato. Spero, signore», disse concludendo con una nota particolarmente toccante, «spero con tutto il cuore che la signorina Gradgrind corrisponda in tutto e per tutto ai vostri desideri e ai vostri meriti!».

Nulla poté più smuovere la signora Sparsit da quell'atteggiamento. Invano Bounderby tuonava o cercava di imporsi con i suoi soliti modi rumorosi: la signora Sparsit era decisa a manifestare nei suoi confronti la stessa compunta compassione che si ha verso una vittima. Era cortese, premurosa, allegra, fiduciosa; ma più lei si dimostrava cortese, premurosa, allegra, fiduciosa, più lui appariva la desolata vittima destinata al sacrificio. Manifestava tanta afflizione e tenerezza per la triste sorte che lo attendeva che il faccione paonazzo di Bounderby si copriva di sudore freddo ogni volta che la signora Sparsit lo guardava.

Nel frattempo era stato convenuto di celebrare il matrimonio di lì a otto settimane; ogni sera il signor Bounderby si recava a Stone Lodge nella veste ufficiale di fidanzato. In queste occasioni l'amore si esprimeva sotto forma di braccialetti e, durante tutto il fidanzamento, in ogni occasione che si presentò, parlò il linguaggio degli oggetti. Furono ordinati vestiti, gioielli, dolci, guanti; furono stipulati accordi e un ampio assortimento di fatti sigillò il contratto di matrimonio. Tutto si svolse all'insegna dei Fatti dal principio alla fine. Il Tempo non si tinse di rosa come gli sciocchi poeti sostengono che succeda in tali circostanze; gli orologi non andarono né più in fretta né più lentamente di quanto facciano nelle altre stagioni della vita. L'inesorabile orologio statistico nell'osservatorio di Gradgrind continuò a martellare ogni secondo che nasceva e a seppellirlo con la consueta regolarità.

Arrivò così il giorno fissato come arrivano tutti gli altri giorni per coloro che si affidano soltanto alla ragione; e quando giunse, si unirono in matrimonio, nella chiesa con i robusti pinnacoli di legno - in quello stile architettonico tanto diffuso - Josiah Bounderby Esquire di Coketown e Louisa, la lia maggiore di Thomas Gradgrind Esquire di Stone Lodge, deputato al Parlamento per quella circoscrizione. E quando furono uniti nel santo vincolo, andarono tutti per il ricevimento nella suddetta Stone Lodge.

Per la lieta occasione erano state invitate degnissime persone che sapevano di che cosa era fatto tutto quello che veniva loro offerto da bere e da mangiare, come veniva importato o esportato e in quali quantità, con quali navi, nazionali o straniere, insomma tutto quello che c'era da sapere. Le damigelle d'onore, fino alla piccola Jane Gradgrind, da un punto di vista intellettuale, sarebbero state le comne ideali di un ragioniere, e tutti i presenti erano persone con i piedi per terra.

Dopo il banchetto, lo sposo si rivolse agli invitati nei seguenti termini:

«Signori e signore, io sono Josiah Bounderby di Coketown. Poiché avete fatto l'onore a mia moglie e a me di bere alla nostra salute e alla nostra felicità, ritengo di dover ricambiare con lo stesso augurio. Mi conoscete tutti, sapete chi sono, da dove vengo; non aspettatevi quindi un gran discorso da un uomo che, quando vede un palo, dice 'questo è un palo', e quando vede una pompa dice 'questa è una pompa', e che non si lascia convincere a dire palo a una pompa o pompa a un palo o stuzzicadenti a nessuno dei due. Se stamattina proprio volete un discorso, eccovi il mio amico e suocero, Tom Gradgrind, deputato al Parlamento: chiedete a lui. Io non faccio al caso. Tuttavia, guardando voi che siete qui oggi, sento di essere un uomo di successo, un uomo arrivato, e mi vien da pensare che mai avrei immaginato di sposare un giorno la lia di Tom Gradgrind, io che ero un piccolo vagabondo straccione, che si lavava la faccia nelle fontane e mai più di una volta ogni due settimane. Spero, perciò, che vorrete perdonarmi. Apprezzerete il fatto che io mi senta un uomo di successo, spero; se non è così, non so che farci. Mi sento un uomo di successo. Ho detto, e anche voi lo avete detto, che oggi mi sono sposato con la lia di Tom Gradgrind. Sono molto felice. Lo desideravo da tempo. So come è stata educata e la ritengo degna di me. Nello stesso tempo - voglia essere franco con voi - anch'io mi ritengo degno di lei. Perciò in nome di tutti e due, vi ringrazio per la benevolenza che ci avete mostrato. Il miglior augurio che posso rivolgere a coloro che, fra i presenti, non sono sposati è questo: spero che gli scapoli possano trovare una moglie come la mia; e che le nubili riescano a trovare un marito come me».

Poco dopo aver pronunciato questa orazione, la coppia felice partì in treno, per il viaggio di nozze, alla volta di Lione: il signor Bounderby, infatti, voleva approfittare dell'occasione per vedere come si comportavano gli operai da quelle parti e se anche lì pretendevano di essere nutriti con cucchiai d'oro. Nello scendere le scale, la sposa, in abito da viaggio, trovò Tom ad aspettarla - rosso in viso, chissà se per la commozione o per il vino bevuto.

«Che ragazza coraggiosa e che sorella di prim'ordine, Lou!», le sussurrò.

Louisa si strinse a lui: in quel giorno avrebbe dovuto stringersi a qualcuno di più meritevole e, per la prima volta, il suo contegno di distaccato riserbo sembrò incrinarsi.

«Il vecchio Bounderby è pronto», disse Tom. «È ora. Arrivederci! Starò di guardia per vederti tornare. Be', cara Lou, non è tutto straordinariamente allegro adesso?».

LIBRO SECONDO

. IL RACCOLTO

I

. EFFETTI IN BANCA

Era un'assolata giornata di mezza estate. Perfino a Coketown a volte accadevano cose simili.

Vista in lontananza, con quel tempo, Coketown si stendeva avvolta in un suo speciale alone del tutto impenetrabile ai raggi del sole. Si capiva che lì dentro c'era una città, solo perché si capiva che in quel paesaggio non poteva esserci una macchia così tetra e scura senza che sotto ci fosse una città. Una chiazza di fumo e di caligine, che si muoveva ora in questa direzione, ora in quella; che ora, confusamente, si volgeva verso la volta del cielo, ora strisciava nerastra sulla terra, a seconda di come si alzava o cadeva il vento, oppure mutava direzione: un ammasso informe, con sprazzi di luce obliqua che mostravano soltanto mucchi di tenebre. Già in lontananza, prima che si riuscisse a scorgere anche un solo mattone della città, Coketown si annunciava per quello che era.

La cosa sorprendente era che esistesse. L'avevano devastata tante volte, quella città, che non si capiva come ce l'avesse fatta a subire tutto quello scempio. Una cosa, però, è certa: non ci fu mai porcellana più fragile di quella impiegata a costruire gli industriali di Coketown. Non si usava mai sufficiente delicatezza con loro: andavano in rovina con tanta facilità da far nascere il sospetto che fossero incrinati in partenza. Rovinati, quando fu loro imposto di mandare a scuola i bambini che lavoravano in fabbrica; rovinati, quando furono nominati gli uomini che dovevano ispezionare le officine; rovinati, quando questi ispettori espressero qualche dubbio circa il fatto che ci fossero valide ragioni perché le macchine facessero a pezzi la gente; messi a terra se qualcuno suggeriva che forse non era necessario fare tutto quel fumo. Oltre al cucchiaio d'oro tanto caro a Bounderby e così comune tra la gente di Coketown, c'era anche un'altra abitudine assai diffusa in città, che suonava in tutto e per tutto come una minaccia. Non appena si dava il caso che un qualche notabile di Coketown si sentisse maltrattato - vale a dire, quando non gli si permetteva di fare di testa sua e si avanzava l'ipotesi che potesse essere ritenuto responsabile dei suoi atti - costui, infallibilmente, saltava fuori con la terribile minaccia che, prima di arrendersi, «avrebbe buttato nell'Atlantico tutti i suoi beni». E in parecchie occasioni il ministro degli Interni, in preda al terrore, per poco non cadde stecchito. Questi cittadini, però, erano dopo tutto dei buoni patrioti, perché non solo non si sognarono mai di buttare i beni nell'Atlantico ma, anzi, buoni e generosi com'erano, ne avevano grande cura. Ed eccola lì, Coketown, avvolta nel suo alone; e la città cresceva e si moltiplicava.

In quel giorno d'estate le strade erano calde e polverose, e il sole splendeva così forte che riusciva a perforare la densa, stagnante cappa di vapori; non lo si poteva fissare a lungo. Emergendo da bassi usci seminterrati, i fuochisti si dirigevano verso i cortili delle fabbriche, sedevano su gradini, assi, steccati, detergendosi il volto bruno e guardando fissamente il carbone. Pareva che l'intera città friggesse nell'olio; dappertutto aleggiava un soffocante odore di olio. Le macchine luccicavano, tutte oliate, gli abiti degli 'operai' ne erano tutti unti, le fabbriche, piano dopo piano, ne trasudavano e gocciolavano. L'aria che si respirava in quei palazzi fatati era come il soffio del simun: coloro che vi abitavano, logorandosi nel caldo, sgobbavano, affranti, nel deserto.

Ma nessuna temperatura poteva aggravare o guarire la depressione malinconica di quegli elefanti. Le loro pesanti teste continuavano uggiosamente ad alzarsi ed a abbassarsi, al freddo e al caldo, alla pioggia e al sole, con il brutto e con il bel tempo. Invece di boschi fruscianti, Coketown offriva il moto continuo e regolare delle loro ombre sulle pareti; invece del sommesso canto degli insetti durante l'estate, la città elargiva, per tutto l'anno, dall'alba del lunedì fino alla notte del sabato, il ronzio di ingranaggi e pistoni.

Sonnolenti ronzavano in quella calda giornata, e chi si trovava a passare accanto ai sibilanti muri delle fabbriche, si sentiva ancora più assonnato e accaldato. Persiane e spruzzi d'acqua rinfrescavano un po' le strade principali e i negozi, ma fabbriche, cortili, vicoli, erano infuocati in quel caldo torrido. Giù, lungo il fiume, nero e denso per gli scarichi, alcuni ragazzi in libertà - raro spettacolo in quel luogo - remavano in una barca malandata che, nel suo procedere a sussulti, lasciava una scia schiumosa, mentre a ogni colpo di remo si levavano odori nauseabondi. Il sole stesso, per quanto di solito benigno, a Coketown era più impietoso del gelo, e ben di rado accadeva che volgesse il suo sguardo verso quelle regioni senza apportare più morte che vita. L'occhio stesso del Cielo diventa malefico quando, fra esso e le cose su cui si poggia benevolo, si interpongono mani incapaci o sordide.

Nella Banca, posta dalla parte più ombrosa della strada, nella stanza in cui era solita trascorrere il pomeriggio, se ne stava seduta la signora Sparsit. Gli uffici erano ormai chiusi e, a quell'ora del giorno, quando il tempo era buono, lei era solita impreziosire con la sua garbata presenza una stanza, arredata con dirigenziale solennità, soprastante i locali aperti al pubblico. Il suo salotto privato si trovava al primo piano; dalla finestra di quel posto di osservazione, quando il signor Bounderby ogni mattina attraversava la strada, la signora Sparsit era pronta a salutarlo con l'affettuosa partecipazione che si tributa a una vittima. Ormai era sposato da un anno, e la signora Sparsit non aveva rinunciato neppure per un momento al suo atteggiamento di tenace commiserazione.

La Banca non violava la bella monotonia della città. Era un ennesimo edificio di mattoni rossi, con imposte nere all'esterno e verdi all'interno, con una porta d'entrata nera su due gradini bianchi, una targa di bronzo brunito e una maniglia simile a un punto. Era grande il doppio della casa del signor Bounderby e molto più vasta di tutte le altre case, le cui dimensioni andavano dalla metà fino a un sesto di quelle dell'abitazione del signor Bounderby: per il resto, l'edificio si atteneva rigorosamente allo schema.



La signora Sparsit era convinta di infondere un tocco di grazia femminile, per non dire di garbo aristocratico, quando, alla sera, scendeva fra le scrivanie e l'assortimento di cancelleria. Seduta alla finestra con il suo ricamo o i ferri da calza, aveva l'impressione, non priva di autocompiacimento, di ingentilire con le sue maniere signorili la sbrigativa atmosfera 1commerciale del luogo. Persuasa di essere un personaggio di grande interesse, la signora Sparsit si riteneva, in un certo senso, la fata della Banca; la gente, invece, che, andando avanti e indietro, la vedeva in quell'atteggiamento, la considerava il drago della Banca a guardia dei tesori della miniera.

Quali fossero poi questi tesori, la signora Sparsit non lo sapeva, proprio come non lo sapevano gli altri. Monete d'oro e d'argento, documenti preziosi, segreti che, se divulgati, avrebbero portato a una non meglio specificata rovina persone non meglio specificate (che, però, in linea di massima, coincidevano con coloro che le stavano antipatici), rappresentavano le voci più importanti del suo catalogo mentale. Per il resto, sapeva di essere lei, dopo le ore di ufficio, a regnare sovrana su tutto il mobilio e su una stanza che veniva chiusa con tre serrature, contro la porta della quale il guardiano notturno posava la testa tutte le notti, dormendo su una branda che spariva tutte le mattine al canto del gallo. Inoltre era signora assoluta su certi sotterranei, sottratti a ogni contatto con questo mondo di predoni da puntute sbarre di ferro, nonché sulle reliquie attestanti la giornata lavorativa conclusa, consistenti in macchie d'inchiostro, penne consumate, frammenti della ceralacca dei sigilli, pezzettini di carta strappati in brandelli così minuscoli che non si riusciva a decifrare nulla di interessante, come ben sapeva, per esperienza diretta, la signora Sparsit. Da ultimo, vegliava su un piccolo arsenale di coltellacci e fucili, disposti in assetto guerresco su un caminetto; e su altri oggetti che una rispettabile tradizione non vuole mai disgiunti da una sede che afferma di essere prospera - una fila di secchi da usare in caso di incendio - recipienti, questi, che, in caso di bisogno, si rivelano, come è noto, del tutto privi di qualsiasi utilità pratica, ma che, agli occhi di molta gente, sono dotati di grande ascendente morale e sono rassicuranti quasi quanto la vista dei lingotti.

Una domestica sorda e un guardiano notturno completavano l'impero della signora Sparsit. Si mormorava che la domestica sorda fosse ricca e da anni, fra le classi umili di Coketown, circolava la voce che, una notte o l'altra, alla chiusura della banca, qualcuno l'avrebbe assassinata per rubarle i soldi. Era opinione comune che già da tempo la sua ora avrebbe dovuto essere giunta e che da tempo lei avrebbe dovuto essersene andata, ma la donna aveva conservato vita e quattrini con una cagionevole pertinacia che suscitava indignazione e disappunto.

Alla signora Sparsit era stato appena servito il tè su un grazioso tavolinetto a tre gambe che lei aveva l'abitudine, finito l'orario di ufficio, di far scivolare accanto a un lungo e severo tavolo dirigenziale con il ripiano rivestito di cuoio, che dominava tutto il centro della stanza. Il guardiano notturno vi posò sopra il vassoio del tè, dandosi un colpetto alla fronte con le nocche delle mani in segno di omaggio.

«Grazie, Bitzer», disse la signora Sparsit.

«Grazie a voi, signora», rispose. Era un guardiano veramente notturno, con il suo pallore spettrale, lo stesso che aveva quando, ragazzo, fra un gran battere di palpebre, definiva il cavallo per la ragazza numero venti.

«È tutto chiuso Bitzer?», chiese la signora Sparsit.

«Tutto chiuso, signora».

«Quali sono le novità del giorno? Qualche cosa di nuovo?», chiese la signora Sparsit versandosi il tè.

«Be', signora, non ho sentito nulla di speciale in giro. Brutta gente quella che vive qui, ma, signora, nulla di nuovo purtroppo».

«Cosa combinano quei ribaldi scalmanati?», si informò la signora Sparsit.

«Le solite cose, signora: sindacati, leghe, cooperative, per sostenersi a vicenda».

«È assai deplorevole che le associazioni padronali tollerino queste combutte di classe», disse la signora Sparsit che, nel suo sdegno, accentuò la romanità del naso e la coriolanità delle sopracciglia.

«Sì, signora», confermò Bitzer.

«Anche loro si sono associati e quindi dovrebbero, tutti insieme, far fronte comune e non assumere nessuno che sia in combutta con gli altri».

«Ci hanno provato, signora», replicò Bitzer, «ma è andata male».

«Non pretendo di capire queste cose», dichiarò la signora Sparsit con grande dignità, «ho sempre frequentato ambienti molto diversi e anche il signor Sparsit, che era un Powler, non aveva niente a che fare con queste controversie. So soltanto che è gente che va messa a posto, e che ormai è ora di farlo una volta per tutte».

«Sì, signora», rispose Bitzer dando mostra di grande rispetto per l'autorità oracolare della signora Sparsit. «Non avreste potuto parlar più chiaro di così, davvero, signora».

Quella era l'ora della chiacchierata confidenziale con la signora Sparsit: Bitzer, che aveva letto nei suoi occhi l'intenzione di chiedergli qualche cosa, fece finta di riordinare righelli, calamai eccetera, mentre la gentildonna continuava a sorbire il tè, guardando giù nella strada dalla finestra aperta.

«È stata una giornata intensa, Bitzer?», chiese la signora Sparsit.

«Non più del solito, mia signora. Una giornata normale». Ogni tanto gli scappava detto «mia signora» invece del semplice signora, quasi un involontario riconoscimento della grande dignità personale della signora Sparsit e del suo diritto a ricevere adeguato omaggio.

«Gli impiegati sono fidati, puntuali e attivi, naturalmente», disse la signora Sparsit, togliendo con cura dal mezzo guanto sinistro una impercettibile briciola di pane e burro.

«Certo, signora, vanno tutti molto bene, signora. Con la solita eccezione».

Nella Banca, Bitzer aveva la funzione di spia e di informatore generale, e, per questo servizio che egli offriva di sua iniziativa, a Natale gli veniva dato un premio, in aggiunta al normale salario settimanale. Col tempo Bitzer era maturato in un uomo cauto e prudente, con idee molto chiare in testa e la precisa volontà di farsi strada nel mondo. La sua mente, regolata alla perfezione, era del tutto scevra di affetti o di passioni; le sue azioni erano il risultato di calcoli freddi e precisi; non senza ragione la signora Sparsit diceva di lui che era il giovane di principi più saldi che avesse mai conosciuto. Questo brillante e promettente economista, accertatosi alla morte del padre, che la madre aveva diritto di risiedere a Coketown, aveva fatto valere questa prerogativa con tanto vigore e rigore che era riuscito a farla rinchiudere nell'ospizio cittadino. C'è da dire che le concedeva mezza libbra di tè all'anno, il che costituiva una debolezza, secondo lui; in primo luogo, perché è nella natura dei doni indurre il destinatario a fare affidamento sulla carità pubblica; in secondo luogo, perché l'unico ragionevole commercio di tale merce sarebbe stato di comprarla al più basso prezzo e rivenderla al più alto: tanto di filosofi avevano dimostrato che in questo principio sono racchiusi tutti i doveri dell'uomo - non una parte dei doveri, ma tutti.

«Bene, signora. Con la solita eccezione, signora,», ripeté Bitzer.

«Ah!», esclamò la signora Sparsit scuotendo il capo sulla tazza e sorbendo una robusta sorsata di tè.

«Il signor Thomas, signora. Ho molti dubbi sul signor Thomas, signora; non mi piace il suo modo di fare».

«Bitzer», disse la signora Sparsit con aria solenne, «ti ricordi quel che ti ho insegnato a proposito di chiamare la gente per nome?».

«Chiedo scusa, signora, avete ragione. Siete sempre stata contraria a usare i nomi; avete sempre detto che è meglio evitarli».

«Ti prego di ricordare che ho un compito», disse la signora Sparsit maestosamente. «Ho mansioni di fiducia, qui, Bitzer, al servizio del signor Bounderby. Né io né il signor Bounderby avremmo mai pensato, anni fa, che un giorno lui sarebbe diventato il mio padrone e benefattore e che mi avrebbe corrisposto una gratifica annuale, ma oggi non posso fare a meno di vedere le cose sotto questa luce. Il signor Bounderby ha tributato al mio rango sociale e alle mie origini tutta la considerazione e tutto il rispetto che potevo aspettarmi. Anzi di più, molto di più. Perciò resterò scrupolosamente fedele al mio padrone e benefattore. Non credo, non voglio e non posso credere», concluse la signora Sparsit, attingendo alla sua ampia riserva di onore e moralità, «che gli sarei scrupolosamente fedele, se consentissi a sentir fare, sotto questo tetto, dei nomi che deplorevolmente, molto deplorevolmente, sono senza dubbio legati al suo».

Bitzer si passò di nuovo le nocche sulla fronte e chiese scusa di nuovo.

«No, Bitzer», continuò la signora Sparsit, «di' un individuo, e ti ascolterò; di' il signor Thomas, e sarai tenuto a chiedere scusa».

«Con la solita eccezione di un individuo, signora», disse Bitzer riprovandoci.

«Ah!». La signora Sparsit ripeté l'esclamazione, scosse di nuovo la testa e di nuovo sorseggiò il tè, come per riprendere la conversazione al punto in cui era stata interrotta.

«Un individuo, signora», spiegò Bitzer, «che dal momento in cui ha messo piede qui non si è mai comportato come avrebbe dovuto. Un fannullone dissoluto e stravagante. Non vale il pane che mangia. E non ce l'avrebbe, il pane, neppure un tozzo, se non avesse amicizie e parentele in alto loco, signora!».

«Ah!», esclamò la signora Sparsit con un malinconico cenno del capo.

«Spero soltanto, signora», continuò Bitzer, «che il suo amico e congiunto non gli permetta di proseguire su questa strada, dandogli i mezzi. Noi sappiamo bene da chi viene il danaro!».

«Ah!», sospirò ancora la signora Sparsit, scuotendo di nuovo malinconicamente il capo.

«Va compatita, signora; l'ultima persona alla quale ho alluso, va compatita, signora», proseguì Bitzer.

«Sì, Bitzer», disse la signora Sparsit, «ho sempre compatito chi si faceva delle illusioni, sempre».

« Quanto all'individuo, signora», proseguì Bitzer, abbassando la voce e avvicinandosi, «è imprevidente come tutti gli abitanti di questa città. Voi sapete quanto siano imprevidenti. Nessuno meglio di una signora del vostro rango lo sa».

«Farebbero bene a prendere esempio da voi, Bitzer», rispose la signora Sparsit.

«Grazie, signora. Ma, dal momento che avete accennato a me, consideriamo il mio caso, signora. Ho messo qualche cosa da parte, signora; il premio che ricevo a Natale, signora, non lo intacco mai. Non spendo tutto lo stipendio che pure non è alto, signora. Perché non fanno anche loro come me? Se lo può fare uno, signora, lo possono fare tutti».

Questa era un'altra delle trovate di Coketown. Non c'era capitalista che, partito con sei pence in tasca e ritrovandosi con sessantamila sterline, non si stupisse che i primi sessantamila lavoratori che gli capitavano sott'occhio non facessero anche loro sessantamila sterline partendo da sei pence. Ed eccolo a rimproverarli di non essere riusciti a ottenere un risultato tanto modesto. Quello che ho fatto io, puoi farlo anche tu, no? Perché non ti ci metti e lo fai?

«Non parliamo poi di svaghi e divertimenti», proseguì Bitzer. «Tutte chiacchiere e sciocchezze! Io non ho bisogno di svaghi; non ne ho mai avuto bisogno e non ne avrò mai. Non mi piacciono. Quanto alle loro riunioni, ai loro incontri, se qualcuno - non ho dubbi in merito - tenesse gli occhi aperti e desse qualche informazione su questo o su quello, ci guadagnerebbe qualcosa, di tanto in tanto, in danaro o in simpatia, e migliorerebbe il suo tenore di vita. Perché nessuno lo fa? Dovrebbe essere questo il primo pensiero di un essere razionale ed è anche quello che pretendono di volere».

«Pretendono davvero!», esclamò la signora Sparsit.

«Non fanno che parlare fino alla nausea delle loro mogli, dei loro li», proseguì Bitzer. «Prendiamo me, signora! Io non ho bisogno di moglie e di li. Perché dovrebbero averne bisogno loro?».

«Perché è gente imprevidente», spiegò la signora Sparsit.

«Sì, signora», rispose Bitzer, «proprio così. Se fossero più previdenti e meno testardi, signora, cosa farebbero? Direbbero a se stessi: 'Finché la mia famiglia sta tutta sotto il mio cappello, oppure, a seconda dei casi, signora, finché la mia famiglia sta tutta sotto il mio berretto, ho da sfamare solo una bocca e proprio quella della persona che più mi sta a cuore'».

«Non c'è dubbio», disse la signora Sparsit addentando una ciambella.

«Grazie, signora», rispose Bitzer, passandosi ancora le nocche sulla fronte in segno di ringraziamento verso la signora Sparsit che gli concedeva il favore di quella edificante conversazione. «Desiderate ancora un po' di acqua bollente, signora, o c'è altro che posso portarvi?».

«Per ora nulla, Bitzer».

«Grazie, signora. Non vorrei disturbarvi durante i pasti, signora, soprattutto non vorrei disturbarvi durante il tè, sapendo quanto amate questo momento», disse Bitzer, allungando il collo per vedere giù in strada, «ma c'è un signore che da un minuto o due guarda verso di noi. Ha attraversato la strada come se volesse venir a bussare alla porta. Ecco, è lui che bussa, signora, non c'è dubbio».

Si accostò alla finestra, diede un'occhiata fuori, e ritirando la testa, confermò quanto aveva detto con un: «Sì signora. Volete che faccia entrare il gentiluomo, signora?».

«Non so chi possa essere», disse la signora Sparsit, pulendosi la bocca e rassettandosi i mezzi guanti.

«Uno che viene da fuori, signora, certamente».

«Cosa possa volere uno sconosciuto in una banca, a quest'ora, a meno che non abbia fatto tardi per qualche affare, proprio non lo so», disse la signora Sparsit, «ma qui ho un compito, affidatomi dal signor Bounderby, e non sarò io a sottrarmi ai miei doveri. Se in un modo o nell'altro vedere questo signore fa parte dell'impiego che ho assunto, lo vedrò. Valutate secondo il vostro giudizio, Bitzer».

Del tutto ignaro delle magnanime parole della signora Sparsit, il visitatore bussò ancora e così forte, che il nostro guardiano notturno si affrettò a scendere e ad apire la porta. Nel frattempo, la signora Sparsit prese la precauzione di nascondere in un armadio il tavolinetto con tutto quello che c'era sopra; quindi si affrettò a raggiungere i suoi appartamenti al primo piano, per poter ire, in caso di necessità, con la maggior dignità possibile.

«Se non vi spiace, signora, quel gentiluomo desidera vedervi», disse Bitzer con l'occhio chiaro appoggiato al buco della serratura della porta che dava nella stanza della signora Sparsit. La quale signora Sparsit, che aveva utilizzato quell'intervallo per aggiustarsi la cuffia, portò al pianterreno i suoi lineamenti classici e fece la sua apparizione nel salone del consiglio con l'incedere di una matrona romana che esce dalle mura della città per trattare con il generale invasore.

Il gentiluomo, che si era avvicinato con noncuranza alla finestra e guardava fuori con aria distratta, non rimase per nulla impressionato da quella apparizione maestosa. Con il cappello ancora in testa e un'aria spossata, in parte dovuta all'eccesso di caldo estivo, in parte all'eccesso di affettazione aristocratica, fischiettava fra sé e sé con incredibile calma. Un'occhiata era sufficiente a dire che si trattava di un gentiluomo da capo a piedi, corrispondente in tutto e per tutto al modello in voga: stanco di ogni cosa e ardente di fede quanto Lucifero.

«Credo, signore, che desideriate vedermi», esordì la signora Sparsit.

«Chiedo scusa», rispose voltandosi e levandosi il cappello, «vi prego di scusarmi».

«Ehm!», pensò la signora Sparsit prosternandosi in un maestoso inchino. Trentacinque anni, bell'aspetto, bel fisico, bei denti, bella voce, buone maniere, ben vestito, capelli scuri, sguardo ardito. Tutto questo la signora Sparsit lo notò alla sua maniera femminile, nel breve atto di chinarsi e di tirarsi su.

«Vogliate accomodarvi, signore», disse poi.

«Grazie. Permettete!». Prese una sedia per lei, ma rimase appoggiato alla tavola con aria noncurante. «Ho lasciato il mio domestico alla stazione a prendersi cura dei bagagli - un treno stracarico e un sacco di valigie nel vagone - e me ne sono venuto piano piano, dandomi un'occhiata intorno. Che strano posto! Mi consentite di chiedervi se è sempre così nero?».

«Di solito è molto più nero», replicò la signora Sparsit in tono distaccato.

«Possibile? Scusatemi, voi non siete di qui, vero?».

«No, signore», rispose la signora Sparsit. Prima di restare vedova frequentavo - non so se sia stata una fortuna o una disgrazia - ambienti molto diversi da questo. Mio marito era un Powler».

«Davvero!», disse lo sconosciuto. «Era un ?».

«Powler», ripeté la signora Sparsit.

«La famiglia Powler», disse il forestiero, dopo averci pensato su per qualche minuto. La signora Sparsit fece un cenno d'assenso. Lo sconosciuto assunse un'espressione ancora più affaticata di prima.

«Dovete annoiarvi parecchio qui!», fu la deduzione che trasse da quella informazione.

«Mi sottometto alle circostanze, signore; da molto tempo mi sono adeguata alle forze che governano la mia vita».

«Molto saggio», osservò l'altro, «molto esemplare e lodevole e .». Probabilmente ritenne che non meritasse concludere quella frase perché, annoiato, prese a trastullarsi con la catena dell'orologio.

«Mi consentite di chiedervi, signore», cominciò la signora Sparsit, «a che cosa devo l'onore».

«Certamente», rispose lo sconosciuto, «vi sono obbligato per avermelo ricordato. Sono latore di una lettera di presentazione per il signor Bounderby, il banchiere. Nel passeggiare per questa città così straordinariamente nera, in attesa della cena in albergo, ho chiesto a un tizio incontrato per strada, 'un operaio', uno che sembrava appena uscito da una doccia di fiocchi di lana penso sia il materiale grezzo».

La signora Sparsit fece cenno di sì con il capo.

«Materiale grezzo dove abitasse il signor Bounderby, il banchiere. Al che, quell'uomo, portato fuori strada senza dubbio dalla parola banchiere, mi ha indicato la Banca. In realtà, suppongo che il signor Bounderby, il banchiere, non risieda nell'edificio nel quale ho l'onore di fornirvi questi chiarimenti».

«No, signore», rispose la signora Sparsit, «non risiede qui».

«Grazie, non avevo e non ho intenzione di consegnargli la lettera subito. Ma, arrivato fino alla Banca, per passare il tempo, ho avuto la buona sorte di vedere alla finestra», - nel dir questo, fece un languido cenno con la mano e un leggero inchino - «una signora di aspetto piacente e di gran classe, e ho ritenuto di non poter fare cosa migliore che prendermi la libertà di chiedere a quella gentildonna dove effettivamente abitasse il signor Bounderby, il banchiere. E questo, con tutte le opportune scuse, ho l'ardire di fare adesso».

L'indolente noncuranza dei modi trovava compensazione, agli occhi della signora Sparsit, in una certa disinvolta galanteria con la quale l'uomo le rendeva omaggio. In quel momento, ad esempio, se ne stava praticamente seduto sul tavolo, ma si chinava pigramente su di lei, come se le riconoscesse delle attrattive che la rendevano, a suo modo, affascinante.

«Le banche sono diffidenti, lo so, devono esserlo», proseguì lo sconosciuto con la consueta amabile fatuità che contraddistingueva i suoi modi e in un tono che lasciava indovinare cose ben più profonde e spiritose (forse un ingegnoso trucco inventato dal fondatore - chiunque sia stato quel grand'uomo - della setta, davvero numerosa, di coloro che amano esprimersi in tal modo), «perciò mi sia lecito precisare che la lettera in mio possesso - eccola qui - è del deputato in parlamento per questa città - Gradgrind - che ho avuto il piacere di conoscere a Londra».

La signora Sparsit riconobbe la scrittura, dichiarò che era del tutto superfluo controllare e diede l'indirizzo del signor Bounderby, con tutte le indicazioni e le istruzioni necessarie.

«Mille grazie», disse lo sconosciuto. «Naturalmente voi conoscete bene il banchiere?».

«Sì, signore. Nell'ambito del rapporto di dipendenza che ho verso di lui, lo conosco ormai da dieci anni».

«Un'eternità! Mi pare che abbia sposato la lia di Gradgrind, vero?».

«Sì», rispose la signora Sparsit contraendo improvvisamente le labbra. «Ha avuto questo onore».

«A quel che dicono la signora Bounderby è un'intellettuale, una filosofa».

«Davvero, signore?», fece la signora Sparsit.

«Scusate la mia impertinenza e la mia curiosità», proseguì lo sconosciuto, protendendosi con aria ingraziante al di sopra delle sopracciglia aggrottate della signora Sparsit, «voi conoscete la famiglia e conoscete il mondo. Io sto per conoscere la famiglia e forse avrò molto a che fare con loro. La signora Bounderby è davvero un tipo così impressionante? Suo padre le attribuisce tanta accortezza e senso pratico che ardo dal desiderio di conoscerla. È davvero inavvicinabile? Di un'intelligenza raggelante e sbalorditiva? Capisco dal vostro sorriso così eloquente che non la pensate così. Avete versato un balsamo sulla mia anima ansiosa. Veniamo all'età ora. Quaranta? Trentacinque?».

La signora Sparsit rise di cuore. «Una ragazzina», disse. «Non aveva vent'anni, quando si è sposata».

«Parola d'onore, signora Powler», dichiarò lo sconosciuto, allontanandosi dalla tavola, «non sono mai stato così sorpreso in vita mia!».

La notizia, a quanto pareva, lo stupiva davvero, fino al limite delle sue capacità di stupore. Rimase a guardare la sua informatrice per un buon quarto di minuto, e per tutto questo tempo sembrò indaffaratissimo a stupirsi. «Vi assicuro, signora Powler», disse, poi, spossato, «che le espressioni usate dal padre mi avevano preparato a incontrare una donna matura, di vedute ristrette e molto rigide. ½ sono profondamente grato di aver corretto un errore così assurdo. ½ prego di scusare la mia intrusione. Grazie infinite. Buon giorno!».

Si accomiatò con un inchino, e la signora Sparsit, nascosta dietro la tenda, lo vide allontanarsi con passo fiacco, camminando dalla parte dell'ombra, osservato da tutta la città.

«Che ne pensate di quel signore, Bitzer?», gli chiese, quando questi venne a portar via il vassoio del tè.

«Che spende molti soldi per vestirsi, signora».

«Bisogna però ammettere che ha molto gusto».

«Sì, signora, sempre che valga la pena spendere tanti soldi. Inoltre, signora», proseguì il guardiano, pulendo la tavola, «ha l'aria di un giocatore».

«È immorale giocare», sentenziò la signora Sparsit.

«È ridicolo giocare, signora», disse Bitzer, «perché le probabilità sono tutte contro il giocatore».

Forse era il caldo a impedirle di lavorare, oppure si sentiva le mani affaticate, fatto sta che quella sera la signora Sparsit non si dedicò alla sua maglia. Mentre il sole affondava dietro la coltre di fumo di Coketown, rimase seduta alla finestra; era ancora lì, quando il fumo fu tutto percorso dai guizzi rossi delle fiamme, quando il colore a poco a poco sve e quando le tenebre lentamente si levarono, quasi scaturissero dal suolo, e strisciarono in alto in alto, fino a raggiungere i tetti, la cima del campanile, la sommità delle ciminiere delle fabbriche, fino ad arrivare al cielo. Quella sera, la signora Sparsit non accese la candela nella stanza; rimase seduta alla finestra, con le mani in grembo, senza prestare attenzione ai suoni del crepuscolo: le grida dei ragazzi, l'abbaiar dei cani, il rumore sordo degli ingranaggi, l'eco dei passi e delle voci della gente, gli striduli richiami dei venditori ambulanti, il batter degli zoccoli sul lastricato all'ora del rientro, il fragore delle saracinesche che venivano abbassate. Soltanto quando il guardiano notturno venne ad annunciarle che era pronto il suo rognone serale, soltanto allora la signora Sparsit si riscosse dalle sue fantasticherie e portò al primo piano le nere sopracciglie folte, ormai così raggrinzite nella meditazione che sembrava avessero bisogno di essere stirate.

«Che idiota!», esclamò la signora Sparsit, quando fu sola a cena. A chi si riferisse non lo rivelò; ma era improbabile che il suo interlocutore fosse il rognone.

II

. IL SIGNOR JAMES HARTHOUSE

Alla combriccola di Gradgrind serviva aiuto per tagliare la gola alle Grazie. Cercavano nuove reclute; e dove potevano sperar di trovarle se non tra i veri gentiluomini, i quali, avendo scoperto che non c'è nulla che valga la pena, erano pronti a far qualunque cosa con pari indifferenza?

Come se non bastasse, i sani spiriti che avevano attinto a sì sublimi altezze di indifferenza erano molto invidiati dai fedeli di Gradgrind. Costoro amavano i gentiluomini raffinati ed eleganti: fingevano il contrario, ma non era vero. Si sfinivano nello sforzo di imitarli; mentre parlavano, saltavano da un argomento all'altro, proprio come i loro modelli; ammanivano, con aria spossata, ammuffite nozioncine di economia politica che deliziavano i loro discepoli. Mai prima si era vista al mondo una così incredibile razza ibrida. Fra i vari gentiluomini, tutti raffinati ed eleganti, che non frequentavano abitualmente la scuola di Gradgrind, ce n'era uno di buona famiglia, di maniere garbate, con uno spiccato senso dell'umorismo. Il nostro gentiluomo si era perfino meritato una volta il fervido applauso della Camera dei Comuni per aver intrattenuto gli onorevoli deputati esponendo loro il proprio punto di vista (che coincideva con quello della direzione generale delle ferrovie) a proposito di un incidente, nel quale i più accorti e attenti tecnici mai visti, assunti dai dirigenti più lungimiranti e liberali mai conosciuti, coadiuvati dai più efficienti congegni meccanici mai escogitati - il tutto all'opera sul miglior tratto ferroviario mai costruito - avevano ucciso cinque persone e ferito altre trentadue a causa di una circostanza fortuita, senza la quale l'eccellenza stessa dell'intero sistema sarebbe risultata imperfetta. Fra le vittime c'era una mucca e, fra gli oggetti dispersi non reclamati da nessun superstite, c'era una cuffietta vedovile. Nel descrivere con grande vivezza la cuffietta in testa alla mucca, l'onorevole deputato aveva solleticato a tal punto l'intera assemblea (dotata di un raffinato senso dell'umorismo) che la Camera, spazientita, non aveva più voluto saperne di considerare seriamente i risultati dell'istruttoria e tra applausi e risa aveva assolto la ferrovia.

Ora questo gentiluomo aveva un fratello di modi ancora più garbati, che aveva esordito nella vita come cornetta dei dragoni, e quella posizione gli era venuta a noia; si era messo quindi al seguito di un diplomatico inglese all'estero, e anche quello gli era venuto a noia; era finito poi a Gerusalemme, e quella città gli era venuta a noia; infine se ne era andato in giro per il mondo a bordo di uno yacht, e tutto gli era venuto a noia. Al quale fratello, lo stimatissimo e arguto onorevole deputato aveva detto, un giorno, con affettuosa sollecitudine: «Jem, si prospetta una buona occasione tra i fanatici del Puro Fatto; hanno bisogno di uomini. Chissà che tu non scopra di andar matto per le statistiche e decida di buttartici a capofitto?». Colpito dalla novità dell'idea, James che, tanto per cambiare, era completamente al verde, era disposto a far pazzie per le statistiche e a buttarsi a capofitto in qualsiasi altra cosa. Perciò si mise d'impegno. Prese un paio di rapporti parlamentari, mentre suo fratello faceva circolar la voce fra i fanatici del puro fatto che se volevano avere «per una qualsiasi circoscrizione un bel ragazzo, capace di far eccellenti discorsi si rivolgessero a suo fratello Jem, perché era l'uomo che faceva al caso loro». E dopo che Jem si fu esibito in qualche clamoroso intervento in alcuni dibattiti pubblici, Gradgrind e un consiglio di probiviri della politica diedero la loro approvazione e decisero di inviare il gentiluomo a Coketown per farlo conoscere nella città e nel vicinato.

Ed ecco spiegata la lettera che James aveva mostrato la sera prima alla signora Sparsit e che ora si trovava nelle mani del signor Bounderby. Era indirizzata a «Josiah Bounderby, Esquire, banchiere, Coketown. Lettera di presentazione di Thomas Gradgrind per il signor James Harthouse, Esquire».

Non era trascorsa mezz'ora da quando aveva ricevuto quel messaggio accomnato dal biglietto da visita del signor James Harthouse, che il signor Bounderby, cappello calcato in testa, si recò all'albergo dove era sceso il signor James Harthouse ed ebbe modo di fare la sua conoscenza.

Intento a guardare fuori della finestra, questi si sentiva così depresso da essere già quasi pronto a «dedicarsi» a qualsiasi altra cosa.

«Signore, io sono Josiah Bounderby di Coketown», esordì il visitatore.

Il signor James Harthouse fu davvero lieto (anche se non lo dava affatto a vedere) di avere un piacere che da lungo tempo attendeva.

«Coketown, signore», disse Bounderby prendendo con decisione sedia e parola, «non è il tipo di luogo al quale siete abituato. Perciò, se me lo consentite - e anche se non me lo consentite, perché io sono uomo di modi schietti - prima di affrontare altri argomenti, vi dirò alcune cosette».

Il signor Harthouse sarebbe stato lieto di ascoltarlo.

«Non siatene troppo sicuro», proseguì Bounderby, «non vi prometto nulla. In primo luogo, guardate il nostro fumo. Per noi è una gioia degli occhi e una festa del cuore. È la cosa più salubre che ci sia al mondo, soprattutto per i polmoni. Se siete uno di quelli che vogliono abolirlo, vi dirò subito che non sono d'accordo. Non abbiamo nessuna intenzione di consumare il fondo delle nostre caldaie più in fretta di quanto non accada già, a causa di quelle frottole che circolano in Gran Bretagna e in Irlanda».

Per dimostrare che andava matto per quell'argomento, il signor Harthouse dichiarò: «Signor Bounderby, vi assicuro che la penso esattamente come voi. Ne sono convinto in tutto e per tutto».

«Lietissimo di sentirvelo dire», sentenziò Bounderby. «Ora, avrete sentito parlare moltissimo del lavoro nelle nostre fabbriche, ne sono certo. È così, vero? Molto bene. ½ dirò come stanno esattamente le cose. È il lavoro più piacevole che ci sia, il più leggero che ci sia, il meglio ato che ci sia. Non ho ancora finito. Nelle nostre fabbriche si possono migliorare le condizioni soltanto stendendo per terra tappeti turchi, cosa che non abbiamo intenzione di fare».

«Giustissimo, signor Bounderby».

«Ultima cosa: gli operai. Non ce n'è uno, signore, in questa città - uomo, donna, bambino - che non si prega un solo, unico scopo nella vita: rimpinzarsi di zuppa di tartaruga e di cacciagione, servirsi con un cucchiaio d'oro. Bene: mai nessuno di loro si abbufferà di zuppa di tartaruga e di cacciagione o si servirà di un cucchiaio d'oro. Ecco Coketown: ora sapete tutto».

Il signor Harthouse dichiarò che quella succinta esposizione dell'intero problema di Coketown gli aveva chiarito le idee e lo aveva perfettamente aggiornato.

«Be', vedete», riprese Bounderby, «quando faccio conoscenza con qualcuno, è nella mia natura raggiungere un'assoluta intesa con il mio interlocutore, specie se si tratta di un personaggio pubblico. Devo aggiungere una sola cosa, signor Harthouse, prima di assicurarvi che darò seguito nel modo migliore - per quanto me lo consentano le mie modeste possibilità - alla lettera di presentazione del mio amico Tom Gradgrind. Voi siete un uomo di buona famiglia. Io vengo dai bassifondi, dalla feccia; una canaglia della peggior specie».

Se qualcosa avesse mai potuto accrescere l'interesse di Jem nei confronti del signor Bounderby, sarebbe stata proprio questa: così, per lo meno, dichiarò lui.

«A questo punto», proseguì Bounderby, «possiamo stringerci la mano da pari a pari? Dico da pari a pari perché sono orgoglioso quanto voi, anche se so bene quello che sono io e conosco con precisione quanto è profonda la fogna dalla quale sono uscito. Conosco queste cose meglio di chiunque altro. Sì, sono orgoglioso come lo siete voi. E adesso che ho messo bene in chiaro di essere un uomo indipendente, passo a chiedervi come state e a esprimere l'augurio che stiate bene».

Più che bene, benissimo, grazie alla salubre aria di Coketown, gli fece capire il signor Harthouse, nello stringergli la mano. Il signor Bounderby apprezzò la risposta.

«Forse sapete o forse no», proseguì Bounderby, «che ho sposato la lia di Tom Gradgrind. Se non avete di meglio da fare che accomnarmi in città, sarò felice di presentarvi alla lia di Tom Gradgrind».

«Signor Bounderby», assicurò James, «voi prevenite il mio più vivo desiderio».

Uscirono senza aggiungere altro; il signor Bounderby pilotò la nuova conoscenza, così diversa da lui, fino alla sua abitazione di mattoni rossi, con le imposte nere di fuori e verdi di dentro, con il portone nero in cima a due gradini bianchi. Nel salotto della quale magione si fece incontro al signor James Harthouse la ragazza più straordinaria che questi avesse mai visto: controllata e, nello stesso tempo, noncurante; ritirata in se stessa eppure attenta; fredda e altera eppure indifesa e facilmente umiliata dalle spacconate del marito - ad ogni smargiassata si ritraeva in se stessa come se avesse ricevuto uno schiaffo e fosse stata aggredita. Osservarla era per lui un'esperienza nuova. Il volto non era meno interessante dei suoi modi. I lineamenti erano belli, ma la loro mobilità naturale si era così irrigidita che era difficile indovinare l'autentica espressione. Del tutto distaccata e autosufficiente, mai a disagio, tuttavia mai a proprio agio, materialmente presente con il corpo, ma con l'animo lontano, assorta in un suo mondo - prima di «dedicarcisi» bisognava studiarla, perché quella ragazza sfidava ogni facile tentativo di comprensione.

Il visitatore distolse lo sguardo dalla padrona di casa per osservare la casa stessa. Non un solo indizio in quella stanza che attestasse la presenza di una donna; non un ornamento aggraziato, non un oggetto leggiadro, seppur semplice, che esprimessero la sua influenza. Triste e fredda, sgradevolmente e caparbiamente sontuosa, la stanza squadrava coloro che ci stavano in quel momento, senza essere ingentilita o temperata dalla minima traccia di una presenza femminile. Il signor Bounderby si ergeva tra le divinità del suo focolare domestico, e queste, implacabili, occupavano tutto lo spazio intorno a lui: degno l'uno delle altre, fatti l'uno per le altre.

«Questa, signore», disse Bounderby, «è mia moglie, la signora Bounderby, la lia maggiore di Tom Gradgrind. Lou, il signor James Harthouse. Il signor Harthouse fa parte dell'entourage che gravita intorno a tuo padre. Se tra non molto sarà collega di Tom Gradgrind, ne sentiremo parlare, ne sono sicuro, in relazione a qualche distretto dei dintorni. Signor Harthouse, avrete notato che mia moglie è più giovane di me. Non so cosa abbia trovato in me per sposarmi, ma qualche cosa deve averci trovato, immagino, altrimenti non mi avrebbe sposato. Ha avuto un'educazione molto costosa, signore, e sa un sacco di cose. Se vi capiterà di dovervi rimpinzare di informazioni su un qualsiasi argomento, difficilmente potrò indicarvi un consigliere migliore di Lou Bounderby».

A consigliere più amabile e a persona dalla quale sarebbe stato più lieto di apprendere, il signor Harthouse non avrebbe potuto essere indirizzato, così si espresse.

«Suvvia!», esclamò il suo ospite. «Se siete uno di quelli che fanno complimenti, andrete lontano qui, perché non avrete rivali. Io non sono mai stato il tipo che impara a far complimenti, e non mi vanto di capire l'arte di farli. Anzi li disprezzo. Ma voi avete avuto un'educazione diversa dalla mia; per Giove! Se è stata dura quella che ho ricevuto io! Voi siete un gentiluomo e io non pretendo di esserlo. Io sono Josiah Bounderby di Coketown, e tanto mi basta. Però, se io non sono sensibile alla posizione sociale o alle convenzioni sociali, Lou Bounderby lo è. Lei non ha avuto i miei vantaggi - può darsi che preferiate chiamarli svantaggi, ma io li chiamo vantaggi - quindi non è fiato sprecato, oso dire».

«Il signor Bounderby», disse James rivolgendosi a Louisa con un sorriso, «è un nobile animale allo stato quasi brado, del tutto sciolto dalle briglie che invece trattengono un ronzino convenzionale come me».

«Avete grande rispetto per il signor Bounderby ed è naturale che sia così», rispose lei con tranquillità.

Per essere un gentiluomo con sì vasta esperienza del mondo, Harthouse, completamente sbalestrato, si trovò a pensare: come devo interpretare questa osservazione?

«Da quanto ha detto il signor Bounderby, deduco che avete intenzioni di dedicarvi al servizio del vostro paese. Avete deciso di indicare alla nazione come risolvere tutte le difficoltà», aggiunse Louisa, ancora in piedi di fronte a lui, sempre ferma nello stesso punto, con quella peculiare contradditorietà fra riservatezza e disagio che la caratterizzava.

«Signora Bounderby», le rispose ridendo, «sul mio onore, vi assicuro di no. Non fingerò davanti a voi. Ho visto qualcosa qua e là, in alto e in basso; ho scoperto che tutto era privo di importanza, come del resto sanno tutti, e come alcuni ammettono e altri no. Se mi dedicherò ad appoggiare le opinioni del vostro rispettabile padre, è perché in realtà non ho nessuna opinione, e per me l'una vale l'altra e niente vale la pena».

«Non ne avete di vostre?», chiese Louisa.

«Mi è tutto indifferente; non ho predilezioni. Non attribuisco nessuna importanza a nessuna idea specifica, ve lo assicuro. Ho una vasta esperienza della noia e il risultato è la convinzione (sempre che questa parola non sia troppo pregnante e, quindi, inadeguata a descrivere la sensazione di tedio che provo al riguardo) che i sistemi ideologici si equivalgano, nel bene e nel male. C'è una famiglia inglese che ha adottato un bel motto italiano: sarà quel che sarà. È l'unica verità che stia in piedi!».

Ebbe l'impressione che quella insidiosa dichiarazione di onestà e, insieme, di disonestà - vizio pericoloso, maligno e diffuso - la colpisse favorevolmente. Intenzionato ad aumentare il vantaggio, fece sfoggio di tutto il suo garbo, al quale lei era libera di attribuire il molto o il poco significato che voleva.

«Coloro che riescono a dimostrare una qualunque cosa con una sfilza di unità, di decine, di centinaia e di migliaia, signora Bounderby, mi sembrano i più divertenti, quelli che hanno più probabilità di farcela. Mi sono affezionato a questi principi; non potrei esserlo di più, neppure se credessi in quello che proclamano. Sono prontissimo a dedicarmi anima e corpo, come se ci credessi. Potrei fare di più se ci credessi veramente?».

«Siete uno strano uomo politico», commentò Louisa.

«Scusatemi: non ho neppure questo merito. Siamo il più grosso partito del paese, ve lo assicuro, signora Bounderby. Formeremmo una schiera immane, se uscissimo dai partiti che abbiamo scelto e ci contassimo tutti quanti siamo».

Il signor Bounderby, che a forza di starsene zitto per tanto tempo, era lì lì per scoppiare, si intromise proponendo di spostare la cena alle sei e mezzo e di condurre, nel frattempo, il signor James Harthouse in un giro di visite ai più interessanti notabili (ed elettori) di Coketown e dintorni. Il giro fu fatto: il signor Harthouse mise a buon frutto con grande discernimento quello che aveva appreso dai rapporti parlamentari, ne uscì trionfalmente, ma l'esperienza della noia ne risultò molto accresciuta.

Alla sera, trovò la tavola apparecchiata per quattro, sebbene loro fossero soltanto in tre. Un'occasione magnifica, la cena, per il signor Bounderby! Descrisse il sapore dell'anguilla affumicata che lui, ragazzino di otto anni, si comperava con mezzo soldo, e quello dell'acqua non potabile - beveva l'acqua destinata a tener giù il polverone nelle strade - che gli serviva a ingollare il pasto. Quando furono serviti la minestra e il pesce, sempre continuando a intrattenere l'ospite sullo stesso tema, calcolò che lui, Bounderby, in gioventù, aveva mangiato almeno tre cavalli sotto forma di mortadelle e di salsicce. Queste concioni James le accoglieva con un languido «affascinante!», che intercalava di tanto in tanto; se non fosse stato che la sua curiosità nei confronti di Louisa era stata solleticata, lo avrebbero convinto probabilmente a «dedicarsi», mettendocela tutta, a Gerusalemme, subito, la mattina dopo.

«Non c'è nulla, dunque», pensò scrutando la urina giovane, minuta, snella, a capotavola, dove appariva aggraziata e nello stesso tempo, fuori posto, «non c'è nulla in grado di commuovere quel viso?».

Sì, perbacco! C'era qualcosa, ed eccola che si presentava sotto forma inaspettata! Era arrivato Tom. All'aprirsi della porta, Louisa mutò completamente e il suo volto si aprì in un sorriso luminoso.

Un sorriso bellissimo. Il signor James Harthouse non l'avrebbe apprezzato tanto se non fosse rimasto così perplesso davanti alla sua espressione impassibile. Louisa tese la mano - una graziosa mano morbida - e le dita si chiusero intorno a quelle del fratello, come se avesse voluto portarsela alle labbra.

«Eh, eh!», pensò il visitatore. «Questo marmocchio è l'unica creatura che le stia a cuore. Bene, bene!».

Il marmocchio venne presentato, quindi si sedette. L'appellativo non era lusinghiero, ma non era neppure immeritato.

«Quando avevo la vostra età, mio giovane Tom», disse Bounderby, «ero puntuale oppure saltavo la cena».

«Quando avevate la mia età», replicò Tom, «non dovevate far quadrare un bilancio sbagliato e cambiarvi dopo».

«Lasciamo perdere», rispose Bounderby.

«Benissimo, allora», brontolò Tom, «non cominciate con me».

«Signora Bounderby», si intromise Harthouse, percependo la tensione che si era creata, «il viso di vostro fratello mi è familiare. Non è possibile che l'abbia visto all'estero? O in qualche scuola?».

«No», rispose lei con vivo interesse, «non è mai stato all'estero e ha fatto i suoi studi qui, a casa. Tom, caro, sto dicendo al signor Harthouse che non può averti mai incontrato all'estero».

«Mai avuto la fortuna di andarci, signore», disse Tom.

C'era ben poco in lui che giustificasse tanta luce sul volto della sorella: era un tipo scontroso e sgarbato perfino con lei. E questo stava a dimostrare quanto in Louisa fosse profonda la solitudine del cuore e quanto fosse intenso il suo desiderio di trovare qualcuno su cui riversarla. «Ecco perché questo marmocchio è l'unica creatura per la quale abbia mai provato affetto», pensò James Harthouse riflettendoci sopra. «Ecco perché, ecco perché».

Né in presenza della sorella, né più tardi, quando lei ebbe lasciato la stanza, il marmocchio si preoccupò minimamente di nascondere il disprezzo che nutriva per il signor Bounderby, facendogli boccacce o strizzando l'occhio tutte le volte che poteva senza farsi vedere da quell'uomo indipendente per eccellenza.

Il signor Harthouse, pur senza rispondere a quei messaggi telegrafici, lo incoraggiò parecchio nel corso della serata e gli mostrò un'insolita simpatia. Alla fine si alzò per tornare in albergo, e poiché si palesò incerto di riuscire a trovar la strada di notte, il marmocchio si offrì immediatamente di fargli da guida, e uscì insieme a lui per scortarlo fino a destinazione.

III

. IL MARMOCCHIO

Era davvero fatto degno di nota che un giovane gentiluomo, allevato con un sistema di costrizioni costanti e innaturali, diventasse ipocrita; ma questo era certamente il caso di Tom. Era davvero strano che un giovane gentiluomo che mai, neppure per cinque minuti consecutivi, era stato lasciato libero di decidere da solo, risultasse alla fine incapace di governare se stesso; ma questo era proprio il caso di Tom. Era assolutamente incomprensibile che un giovane gentiluomo, la cui immaginazione era stata soffocata fin dalla culla, fosse ancora tormentato dal suo spettro che si palesava sotto forma di piaceri perversi; ma non c'era dubbio possibile: Tom era proprio questa rarità.

«Fumate?», chiese il signor James Harthouse, quando arrivarono in albergo.

«Lo credo bene», esclamò Tom.

Harthouse non poté fare a meno di invitare Tom a salire, e Tom non poté fare a meno di salire. Con una bibita rinfrescante adatta al clima, ma forte e fresca in pari grado, con un tabacco più scelto di quello che si comprava da quelle parti, Tom, seduto a un'estremità del divano, si sentì ben presto a proprio agio e in piena libertà, e più disposto che mai ad ammirare il suo nuovo amico, seduto all'estremità opposta.

Dopo aver fumato per un po', Tom smise e si diede a osservare il nuovo amico. «Non gli importa niente di come va vestito», pensò, «eppure lo fa con tanta signorilità. Che disinvolta eleganza!».

Incontrando per caso lo sguardo di Tom, il signor Harthouse notò che non beveva nulla e con gesto noncurante gli riempì il bicchiere.

«Grazie», disse Tom, «grazie. Be', signor Harthouse, vi siete sorbito una buona dose del vecchio Bounderby stasera, spero». Fece questo commento strizzando un occhio e guardando con aria di intesa il suo interlocutore al di sopra del bicchiere.

«Davvero un uomo in gamba!», rispose il signor James Harthouse.

«Ne siete convinto eh?», chiese Tom e ammiccò. Il signor James Harthouse si alzò dal suo angolo del divano e, appoggiandosi con la schiena contro la mensola del caminetto, si trovò a fumare davanti alla griglia vuota, di fronte a Tom. Guardandolo, osservò: «Che curioso cognato siete!».

«Volete dire che curioso cognato è il vecchio Bounderby, immagino», rispose Tom.

«Siete caustico, Tom», ribatté il signor James Harthouse. Era così gradevole trovarsi a tu per tu, in tanta intimità, con un simile panciotto, esser chiamato Tom in modo tanto amichevole da una simile voce, intrattenere, così presto, rapporti tanto confidenziali con un simile paio di favoriti che Tom si sentì insolitamente soddisfatto di se stesso.

«Oh! Non me ne importa nulla del vecchio Bounderby, se è questo che volete dire», dichiarò. «Da sempre lo chiamo in questo modo 'vecchio Bounderby', quando parlo di lui, e da sempre la penso in questo modo sul conto suo. Non ho intenzione di cominciare a essere gentile adesso con il vecchio Bounderby. Sarebbe un po' tardi a questo punto».

«Non preoccupatevi di me», replicò James, «ma fate attenzione quando è presente sua moglie, capite».

«Sua moglie? Mia sorella Lou? Ah, sì!». Scoppiò a ridere e prese un altro sorso del rinfrescante liquore.

Sempre nello stesso punto e nello stesso atteggiamento, James Harthouse continuò a fumare il sigaro con la disinvoltura che gli era propria e a guardare il marmocchio con condiscendenza, consapevole di essere una specie di accattivante demonio che, per farsi consegnare l'anima su semplice richiesta, non doveva far altro che librarsi su di lui. Sembrava proprio che il marmocchio fosse rimasto soggiogato. Guardava il suo comno furtivamente, lo guardava con ammirazione, lo guardava con baldanza; alla fine, mise una gamba sul divano.

«Mia sorella Lou?», ripeté Tom. «Non sopporta il vecchio Bounderby».

«Avete usato il passato, Tom», disse il signor James Harthouse, scuotendo con il mignolo la cenere del sigaro. «Adesso siamo nel presente».

«Infinito, non sopportare. Modo indicativo, tempo presente, prima persona singolare: non sopporto; seconda persona singolare: non sopporti; terza persona singolare: non sopporta», coniugò Tom.

«Ottimo! Molto interessante», disse l'amico. «Non volete dire questo, però».

«Invece voglio proprio dir questo!», esclamò Tom. «Sul mio onore!».

«Signor Harthouse, non mi verrete a dire che, secondo voi, a mia sorella Lou piace il vecchio Bounderby?».

«Mio caro ragazzo», replicò l'altro, «che cosa devo concludere, quando vedo due persone sposate, che vivono in armonia e felicità?».

Tom, nel frattempo, aveva allungato tutte e due le gambe sul divano. Se già non ne avesse avuto una là sopra, ce l'avrebbe messa, non appena si era sentito chiamare 'mio caro ragazzo'. Convinto che a quell'importante stadio della conversazione fosse necessario far qualche cosa, si stirò per quanto era lungo e, appoggiando la testa sull'estremità del divano e fumando con aria molto disinvolta, volse il viso dai tratti assai banali e gli occhi offuscati dal bere verso la faccia che lo fissava con tanta indifferenza, eppure con tanta intensità.

«Voi conoscete il nostro illustre padre, signor Harthouse, perciò non dovreste stupirvi che Lou abbia sposato il vecchio Bounderby. Non aveva mai avuto un innamorato; il padre le propose il vecchio Bounderby e lei se lo sposò».

«Ha un vivo senso del dovere la vostra interessante sorella», dichiarò il signor James Harthouse.

«Sì, ma non l'avrebbe avuto così vivo e le cose non sarebbero filate così lisce», ribatté il marmocchio, «se non fosse stato per me».

Il diavolo tentatore si limitò ad alzar le sopracciglia e il marmocchio fu costretto a proseguire.

«Sono stato io a convincerla», disse con esemplare aria di superiorità. «Ero destinato a finire nella banca del vecchio Bounderby (dove non desideravo entrare); sapevo che mi sarei cacciato nei guai se lei avesse respinto il vecchio Bounderby; le espressi i miei desideri e lei non si tirò indietro. Farebbe qualunque cosa per me. Molto coraggioso da parte sua, vero?».

«Incantevole, Tom!».

«Per lei non era importante come lo era per me», continuò Tom con grande freddezza, «perché la mia libertà, la mia agiatezza e forse la mia carriera dipendevano da quella decisione. Lei non aveva altri innamorati e stare a casa nostra era come stare in prigione, soprattutto dopo che me ne ero andato io. Sarebbe stato diverso se avesse dovuto rinunciare a un innamorato per il vecchio Bounderby. In ogni caso, è stata una gran bella cosa da parte sua».

«Veramente deliziosa. E lei affronta tutto con grande tranquillità».

«Oh», ribatté Tom con sprezzante aria di condiscendenza, «lei è una ragazza a posto. Una ragazza se la cava sempre. Si è sistemata per tutta la vita; non ci fa caso. Una cosa vale l'altra. Inoltre, Lou è, sì, una ragazza, ma non è come tutte le altre. Si ritira in se stessa e pensa. L'ho vista spesso seduta a guardare il fuoco, per un'ora di fila».

«Ah, sì? Vuol dire che ha delle risorse interiori», osservò Harthouse, fumando tranquillamente.

«Non tutte quelle che forse supponete», replicò Tom, «perché nostro padre le ha riempito la testa di segatura e di nozioni morte. È il suo metodo».

«Ha plasmato sua lia sul proprio modello?», chiese Harthouse.

«Sua lia? Sì, e anche tutti gli altri. Cielo! Ha plasmato anche me a quel modo», dichiarò Tom.

«Impossibile!».

«Sì, che l'ha fatto», ribatté Tom, scuotendo il capo. «Voglio dire, signor Harthouse, che, quando me ne sono andato per la prima volta da casa e ho messo piede in quella del vecchio Bounderby, ero piatto come uno scaldaletto e sulla vita ne sapevo quanto un'ostrica».

«Via, Tom, non ci credo. Non scherzate!».

«Sull'anima mia!», affermò il marmocchio. «Parlo sul serio; davvero!».

Per un po', continuò a fumare con aria molto grave e dignitosa; poi, in tono assai compiaciuto, aggiunse: «Oh! Ho imparato qualche cosa da allora, non lo nego, ma ho fatto tutto da me; non è merito di mio padre».

«E la vostra intelligente sorellina?».

«La mia intelligente sorellina è rimasta più o meno dov'era. Era solita lamentarsi con me di non aver nessuna delle cose che aiutano e consolano le altre ragazze; e non credo che abbia trovato nulla del genere in seguito. Ma a lei non importa», aggiunse con gran perspicacia, tirando un'altra boccata di fumo. «Le ragazze si arrangiano sempre in qualche modo».

«Ieri sera, alla Banca, cercando l'indirizzo del signor Bounderby, vi ho trovato una vecchia signora. Ha molta ammirazione per vostra sorella, credo», fece notare il signor James Harthouse, buttando via l'ultimo residuo del sigaro che aveva fumato fino in fondo.

«Mamma Sparsit?», chiese Tom. «Cielo! L'avete vista?».

L'amico fece cenno di sì. Tom si tolse il sigaro di bocca, gli strizzò l'occhio (ormai fattosi assai disobbediente), in segno di intesa, e si toccò più volte il naso con il dito.

«Altro che ammirazione! Mamma Sparsit prova per Lou assai di più, secondo me. Diciamo affetto e devozione. Mai che si sia data da fare per entrar nelle grazie di Bounderby, quando era scapolo! Oh no!».

Furono queste le ultime parole del marmocchio, prima di essere sopraffatto dalla sonnolenza cui seguì un torpido oblio. A riscuoterlo da quello stato, venne, nel sogno, la sgradevole sensazione di essere pungolato da uno stivale, mentre una voce diceva: «Su, è tardi. Alzatevi!».

«Bene!», disse tirandosi su con fatica dal divano. «Devo proprio congedarmi da voi. Ehi, dico, il vostro tabacco è ottimo. Troppo leggero, però».

«Sì, è troppo leggero», rispose l'ospite.

«È . è leggero . ridicolo quanto è leggero», riprese Tom. «Dov'è la porta? Buona notte».

Fece un altro strano sogno: un cameriere lo conduceva attraverso la nebbia che, dopo avergli creato qualche guaio e qualche difficoltà, si dissolveva e diventava la strada principale dove lui era solo. Si diresse verso casa con animo leggero; era ancora sotto l'impressione della presenza e dell'influenza del suo nuovo amico, come se la sua persona volteggiasse da qualche parte nell'aria nello stesso atteggiamento disinvolto e noncurante, fissandolo con lo stesso sguardo.

Il marmocchio giunse a casa e andò a letto. Se si fosse reso conto di ciò che aveva fatto quella sera, se fosse stato meno marmocchio e un po' più fratello, avrebbe cambiato subito direzione, si sarebbe recato al fiume maleodorante con le sue acque nere e se ne sarebbe andato a dormire lì dentro, una volta per tutte, lasciando che sul suo capo calasse per sempre quel velo di luride acque.

IV

. LAVORATORI E FRATELLI

«Amici miei, lavoratori oppressi di Coketown! Amici e compatrioti, schiavi di una tirannia feroce, dal pugno di ferro! Amici e comni di sofferenza, comni di lavoro, uomini! Vi annuncio che è giunta l'ora: è giunto il momento di unirci tutti insieme, di creare un'unica forza, di abbattere gli oppressori che da troppo tempo si impinguano, saccheggiando le nostre famiglie, sfruttando il sudore della nostra fronte, il lavoro delle nostre mani, il vigore delle nostre braccia, disconoscendo i gloriosi diritti che Dio ha concesso all'umanità, i santi ed eterni diritti della fratellanza!».

«Bene!», «Sentite, sentite, sentite!», «Urrà!» e altre grida si alzarono in coro da vari punti della sala affollatissima e soffocante dove l'oratore, appollaiato su un palco, blaterava queste e altre ciance, sfogando la rabbia che aveva in corpo. Mentre così concionava, si era accalorato, ed eccolo roco ed esaltato in ugual misura. A forza di stringere i pugni, di aggrottare le sopracciglia, di digrignare i denti, di agitare le braccia, si era scalmanato al punto che, esausto, dovette fermarsi e chiedere un bicchiere d'acqua.

Mentre se ne stava lì, sforzandosi di ricomporre con l'aiuto di quel bicchiere d'acqua la faccia stravolta, il confronto fra l'oratore e la marea di visi intenti rivolti verso di lui era tutto a suo svantaggio. Giudicandolo in base alle prove fornite dalla Natura, si concludeva che l'uomo si ergeva al di sopra di quella folla solo perché era issato su un palco, mentre, da altri punti di vista, era sostanzialmente al di sotto del suo pubblico. Non era altrettanto onesto, né altrettanto dignitoso, né altrettanto simpatico. Al posto della semplicità che caratterizzava quella gente, c'era in lui astuzia; al posto del sano buon senso degli altri, c'era in lui esaltazione. Aveva una corporatura sgraziata, le spalle ingobbite, la fronte bassa; sul volto un'espressione per lo più corrucciata e amara; il suo ibrido abbigliamento era in contrasto - il paragone era a suo svantaggio - con i semplici abiti da lavoro di coloro che stavano ad ascoltarlo. È sempre curioso notare come, in molte assemblee, gli ascoltatori si sottomettano passivi all'insipienza di qualche presuntuoso, nobile o plebeo, di qualche uomo che essi - o almeno tre quarti di essi - non riuscirebbero mai a sollevare dal suo abisso di stupidità e a portarlo al livello intellettuale degli altri. Era ancora più curioso vedere quella folla di volti attenti, interessati - nessun oratore accorto e imparziale avrebbe messo in dubbio la sincerità dei loro intenti - così eccitata alle parole di un oratore di così modesta levatura.

«Evviva!», «Ascoltate!», «Ascoltate!». L'attenzione rapita e l'ardente interesse che si leggevano negli atteggiamenti di tutti erano uno spettacolo di grande suggestione. Non la minima sfumatura di indolenza, di noncuranza, di oziosa curiosità; non si coglieva neppure per un istante una sia pur minima traccia di quella indifferenza che è tanto facile notare in altre riunioni. Che ciascuno di quegli uomini fosse consapevole di condurre una vita in qualche modo peggiore di quanto avrebbe potuto essere; che ciascuno di loro ritenesse suo dovere unirsi agli altri allo scopo di rendere il vivere migliore; che tutti percepissero di avere una sola speranza: allearsi ai comni che erano intorno a loro; che nel condividere questa fiducia e questa speranza - giuste o sbagliate che fossero (purtroppo sbagliate in quel momento) - quella gente fosse profondamente, seriamente, lealmente convinta, tutto questo lo avrebbe percepito qualunque spettatore avesse deciso di presenziare alla riunione: palese ed evidente quanto le travi nude di un tetto o un muro di mattoni dipinto di bianco. Lo stesso spettatore non avrebbe mancato di notare come questi uomini, proprio grazie alle loro illusioni, dessero prova di possedere grandi qualità che avrebbero potuto essere indirizzate verso scopi sommamente buoni e utili, e che fingere di credere (in forza di travolgenti assiomi, del tutto aprioristici) che costoro avessero deviato dal retto sentiero senza alcun motivo, soltanto perché spinti da istanze irragionevoli, significava fingere di credere che ci potesse essere fumo senza fuoco, morte senza nascita, raccolto senza semina, o un qualunque effetto senza una causa.

Dopo essersi rinfrescato, l'oratore si asciugò la fronte corrugata da sinistra a destra, per parecchie volte, con il fazzoletto piegato, e concentrò le rinnovate forze in un sogghigno di grande sdegno e amarezza.

«Amici, fratelli! Uomini, inglesi, operai oppressi di Coketown! Che cosa dire di quell'uomo - di quell'operaio: sono costretto a gettar fango su questo glorioso nome - che conosce perfettamente e di persona le sofferenze e i torti che vengono inflitti a voi, oltraggiata essenza e spina dorsale di questo paese, che vi ha ascoltati mentre, con nobile e solenne unanimità che farà tremare i tiranni, decidevate di sottoscrivere i fondi per il Tribunale Aggregato Unito e di attenervi alle ingiunzioni emanate da questa istituzione a vostro beneficio, quali che siano questi provvedimenti; che cosa dire di questo operaio, vi chiedo, che in un simile momento abbandona il posto di combattimento e tradisce la bandiera; che in un simile momento si fa traditore, codardo, rinnegato; che in un simile momento non si vergogna di farvi la vile, umiliante confessione di voler starsene in disparte e di non voler essere tra coloro che si associano nella intrepida lotta per la libertà e i diritti?».

A questo punto l'assemblea si spaccò. Ci furono mormorii e fischi; il senso della lealtà di quella gente era troppo forte per condannare un uomo senza aver prima sentito le sue ragioni.

«Accertati di essere tu nel giusto, Slackbridge!», «Fatelo parlare!», «Ascoltiamo quel che ha da dire!». Da tutte le parti venivano richieste di questo genere. Alla fine, una voce energica gridò: «È presente il nostro uomo? Se sì, vogliamo sentire lui, non te, Slackbridge!». Proposta che fu accolta con grandi applausi da tutte le parti.

Slackbridge, l'oratore, si guardò intorno con un sorriso forzato, poi, con la mano destra tesa in avanti (un'abitudine, questa, comune a tutti gli Slackbridge) per placare quel mare in tempesta, attese fino a che non ci fu un profondo silenzio.

«Amici, comni!», riprese Slackbridge, scuotendo la testa con violento disprezzo. «Non mi sorprende che voi, spossati li del lavoro, dubitiate che quest'uomo esista. Eppure è esistito chi ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie, ed è esistito Giuda Iscariota ed è esistito Castlereagh ed esiste quest'uomo!».

A questo punto un rapido accalcarsi e un po' di confusione vicino al palco si conclusero con la sa dell'uomo in carne ed ossa, che si mise in piedi accanto all'oratore, di fronte all'assemblea. Era pallido e turbato - lo dimostrava soprattutto il lieve tremito delle labbra - ma rimase lì, con la destra sul mento, in paziente attesa di essere ascoltato. A regolare gli interventi c'era un presidente che a questo punto prese in mano la faccenda.

«Amici miei», disse, «in virtù del mio ufficio di presidente dell'assemblea, io ci chiedo al nostro amico Slackbridge - lui forse se l'è presa a cuore e s'è scaldato un po' tanto in questa storia - di mettersi seduto, mentre ascoltiamo quest'uomo, Stephen Blackpool. Tutti lo conoscete e sapete anche le disgrazie che ci sono toccate e il suo buon nome».

Detto ciò, il presidente gli strinse la mano con gesto franco e si rimise a sedere. Anche Slackbridge si mise a sedere, asciugandosi la fronte sudata - sempre da sinistra a destra e mai nel senso opposto.

«Amici miei», cominciò Stephen in mezzo a un silenzio assoluto, «ho sentito quello che hanno detto di me, e non credo di poter aggiustare la cosa. Ma mi va di più che sentite la verità su di me da me e non da un altro, anche se a me non mi è venuto mai bene di parlare davanti a tanta gente senza cascare in confusione e ingarbugliarmi tutto».

Slackbridge, nella sua amarezza, scosse la testa come se volesse staccarsela.

«Di tutti voi qui, sono l'unico operaio della fabbrica Bounderby, che non ci sta con le proposte fatte. Non ci sto proprio, amici miei, e ci ho dubbi che portano bene. È più facile che portano guai».

Slackbridge rise, incrociò le braccia e corrugò le sopracciglia con aria sarcastica.

«Ma non è per questo che preferisco starmene fuori. Se era tutto qui, ci starei con gli altri. Ma ci ho le mie ragioni - mie personali, capite - per starmene fuori. E non solo oggi, ma per sempre, per tutta la vita!».

Slackbridge saltò in piedi e andò a mettersi vicino a Stephen, digrignando i denti e parlando in gran fretta. «Amici, non è proprio questo che vi ho detto? Compatrioti, non è proprio questo l'avvertimento che vi ho dato? Come giudicate il vile contegno di un uomo sul quale si sono abbattute con forza leggi ingiuste? Inglesi, come giudicate, vi chiedo, questo tradimento da parte di uno di voi che, così, acconsente alla propria rovina e alla vostra e a quella dei vostri li e dei li dei vostri li?».

Ci fu qualche applauso e si sentì qualche grido di «vergogna!» all'indirizzo di Stephen; ma per la maggior parte la gente rimase in silenzio. Vedevano quel volto stanco, segnato dalla sofferenza, reso ancor più mesto dalle semplici emozioni che palesava e, nella bontà della loro natura, erano più dispiaciuti che indignati.

«Il mestiere di questo delegato è di parlare», riprese Stephen, «lui ci è ato per questo e sa fare il suo lavoro. Lasciamolo continuare. Lui non deve preoccuparsi di quello che capita a me. Lui non c'entra. Non c'entra nessuno, solo io».

La compostezza, per non dire la dignità di quelle parole, fece sì che la gente ascoltasse con ancora maggior attenzione e silenzio. La stessa voce energica di prima gridò: «Slackbridge lascialo parlare e tiene a posto la lingua!». Poi nella sala si fece assoluto silenzio.

«Fratelli miei», disse Stephen a voce bassa, ma percepibile distintamente, «miei comni di lavoro - voi siete miei comni, di me, non del delegato, a quanto so - ho solo una cosa da dirci, e non ce la farei a dire di più neanche se resto qui fino a domani mattina. So quello che a me mi aspetta; so che non ci volete più aver a che fare con uno che non ci sta dalla vostra parte in questa faccenda. So benissimo che a me, se mi trovate morto in mezzo alla strada, voi ci pensate di far bene a tirare di lungo, come se ero uno venuto da chissà dove o uno che non conoscete. Ma di quello che a me mi capita cercherò di venirci a capo da solo».

«Stephen Blackpool», si fece avanti il presidente, «pensaci sopra. Pensaci sopra prima che i tuoi comni ti lascino a te!».

Ci fu un mormorio generale a conferma di quell'intervento, anche se nessuno articolò una parola. Tutti gli occhi erano fissi sul volto di Stephen. Se fosse ritornato sulle sue decisioni, avrebbe tolto un peso dai loro cuori. Stephen si guardò intorno e capì. Dentro di sé non provava ira verso di loro; li conosceva bene al di là delle loro superficiali debolezze e dei loro giudizi erronei; li conosceva come solo un comno di lavoro conosce un altro comno di lavoro.

«Ci ho già pensato sopra un bel po', signore. Ma non posso starci per davvero. Vado per la mia strada; devo lasciarvi tutti voi che siete qui».

Fece una specie di inchino verso di loro, sollevando le braccia e per un attimo rimase in quell'atteggiamento: senza parlare, fino a che le braccia non gli ricaddero lentamente lungo i fianchi.

«Ci abbiamo detto, con tanti che sono qui, molte cose belle; ci sono facce qui che ho visto la prima volta quando ero giovane e senza pensieri. Non ci ho mai avuto niente da ridire con nessuno da quando sono nato, con nessuno di quelli come me; Dio sa che non ho niente da ridire che è colpa mia adesso». Poi rivolgendosi a Slackbridge, continuò: «Dici che sono un traditore, te, voglio dire, ma è più facile parlare che provare. Perciò lasciamo perdere!».

Aveva fatto un passo o due per scendere dalla pedana, quando gli venne in mente qualcosa che non aveva detto e riprese il suo posto.

«Forse», disse, volgendo lentamente intorno il viso scavato, in modo da rivolgersi, per così dire, individualmente a tutti, sia a coloro che erano seduti vicino, sia a quelli che stavano in fondo, «forse quando discuterete il vostro progetto, ci sarà qualcuno che minaccerà di mandar tutto a monte, se a me mi lascerete ancora lavorare insieme a voi. Io spero di morire prima che succede questo, e, se non succede, lavorerò isolato, per conto mio. Devo farlo, amici; ma non è una provocazione, è una necessità. Ho solo il lavoro per mangiare; dove posso andarci io che, da quando ero piccolo, lavoro qui a Coketown? Non ho niente da dire se farete finta di non conoscermi, se a me mi tenete alla larga, e non mi guardate in faccia, ma spero che a me mi lasciate lavorare. Se ho qualche diritto, amici, credo che è questo».

Non una parola fu detta; non un suono si percepì nella sala, tranne il lieve fruscio della gente che si spostava, raggruppandosi lungo il centro della sala, per far passare l'uomo alla cui comnia si erano impegnati tutti a rinunciare. Senza guardare nessuno, andando per la propria strada con umile fermezza che non asseriva nulla e nulla cercava, il vecchio Stephen, con tutti i guai che aveva per la testa, lasciò la scena.

Allora Slackbridge, che durante l'uscita di Stephen aveva tenuto teso il suo braccio oratorio, quasi volesse tenere a freno, con mirabile ascendente morale e infinito zelo, le accese passioni della moltitudine, si accinse a sollevarne lo spirito. «Non aveva forse il romano Bruto, o miei compatrioti britannici, condannato a morte il lio? Non avevano forse le madri spartane, o miei amici presto vittoriosi, spinto contro le spade nemiche i li che fuggivano? Non era forse sacro dovere degli uomini di Coketown, con gli antenati dietro a loro, un mondo in ammirazione intorno a loro e una posterità davanti a loro, espellere i traditori cacciandoli dalle tende che erano riusciti a piantare nel terreno di una causa sacra, benedetta da Dio? I venti del cielo rispondevano 'sì'! e diffondevano questo 'sì' a est, a ovest, a nord, a sud. Perciò tre urrah! per il Tribunale Aggregato Unito».

Da vero condottiero, Slackbridge fu il primo a lanciare quel grido. Il mare di facce dubbiose (un po' turbate dai rimorsi), a quel suono, si rischiarò e lo ripeté. Basta con i sentimenti privati: devono cedere davanti alla causa comune! Urrah! Quando l'assemblea si disperse, il tetto vibrava ancora per tutte quelle acclamazioni.

Così, con questa facilità, Stephen scivolò in quella che era la vita più solitaria possibile: una vita di solitudine in mezzo a una folla familiare. Chi, trovandosi in terra straniera, invano cerca, senza mai riuscirci, di leggere uno sguardo di intesa in diecimila volti, si trova in allegra comnia a paragone di colui che, quotidianamente, passa accanto a dieci volti che, un tempo amici, ora sfuggono il suo sguardo. Questa esperienza avrebbe accomnato Stephen in ogni istante della sua vita vigile e cosciente: nel luogo di lavoro, mentre vi si recava e quando ritornava, sulla soglia di casa, al davanzale della finestra, dappertutto. Per consenso unanime i suoi comni di lavoro evitavano perfino di camminare sul lato della strada che Stephen era solito percorrere e lo lasciavano a lui, solo, fra tutti gli operai.

Per molti anni era stato un uomo silenzioso, tranquillo, appartato, poco uso a cercare la comnia dei suoi simili, più incline a restare in comnia dei suoi pensieri. Non aveva mai provato nel suo cuore la nostalgia di un segno di riconoscimento, di un cenno del capo, di uno sguardo, di una parola; né si era reso conto di quanto fosse profondo e intenso il sollievo che nasce da quei semplici gesti e viene a inondare il cuore. Ben più difficile del previsto era riuscire a tenere distinta, nella sua stessa coscienza, la sensazione di essere abbandonato dai suoi comni e quella, infondata, di vergogna e di infamia.

Nei primi quattro giorni, quella dolorosa esperienza gli parve così lunga e greve che si sentì sgomento all'idea di quello che lo aspettava. Per tutto quel tempo non solo non vide Rachael, ma evitò tutte le occasioni per incontrarla; sebbene sapesse che la proibizione non era stata ancora formalmente estesa alle donne che lavoravano nelle fabbriche, notò che alcune di quelle che conosceva erano mutate nei suoi confonti e temeva di mettere alla prova le altre. Aveva quindi paura che Rachael rimanesse isolata, se fosse stata vista in sua comnia. Da quattro giorni era perciò completamente solo e non parlava con nessuno, quand'ecco che, una sera, nel rincasare dal lavoro, gli si avvicinò per strada un giovanotto assai pallido.

«Vi chiamate Blackpool, vero?», chiese questi.

Stephen arrossì nello scoprire di aver il cappello in mano, spinto a quel gesto di deferenza dalla gratitudine provata nel sentirsi rivolgere la parola o dalla sorpresa di quell'inaspettato incontro o, forse, da entrambe le cose. Fece finta di sistemare la fodera e disse: «Sì».

«Siete voi l'operaio che hanno messo al bando, voglio dire?», chiese il pallido e diafano giovanotto in questione, che altri non era se non Bitzer.

«Sì», rispose ancora Stephen.

«L'ho capito da come tutti si tenevano alla larga da voi. Il signor Bounderby vuole parlarvi. Sapete dove abita, vero?».

«Sì», disse di nuovo Stephen.

«Allora andateci subito. ½ aspettano. Basta che diciate al domestico chi siete. Io sto alla Banca; se ci andate subito, senza di me, (mi hanno mandato a prendervi) mi risparmiate una bella trottata».

Stephen, che abitava dalla parte opposta, si voltò e si diresse, come se fosse suo dovere, verso il castello di mattoni rossi del magnate Bounderby.

V

. LAVORATORI E PADRONI

«Ebbene, Stephen», cominciò Bounderby con voce tonante, «cosa mai vengo a sapere? Che cosa ti hanno fatto quei flagelli della terra? Entra e parla!».

Fu con queste parole che venne introdotto nel salotto. Un tavolo era apparecchiato per il tè; erano presenti la giovane moglie del signor Bounderby, suo fratello e un gran signore che veniva da Londra. A quest'ultimo Stephen fece un inchino, chiudendo la porta e restando lì vicino con il cappello in mano.

«Ecco l'uomo di cui vi ho parlato, Harthouse», disse Bounderby. Il gentiluomo, che, seduto sul divano, era intento a conversare con la signora Bounderby, si alzò dicendo con aria indolente: «Oh, davvero?», e con noncuranza si avvicinò al caminetto dove si trovava Bounderby.

«Su, parla!», lo incitò questi.

Dopo i quattro giorni che aveva passato, essere apostrofato in quel modo suonò aspro e stonato al suo orecchio. Quelle parole non soltanto esacerbavano il suo animo ferito, ma lo facevano sentire veramente il traditore opportunista che era stato tacciato di essere.

«Per che cosa, signore, voi vi siete compiaciuto di mandarmi a chiamare a me?», chiese Stephen.

«Be', te l'ho detto, no? Sei un uomo e perciò parla da uomo. Raccontaci di te e di quella combriccola di delinquenti».

«Col vostro permesso, signore, non ci ho proprio niente da dire su questa cosa».

Il signor Bounderby, che più o meno somigliava sempre a un vento che trova un ostacolo sulla sua strada, cominciò a imperversare con furia, in modo diretto.

«Guardate qui, Harthouse, un campione di quella gente. Quest'uomo è già venuto da me una volta e, in quell'occasione, l'ho messo in guardia contro quei furbastri che vengono da fuori e che sono sempre in giro - impiccarli tutti si dovrebbe, ovunque si trovino! - e gli ho anche detto che si stava mettendo su una cattiva strada. Be', ci credereste che lui è ancora così soggiogato da quelli lì che ha paura di aprir bocca e parlar di loro, anche se gli hanno dato del traditore».

«A voi vi ho detto che non avevo niente da dire, signore, non che avevo paura di aprir bocca».

«Hai detto! Ah, lo so benissimo quello che hai detto. Non basta: so anche quello che hai in mente, vedi. Non è la stessa cosa, per Giove, non è per niente la stessa cosa. Anzi, è molto diverso. Perché non dici subito che quel tizio, quello Slackbridge, non è in città a metter su la gente incitandola a ribellarsi, che non è un capo con le sectiune in regola, insomma che è una vera canaglia! Faresti bene a dircelo subito; non credere di poter imbrogliare me! Hai voglia di dircelo. Perché non lo fai?».

«A me mi dispiace proprio come a voi, se la gente non ha un bravo capo, signore», disse Stephen scuotendo la testa. «Prendono quello che c'è, forse è il male minore, se non possono trovare di meglio».

Il vento cominciò a ruggire.

«Ora voi penserete che questo vada benissimo, Harthouse», disse Bounderby. «Penserete che sia più che tollerabile. Direte: 'Perbacco, ecco un perfetto campione della gente con cui hanno a che fare i miei amici', ma questo è niente, signore. Ascoltate qua! Adesso rivolgerò a quest'uomo una domanda: 'Mi concedete, signor Blackpool', - il vento ruggiva sempre più tempestoso - 'vi prego, la libertà di chiedervi com'è che vi siete rifiutato di entrare in quella lega?'».

«Com'è?».

«Proprio così!», disse il signor Bounderby con i pollici infilati nel giro delle maniche del panciotto, scuotendo il capo e socchiudendo gli occhi con l'aria di fare una confidenza al muro di fronte. «Com'è?».

«A me non mi va di parlarne, signore, ma voi a me mi avete fatto una domanda - non voglio esserci sgarbato con voi - e allora risponderò: ho fatto una promessa».

«Non a me», disse Bounderby (vento di burrasca con ingannevoli bonacce: questa era una).

«No, signore, non a voi».

«Una promessa che non mi riguarda; mai che ci sia la minima considerazione per me», continuò Bounderby, sempre confidandosi con il muro. «Se si fosse trattato soltanto di Josiah Bounderby di Coketown, ti saresti messo con loro senza nessuno scrupolo».

«Sì, signore, è vero».

«E lui lo sa benissimo che sono tutti una banda di furfanti e di sabotatori per i quali i lavori forzati e la deportazione sarebbero troppo poco!», tuonò Bounderby, scatenando la tempesta. «Signor Harthouse, voi che avete girato il mondo, avete mai incontrato in qualche altra parte, che non sia questo benedetto paese, qualcuno come lui?». E il signor Bounderby puntò su Stephen un dito infuriato.

«No, signora», protestò Stephen Blackpool con fermezza, rivolgendosi istintivamente a Louisa, dopo aver dato un'occhiata al suo viso. «Niente ribelli, niente sabotatori. Niente, del genere, signora, niente del genere. Non sono stati giusti con me, signora, lo so e lo sento. Ma fra tutti non ci sono neanche in una dozzina - una dozzina? Macché, neanche in mezza dozzina - che non credono di aver fatto quello che era giusto per gli altri e per sé. Dio non voglia che proprio io, che li conosco e sono con loro da tutta la vita, che ci sono stato seduto con loro a chiacchierare, che ho mangiato e bevuto con loro e che ci voglio bene, che io non dico la verità, quando la verità gli fa onore, non importa quel che mi hanno fatto».

Parlava con la burbera sincerità tipica della sua condizione e del suo carattere, forse accentuata dall'orgogliosa coscienza di rimanere fedele alla sua classe, malgrado la sfiducia mostratagli; ma aveva un'acuta consapevolezza del luogo in cui si trovava e non alzò mai la voce.

«No, signora, no. Loro ci sono leali l'uno all'altro, fedeli l'uno all'altro, affezionati l'uno all'altro fino alla morte. Siete povero fra loro, ammalato fra loro, addolorato per una delle tante cause che portano i dispiaceri sulla soglia di casa della povera gente, e loro saranno buoni con voi, gentili, affettuosi, cristiani. Potete star sicura, signora. Si lascerebbero fare a pezzi piuttosto che cambiare».

«In breve, è perché hanno tutte queste virtù che ti hanno buttato a mare. Su, già che ci sei, raccontaci tutto!», intervenne Bounderby.

«Non so proprio, signora», riprese Stephen con l'aria di trovare ancora nel volto di Louisa un rifugio naturale, «come capita che quello che c'è di meglio in noi ci porta a fare sbagli e a dispiaceri e a disgrazie, questo proprio non lo so. Ma è così. So che è così come so che c'è il cielo sopra tutto questo fumo. Abbiamo anche tanta pazienza e in generale abbiamo buone intenzioni. A me non mi riesce di credere che è sempre tutta colpa nostra».

«Amico mio», intervenne Bounderby più esasperato che mai, anche se non se ne rendeva conto, dal fatto che Stephen si rivolgeva a un'altra persona, «se mi farete l'onore di concedermi la vostra attenzione per mezzo minuto, mi piacerebbe scambiare due parole con voi. Hai appena dichiarato di non aver niente da dire su questa storia. Prima di andare avanti, ti chiedo: sei proprio sicuro?».

«Sono sicuro, signore».

«Ecco qui un gentiluomo che viene da Londra», il signor Bounderby con il pollice puntato all'indietro indicò Harthouse, «un signore che è deputato in parlamento. Vorrei che ci sentisse discutere un po' tra noi, invece di sentire solo il succo del discorso - so già benissimo in anticipo, dove andremo a finire; nessuno lo sa meglio di me! ricordatene - invece di ascoltare soltanto me e di credermi sulla parola».

Stephen fece un cenno del capo verso il signore che veniva da Londra e si mostrò più preoccupato del solito. Involontariamente volse lo sguardo sul suo precedente rifugio, ma l'occhiata che gli venne da quella parte (espressiva seppur rapidissima) lo riportò sul signor Bounderby.

«Ora, che cosa avete da lamentarvi?», chiese questi.

«Non sono venuto qui per lamentarmi, signore», gli ricordò Stephen, «sono venuto perché a me mi avete mandato a chiamare voi».

«Di che cosa avete da lamentarvi tutti in generale?», proseguì Bounderby incrociando le braccia.

Stephen gli lanciò una breve occhiata esitante, poi parve prendere una decisione.

«Signore, non sono mai stato molto bravo a parlare, ma ho anch'io i miei sentimenti. Siamo proprio nei guai, signore. Guardate la città, ricca com'è, e guardate quanta gente è nata qui e passa tutta la vita a tessere, a cardare per guadagnarsi il pane in qualche modo, facendo sempre le stesse cose, dalla culla alla tomba. Guardate come viviamo, dove abitiamo, quanti siamo, le occasioni che abbiamo, come la nostra vita è sempre uguale; guardate come le fabbriche vanno sempre avanti e non ci portano da nessuna parte se non, sempre, al cimitero. Guardate come ci considerate, quello che scrivete di noi, quello che dite di noi quando, con le vostre deputazioni, andate dai ministri, e come voi ci avete sempre ragione e noi sempre torto, e non ci abbiamo mai avuto ragione da quando siamo nati. Guardate come queste cose sono diventate sempre più grandi, più diffuse, più difficili, anno dopo anno, di generazione in generazione. Chi può guardare questo e non dire lealmente che è un grande imbroglio?».

«E naturalmente spiegherai a questo signore come aggiusteresti tu questo imbroglio, dato che ti piace tanto questa parola?».

«Non lo so, signore. Non ci si può aspettare questo da me. Spetta a quelli che stanno sopra di me, sopra tutti noi. Che cosa fanno altrimenti, signore, se non sistemano queste cose?».

«Te lo dico io come sistemarle. Cominceremo dando un bell'esempio: prenderemo una mezza dozzina di Slackbridge, processeremo quei mascalzoni per alto tradimento e li manderemo tutti ai lavori forzati nelle colonie penali».

Stephen scosse gravemente la testa.

«Non venirmi a dire che non lo faremo, signor mio», tuonò Bounderby scatenando la tempesta. «Lo faremo, te lo dico io!».

«Signore,» riprese Stephen, parlando con la pacatezza di chi ha delle certezze, «voi potete prendere anche cento Slackbridge - tutti quelli come lui e anche dieci volte di più - e potete metterli in tanti sacchi separati e buttarli tutti nell'oceano più profondo, come quello che c'era prima che c'era la terraferma, ma questo imbroglio resta proprio quello che è. Gente cattiva, falsa, venuta da fuori!», proseguì Stephen con un sorriso ansioso. «Cosa non abbiamo sentito dire su questa gente cattiva e falsa, da quando ci ricordiamo! Non sono loro la causa dei guai. Non sono loro neanche quelli che scatenano i guai. Non voglio difendere queste persone - non ho nessun motivo per farlo - ma non serve a niente illudersi di togliere loro dal lavoro invece che togliere il lavoro da loro! Quello che c'è in questa stanza, c'era anche prima che io sono venuto e ci resterà quando io vado via. La stessa cosa per quell'orologio: caricatelo su una nave e speditelo all'isola di Norfolk. Il tempo continuerà a passare. E lo stesso vale per Slackbridge, in tutto e per tutto».

Volgendo di nuovo, per un attimo, lo sguardo sul volto che prima era stato per lui un rifugio, si accorse che lanciava verso la porta un'occhiata come per metterlo in guardia. Stephen indietreggiò e mise la mano sulla maniglia. Ma non aveva ancora espresso tutto quello che desiderava e voleva; sentì crescere nel suo cuore il nobile impulso di porre rimedio alle parole offensive che aveva pronunciato verso coloro che pure lo avevano respinto e di restare fedele alla sua classe. Si fermò per concludere quello che aveva in mente.

«Signore, con la mia poca istruzione e i miei modi semplici, non so dire a questo gentiluomo cosa fare per migliorare, anche se ci sono operai capaci di spiegarci tutto per bene, ma posso dirgli cosa non fare, cioè quello che non servirà mai. Il pugno di ferro non serve. Non servono neanche le vittorie e i trionfi: mettersi d'accordo per dire che una parte ha sempre, in ogni caso, ragione, e che l'altra ha sempre, in ogni caso, torto, è inutile. Neppure lasciarli a se stessi servirà a niente. Se migliaia e migliaia di persone sono abbandonate a se stesse nelle loro vite monotone, incatenate alle loro disgrazie, diventeranno come un sol uomo, e voi tutti vi schiererete di fronte come un altro uomo, e in mezzo si stenderà un cupo, invalicabile deserto fino a che - per molto o per poco tempo - durerà tanto dolore. Rifiutare di avvicinarsi agli altri con bontà, con comprensione, con spirito lieto - cose, queste, che avvicinano gli animi nella sofferenza e danno sollievo nel dolore, soccorrendoli nel bisogno - è mia umile opinione che in tutti i suoi viaggi questo signore non ha mai incontrato gente più pronta e generosa di quella che vive qui - non servirà a nulla finché il sole continuerà a splendere e finché non diventerà di ghiaccio. E soprattutto considerarli solo come braccia che lavorano e producono, trattarli come se sono soltanto delle macchine o i numeri di una somma, privi di affetti e di predilezioni, privi di ricordi e di sentimenti, privi di un animo che accoglie dolori e speranze - trattandoli, quando le cose vanno bene, come se non hanno nulla dentro di sé, e, quando le cose vanno male, accusandoli perché nei rapporti con voi non dimostrano né comprensione né sentimenti umani - tutto questo non servirà a niente, signore, fino a che l'opera stessa di Dio non crollerà».

Stephen rimase lì con la mano sulla maniglia della porta aperta, aspettando di sapere se volevano altro da lui.

«Fermati ancora un attimo», lo trattenne Bounderby paonazzo in volto. «L'ultima volta che sei venuto qui a lagnarti, ti ho avvertito che era meglio se giravi le spalle a quella gente e ti tiravi fuori. Ti ho anche detto, se ben ricordi, che la cosa mi puzzava di voglia di cucchiai d'oro».

«Non ci ho pensato, signore, ve lo assicuro».

«Ormai mi è chiaro», disse Bounderby, «che tu sei uno di quelli che hanno sempre qualcosa di cui lagnarsi; uno di quelli che vanno in giro a seminar zizzania e a mieterne il raccolto. Ecco il mestiere che fai nella vita, amico mio».

Stephen scosse il capo come per dire che aveva altre cose da fare nella vita.

«Sei un individuo così irritante, molesto, maligno che anche il tuo sindacato, gli uomini che conosci meglio non vogliono saperne di te. Non credevo che quelli potessero aver ragione qualche volta, ma ti dirò una cosa! Una volta tanto sono d'accordo con loro: neanch'io voglio aver più a che fare con te».

Stephen alzò rapidamente gli occhi su di lui.

«Finisci il lavoro e poi vattene da un'altra parte,» concluse il signor Bounderby con un cenno significativo del capo.

«Signore, sapete bene che se non trovo lavoro da voi, non lo troverò in nessun posto», disse Stephen con calore.

«So io quello che so, e tu sai quello che sai. Non ho altro da dire».

Stephen lanciò un occhiata verso Louisa, ma lei non guardava nella sua direzione. Con un sospiro, mormorò: «Che il cielo ci aiuti tutti in questo mondo!», e si allontanò.

VI

. DILEGUARSI

Cadeva l'oscurità quando Stephen uscì dalla casa del signor Bounderby. Le ombre della notte si erano infittite così rapidamente che, nel chiudere la porta, egli non si guardò neppure intorno, ma con passo affaticato si incamminò per la sua strada. Niente era più remoto dai suoi pensieri della strana vecchia che aveva incontrato in occasione della precedente visita alla stessa casa; ma in quel momento il suono di un passo ben noto richiamò la sua attenzione e, voltandosi, eccola insieme a Rachael. Vide Rachael dapprima, perché era il suo passo che aveva riconosciuto.

«Ah, Rachael, mia cara! Voi, signora, con lei!».

«Be', siete sorpreso, non c'è che dire. Avete ragione, lo ammetto», rispose la vecchia. «Sono di nuovo qui, vedete».

«Come mai insieme a Rachael?», chiese Stephen, che, in mezzo alle due donne, guardando ora l'una ora l'altra, si premurò di adeguare il proprio passo al loro.

«Ebbene, mi è capitato di conoscere questa brava ragazza più o meno come ho conosciuto voi», disse la vecchia allegramente, prendendo l'iniziativa di rispondere. «Quest'anno, la solita visita in città l'ho fatta più tardi del solito perché ho sofferto di affanno e così l'ho rimandata aspettando che venisse il bel tempo e facesse caldo. Per la stessa ragione non ritorno a casa in giornata, ma divido il viaggio in due giorni. Stanotte dormirò alla Locanda del Viaggiatore, un bel posticino pulito nei pressi della ferrovia. Tornerò con l'accelerato domattina alle sei. Che c'entra, direte voi, tutta questa storia con questa brava ragazza? Ve lo dirò. Ho saputo che il signor Bounderby si è sposato. L'ho letto nei giornali la notizia era bene in vista, bell'annuncio!», la donna indugiò su questa frase con curioso entusiasmo. «Voglio vedere sua moglie. Non l'ho mai vista. Lo sapete che non esce da casa da mezzogiorno? Così, per non rinunciare con troppa facilità, aspettavo qui intorno, volevo fermarmi ancora un po'; quand'ecco che passo vicino a questa brava ragazza, due o tre volte. Ha un'espressione così cordiale che le rivolgo la parola e lei mi risponde. Ecco com'è andata! Il resto lo potete indovinare da voi stessi, assai più in fretta che se ve lo racconto io!».

Stephen dovette ricacciare di nuovo un istintivo moto di antipatia per la vecchia, anche se i suoi modi erano quanto di più franco e amichevole si potesse immaginare. Con una gentilezza d'animo che gli era naturale, proprio come sapeva che era naturale e spontanea in Rachael, Stephen riprese a parlare dell'argomento che tanto interessava la donna nella sua tarda età.

«Be', signora, io l'ho vista, ho visto la moglie del signor Bounderby. È giovane e graziosa, con begli occhi scuri e pensosi, e modi pacati, Rachael, come non avevo mai visto».

«Giovane e graziosa. Sì! Bella come una rosa! Che moglie felice!», esclamò la vecchia con entusiasmo.

«Sì, signora, penso che è felice», disse Stephen, non senza lanciare verso Rachael un'occhiata dubbiosa.

«Pensate? Non ne siete sicuro? Lo è di certo. È la moglie del vostro padrone», replicò la vecchia.

Stephen fece segno di sì con la testa e aggiunse, lanciando un'altra occhiata a Rachael: «Padrone, però non è più il mio padrone. È finito, non ci ho più niente a che fare con lui».

«Hai lasciato il lavoro, Stephen?», si affrettò a chiedere Rachael con ansia.

«Non so se sono stato io a lasciare il lavoro o se è il lavoro che ha lasciato me, Rachael, ma non cambia niente. Non ci ho più niente a che fare con quel lavoro. Se rimanevo, chissà quanti guai! Guai su guai! Forse è un bene per molti che io vada via; forse è un bene anche per me. Ad ogni modo è così che devo fare: girar le spalle a Coketown per intanto e cercarmi di che mangiare, mia cara, cominciando tutto da capo».

«Dove andrai, Stephen?».

«Stasera non te lo so proprio dire», rispose lui togliendosi il cappello e lisciandosi i capelli radi con il palmo della mano. «Non è mica così facile sapere da che parte girarsi, ma a me qualche buon cuore mi aiuterà».

Anche in questa circostanza il fatto di non essere un uomo egoista, che pensa sempre e solo a se stesso, gli fu d'aiuto. Prima ancora di essersi chiuso alle spalle la porta di Bounderby, gli era venuto in mente che la sua partenza sarebbe stata almeno un bene per Rachael, la quale avrebbe in tal modo evitato di venir chiamata in causa per non essersi allontanata da lui. Gli si stringeva il cuore all'idea di lasciarla e, sebbene non riuscisse a immaginare nessun luogo nel quale non lo avrebbe inseguito la sua condanna, era quasi un sollievo l'essere costretto ad andarsene, sottraendosi così alla tensione e alle sofferenze che lo avevano afflitto negli ultimi giorni, anche se davanti a lui si paravano difficoltà e disagi imprevedibili.

Era perciò sincero quando disse: «Sono più tranquillo di come immaginavo». La risposta di Rachael fu un sorriso rassicurante: non toccava a lei rendere più gravoso quel fardello. I tre continuarono a camminare insieme.

I vecchi, soprattutto quando si sforzano di essere fiduciosi e allegri, incontrano molto rispetto fra i poveri. La donna era così piena di garbo e soddisfatta, così noncurante dei suoi acciacchi - eppure si erano aggravati dall'epoca del precedente incontro con Stephen - che sia Rachael sia Stephen si mostrarono molto solleciti. Troppo vitale per consentire che rallentassero l'andatura per un riguardo verso di lei, era nello stesso tempo grata che le parlassero, e, a sua volta, desiderosa di parlare senza riserve; accadde, così, che, quando giunsero nella parte della città dove abitavano, la donna fosse più animata ed esuberante che mai.

«Venite nella mia povera casa, signora», la invitò Stephen, «a prendere una tazza di tè. Se ci venite voi, ci verrà anche Rachael. Poi vi accomnerò alla Locanda del Viaggiatore. Forse passerà tanto tempo, Rachael, prima che io ho di nuovo l'occasione di stare con te». Le due donne accettarono e insieme proseguirono fino a dove abitava lui. Quando svoltarono nel vicoletto, Stephen guardò verso la sua finestra con quel terrore che da sempre incombeva sulla sua desolata casa. Era aperta come l'aveva lasciata lui: non c'era nessuno. Lo spirito malvagio che devastava la sua vita era sgusciato via da mesi, e in tutto quel tempo Stephen non ne aveva saputo nulla. Le uniche tracce ad attestare il suo breve ritorno erano l'arredo ancora più scarso e i capelli di Stephen ancora più grigi.

Accese una candela, preparò il vassoio per il tè, andò a prendere l'acqua calda al piano di sotto, e alle sue ospiti offrì un po' di tè, di zucchero, del pane e del burro, presi nel vicino negozio. Il pane, appena uscito dal forno, era croccante, il burro fresco, e naturalmente lo zucchero in zollette, a dimostrazione che avevano ragione i magnati di Coketown a dire che quella gente si trattava con lusso principesco, sissignore. Rachael preparò il tè - erano così in tanti che fu necessario prendere in prestito una tazza - e la donna ne fu molto contenta. Era il primo contatto umano che il loro ospite avesse da molti giorni. Sebbene il mondo gli si stendesse davanti come uno sterminato deserto, anche Stephen trasse grande gioia da quel pasto - altro elemento a sostegno della convinzione dei magnati che quella gente fosse del tutto improvvida.

«A me non mi è venuto in mente prima, di chiedervi come vi chiamate, signora», disse Stephen.

«Signora Pegler», si presentò lei.

«Vedova?».

«Oh, da molti anni!». Stando ai calcoli della signora Pegler, suo marito - uno dei migliori che fossero mai esistiti - era già morto quando era nato Stephen.

«Brutto affare perdere un uomo così bravo. Ci sono li?».

Il tintinnare della tazza contro il piattino tradì un certo nervosismo nella signora Pegler: «No, non ora, non ora», disse.

«Morti, Stephen», suggerì Rachael con dolcezza.

«A me mi dispiace di averne parlato. Dovevo pensare che c'era il rischio di mettere il dito sulla piaga. È colpa mia».

Mentre così si scusava, la tazza della donna si mise a tintinnare ancora più forte. «Avevo un lio», disse con una strana angoscia, del tutto priva delle consuete manifestazioni del dolore, «era bravo, molto bravo. Ma non parliamone, se non vi dispiace. È ». Posò la tazza e con le mani fece un gesto come per dire «morto», invece concluse: «l'ho perduto».

Stephen non si era ancora consolato per aver provocato un dolore alla vecchia, quando si sentì la padrona di casa che, incespicando, saliva per le strette scale. Lo chiamò stando sulla porta e gli sussurrò qualcosa. La signora Pegler, che non era affatto sorda, riuscì a cogliere qualche parola di quello che venne detto.

«Bounderby!», esclamò con voce soffocata, alzandosi e allontanandosi in gran fretta dal tavolo. «Oh, nascondetemi! Fate che non mi vedano, per carità! Non fatelo salire fino a che non me ne sono andata. ½ scongiuro, per favore!». Tremava in preda a violenta agitazione; quando Rachael cercò di rassicurarla, si nascose dietro di lei. Sembrava che non sapesse ciò che faceva.

«Ascoltate, ascoltate!», disse Stephen allibito. «Non è il signor Bounderby, è sua moglie. Non dovete aver paura di lei. Solo un'ora fa vi piaceva da morire».

«Siete sicuro che si tratta di lei e non del signor Bounderby?», chiese, ancora tremante.

«Sì, sicurissimo».

«Allora, per favore, non rivolgetemi la parola, non badate a me. Lasciatemi stare per conto mio, in quell'angolo».

Stephen annuì. Lanciò a Rachael un'occhiata, quasi volesse chiederle un chiarimento che lei non poteva dargli, poi prese la candela e scese al pianterreno. Pochi minuti dopo ritornava, facendo luce a Louisa che gli veniva dietro insieme al marmocchio.

Rachael si era alzata; in mano teneva lo scialle e la cuffia. Stephen, molto sorpreso da quella visita, appoggiò la candela e, tenendo le mani sul tavolo, rimase in piedi aspettando che Louisa gli rivolgesse la parola.

Era la prima volta in vita sua che Louisa entrava nella casa di un operaio di Coketown; era la prima volta in vita sua che si trovava faccia a faccia con uno di loro, un uomo in carne ed ossa, un individuo. Conosceva quella gente solo in termini di centinaia e migliaia. Sapeva quanto produceva un dato numero di operai in una data unità di tempo. Per lei erano una folla: una folla che vedeva sciamare avanti e indietro dai loro nidi, come formiche e scarafaggi. Dalle letture fatte, aveva appreso infinitamente di più sulla vita degli insetti laboriosi che sui costumi di quegli uomini e donne laboriosi.

Qualcosa che doveva produrre tanto ed essere ato tanto: ecco tutto. Qualcosa che era regolato dalle infallibili leggi della domanda e dell'offerta; qualcosa che in quelle leggi inciampava e si dibatteva impigliandosi in ogni sorta di difficoltà; qualcosa che languiva nelle ristrettezze quando il grano era caro, e che si ingozzava quando il grano era a buon mercato; qualcosa che aveva una data percentuale di incremento, produceva una data percentuale di criminalità e un'altra percentuale di pauperismo; qualcosa che, presa all'ingrosso, aveva prodotto grandi patrimoni; qualcosa che di tanto in tanto si ingrossava e infuriava come il mare, distruggeva e provocava danni (soprattutto a se stessa) per placarsi di nuovo: così erano, per quel che ne sapeva, gli operai di Coketown. Ma il pensiero di individuare entità distinte le era estraneo, quanto il pensiero di individuare nel mare le singole gocce che lo compongono.

Rimase in piedi per un po' guardandosi intorno. I suoi occhi si posarono sulle poche sedie, sui pochi libri, sulle stampe dozzinali, sul letto e, infine, sulle due donne e su Stephen.

«Sono venuta a parlarvi, dopo quanto è accaduto poco fa. Vorrei esservi di aiuto, se me lo permetterete. È vostra moglie?».

Rachael sollevò gli occhi che chiaramente risposero di no, poi riabbassò lo sguardo.

«Ricordo», disse Louisa arrossendo per l'errore fatto, «di aver sentito parlare delle vostre sventure famigliari, anche se, allora, non ho prestato attenzione ai particolari. Non era mio intendimento chiedere nulla che potesse addolorarvi. Se dovessi rivolgervi qualche altra domanda che suscita pena, credetemi, vi prego, che lo faccio solo perché non so parlarvi come dovrei».

Poco prima, Stephen si era istintivamente rivolto a lei; ora lei faceva la stessa cosa: istintivamente si rivolgeva a Rachael. I suoi modi erano sbrigativi e bruschi, ma, nello stesso tempo, esitanti e timidi.

«Vi ha raccontato quello che si sono detti lui e mio marito? Voi siete la prima persona cui si rivolgerebbe, immagino».

«So solo come è andata a finire, signora», rispose Rachael.

«Ho capito bene che, licenziato da un datore di lavoro, sarà respinto da tutti? Credo che abbia detto così».

«Le probabilità di trovar lavoro sono minime, quasi nulle, per chi si è fatto un cattivo nome coi padroni».

«Quale significato, devo dedurre, voi attribuite all'espressione cattivo nome?».

«Quello di essere un uomo che dà fastidio, un uomo molesto».

«Allora viene sacrificato, in ugual modo, dai pregiudizi di una classe e da quelli dell'altra? Le due classi sono così profondamente divise in questa città che non c'è spazio in mezzo per un lavoratore onesto?».

Rachael, per tutta risposta, si limitò a scuotere la testa.

«I suoi comni tessitori diffidano di lui perché ha detto di non voler stare dalla loro parte. È a voi che ha fatto questa promessa? Posso chiedervi perché l'ha fatta?».

«Non sono stata io a chiederglielo, poveretto», rispose Rachael scoppiando a piangere. «L'ho supplicato per il suo bene di non mettersi nei guai, senza pensare che ci sarebbe finito per causa mia. Ma so che preferirebbe morire cento volte, piuttosto che venir meno alla sua parola. Lo conosco bene».

Stephen, che era rimasto tranquillo e attento nel suo consueto atteggiamento pensoso, con la mano al mento, cominciò a parlare con voce meno ferma del solito.

«Nessuno meglio di me sa quanto io ci ho per Rachael affetto, rispetto e stima, perché, quando a lei io le ho fatto quella promessa, le ho detto la verità che lei era l'angelo della mia vita. È stata una promessa solenne. Fatta da me, per sempre».

Louisa si volse verso di lui e chinò il capo con una deferenza che non le era abituale. Il suo sguardo tornò a posarsi su Rachael e l'espressione si addolcì.

«Che cosa farete?» chiese a Stephen. Anche la sua voce s'era addolcita.

«Be', signora», rispose lui facendo del suo meglio per sorridere, «finisco il lavoro che ho e me ne vado. Ci sono costretto. Tenterò da qualche parte. Fortunato o sfortunato, un uomo cosa può fare se non tentare? Niente, se non buttarsi per terra e lasciarsi morire».

«Come viaggerete?».

«A piedi, gentile signora, a piedi».

Louisa arrossì e nelle sue mani ve un borsellino. Si udì il fruscio di una banconota ch'ella spiegava e metteva sul tavolo.

«Rachael, per favore, diteglielo voi - voi sapete come fare senza offenderlo - che questo è suo, non in prestito, per aiutarlo durante il viaggio. Per favore, pregatelo di accettare».

«Non posso farlo, signora», rispose lei, girando il capo. «Che Dio vi benedica per aver pensato con tanta bontà a questo poveretto! Ma solo lui conosce il suo cuore e quello che è giusto, secondo il suo cuore».

Ed ecco che quell'uomo capace di tanto controllo su se stesso, che si era mostrato così calmo e deciso durante il loro incontro, perse all'improvviso la sua compostezza e si portò le mani al volto. Louisa lo fissò, in parte incredula, in parte spaventata, in parte sopraffatta da improvvisa simpatia e pena. Tese le mani come se volesse toccarlo, poi si ricompose e rimase immobile.

«Nemmeno Rachael», disse Stephen, togliendosi le mani dal volto, «poteva fare un'offerta più buona. Prenderò due sterline per mostrarvi che non sono uno che sragiona, un ingrato. In prestito, per restituirvele. Sarà la cosa più bella che farò, perché così potrò mostrarvi ancora che vi sono tanto riconoscente per quello che fate adesso».

Louisa si rassegnò a riprendere la banconota e a sostituirla con un'altra per la somma molto inferiore indicata da Stephen. L'uomo non era raffinato, non era bello, non si distingueva in nulla, eppure il suo modo di accettare il danaro, di ringraziare senza aggiungere altre parole, aveva una grazia che Lord Chesterfield non sarebbe riuscito a insegnare al lio nemmeno in un secolo.

Per tutto questo tempo, Tom, era rimasto seduto sul letto, con aria indifferente, dondolando una gamba, col mento appoggiato sul bastone da passeggio. Vedendo che la sorella si accingeva ad andarsene, si alzò piuttosto in fretta e volle aggiungere qualcosa.

«Aspetta un attimo, Lou! Prima di andare, vorrei parlargli per un momento. Se uscite per un istante sulle scale, Blackpool, vi spiego di che si tratta. Non occorre la candela, amico!», disse Tom con grande impazienza nel vederlo avvicinarsi alla credenza per prenderne una. «Non serve la luce».

Stephen lo seguì fuori, e Tom chiuse la porta tenendo la mano sulla maniglia.

«Ascoltate!», sussurrò. «Penso di potervi aiutare. Non chiedetemi di che si tratta perché tutto potrebbe finire in niente, ma non costa nulla tentare».

Il respiro di Tom contro l'orecchio di Stephen pareva una fiamma, tanto era caldo.

«Quello che vi ha portato il messaggio stasera è il nostro guardiano notturno. Dico 'nostro' perché anch'io lavoro nella Banca».

«Che fretta ha!», pensò Stephen sentendolo parlare in modo così confuso e agitato.

«Bene, ascoltate! Quando ve ne andrete?».

«È lunedì oggi», rispose Stephen riflettendo. «Be', signore, verso venerdì o sabato».

«Venerdi o sabato, eh? Sentite! Non sono sicuro di potervi rendere il servizio che ho in mente - c'è mia sorella nella vostra stanza, lo sapete - ma forse ci riuscirò. Se non dovessi farcela, niente di male. State a sentire. Riconoscereste il guardiano notturno?».

«Sì, sicuro».

«Bene. Allora, quando lascerete il lavoro, a partire da adesso fino al giorno della partenza, che ne dite di stare nei pressi della Banca alla sera? Se, per caso, lui vi vede gironzolare, non comportatevi come se aveste in mente qualcosa di preciso, perché non vi manderò alcun messaggio per tramite suo, se non riesco a farvi il favore che ho intenzione di rendervi. Solo in caso positivo avrà un biglietto per voi. Sentite! Siete sicuro di aver capito bene?».

Nell'oscurità aveva infilato un dito in un'asola della giacca di Stephen e continuava a stiracchiare l'indumento in modo molto curioso.

«Ho capito, signore».

«Sentite ora! Attento a non fare sbagli e a non dimenticare niente. Mentre andremo a casa, spiegherò a mia sorella quello che ho in mente. Lei sarà d'accordo, lo so. Sentite! Tutto a posto, vero? Avete capito? Molto bene, allora! Lou, vieni!».

Nel chiamarla spalancò la porta, ma non tornò nella stanza e, senza aspettare che gli facessero luce, si precipitò giù per le strette scale. Era già in fondo, quando la sorella cominciò a scendere, ed era in strada prima che lei potesse prendergli il braccio.

La signora Pegler rimase nel suo angolo fino a che fratello e sorella non se ne furono andati, e fino a che Stephen non fu di ritorno con la candela. Era entusiasta della signora Bounderby e, da quella vecchietta imprevedibile che era, scoppiò a piangere «perché era tanto bella e tanto buona». Tuttavia era così smaniosa all'idea che l'oggetto della sua ammirazione potesse ritornare per un qualche motivo o che capitasse lì qualcun altro, che per quella sera la sua allegria si spense. Inoltre si era fatto tardi per gente come loro usa ad alzarsi presto e a lavorare sodo; la comnia perciò si sciolse e Stephen e Rachael accomnarono la loro misteriosa conoscente alla Locanda del Viaggiatore. Qui si accomiatarono.

Insieme tornarono sui loro passi fino all'angolo della strada dove abitava Rachael; a mano a mano che si avvicinavano, il silenzio si insinuò fra loro. Quando giunsero all'angolo dove sempre avevano fine i loro rari incontri, si fermarono, in silenzio, come se avessero paura di parlare.

«Farò di tutto per vederti ancora, prima di andar via, Rachael, ma se non ».

«Non lo farai, Stephen, lo so. Decidiamoci a essere franchi fra noi, è meglio».

«Hai ragione, come sempre. Più chiari si è, meglio è. Ho pensato, Rachael, che nel giorno o due che a me mi rimangono, a te non ti conviene farti vedere insieme con me. Rischi di metterti in cattiva luce per niente».

«Non è di questo che mi importa Stephen. Ma tu ricordi il nostro vecchio patto. È per quello».

«Bene, bene. Meglio così in ogni caso».

«Mi scriverai e mi dirai quello che succede, Stephen?».

«Sì, che cosa posso dirti se non che il cielo ti assista, che il cielo ti benedica, che il cielo ti rimeriti!».

«Che il cielo benedica anche te, Stephen, in tutto il tuo errare e ti conceda pace e riposo finalmente!».

«Mia cara, quella notte ti ho detto che non me ne starò più a rimuginare o a guardare cose che mi mandano in bestia, senza pensare che tu a me mi sei vicina. Sei tanto più buona di me. Sei vicino adesso e a me mi fai vedere tutto sotto una luce più bella. Sii benedetta. Buona notte! Addio!».

Un affrettato commiato in una strada come tante altre, eppure un ricordo sacro per quelle due persone come tante altre. Voi economisti della scuola utilitaristica, larve di insegnanti, grandi commissari dei fatti, garbati e logori infedeli, fanfaroni che propalate teorie vecchie e ammuffite, li avrete sempre con voi i poveri. Finché siete in tempo, coltivate in loro le sublimi grazie dell'immaginazione e dell'amore, per ingentilire le loro vite che ne hanno tanto bisogno! Altrimenti, nel giorno del vostro trionfo, quando nei loro animi non ci sarà più posto per l'amore e il sentimento, e davanti vedranno prospettarsi una vita vuota e nuda, la Realtà prenderà l'aspetto avido del lupo e sarà la vostra fine.

Stephen lavorò il giorno seguente, e quello dopo ancora, senza il conforto di una parola, scansato da tutti nell'andare e nel tornare dalla fabbrica. Alla fine del secondo giorno, avvistò terra; alla fine del terzo il suo telaio rimase vuoto.

Durante le prime due sere si era trattenuto in strada per un'ora davanti alla Banca, e non era successo niente, né di buono né di cattivo. Per non mancare all'impegno preso, decise che, in quella terza e ultima sera, avrebbe aspettato due ore intere.

Seduta accanto alla finestra del primo piano vide, come gli era capitato altre volte, la signora che un tempo era stata la governante in casa di Bounderby; c'era il guardiano notturno, a volte intento a parlarle, a volte occupato a guardare dalla finestra sotto la quale si stagliava la scritta BANCA, e a volte vicino alla porta, in cima ai gradini, a prendere una boccata d'aria. La prima volta che il guardiano ve sulla soglia, Stephen pensò che lo cercasse e gli passò accanto, ma l'uomo si limitò a guardarlo di sfuggita con quei suoi occhi ammiccanti e non disse nulla.

Due ore a gironzolare erano un'eternità dopo una lunga giornata di lavoro.

Stephen si sedette sul gradino di una porta, indugiò appoggiato contro un muro sotto un'arcata, si mise a vagare in su e in giù, attese che l'orologio della chiesa battesse le ore, rimase a guardare i bambini che giocavano nella strada. È così naturale avere uno scopo o qualcosa da fare che chi se ne resta a oziare e a bighellonare è, e si sente, notato. Trascorsa la prima ora, Stephen cominciò ad avere la sgradevole sensazione di essere, in quel momento, un individuo losco.

Poi arrivò il lampionaio, e vero due file di luci che si allungavano per tutta la strada sino a perdersi in lontananza.

La signora Sparsit chiuse le finestre del primo piano, tirò le tende e salì nelle sue stanze. Poco dopo, filtrando prima attraverso la lunetta sopra la porta, poi passando accanto alle due finestre lungo le scale, si vide una luce che saliva fino al secondo piano. Di lì a poco, un angolo della tenda fu scostato, come se l'occhio della signora Sparsit fosse a vigilare; anche l'altro angolo della tenda si mosse, come se da quel lato ci fosse l'occhio guardingo del custode. Ma nessun messaggio venne recapitato a Stephen. Quando finalmente le due ore furono trascorse, Stephen, con grande sollievo, si allontanò con passo rapido quasi a compensare quell'uggioso indugiare.

Non gli restava che accomiatarsi dalla padrona di casa e riposare su un letto di fortuna sul pavimento: aveva già preparato il fagotto per l'indomani e tutto era pronto per la partenza.

Se ne andò sul far dell'alba abbracciando con lo sguardo, per l'ultima volta, la stanza e chiedendosi se l'avrebbe rivista mai più. La città era vuota come se gli abitanti avessero preferito abbandonarla che avere con lui un qualsiasi contatto. A quell'ora le cose sembravano diafane e sbiadite. Perfino il sole nascente pareva una chiazza pallida nel cielo simile a un mare triste.

Passò accanto al luogo dove abitava Rachael, anche se non era sulla sua strada, e lungo vie fiancheggiate da case di mattoni rossi; passò accanto alle grandi fabbriche immerse nel silenzio, non ancora scosse dai fremiti delle macchine; accanto ai binari dove le luci di segnalazione sbiadivano pian piano, sopraffatte dal chiarore del giorno; accanto agli assurdi quartieri intorno alla ferrovia, costruiti a metà e a metà diroccati; accanto alle ville di mattoni rossi, sparse qua e là, dove sempreverdi, ormai affumicati e cosparsi di polvere nera, sembravano sudici fiutatori di tabacco; lungo sentieri ricoperti di scorie di carbone; accanto a una grande varietà di brutture, fino a che, raggiunta la sommità del colle, non si voltò a guardare indietro.

Un sole radioso splendeva sopra la città e nelle fabbriche le sirene annunciavano l'inizio del lavoro. Nelle case non era stato ancora acceso il fuoco, e le alte ciminiere avevano il cielo tutto per loro. Fra un po' avrebbero nascosto l'azzurro con i loro sbuffi di fumo velenoso, ma, ancora per mezz'ora, le finestre sarebbero state d'oro sotto i raggi del sole; poi la gente di Coketown vi avrebbe visto, attraverso i vetri sporchi di fumo, un sole in fase di eterna eclissi.

Che strana sensazione allontanarsi dalle ciminiere, vedere gli uccelli, sentire il loro canto! Che strana sensazione avere sui piedi la polvere della strada invece della polvere del carbone! Che strana sensazione trovarsi a cominciare tutto da capo alla sua età, come un ragazzo, in quella mattina d'estate! Con questi pensieri nella mente e il fagotto sotto il braccio, Stephen si volse a guardare, assorto, la strada maestra. Gli alberi incurvarono i rami sopra di lui e gli sussurrarono che alle spalle si era lasciato un cuore sincero, colmo di amore.

VII

. POLVERE DA SPARO

James Harthouse cominciò a darsi un gran daffare per il partito che aveva adottato e a segnar punti a proprio favore. Intensificando l'allenamento sui rapporti parlamentari per accontentare i saggi della politica, accentuando l'atteggiamento di garbata noncuranza verso la società in generale, dimostrando di saper passabilmente gestire con disonestà una presunta onestà - fra i peccati mortali il più efficace e incoraggiato - ben presto finì per essere considerato un giovane assai promettente.

Non sentirsi animato da sacro zelo era un punto a suo favore: gli consentiva di trattare gli adoratori del Puro Fatto con la stessa grazia che se fosse nato e cresciuto nella loro tribù e di gettare a mare tutte le altre tribù, gente ipocrita che sapeva di esserlo.



«Gente cui nessuno di noi crede, mia cara signora Bounderby, e che non crede neppure in se stessa. L'unica differenza fra costoro, che professano di coltivare la virtù o la benevolenza o la filantropia, - non importa l'etichetta che si danno - e noi, è che noi sappiamo perfettamente che niente ha senso e lo dichiariamo, mentre costoro, che pur lo sanno, non lo ammetteranno mai».

Perché mai queste ripetute affermazioni avrebbero dovuto turbare Louisa o metterla in guardia? Non si scostavano molto dai principi praticati da suo padre o dagli insegnamenti che aveva ricevuto nell'adolescenza: perché quindi stupirsene? C'era poi una gran differenza fra le due scuole? Entrambe la tenevano avvinta alla realtà materiale e le impedivano di credere ad altro. C'era ancora qualcosa nel suo cuore che James Harthouse avrebbe potuto distruggere? Qualcosa che Thomas Gradgrind aveva lasciato intatto nel suo stato di innocenza?

Che l'indomita propensione a credere in una umanità più nobile e più grande di quanto avesse mai sentito parlare - propensione radicata nel suo animo prima che il suo eminentemente pratico padre cominciasse a plasmarlo - fosse sempre in lotta con dubbi e risentimenti era esperienza che le riusciva più che mai dolorosa, a quel punto della vita. Dubbi, perché nell'adolescenza, quella propensione era stata tanto devastata; risentimenti, per il torto che le era stato fatto, se era vero quanto le sussurrava la voce di quella stessa propensione. A una personalità da lungo tempo abituata a reprimere i moti del cuore, dilaniata e combattuta, la filosofia di Harthouse era di sollievo e giustificazione. Se tutto era vuoto, fatuo, privo di valore, che cosa aveva perso e sacrificato? Nulla. «Che importanza ha?». Così aveva detto a suo padre, quando lui le aveva proposto di sposare l'uomo che oggi era suo marito. «Che importanza ha?», continuava a ripetersi. Con sprezzante sicurezza si diceva: «Che importanza ha qualsiasi cosa?», e in questo modo la vita andava avanti.

Verso quale meta? Sempre più in basso, lentamente, ma in modo così graduale che le sembrava di essere immobile. Quanto al signor Harthouse, lui non si interrogava affatto né gli interessava sapere in quale direzione si muovesse. Non aveva nessun disegno in mente, nessun progetto; a scuoterlo dal suo languore apatico non c'era alcuna energia malvagia. Si divertiva e si lasciava coinvolgere nella misura consentita a un gentiluomo del suo rango; forse addirittura un po' di più di quanto fosse compatibile con la sua reputazione. Poco dopo il suo arrivo a Coketown, in un lettera al fratello, l'onorevole e faceto deputato, scrisse che i coniugi Bounderby erano proprio divertenti e che la Bounderby non era affatto la Gorgone che aveva temuto, anzi era giovane e proprio carina. Dopo di che non scrisse più niente sui Bounderby, ma dedicò tutto il suo tempo libero a casa Bounderby. Nei suoi andirivieni e spostamenti per tutta la circoscrizione di Coketown, gli capitava spesso di passare da quelle parti, e il signor Bounderby lo incoraggiava a fargli visita con grande calore. Da sbruffone qual era, gli piaceva vantarsi che a lui non importava nulla di avere contatti con gente altolocata, ma se sua moglie, la lia di Thomas Gradgrind, ci teneva molto, facesse pure.

Un po' alla volta, James Harthouse cominciò a pensare che sarebbe stata una sensazione nuova se quel volto, che era diventato così bello nel vedere il marmocchio, si fosse illuminato della stessa luce anche nel vedere lui.

Era un osservatore attento; aveva buona memoria e ricordava parola per parola quello che gli aveva detto Tom. Unendo quelle parole alle proprie osservazioni, Harthouse cominciò a capire Louisa. Sfuggiva, tuttavia, alla sua percezione la parte migliore, più profonda del carattere di Louisa - nessun dubbio su questo - per il semplice fatto che nel cuore umano, come nel mare, la profondità è in sintonia con la profondità. Quanto agli altri lati del suo carattere, invece, Harthouse cominciò a leggerli con l'occhio dello studioso.

Il signor Bounderby aveva acquistato una proprietà - casa e terreno - a circa quindici miglia da Coketown e a un paio di miglia dalla linea ferroviaria che correva su una serie di viadotti costruiti in una camna inselvatichita, sconvolta dalle trivellazioni per l'estrazione del carbone, punteggiata, di notte, dai fuochi e dalle sagome nere piantate all'entrata dei pozzi. Questo panorama si ingentiliva mano a mano che ci si avvicinava al ritiro del signor Bounderby, addolcendosi in un paesaggio campestre tutto d'oro per l'erica, spruzzato di bianco in primavera quando fioriva il biancospino, percorso dai fremiti delle foglie e dalle loro tremule ombre durante l'estate. Su questa tenuta, situata in un luogo tanto gradevole, l'antico proprietario, un magnate di Coketown, aveva acceso un'ipoteca a favore della Banca, e lo stesso magnate, deciso a imboccare una scorciatoia ancora più breve del solito per realizzare un enorme profitto, si era lanciato in speculazioni esponendosi per oltre duecentomila sterline. Incidenti che di tanto in tanto capitavano nelle migliori famiglie di Coketown, ma questo non voleva affatto dire che ci fosse qualche collegamento fra chi faceva bancarotta e la classe degli imprevidenti.

Bounderby aveva tratto grande soddisfazione all'idea di installarsi in quel tranquillo angolino e di mettersi a coltivare, con umiltà esemplare, cavoli nel giardino un tempo riservato ai fiori. Era deliziato di condurre una vita spartana in mezzo ad arredi tanto eleganti e perfino davanti ai quadri si pavoneggiava delle proprie umili origini. «Ebbene, signore», era solito dire ad ogni ospite, «mi hanno detto che Nickits - il vecchio proprietario - ha ato settecento sterline per quel paesaggio marino. Ora sarò franco con voi: se in tutta la vita gli darò sette occhiate, a cento sterline al colpo, be', è tutto quello che me ne farò. Perbacco! Non mi dimentico di essere Josiah Bounderby di Coketown, io! Per anni e anni gli unici quadri che ho avuto e che potevo avere, a meno che non mi mettessi a rubarli, erano le urine sulle bottiglie di lucido da scarpe - mostravano un uomo che si radeva specchiandosi in uno stivale - che io usavo, e ne ero contentissimo, per lustrare stivali. Poi le rivendevo vuote per un quarto di penny, contento come una pasqua di prendere tanto!».

Con lo stesso stile si rivolgeva a Harthouse.

«Harthouse, voi avete due cavalli qui. Portatene un'altra mezza dozzina, se vi va, e troveremo dove sistemarli. Ci sono scuderie nella proprietà per dodici cavalli e, se dobbiamo credergli, Nickits le teneva sempre piene. Una dozzina di cavalli, sissignore! Da ragazzo ha frequentato la Westminster School. Proprio lì andava, con i li dei re. Io, invece, vivevo mangiando quello che gli altri buttavano via e dormivo nelle ceste per la verdura. Be', se volessi tenere una dozzina di cavalli - non lo faccio perché mi basta averne uno - non sopporterei di vederli nelle loro stalle, pensando a come ero sistemato io. Non ce la farei a guardarli! Darei subito l'ordine di buttarli fuori! Così vanno le cose di questo mondo! Guardate questo posto. Voi sapete quel che è, sapete che non ne esiste un altro di queste dimensioni, uguale a questo, né qui né altrove - non mi importa dove - ed ecco che proprio in mezzo, come un verme in una mela, è venuto a viverci Josiah Bounderby. Intanto Nickits - me l'ha detto proprio ieri un tale che è venuto nel mio ufficio - Nickits, che era abituato a recitare in latino negli spettacoli messi in scena alla Westminster School, a essere applaudito dai giudici della Camera dei Lords e dai nobili che si scorticavano le mani a forza di batterle - in questo momento è un rottame, un vero rottame che sbava e gli gocciola il naso - che vive al quinto piano di una casa in un vicoletto buio di Anversa».

In questo ritiro, all'ombra degli alberi frondosi, nelle lunghe e afose giornate d'estate, Harthouse cominciò a scandagliare quel volto che aveva suscitato in lui tanta ammirazione, quando l'aveva visto per la prima volta, e a tentare di mutarne l'espressione nei suoi confronti.

«Signora Bounderby, ritengo una circostanza molto propizia trovarvi qui da sola. È da qualche tempo che provo il desiderio di parlarvi».

Non era affatto una coincidenza straordinaria che l'avesse trovata: a quell'ora Louisa era sempre sola, e quel luogo era l'angolo che prediligeva. Era una radura in un boschetto buio; alcuni alberi abbattuti giacevano al suolo. Qui Louisa era solita starsene a guardare le foglie cadute l'anno precedente con la stessa intensità con cui, a casa, aveva fissato la cenere che cadeva nel caminetto.

Harthouse le si sedette accanto, guardandola in viso.

«Vostro fratello. Il mio giovane amico Tom».

Louisa si ravvivò in volto e si volse a guardarlo con interesse. «In vita mia», pensò Harthouse, «non ho mai visto niente di così interessante e seducente come il mutamento che illumina questi lineamenti!». Il suo viso, che tradiva i suoi pensieri, forse non tradiva lui: probabilmente era suo intendimento che fosse così.

«Perdonatemi. L'espressione della vostra sollecitudine di sorella è incantevole - Tom dovrebbe esserne orgoglioso. Sono costretto ad ammirarvi, anche se so che è imperdonabile».

«Tanta impulsività», disse lei con molta compostezza.

«No, signora Bounderby, sapete che con voi non fingo. Sono uno spregevole esemplare di uomo - lo sapete - pronto a vendermi in qualsiasi momento, se l'offerta è ragionevole, incapace di comportarmi con grazia arcadica».

«Aspetto che mi parliate di mio fratello».

«Siete severa con me e lo merito. Scoprirete che, sì, sono spregevole, ma non falso, no, falso no. Avete risvegliato la mia curiosità e mi avete distratto dall'argomento che era appunto vostro fratello. Mi interesso a lui».

«Vi interessate a qualche cosa, signor Harthouse?», chiese in parte incredula, in parte riconoscente.

«Se mi aveste rivolto questa domanda la prima volta che sono venuto qui, vi avrei risposto di no. Ma adesso, anche a rischio di sembrarvi insincero e di suscitare fondatamente la vostra incredulità, vi dirò di sì».

Dopo aver fatto un lieve movimento come se volesse parlare, ma non riuscisse a trovare la voce per farlo, Louisa disse infine: «Signor Harthouse, vi credo quando affermate di interessarvi veramente a mio fratello».

«Grazie. Ho la presunzione di pensare che merito la vostra fiducia. Sapete che ho poche pretese, ma questa volta ne ho una. Avete fatto tanto per lui, gli siete tanto legata; tutta la vostra vita, signora Bounderby, attesta una così incantevole abnegazione verso di lui che Scusatemi, sto divagando di nuovo. Mi interesso a lui come persona, perché è lui».

Louisa aveva fatto un leggero movimento, appena percettibile, come per alzarsi in fretta e allontanarsi. Ma, proprio in quell'istante, Harthouse aveva cambiato l'argomento del suo discorso e lei rimase.

«Signora Bounderby», riprese in tono più fatuo di prima, dando però a vedere che gli costava un certo sforzo parlare con leggerezza, il che rendeva i suoi nuovi modi più intensi di quelli cui aveva rinunciato. «Non è un delitto imperdonabile se un giovane dell'età di vostro fratello è sventato, spensierato, se ha le mani bucate, se è un po' dissipato, come si suol dire. Tom è così, vero?».

«Sì?».

«Scusate la mia franchezza: gioca d'azzardo, secondo voi?».

«Credo che scommetta, sì». E siccome il signor Harthouse restava in attesa quasi la risposta non fosse completa, Louisa aggiunse: «Ne sono sicura».

«Naturalmente perde?».

«Sì».

«Tutti perdono. Mi è lecito supporre che gli abbiate dato del danaro a questo scopo?».

Louisa se ne stava seduta, con gli occhi bassi, ma, a questa domanda, alzò su di lui uno sguardo scrutatore, un po' risentito.

«Assolvetemi dall'accusa di curiosità importuna, cara signora Bounderby. Penso che Tom rischi di mettersi nei guai un po' alla volta, e dagli abissi della mia perversa esperienza desidero tendergli una mano. Devo ripetere che lo faccio per il suo bene? È necessario?».

Parve che Louisa cercasse di dire qualcosa, invece rimase in silenzio.

«Per confessare con candore quello che mi è passato per la mente», proseguì Harthouse riprendendo il consueto tono fatuo, ma dando a vedere, come aveva fatto prima, di esercitare un grande sforzo su se stesso, «vi confiderò un mio dubbio: non credo che vostro fratello abbia avuto molti vantaggi nella vita. Il vantaggio, ad esempio - perdonate la mia franchezza - di una profonda intesa tra lui e il suo degnissimo padre».

«Penso che non l'abbia mai avuto», disse Louisa, arrossendo al ricordo della propria esperienza.

«Oppure - sono certo che capirete il significato esatto delle mie parole - il vantaggio di un'intesa con il suo degnissimo cognato».

Louisa arrossì ancor di più e, quando rispose con voce ancora più sommessa: «Penso che non abbia mai avuto neppure questo», aveva il viso in fiamme.

«Signora Bounderby», riprese Harthouse dopo un breve silenzio, «credete che potrebbe esserci maggiore intesa fra voi e me? Tom vi ha chiesto in prestito un importo rilevante?».

«Cercate di capire, signor Harthouse», rispose Louisa dopo un attimo di incertezza - nel corso di quella conversazione era apparsa turbata e perplessa in vario grado, ma nell'insieme aveva mantenuto il suo atteggiamento composto e riservato -, «cercate di capire che, se rispondo a quanto mi chiedete con insistenza, non è per lamentarmi o per recriminare. Non mi lamento di nulla e non recrimino per quello che ho fatto».

«È persino coraggiosa!», pensò Harthouse.

«Al tempo del mio matrimonio ho scoperto che mio fratello già allora era gravemente indebitato. Gravemente per lui, si capisce. Abbastanza da costringermi a vendere dei piccoli gioielli. Non è stato un sacrificio; li ho venduti molto volentieri. Non avevano alcun valore per me. Assolutamente insignificanti».

Forse dall'espressione che ve sul volto di Harthouse, Louisa intuì che lui sapeva trattarsi di regali del marito, o forse soltanto temette che lui lo sapesse. Si interruppe e arrossì di nuovo. Se anche Harthouse fosse stato assai meno perspicace di quello che era e non fosse stato già al corrente, in quel momento avrebbe intuito la verità.

«Da allora, ho dato a mio fratello a più riprese, tutto il danaro che riuscivo a racimolare, in breve tutto il danaro che avevo. Poiché credo all'interesse che dichiarate di nutrire per lui e ho fiducia in voi, non dirò le cose a metà. Da quando avete preso l'abitudine di farci visita, mio fratello mi ha chiesto qualcosa come cento sterline. Non ho potuto dargliele. Sono molto in ansia per le conseguenze che possono derivare da impegni così rilevanti, ma fino ad ora ho tenuto il segreto e lo affido al vostro onore. Non mi sono confidata con nessuno perché avete già esposto i motivi poco fa». Si interruppe bruscamente.

Harthouse era un uomo molto lesto: vide che gli si offriva l'occasione di presentarle un'immagine di se stesso, appena mascherata dietro quella del fratello, e non se la lasciò sfuggire.

«Signora Bounderby, benché io sia una persona priva di garbo, esperta del mondo, provo vivissimo interesse per quello che dite, siatene certa. Mi è assolutamente impossibile essere severo con vostro fratello. Capisco e condivido la saggezza con la quale giudicate i suoi errori. Con tutto il rispetto che porto al signor Gradgrind e al signor Bounderby, mi sembra di intuire che il giovane Tom non sia stato molto fortunato per quanto riguarda l'educazione che gli è stata impartita. Allevato in modo inadeguato per affrontare la società in cui gli si chiede di fare la sua parte, vostro fratello di slancio si butta in situazioni estreme, che sono esattamente l'opposto di quei principi che - pur con le migliori intenzioni del mondo - gli sono stati inculcati a forza. La libertà di modi del signor Bounderby, così genuina, così schietta, così tipicamente inglese, se in lui è una qualità affascinante, non invita però - ne conveniamo - alla confidenza. Se potessi azzardarmi a dire che al mondo non scarseggia certo quella sensibilità cui dovrebbe rivolgersi, per trovare conforto e guida, un giovane che ha sbagliato, un carattere fuorviato e un'intelligenza male indirizzata, esprimerei quello che vedo sotto i miei occhi».

Louisa rimase seduta con lo sguardo davanti a sé, fissando, attraverso le mutevoli luci che cadevano sull'erba, l'oscurità del bosco, e Harthouse capì dall'espressione di quel volto come lei interpretasse le sue parole, pronunciate con tanta chiarezza.

«Vanno riconosciute a Tom tutte le attenuanti», proseguì, «ma c'è una mancanza che ha commesso, una mancanza che non posso perdonargli e di cui dovrà rispondere».

Louisa alzò lo sguardo su di lui e gli chiese quale fosse questa mancanza.

«Forse ho parlato troppo; forse sarebbe stato meglio se non mi fossi lasciato sfuggire questo accenno».

«Mi mettete in ansia, signor Harthouse. Per favore, ditemi di che si tratta».

«Per sollevarvi da una inutile apprensione - poiché, nei confronti di vostro fratello, si è stabilita fra noi questa confidenza, che io apprezzo più di ogni altra cosa - obbedirò. Non gli perdono di non essere più attento e sensibile, in ogni sua parola, gesto, sguardo, all'affetto della sua migliore amica, alla devozione, all'abnegazione, al sacrificio della sua migliore amica. Il giovane Tom dà ben poco in cambio, a quanto ho potuto vedere. Ciò che lei ha fatto e fa per lui merita affetto e gratitudine eterna, non già malumore e bizzarie. Per quanto io sia noncurante, signora Bounderby, non sono così indifferente da passar sopra a questo difetto e non sono disposto a considerarlo un peccato veniale».

Il bosco le fluttuava davanti agli occhi velati di lacrime. Scaturivano da una sorgente profonda, tenuta a lungo nascosta, e il suo cuore traboccava di un dolore acuto che non trovava sollievo nel pianto.

«In breve, correggere questo lato del carattere di vostro fratello è quanto mi propongo. L'esperienza, più ampia della sua, che ho dei problemi nei quali si dibatte, la guida e i consigli per districarsene - preziosi entrambi, spero, perché provengono da uno sciagurato molto peggiore - mi daranno una certa influenza su di lui, che intendo sfruttare a questo fine. Ho parlato molto, anzi troppo. Mi sembra di starmene qui a protestare che sono uno stinco di santo, mentre, sul mio onore, non ho la minima intenzione di dichiararmi tale, anzi a chiare lettere proclamo di non esserlo affatto». Sollevò lo sguardo e lo volse intorno, perché fino a quel momento aveva tenuto gli occhi fissi su di lei. «Laggiù tra gli alberi», aggiunse, «c'è proprio vostro fratello. Senza dubbio, è appena arrivato. Mi sembra che venga gironzolando in questa direzione; tanto vale che gli andiamo incontro e ci mettiamo sulla sua strada. Da qualche tempo è silenzioso e malinconico. Forse si sente punto nella sua coscienza di fratello, se esiste una cosa che si chiama coscienza. Parola d'onore, ne sento parlare troppo spesso per crederci».

L'aiutò ad alzarsi; Louisa si appoggiò al suo braccio e si avviarono incontro al marmocchio. Avanzava a passo lento battendo pigramente i rami; a volte si chinava per strappare con il bastone, dispettosamente, il muschio dagli alberi. Trasalì quando gli altri lo raggiunsero mentre lui era intento a trastullarsi in questo modo, e il suo viso mutò colore.

«Ehilà!», balbettò. «Non sapevo che foste qui».

«Stavate incidendo il nome di qualcuno sugli alberi, Tom?», chiese il signor Harthouse, mettendogli una mano sulla spalla e facendolo girare in modo che insieme, tutti e tre, si avviarono verso casa.

«Nome? Oh! Volete dire il nome di qualche ragazza?».

«Avete proprio l'aria furtiva di chi si mette a incidere sulla corteccia il nome di una bella creatura, Tom».

«Niente del genere, signor Harthouse, a meno che qualche bella creatura con un patrimonio da mozzare il fiato non si incapricci di me. Ma potrebbe anche essere tanto brutta quanto ricca, e non mi perderebbe comunque. Inciderei il suo nome tutte le volte che vuole».

«Siete venale, Tom».

«Venale? E chi non lo è? Chiedete a mia sorella».

«Così hai dimostrato che questo è il mio difetto, Tom?», intervenne lei, senza dar segno di aver notato il suo malumore e la sua perfidia.

«Lou, sei tu che devi dire se ci stai stretta o no in questi abiti. Se ti trovi bene, continua pure», replicò Tom con aria imbronciata.

«Oggi Tom è misantropo, come talvolta succede alle persone che si annoiano. Non dategli retta, signora Bounderby! Tom non crede alle cose che ha detto. Se non la smette, vi rivelerò alcune sue opinioni su di voi, che mi ha confidato una volta che ci siamo trovati a tu per tu».

«Non potete però dire che i miei elogi andavano alla sua venalità», rispose Tom in tono reso più pacato dall'ammirazione che provava per il suo mentore, ma continuando a scuotere il capo con aria tetra. «Può darsi che l'abbia lodata per essere esattamente il contrario di venale, e lo farei ancora, se ne avessi motivo. Ad ogni modo, basta con questo argomento: non interessa voi, e io ne ho abbastanza».

Giunsero a casa; Louisa lasciò il braccio dell'ospite ed entrò. Harthouse rimase a guardarla mentre saliva i gradini e si immergeva nell'ombra oltre la porta; poi mise la mano sulla spalla di Tom e con un cenno di intesa lo invitò a fare una passeggiata in giardino.

«Voglio parlarvi, Tom, amico mio».

Si fermarono in mezzo a cespugli disordinati di rose - faceva parte dell'umiltà del signor Bounderby conservare su scala ridotta le rose di Nickits. Tom, seduto sul parapetto del pergolato, cominciò a strappare e a fare a pezzi i boccioli; il suo influente amico, accanto a lui, con un piede sul parapetto, appoggiandosi con aria languida sul braccio puntato sul ginocchio, lo guardava dall'alto della sua statura. Erano visibili dalla finestra di Louisa.

Forse lei li intravide.

«Tom, che succede?».

«Oh, signor Harthouse! Sono al verde e sono stufo della vita che faccio», rispose Tom con un gemito.

«Anch'io lo sono, amico mio».

«Voi! Ma se siete il ritratto dell'indipendenza! Signor Harthouse, sono in un brutto pasticcio. Non avete idea in quali guai mi sia cacciato da quali guai mia sorella, se solo avesse voluto, avrebbe potuto tirarmi fuori».

Si mise a mordere i boccioli di rosa e a strapparseli dai denti con una mano tremante come quella di un vecchio invalido. Il suo comno lo osservò, scrutandolo con somma attenzione, per riprendere subito dopo la sua aria di fatua indolenza.

«Tom, siete uno sconsiderato; vi aspettate troppo da vostra sorella. Avete già avuto danaro da lei, briccone, lo sapete».

«Lo so, signor Harthouse, lo so. Come avrei potuto procurarmelo altrimenti? Ecco il vecchio Bounderby che non fa altro che urlare ai quattro venti che lui, alla mia età, viveva con due penny al mese o qualcosa del genere. Ecco mio padre che mi fa rigar dritto per la mia strada, come dice lui, e mi tien legato, mani e piedi, fin da quando ero in culla. Ecco mia madre, che, salvo le lamentele, non ha mai avuto niente di suo. Che deve fare uno per avere un po' di soldi, e a chi devo chiederli se non a mia sorella?».

Quasi sull'orlo delle lacrime, buttò tutto intorno, a dozzine, i boccioli di rosa. Con aria persuasiva il signor Harthouse lo prese per la giacca.

«Ma, caro Tom, se vostra sorella non ne ha ».

«Non ne ha, signor Harthouse? Non dico che ne abbia. Forse le ho chiesto più di quanto lei probabilmente possedeva, ma sta a lei procurarselo. Ci riuscirebbe. Dopo quello che vi ho raccontato, inutile fingere di voler tener segreta la cosa: lei non ha sposato il vecchio Bounderby per far piacere a lui, né per far piacere a se stessa, ma per far piacere a me. E allora, perché, per far piacere a me, non si fa dare quello che mi serve? Non è tenuta a dirgli che cosa ne fa dei soldi; è abbastanza sveglia per non farlo. Con le buone maniere potrebbe spillargli un po' di quattrini, se volesse. Perché non lo fa allora, quando le dico che per me è di estrema importanza avere quei soldi? Ma no, se ne sta seduta vicino a lui, gelida come un pezzo di marmo, invece di mostrarsi più dolce e ottenere facilmente il danaro. Non so come voi definite un comportamento del genere; io lo chiamo contro natura».

Proprio sotto il parapetto, sul lato opposto, c'era una vasca ornamentale, in cui il signor James Harthouse avrebbe volentieri buttato il signor Thomas Gradgrind Junior, proprio come gli oltraggiati signori di Coketown minacciavano di fare con i loro beni, quando dicevano di volerli buttare nell'Atlantico. Riuscì, tuttavia, a conservare il suo atteggiamento noncurante, e, al di sopra del parapetto di pietra, volò soltanto una manciata di boccioli che ora si lasciavano cullare sull'acqua come isolette galleggianti.

«Mio caro Tom, permettetemi di farvi da banchiere», disse Harthouse.

«Per amor del cielo, non parlatemi di banchieri!», esclamò Tom prontamente. Era pallidissimo, in contrasto con le rose. Molto pallido.

Al signor Harthouse, da persona ben educata qual era, abituata alla migliore società, non era lecito mostrarsi stupito - sarebbe stato ancor peggio che mostrarsi commosso. Si limitò ad alzare le sopracciglia, come se a sollevarle fosse stata una fuggevole sorpresa. Provare stupore era contrario ai precetti della sua scuola, nella stessa misura in cui usare l'immaginazione era contrario alle dottrine di Gradgrind.

«Quanto vi serve in questo momento, Tom? Un numero di tre cifre? Fuori. Ditemi quant'è!».

«Signor Harthouse, è troppo tardi; i soldi non mi servono più ormai. Avrei dovuto averli prima, per poterli utilizzare. Ma vi sono molto obbligato; siete un vero amico», rispose Tom che, adesso, piangeva davvero, e, per quanto fosse umiliante la ura che faceva, le lacrime erano pur sempre meglio delle parole ingiuriose.

Un vero amico! «Marmocchio, marmocchio, sei proprio uno stupido!», pensò il signor Harthouse.

«Considero la vostra offerta un gesto molto gentile», disse Tom afferrandogli la mano. «Davvero un gesto molto gentile».

«Forse vi sarà utile più in futuro», rispose l'altro. «Amico mio, se mi confiderete i vostri dispiaceri quando vi si addensano sopra la testa, chissà che non riesca a mostrarvi alcune vie d'uscita, migliori di quelle che potreste trovare voi».

«Grazie», disse Tom, scuotendo la testa con aria scoraggiata, continuando a masticare boccioli. «Magari vi avessi conosciuto prima, signor Harthouse!».

«Vedete, Tom», disse Harthouse a mo' di conclusione, buttando anche lui, oltre il parapetto, alcune rose per contribuire a formare quell'isoletta che si lasciava spingere verso il bordo della vasca, quasi desiderasse saldarsi alla terraferma, «in tutto quello che fanno, gli uomini sono egoisti, ed io sono esattamente come gli altri. Io mi sono impegnato fino allo spasimo» - la mollezza del suo spasimo aveva languori tropicali - «perché vi comportiate con maggior gentilezza verso vostra sorella - il che è vostro dovere fare - e perché nei suoi confronti vi dimostriate un fratello affettuoso e amabile - il che è vostro dovere essere».

«Ve lo prometto, signor Harthouse».

«Subito è sempre il momento migliore, Tom. Cominciate adesso».

«Lo farò. E mia sorella Lou ve lo confermerà».

«Adesso che abbiamo concluso questo patto, ci lasceremo fino all'ora di cena», disse Harthouse, battendogli ancora la mano sulla spalla, con un'aria che lasciava Tom libero di dedurre - e lui ci cascò, povero sciocco! - che l'obbligo impostogli era dettato da autentica, noncurante generosità, diretta ad attenuare in lui il senso di un debito di riconoscenza.

Tom si fece vedere prima di cena e, benché la sua mente sembrasse occupata in tristi pensieri, il suo corpo era vigile. Si fece vedere prima che arrivasse Bounderby e, tendendo la mano a Louisa e dandole un bacio, disse: «Non volevo essere cattivo. Lo so che mi vuoi bene e tu sai che io voglio bene a te».

Dopo queste parole, sul volto di Louisa ve un sorriso, un sorriso per qualcun altro. Ahimè, per qualcun altro!

«Il marmocchio è l'unico essere che le stia a cuore, più o meno», pensò James Harthouse, ribaltando il giudizio che si era formato il primo giorno, quando aveva visto il suo bel visino. «Più o meno, più o meno».

VIII

. ESPLOSIONE

La mattina successiva era una mattina troppo luminosa per starsene a letto, e James Harthouse, alzatosi di buon'ora, si sedette nel vano della finestra del suo comodo spogliatoio, fumando quella rara marca di tabacco che aveva esercitato un'influenza così pervasiva sul suo giovane amico. Abbandonandosi alla carezza del sole, mentre la fragranza della miscela orientale si diffondeva tutto intorno a lui e nell'aria resa greve e molle dai profumi dell'estate, si dissolveva quel fumo apportatore di sogni, Harthouse, simile a un giocatore quando conta l'ammontare delle sue vincite, calcolò quanti punti aveva segnato a suo favore. Non si era ancora annoiato e poteva dedicare i suoi pensieri a quella storia.

Aveva stabilito con lei un'intesa confidenziale dalla quale era escluso il marito. Aveva stabilito con lei un'intesa che aveva per fulcro l'indifferenza verso il marito e la totale mancanza - in quel momento e sempre - di una qualsiasi affinità con lui. Con molta abilità, ma anche con grande chiarezza, le aveva fatto capire di conoscere il suo cuore nei più intimi recessi; facendo leva sull'affetto più tenero che vi albergava, si era avvicinato a lei; aveva stretto alleanza con quel sentimento, e la barriera, dietro la quale lei si era trincerata, si era disintegrata. Tutto molto strano e molto soddisfacente!

Neppure in quel momento, tuttavia, c'era in Harthouse una decisa, vigorosa malvagità. Data l'epoca in cui si trovava a vivere, sarebbe stato meglio - non solo nella vita pubblica, ma anche in quella privata - se gli uomini come lui fossero stati decisamente cattivi, anziché indifferenti e privi di scopo. Sono gli iceberg che vagano trascinati dalle correnti a far naufragare le navi. Quando il Demonio si aggira feroce come un leone ruggente, ben pochi - salvo i selvaggi e i cacciatori - rimangono affascinati da quel sembiante. Ma quando il Maligno si presenta tutto azzimato, acconciato, curato, all'ultima moda; quando è annoiato dal vizio e annoiato dalla virtù, perché entrambi sono logori e sorpassati come abiti smessi - antiquato lo zolfo della dannazione, antiquata la beatitudine paradisiaca - allora sia che ricorra alle lungaggini burocratiche, sia che si metta ad attizzare incendi - allora, sì, è veramente il Demonio.

Ed ecco James Harthouse comodamente seduto accanto alla finestra, intento a fumare con aria svagata e a rimodulare i passi compiuti lungo la strada che gli capitava di percorrere. La meta del suo viaggio gli si profilava con grande chiarezza davanti agli occhi, ma non aveva voglia di mettersi a fare pronostici. Sarà quel che sarà!

Poiché quel giorno aveva un lungo tratto da percorrere a cavallo - una cerimonia ufficiale «da fare» in una località piuttosto lontana, il che gli offriva l'occasione di darsi da fare per gli uomini di Gradgrind - si preparò sul presto e scese per la colazione. Era ansioso di sapere se, dopo la sera precedente, lei fosse tornata al suo consueto contegno distaccato. No. Harthouse riprese dal punto in cui aveva smesso. Ci fu un altro sguardo di interesse per lui.

La giornata di Harthouse trascorse arrecandogli quel tanto (o quel poco) di soddisfazione che poteva aspettarsi di ricavare in quelle faticose circostanze, e alle sei fu di ritorno. C'era circa mezzo miglio di distanza fra la portineria e la casa, e lui, a cavallo, procedeva quasi a passo d'uomo sulla ghiaia ben levigata del viale che un tempo era stato di Nickits, quando, fuori dai cespugli, sbucò all'improvviso il signor Bounderby, irrompendo con tanto impeto che il cavallo fece uno scarto fino sul ciglio del viale.

«Harthouse!», gridò Bounderby. «Avete saputo?».

«Saputo che cosa?», chiese l'altro, cercando di calmare il cavallo e, dentro di sé, inviando all'indirizzo del signor Bounderby degli auguri che non erano esattamente di buona salute.

«Allora non avete sentito niente!».

«Ho sentito voi e anche il mio cavallo vi ha sentito. Nient'altro».

Il signor Bounderby, paonazzo e agitatissimo, si piazzò nel mezzo del viale, davanti alla testa del cavallo per far esplodere la sua bomba con ancora più effetto.

«Hanno svaligiato la Banca!».

«Volete scherzare?».

«Svaligiata ieri notte. Svaligiata in un modo che ha dell'incredibile. Svaligiata con una chiave falsa».

«Di quanto?».

«Oh, i soldi in sé - se proprio volete saperlo non sono più di centocinquanta sterline», disse Bounderby con impazienza. «Ma non è l'importo, è il fatto. Il fatto che la banca sia stata svaligiata: è questo che conta. Mi sorprende che non ve ne rendiate conto».

«Mio caro Bounderby», disse James, smontando da cavallo e porgendo le briglie al domestico, «ci penso eccome! E la sorpresa che suscita in me l'evento quale si offre alla mia riflessione è all'altezza dei vostri desideri. Tuttavia confido che mi sia lecito congratularmi con voi - il che, vi assicuro, faccio di tutto cuore - per non aver subito un danno più cospicuo».

«Grazie», replicò Bounderby in modo brusco e rude, «ma voglio dirvi una cosa: avrebbero potuto essere ventimila sterline».

«Suppongo di sì».

«Supponete di sì! Per Dio, potete proprio supporlo! Per Giove!», tuonò Bounderby con aria minacciosa. «Avrebbero potuto essere due volte ventimila. Non è possibile sapere quanto sarebbe stato o non sarebbe stato, per così dire, se quei tali non fossero stati disturbati».

Erano nel frattempo sopraggiunte Louisa, la signora Sparsit e Bitzer.

«Ecco qui la lia di Tom Gradgrind! Lei, sì, che si rende conto di quello che avrebbe potuto essere, se non ve ne rendete conto voi!», tuonò Bounderby. «Crollata come se le avessero sparato, quando gliel'ho detto! Mai vista prima fare una cosa simile. In una situazione del genere le fa onore, secondo me».

Appariva ancora debole e pallida. James Harthouse la pregò di appoggiarsi al suo braccio e, mentre procedevano a passo molto lento, le chiese come era stato commesso il furto.

«Perbacco, ve lo dirò io», brontolò Bounderby, offrendo il braccio con aria irritata alla signora Sparsit. «Se non mi aveste chiesto tutti quei particolari sui soldi, avrei già cominciato a dirvelo. Conoscete questa signora (lei è una vera dama), la signora Sparsit ».

«Ho già avuto l'onore ».

«Molto bene. E questo giovanotto, Bitzer, avete conosciuto anche lui nella stessa occasione?». Il signor Harthouse fece un segno di assenso con la testa, e Bitzer si toccò la fronte con le nocche della mano.

«Molto bene. Loro abitano nella Banca. Lo sapete già che abitano lì? Molto bene. Ieri pomeriggio, all'ora di chiusura degli uffici, hanno riposto tutto, come al solito. Nella stanza blindata - questo giovanotto ci dorme davanti - c'era non importa quanto. Nella stanzetta dove lavora il giovane Tom, c'è una piccola cassaforte - ci mettiamo quel tanto che serve per far fronte a piccoli impegni - e dentro c'erano centocinquanta sterline, più o meno».

«Centocinquantaquattro sterline, sette scellini e un penny», precisò Bitzer.

«Avanti! Piantala di interrompermi!», sbottò Bounderby con un rapido cambiamento d'umore. «Ne ho già d'avanzo di venir derubato, mentre tu te ne stai comodamente a russare, senza che debba correggermi con le tue quattro sterline, sette scellini e un penny. Alla tua età, io non russavo, lascia che te lo dica! Non avevo abbastanza da mettere sotto i denti per russare. Non stavo lì a mettere i puntini sulle 'i'. No, neanche se mi capitava l'occasione».

Bitzer si portò di nuovo le nocche alla fronte con strisciante umiltà e parve molto impressionato e abbattuto da quell'ultimo esempio di astinenza morale citato da Bounderby.

«Centocinquanta sterline, più o meno», riprese Bounderby, «proprio la somma che il giovane Tom aveva messo nella sua cassaforte, non una cassaforte molto solida, ma ormai che importanza ha? Tutto era stato lasciato in ordine. A un certo momento della notte, mentre questo giovanotto qui russava Signora Sparsit, signora, voi dichiarate di averlo sentito russare?».

«Signore, non posso dichiarare di averlo sentito precisamente russare e quindi è un'affermazione che non mi è lecito rilasciare. Ma, nelle notti d'inverno, quando si addormentava al suo tavolo, l'ho sentito emettere un rumore simile al gorgoglio di chi rimane strozzato, sì, questa è una definizione più corretta. In queste occasioni, l'ho sentito produrre suoni di tal natura quali vengono a volte emessi dagli orologi olandesi. Non che voglia formulare una qualsiasi accusa circa le sue qualità morali», aggiunse la signora Sparsit con l'altera consapevolezza di fornire una testimonianza rigorosamente impeccabile. «Lungi da ciò. Ho sempre considerato Bitzer un giovane di ottimi principi e su questo chiedo di poter deporre».

«Bene!», sbottò Bounderby esasperato, «mentre lui russava oppure faceva rumori strozzati oppure emetteva suoni come un orologio olandese oppure chissà che altro, - insomma mentre dormiva beato - dei tizi, che forse si erano già nascosti in casa o forse no, questo resta da vedere, sono arrivati alla cassaforte del giovane Tom, l'hanno forzata e hanno portato via quello che c'era dentro. Poi sono stati disturbati e allora se la sono filata: sono usciti dalla porta principale e l'hanno richiusa a doppia mandata (era chiusa a doppia mandata e la chiave la tiene la signora Sparsit sotto il cuscino) con una chiave falsa che è stata trovata in una strada vicino alla banca, oggi, verso mezzogiorno. Non viene dato l'allarme fino a che non e questo giovanotto stamattina e comincia ad aprire e a preparare gli uffici per il lavoro. Guarda la cassaforte di Tom, vede lo sportello socchiuso, la serratura forzata, si accorge che il danaro è sparito».

«Dov'è Tom, a proposito?», chiese Harthouse dando un'occhiata in giro.

«È rimasto alla banca ad aiutare la polizia», spiegò Bounderby. «Ah, se soltanto questi tizi avessero cercato di derubarmi quando avevo la sua età. Ci avrebbero rimesso, anche se nell'impresa avessero investito pochi centesimi, state sicuri!».

«Ci sono dei sospetti?».

«Sospetti? Diamine, certo che si hanno dei sospetti!», disse Bounderby, lasciando il braccio della signora Sparsit per asciugarsi la fronte madida di sudore. «Non si darà mai che Josiah Bounderby di Coketown venga derubato senza che si sospetti di qualcuno! No, grazie tante!».

Era consentito al signor Harthouse chiedere su chi ricadevano i sospetti?

«Be'», cominciò Bounderby fermandosi e voltandosi in modo da averli tutti di fronte, «vi dirò io una cosa. Non se ne deve parlare per nessun motivo, in nessun posto; non bisogna fiatare: i delinquenti implicati (si tratta di una banda) non devono essere messi sull'avviso. Perciò vi parlo in confidenza. Aspettate un momento» - il signor Bounderby si deterse di nuovo la fronte - «Che ne direste» - a questo punto esplose con violenza - «se di mezzo ci fosse anche un operaio?».

«Spero che non si tratti del nostro amico Blackpot?», fece Harthouse con aria indolente.

«Dite Blackpool invece di Blackpot, ed ecco il nostro uomo, sissignore», rispose Bounderby.

Con voce debole Louisa disse qualche parola di incredulità e meraviglia.

«Oh, sì! Lo so, lo so!», esplose Bounderby cogliendo al volo l'occasione. «Ci sono abituato. So tutto quel che c'è da sapere! La più brava gente del mondo, quegli individui! Nati per blaterare, ecco cosa fanno! Vogliono solo sapere i diritti che hanno, questo vogliono! Ma vi dirò una cosa. Mostratemi un operaio scontento, e io vi mostrerò un uomo pronto a combinarne di tutti i colori».

Era questa un'altra storiella che qualcuno si era preso la briga di mettere in giro a Coketown, e c'era gente che ci credeva davvero.

«Ma io li conosco, questi qui. Riesco a leggere in loro come in un libro aperto. Signora Sparsit, mi siete testimone. È vero, sì o no, che io, quel tipo, l'ho avvertito, la prima volta che ha messo piede a casa mia? Era venuto con la chiara intenzione di prendere a pugni la Religione e di mettere al tappeto la Chiesa. Signora Sparsit, voi che, quanto a parentele siete alla pari degli aristocratici, gliel'ho detto o non gliel'ho detto a quel tizio: 'Non credere di potermi raccontare storie; non mi piaci; andrai a finir male.'?».

«Certamente, signore, lo avete così ammonito, con grande efficacia e calore», confermò la signora Sparsit.

«È stato quando lui vi ha sconvolta, signora, quando ha offeso i vostri sentimenti?».

«Sì, signore», asserì la signora con un mesto cenno del capo, «mi ha profondamente turbata. Con questo voglio dire soltanto che, quando si toccano certi argomenti, mi sento più fragile - più sciocca, se preferite - di quanto sarei stata se nella vita il mio rango sociale fosse sempre stato quello che è ora».

Il signor Bounderby si gonfiò tutto d'orgoglio come a dire: «Sono io il padrone di questa femmina che è ben degna della vostra attenzione, spero». Poi riprese il filo del suo discorso.

«Anche voi, Harthouse, vi ricorderete quello che gli ho detto la volta che lo avete incontrato. Non sono il tipo che a quella gente le cose le manda a dire, io; io gliele canto chiaro e tondo. Io li CONOSCO. E molto bene, sissignore. Tre giorni dopo lui se l'è svignata. Sparito, nessuno sa dove. Come mia madre, quando ero bambino; con questa differenza: che lui è anche peggio di mia madre, se possibile. E cosa ha fatto prima di tagliar la corda? Che ne dite», e qui il signor Bounderby, con il cappello in mano, si mise a scandire le frasi, dando a ogni interruzione un colpo sul cucuzzolo, come se fosse un tamburello, «del fatto che è stato visto - sera dopo sera - a sorvegliare la banca? - del fatto che gironzolava là intorno - quando era già buio? - del fatto che ha dato nell'occhio alla signora Sparsit - la quale ha concluso che non si aggirava lì per combinare qualcosa di buono? - del fatto che lei l'ha fatto notare a Bitzer - e che insieme sono stati a tenerlo d'occhio - e che anche i vicini l'hanno notato, come è risultato oggi all'inchiesta?». Arrivato al punto culminante del suo racconto, il signor Bounderby, come una danzatrice orientale, si mise in testa il tamburello.

«Sospetto, certamente, molto sospetto», convenne James Harthouse.

«Potete ben dirlo, signore, potete ben dirlo», proseguì Bounderby con aria di sfida. Ma c'è di mezzo anche altra gente. C'è coinvolta una vecchia. Queste sono cose che si vengono a sapere solo dopo che il pasticcio è accaduto; solo dopo che i buoi sono stati rubati, saltano fuori i difetti che aveva la porta della stalla. Ecco che adesso c'è anche una vecchia. Una vecchia che, pare, viene in città a cavallo di un manico di scopa ogni tanto. Lei tiene d'occhio il posto per una giornata intera, poi comincia lui; la sera in cui lo avete conosciuto, sono filati via insieme e hanno tenuto conciliabolo probabilmente gli avrà spiegato tutto, prima di smontare dal suo turno di lavoro, accidenti a lei!».

Quella sera nella stanza di Blackpool c'era una persona che corrispondeva alla descrizione e che cercava di restare nell'ombra, pensò Louisa.

«Non sono tutti, anche se li conosciamo già», disse Bounderby, assentendo con la testa in cenni pieni di sottinteso. «Ma per il momento ho detto quel che basta. Abbiate la bontà di tenere tutto per voi, e di non parlarne con nessuno. Forse ci vorrà del tempo, ma li prenderemo. È una tattica quella di dar loro corda, e su questo niente da obiettare».

«E naturalmente saranno puniti con il massimo rigore, come stabiliscono le norme», replicò James Harthouse, «e servirà loro di lezione. Quelli che si mettono in testa di derubar le banche, devono sopportarne le conseguenze». Con squisita cortesia aveva tolto di mano a Louisa il parasole e glielo aveva aperto, ed ora lei camminava al riparo dell'ombrellino, sebbene non ci fosse il sole.

«Nel frattempo, Lou Bounderby», le disse il marito, «c'è da badare alla signora Sparsit. Ha i nervi scossi per questa faccenda e si fermerà da noi un giorno o due. Perciò fa' in modo che si trovi a suo agio».

«Grazie, signore», osservò con discrezione quella gentildonna, «ma, vi prego, non fate sì che tanto generosa ospitalità sia per voi motivo di eccessiva sollecitudine. Mi andrà tutto bene».

Fu ben presto evidente che, se mai si poteva trovare un difetto nella signora Sparsit per come si comportava nell'ambito dell'organizzazione domestica di casa Bounderby, era quello di aver troppo pochi riguardi per se stessa e troppi riguardi per gli altri, al punto da rendersi spesso insopportabile.

Quando fu condotta nella sua stanza, si dimostrò così profondamente rispettosa delle comodità che aveva da offrirle, da rendere l'interlocutore libero di dedurre che lei avrebbe preferito passar la notte sul mangano nella lavanderia. Vero: i Powler e gli Scadgers erano entrambe famiglie avvezze allo splendore e al lusso, «ma è mio dovere ricordare» amava far notare la signora Sparsit con una grazia piena di sussiego - soprattutto se qualcuno dei domestici era presente - «che non sono più quella che ero. Se, invero, fosse in mio potere cancellare del tutto il ricordo che il signor Sparsit fu un Powler e che io stessa sono imparentata con gli Scadgers, o se fosse in mio potere annullare perfino questo dato di fatto e diventare una persona di modesta estrazione sociale imparentata con gente umile, me ne rallegrerei vivamente. Anzi nella attuale situazione, riterrei doveroso farlo». Questo rigore da eremita la indusse a rifiutare alcune portate e a rinunciare ai vini durante la cena fino a che il signor Bounderby non le impose in modo esplicito di servirsene: al quale ordine lei si adeguò con un «siete davvero molto buono, signore», trasgredendo così la risoluzione che aveva annunciato pubblicamente, in termini formali, «di voler soltanto montone». Allo stesso modo, si sprofondò in scuse ogni volta che chiedeva il sale e, sentendosi moralmente obbligata a dare piena ragione al signor Bounderby circa il fatto che i suoi nervi erano scossi, si abbandonò, un paio di volte, sulla sedia, mettendosi a piangere sommessamente. In quei momenti si poteva notare (o, meglio, si doveva notare, perché era lì proprio per essere notato da tutti), un lacrimone, grosso come un orecchino di cristallo, che scivolava lungo il naso romano.

Ma il suo chiodo fisso rimase quello di compatire il signor Bounderby. C'erano dei momenti in cui, guardandolo, era involontariamente portata a scuotere la testa, come a dire: «Ahimè! Povero Yorick!». E, dopo essersi lasciata andare a queste manifestazioni emotive, si costringeva a guizzi di vivacità e di improvvisa allegria: «Siete ancora di buon umore, signore! Mi fa tanto piacere constatarlo», esclamava allora e aveva l'aria di accogliere come una grazia divina il fatto che il signor Bounderby sopportasse tutto così bene. Aveva il vezzo di rivolgersi alla signora Bounderby dicendo «signorina Gradgrind» - non le riusciva di correggersi tanto che si sprofondava in scuse ogni volta che ci ricadeva - e, nel corso della serata, cedette a tale inclinazione diecine e diecine di volte. Tutte le volte che incorreva in questo errore, il che le capitava in continuazione, la signora Sparsit restava sempre un po' confusa: le sembrava così naturale dire «signorina Gradgrind», affermava per giustificarsi, mentre le era quasi impossibile convincersi che la giovane donna, che conosceva fin da quando era bambina, fosse veramente la signora Bounderby. Un altro lato quanto mai singolare di quella situazione così straordinaria era che più ci pensava più le pareva impossibile: «Erano così diversi», osservava.

Quella sera, in salotto, dopo cena, Bounderby istruì e celebrò il processo per il furto: interrogò i testimoni, valutò le prove, concluse che i sospettati erano colpevoli e li condannò tutti alle pene più severe previste dalla legge. Fatto ciò, Bitzer fu mandato in città con il compito di convincere Tom a prendere il treno postale e tornare a casa.

Quando furono portate le candele, la signora Sparsit mormorò: «Non siate così abbattuto, signore. Vorrei tanto vedervi allegro e contento come un tempo, signore!». Bounderby che, sotto l'effetto di quelle parole, si sentiva diventare sentimentale in quel suo modo goffo e caparbio, cominciò a sospirare come un grosso animale marino. «Non sopporto di vedervi così, signore», disse la signora Sparsit. «Perché non giocate una partita di backgammon, signore, come eravate solito fare, quando avevo l'onore di vivere sotto il vostro tetto». «Non gioco a backgammon da allora», disse Bounderby. «No, signore, so che non giocate più», disse la signora Sparsit con voce soave. «Ricordo che alla signorina Gradgrind non interessava quel gioco. Ma, signore, sarò felice di fare una partita, se voi me ne concedete l'onore».

Giocarono seduti accanto a una finestra che dava sul giardino. Era una bella serata: anche senza luna, era tiepida, greve delle fragranze dell'estate. Louisa e Harthouse passeggiavano in giardino; nella quiete e nel silenzio si sentivano le loro voci, ma non le loro parole. Seduta accanto al tavolo di backgammon, la signora Sparsit aguzzava gli occhi per penetrare l'oscurità che si infittiva fuori. «Che succede, signora?», chiese Bounderby. «Non ci sarà un incendio, vero?». «Oh no, signore! Pensavo alla rugiada». «Che c'entra la rugiada, signora?». «Non penso a me, signore. Temo che la signorina Gradgrind possa prendere un raffreddore». «Non prende mai raffreddori», dichiarò il signor Bounderby. «Davvero, signore?», disse la signora Sparsit e si mise a tossire.

Quando giunse l'ora di ritirarsi, il signor Bounderby prese un bicchiere d'acqua. «Oh, signore, non prendete più il vostro sherry caldo con una buccia di limone e un po' di noce moscata?», chiese la signora Sparsit. «Non ho più questa abitudine, signora». «È un gran peccato, signore, che perdiate le vostre buone vecchie abitudini. Coraggio, signore! Se la signorina Gradgrind me lo consente, mi offro di prepararvelo come ho fatto spesso».

Poiché la signorina Gradgrind non esitò a dare alla signora Sparsit il permesso di fare qualunque cosa volesse, quella sollecita gentildonna preparò la bevanda e la porse al signor Bounderby. «Vi farà bene, signore. ½ riscalderà il cuore. È quello che ci vuole, signore, e che dovreste prendere sempre». E quando il signor Bounderby disse: «Alla vostra salute, signora!», lei con grande trasporto contraccambiò: «Grazie, signore! Altrettanto a voi: alla vostra salute e alla vostra felicità». Da ultimo, con molto calore, lei gli augurò la buona notte, e il signor Bounderby se ne andò a dormire con la mesta convinzione di essere stato punto in qualcosa di tenero anche se, a nessun costo, avrebbe saputo dire che cos'era.

A lungo, dopo essersi svestita ed andata a letto, Louisa attese che suo fratello tornasse a casa. Non sarebbe arrivato, lo sapeva, prima dell'una di notte; ma nella quiete della camna che non serviva affatto a placare i suoi pensieri in tumulto, il tempo si trascinava uggiosamente. Finalmente, quando già da ore aveva la sensazione che buio e silenzio si potenziassero l'un l'altro, udì il campanello all'entrata. Pensò che sarebbe stata contenta se avesse continuato a squillare fino all'alba; ma il tintinnio si spense e i cerchi dell'ultimo trillo si allargarono sempre più deboli e ampi nell'aria; poi tutto fu di nuovo silenzio assoluto.

Aspettò, a suo giudizio, ancora circa un quarto d'ora, poi si alzò, mise addosso una vestaglia, uscì dalla stanza al buio, salì le scale e raggiunse la stanza del fratello. La porta era chiusa; lei l'aprì piano e lo chiamò, avvicinandosi senza far nessun rumore.

Si inginocchiò accanto al letto, gli passò un braccio intorno al collo e avvicinò al proprio il viso di lui. Sapeva che il fratello fingeva di dormire, ma non disse nulla.

Tom trasalì, come se si fosse svegliato in quel momento, e chiese chi era, cosa succedeva.

«Non hai niente da dirmi, Tom? Se mai mi hai voluto bene nella vita, se c'è qualcosa che hai tenuto nascosto a tutti, dimmela».

«Non so di che cosa parli, Lou. Hai sognato».

«Mio caro fratello, non c'è niente che devi dirmi?». Appoggiò la testa sul cuscino e i suoi capelli si sparsero su di lui, quasi a nasconderlo a tutti tranne che a se stessa. «Non c'è niente che vuoi dirmi? Niente che tu possa dire mi farà cambiare. Tom, dimmi la verità!».

«Non so cosa vuoi dire, Lou!».

«Tu riposi qui, solo, nella notte malinconica; verrà un'altra notte - chissà dove sarai - quando anch'io, se sarò ancora tra i vivi, ti avrò lasciato. Sono qui, accanto a te, a piedi nudi, in vestaglia, invisibile nell'oscurità, e sarò per tutta la notte della mia desolazione fino a che non diventerò polvere. In nome di questo tempo, Tom, dimmi la verità adesso!».

«Che cosa vuoi sapere?».

«Non ti rimprovererò, sii certo», spinta dall'affetto, lo strinse al petto come un bambino. «Sarò comprensiva e leale, sii certo. Ti salverò a qualunque costo, sii certo. Non hai niente da dirmi Tom? Sussurramelo, di' soltanto 'sì' ed io capirò».

Volse l'orecchio verso le sue labbra, ma il fratello rimase ostinatamente muto.

«Neppure una parola, Tom?».

«Come faccio a dire sì o no quando non so di che cosa parli? Lou, sei una ragazza buona e coraggiosa che si meriterebbe - comincio a credere - un fratello migliore di me. Ma non ho niente da dire. Va' a letto, va' a letto».

«Sei stanco», mormorò lei in un tono di voce fattosi più simile a quello abituale.

«Sì, sono sfinito».

«Sei stato molto impegnato oggi, hai avuto tanti fastidi. È stato scoperto qualcosa di nuovo?».

«Solo quello che hai sentito da da lui».

«Tom, hai raccontato a qualcuno della visita che abbiamo fatto a quella gente? Che li abbiamo visti tutti e tre insieme?».

«No. Non sei stata tu a insistere di non dire niente, quando mi hai chiesto di accomnarti da loro?».

«Sì, ma allora non sapevo quello che sarebbe accaduto».

«Neppure io. Come avrei potuto?». Una risposta molto pronta, questa, da parte di Tom.

«Dopo quello che è accaduto, sono tenuta a parlare di quella visita?», chiese lei, in piedi accanto al letto - un po' alla volta si era ritirata e si era alzata. «Dovrei parlarne? Devo parlarne?».

«Santo cielo, Lou», rispose il fratello, «non è tua abitudine chiedermi consiglio. Fa' quello che ti pare. Se tieni tutto per te, io terrò tutto per me. Se vuoi parlarne, fallo: ecco tutto».

Era troppo buio perché potessero vedersi in faccia, ma erano entrambi molto cauti e pareva che soppesassero le parole.

«Tom, credi che l'uomo cui ho dato i soldi sia coinvolto in questo reato?».

«Non lo so; non vedo perché non dovrebbe essere un complice».

«Mi pareva una persona onesta».

«Forse qualcun altro ti sembra disonesto e invece non lo è».

Ci fu una pausa, perché Tom aveva avuto un attimo di esitazione e si era interrotto.

«Insomma», riprese, come se avesse preso una decisione, «se proprio vogliamo venire al punto, quell'uomo non mi ha fatto una gran buona impressione, tant'è vero che l'ho chiamato fuori per dirgli a tu per tu che, secondo me, doveva considerarsi fortunato per la manna che gli era capitata, grazie a mia sorella. Speravo che ne avrebbe fatto buon uso, gli ho detto. Ti ricordi che gli ho chiesto di uscire? Non dico niente contro di lui; per quanto ne so, può essere una bravissima persona. Spero che lo sia».

«Si è offeso per quello che gli hai detto?».

«No, l'ha presa molto bene; si è comportato come si deve. Dove sei, Lou?». Si alzò a sedere sul letto e le diede un bacio. «Buona notte, mia cara, buona notte».

«Non hai altro da dirmi?».

«No. Che cosa dovrei dirti? Non vorrai che ti racconti una bugia!».

«No, soprattutto non questa notte, di tutte le notti della tua vita, Tom, che mi auguro saranno molte e molto più felici».

«Grazie, Lou. Sono così stanco che sono pronto a dire qualsiasi cosa pur di mettermi a dormire. Va' a letto, va' a letto».

La baciò ancora e si voltò dall'altra parte, come se fosse già venuto il momento in nome del quale lei lo aveva implorato. Louisa indugiò accanto al letto prima di allontanarsi lentamente. Giunta sulla soglia, si fermò a guardarsi indietro, mentre apriva la porta, e gli chiese se l'avesse chiamata. Tom rimase immobile, lei chiuse piano la porta e se ne tornò nella sua stanza.

Quel disgraziato si guardò intorno con cautela e vide che se ne era andata; scivolò fuori dal letto, chiuse la porta a chiave e si gettò di nuovo sul cuscino: si strappò i capelli e pianse disperatamente pieno di riluttante amore per la sorella, di acerbo ma impenitente disprezzo per se stesso, e di un disprezzo altrettanto acerbo e sterile verso tutto quanto c'è di buono in questo mondo.

IX

. COME VA A FINIRE

Vivendosene appartata nell'eremo del signor Bounderby in attesa di recuperare la saldezza dei propri nervi, la signora Sparsit esercitava notte e giorno una sorveglianza così assidua, gettando intorno sguardi così penetranti che i suoi occhi, sotto la severa arcata sopraccigliare di stampo coriolanesco, simili a due fari incastrati in una costiera corazzata di ferro, avrebbero tenuto alla larga qualsiasi prudente navigante dalla rocca impervia del suo naso e dai bui crepacci circostanti, se non fosse stato per la placida compostezza del suo modo di fare. Vedendo quei suoi occhi vigili, di fattura classica e quel naso diritto e fermo che non pareva potesse mai abbandonarsi al piacere del riposo, era ardua impresa credere che non fosse quasi una formalità quel suo ritirarsi per la notte. D'altra parte il suo modo di starsene seduta, lisciando i mezziguanti che erano a dir poco ruvidi se non addirittura spinosi (erano fatti di un filo rigido che sembrava rete metallica), o di trotterellare verso destinazioni ignote con l'andatura di chi tiene i piedi nelle staffe, era così placido e sereno che un osservatore sarebbe stato indotto a crederla una mite colomba che, per qualche scherzo di natura, aveva assunto le fattezze terrene di un uccellaccio rapace dal becco adunco.

Era fantastico vederla aggirarsi per la casa fiutando a destra e a sinistra, ed era un mistero insolubile come riuscisse a spostarsi da un piano all'altro così in fretta. Non si poteva sospettare che una matrona tanto maestosa, di sì alto lignaggio e con parentele tanto importanti, saltasse oltre la ringhiera delle scale o scivolasse lungo il corrimano, eppure la straordinaria rapidità dei suoi spostamenti suggeriva questa irriverente e assurda idea. Un'altra sua caratteristica era quella di non essere mai scomposta o trafelata. Riusciva a schizzare dall'ultimo piano all'ingresso a velocità incredibile, senza per questo mostrarsi ansimante o avere un solo capello fuori posto. Mai occhio umano la vide camminare con andatura che non fosse sommamente decorosa.

Aveva in simpatia il signor Harthouse e, poco dopo essersi installata in casa, ebbe modo di intrattenersi con lui in un'amabile conversazione. Un mattino dopo colazione, incontrandolo in giardino, lo accolse con un'impeccabile riverenza da cerimonia di corte.

«Mi sembra solo ieri, signore, di aver avuto l'onore di ricevervi alla Banca, quando voi avete avuto la bontà di informarvi dove abitava il signor Bounderby».

«Circostanza, questa, che - ne sono certo - non dimenticherò nel corso delle età avvenire», rispose il signor Harthouse, chinando lievemente il capo verso la signora Sparsit, con l'aria più indolente che si possa immaginare.

«Viviamo in uno strano mondo, signore».

«Ho avuto l'onore di fare anch'io, per una coincidenza di cui vado orgoglioso, un'osservazione del genere, simile nel contenuto, sebbene non espressa con altrettanta forza epigrammatica».

«Un mondo singolare, signore, direi», proseguì la signora Sparsit, che accolse quel complimento, corrugando mestamente le sopracciglia nere e accomnando il gesto con un'espressione assai meno mite di quanto non facesse supporre il tono soave della sua voce, «soprattutto per l'amicizia che noi riusciamo a creare oggi con persone di cui appena ieri ignoravamo l'esistenza. Rammento che, in quell'occasione, voi avevate addirittura detto di nutrire una certa apprensione all'idea di incontrare la signorina Gradgrind».

«La vostra memoria mi onora più di quanto non meriti la mia insignificante persona. Ho messo a buon frutto i suggerimenti che con tanta cortesia mi avete fornito per porre rimedio alla mia timidezza; superfluo aggiungere che furono consigli assolutamente esatti. Il genio della signora Sparsit per per tutto ciò che richiede esattezza - unito alla sua forza intellettuale, per non parlare della nobiltà del suo lignaggio - ha dato tante prove di sé da non ammettere dubbi». Poco mancava che si addormentasse nel bel mezzo del complimento; gli ci era voluto, infatti, non poco per giungerne a capo e, mentre lo snocciolava tutto, il suo cervello si era messo a inseguire altri vaghi pensieri.

«Non ritenete che la signorina Gradgrind - che sciocca sono! ma proprio non mi riesce di chiamarla signora Bounderby! - sia nel fiore della giovinezza, proprio come vi avevo detto?», chiese con voce soave.

«Ne avete fatto un ritratto perfetto. Tale e quale la realtà».

«Il ritratto di una donna molto affascinante, signore», commentò lei voltando lentamente i guanti uno sull'altro.

«Proprio così».

«Era consuetudine osservare che la signorina Gradgrind non era molto animata e vivace, ma confesso che mi sembra molto migliorata sotto questo aspetto, sorprendentemente migliorata. Oh, ecco il signor Bounderby!», esclamò la signora Sparsit, facendo ripetuti cenni di assenso con la testa, quasi fosse stato lui l'oggetto di tutti i suoi pensieri e l'unico argomento dei suoi discorsi. «Come state questa mattina, signore? Concedeteci la gioia di vedervi lieto, signore!».

Tutte queste parole di conforto, che accennavano ai suoi dispiaceri e cercavano di alleviare il suo fardello, avevano ormai cominciato a produrre l'effetto di rendere il signor Bounderby più malleabile che mai nei confronti della signora Sparsit e più scostante che mai nei confronti della maggior parte degli altri, a cominciare da sua moglie in giù. Così, quando la signora Sparsit disse con forzata spensieratezza: «Avete bisogno di far colazione, signore, ma oso dire che la signorina Gradgrind sarà presto qui a presiedere a tavola», il signor Bounderby replicò: «Se dovessi aspettare che mia moglie si prenda cura di me, sarei ancora qui il giorno del giudizio. Affido a voi l'incarico di versarci il tè». La signora Sparsit acconsentì e riprese il vecchio posto a tavola.

E questa fu un'altra occasione che attizzò la vena sentimentale di quella eccellente nobildonna. La signora Sparsit era persona così profondamente umile che non appena ve Louisa, si alzò protestando che mai, per niente al mondo, avrebbe pensato di occupare quel posto che, sì, tante volte aveva occupato quando aveva l'onore di preparare la colazione per il signor Bounderby prima che ci fosse la signorina Gradgrind - no, chiedeva scusa, la signora Bounderby - sperava proprio che l'avrebbero perdonata, ma non riusciva a evitare quell'errore - confidava che un po' alla volta si sarebbe abituata. Era solo perché (fece osservare) la signorina Gradgrind era un po' in ritardo e perché il tempo del signor Bounderby era tanto prezioso - se lo ricordava bene, dai vecchi tempi, che il signor Bounderby voleva trovare la colazione pronta all'istante! - che si era permessa di accondiscendere alla sua richiesta: per tanto tempo la sua volontà era stata legge per lei.

«Lì! Restate lì dove siete, signora!», brontolò Bounderby. «Restate dove siete! Sono sicuro che la signora Bounderby sarà ben contenta se le si toglie questo fastidio».

«Non parlate così, signore! È molto scortese verso la signora Bounderby ed essere scortese non vi si addice, signore», ribatté la signora Sparsit quasi con severità.

«Potete star tranquilla, signora Te la prendi con calma, vero, Lou?», disse Bounderby rivolgendosi alla moglie con voce tonante.

«Naturalmente. Non ha alcuna importanza. Perché dovrebbe averne per me?».

«Perché dovrebbe avere importanza per chiunque, signora Sparsit?», ruggì Bounderby, gonfiandosi tutto con un senso di orgoglio oltraggiato. «Attribuite troppa importanza a queste cose, signora. Per Giove! Vedrete dove andranno a finire i vostri principi, qui. Siete all'antica, signora. Non state al passo con i tempi dei giovani Gradgrind».

«Che cosa avete?», chiese Louisa con glaciale stupore. «Che cosa vi ha offeso?».

«Offeso!», sbraitò Bounderby. «Pensi che, se qualcosa mi avesse offeso, non ne parlerei, non pretenderei immediata riparazione? Sono un uomo tutto d'un pezzo, io! Non seguo vie traverse, io!».

«Nessuno ha mai avuto modo di pensare che voi siate troppo schivo o troppo tenero, credo», rispose Louisa con gelida compostezza. «Non sono stata certo io a farvi un'osservazione del genere, né prima né dopo il matrimonio. Non capisco che cosa vogliate».

«Cosa voglio?», tuonò lui. «Niente. Non voglio niente. Altrimenti - e tu, Lou Bounderby, lo sai benissimo - io, Josiah Bounderby di Coketown, lo ottengo».

E mentre lui dava un gran pugno sulla tavola facendo tintinnare le tazze, Louisa rimase a fissarlo con il volto che le si imporporò tutto per la fierezza: una nuova espressione, ebbe a pensare Harthouse.

«Siete incomprensibile questa mattina. Non prendetevi il disturbo di spiegarvi, per favore. Non ho nessuna curiosità di capire quello che volete dire. Che importanza ha?».

Nessuno toccò più l'argomento, e subito il signor Harthouse si mise a intrattenere gli altri con la sua noncurante ironia su temi neutrali. Ma, da quel giorno in poi, l'influenza della signora Sparsit sul signor Bounderby ebbe come effetto quello di avvicinare Louisa a James Harthouse, di accentuare il suo pericoloso estraniamento dal marito, di sottrarre a questi la fiducia che la moglie aveva in lui, per convogliarla verso un altro uomo con un'azione così graduale che neppur Louisa, se anche avesse tentato, avrebbe saputo indicare quando aveva avuto inizio quel mutamento. Se poi avesse tentato o no era un segreto che teneva chiuso nel cuore.

La signora Sparsit in questa occasione si commosse a tal segno che, trovandosi dopo colazione da sola con il signor Bounderby nel salone d'ingresso, nel porgergli il cappello, gli pose sulla mano un casto bacio, sussurrando: «Mio benefattore!», quindi si ritirò sopraffatta dal dolore. È tuttavia fatto incontestabile, per quanto ci è dato di raccontare in questa storia, che il signor Bounderby non se ne era andato neppure da cinque minuti con quello stesso cappello ficcato in testa, quando quella stessa discendente degli Scadgers e parente dei Powler, scuotendo il mezzoguanto destro in direzione del ritratto del signor Bounderby, con una smorfia di disprezzo nei confronti di sì prestigiosa opera d'arte, esclamò: «Ben ti sta, imbecille! Ne sono contenta!».

Il signor Bounderby se ne era andato da poco, quando ve Bitzer. Era venuto in treno, un treno tutto stridii e sferragliamenti sopra il lungo viadotto che si inarcava sull'aspro e caotico paesaggio delle miniere di carbone abbandonate e ancora attive. Portava un messaggio urgente da Stone Lodge: un frettoloso biglietto per informare Louisa che la signora Gradgrind stava molto male. Per quanto ne sapeva la lia, non era mai stata bene; ma da qualche giorno aveva imboccato la china e, durante la notte precedente, era andata sempre più giù, tanto che ormai si sentiva prossima a morire, nella misura in cui quella sensazione era compatibile con la sua limitata energia di desiderare, seppur in modo vago e confuso, di cambiare stato.

Accomnata dal servitore più esangue che si potesse immaginare, una creatura spettrale che ben si addiceva a far da custode alle porte della Morte, cui ora la signora Gradgrind si accingeva a bussare, Louisa fece ritorno a Coketown con lo stesso treno sferragliante, accanto ai pozzi di carbone antichi e nuovi, e si trovò ben presto a turbinare nel vortice di quelle fauci fumose. Rimandò il latore del messaggio a occuparsi dei suoi intrighi e in carrozza si diresse verso quella che un tempo era stata la sua casa.

Dopo il matrimonio ci era andata assai di rado: suo padre, impegnato a Londra a passare al setaccio le scorie parlamentari (e, senza che nessuno se ne accorgesse, trovava molte cose preziose in quel letamaio), si dava da fare nell'immondezzaio nazionale; sua madre, distesa sul divano, aveva sempre considerato più un fastidio che altro ricevere visite; con i fratelli più piccoli Louisa si sentiva fuori posto; a Sissy non aveva più dato confidenza dalla sera in cui la lia del clown vagabondo aveva alzato lo sguardo per fissare la futura moglie del signor Bounderby. Non c'era nulla che l'attirasse a casa e vi era andata raramente.

Neppure in quel momento, mentre si avvicinava alla vecchia casa, provò quei buoni sentimenti legati agli antichi affetti domestici. I sogni dell'infanzia - che cosa aveva a che fare lei con questi sogni? Che cos'erano per lei le favole delicate e lievi di quegli anni, la leggiadria, la grazia, la tenerezza, gli impossibili ornamenti con i quali ci si ura il mondo che si spalanca davanti: tutte cose tanto belle in cui credere allora e da ricordare poi, da adulti. Negli anni successivi perfino il più insignificante e il più piccolo di questi sogni assurge alla dignità di una benevola disposizione del cuore che consente ai bimbi di avventurarsi nelle vie irte di sassi del mondo, proteggendo quel piccolo angolo fiorito con mani pure. Quanto sarebbero sagge le stirpi di Adamo a scaldarsi più spesso al sole di questo giardino, abbandonandovisi con fiducia, semplicità di cuore, purificati dello spirito del mondo! I ricordi dell'infanzia: che cosa aveva a che fare lei, Louisa, con questi ricordi? Il ricordo dell'itinerario percorso per attingere a quel poco che sapeva, lungo sentieri incantati, ricchi delle fantasie e delle speranze sue e di milioni di altre creature innocenti; il ricordo di come, al primo incontro, attraverso la delicata luce dell'immaginazione, la Ragione le fosse sembrata una divinità benefica che additava a divinità altrettanto grandi - e non già un idolo gelido e crudele, con le vittime legate mani e piedi, muto e cieco, insensibile a tutto tranne che al sistema di leve capaci di azionare tante tonnellate! La sua memoria degli affetti domestici e dell'infanzia era la memoria di un inaridimento: di come si erano prosciugate, nell'istante in cui stavano per zampillare, le fonti e le sorgenti del suo cuore. Le acque dorate non scorrevano dentro di lei: fluivano, invece, a rendere fertile la terra dove dai rovi si vendemmia l'uva e dal pruno si colgono i fichi.

Louisa giunse a casa ed entrò nella stanza di sua madre, sentendo su di sé il fardello di un dolore greve, sordo. Da quando lei se ne era andata, Sissy aveva continuato a vivere con il resto della famiglia, trattata come una lia. Ora era seduta al capezzale di sua madre; nella stanza c'era anche Jane, la sorella minore di Louisa, di dieci o dodici anni.

Ci fu un gran trambusto prima di riuscire a far capire alla signora Gradgrind che era arrivata la primogenita. In forza dell'abitudine, se ne stava distesa sul divano, sorretta da cuscini, mantenendo, per quanto le era possibile in quelle circostanze l'atteggiamento che le era consueto.

Aveva recisamente rifiutato di stare a letto, dicendo che, se lo avesse fatto, non avrebbe mai più visto la fine.

La sua voce risuonava così remota nel mucchio di scialli, e la voce dell'interlocutore pareva impiegare tanto tempo per giungere a destinazione, che si sarebbe detto che giacesse in fondo a un pozzo. La povera donna era più vicino alla Verità di quanto lo fosse mai stata: questo spiegava molte cose.

Quando le fu detto che era venuta la signora Bounderby, la sua risposta, del tutto a sproposito, fu che lei non lo aveva mai chiamato così da quando aveva sposato Louisa; che, in attesa di una decisione definitiva e inoppugnabile su come rivolgerglisi, aveva adottato la semplice iniziale J; che al momento, non essendole stato fornito un nome che in modo conclusivo sostituisse quella soluzione, non poteva derogare a tale regola. Louisa rimase seduta accanto a lei per qualche minuto e le parlò a più riprese, prima che sua madre riuscisse a riconoscerla. Arrivò a capire chi era tutto d'un tratto.

«Bene, mia cara, spero che per te le cose procedano in modo soddisfacente. È stata tutta opera di tuo padre. Gli stava molto a cuore. Dovrebbe esserne informato».

«Voglio sapere come state voi, mamma; non parliamo di me».

«Vuoi sapere come sto, cara? Questa, sì, è una novità, che qualcuno voglia sapere come sto, ne sono sicura. Niente affatto bene, Louisa. Molto debole e confusa».

«Sentite dolore, cara mamma?».

«C'è dolore in qualche parte della stanza, mi pare, ma non posso affermare con sicurezza se lo provo io».

Dopo questo strano discorso, rimase in silenzio per un certo tempo. Louisa, che le teneva la mano, non percepiva il battito del polso, ma, posandovi sopra un bacio, riuscì a cogliere un flebile fremito di vita.

«Non vieni mai a trovare tua sorella. Crescendo, ti somiglia sempre di più. Mi piacerebbe che tu la vedessi. Sissy, va' a chiamarla».

Jane entrò e rimase in piedi, con la mano in quella della sorella maggiore. Louisa, che prima aveva visto la bambina tenere il braccio intorno al collo di Sissy, notò che con lei aveva assunto un ben diverso atteggiamento.

«Vedi come ti somiglia, Louisa?».

«Sì, mamma. Direi proprio che è come me. Tuttavia ».

«Eh, sì. Lo dico sempre», esclamò la signora Gradgrind con inattesa prontezza. «Mi viene in mente io io voglio parlarti, cara. Sissy, ragazza mia, lasciaci sole per un minuto».

Louisa aveva lasciato la mano della bambina, il cui volto le era parso più grazioso e luminoso di quanto non fosse mai stato il suo; aveva riconosciuto, non senza provare dentro di sé un'ondata di rancore, - perfino in quel luogo e in quella occasione - una traccia della bontà dell'altro viso che c'era in quella stanza, il dolce viso dagli occhi fiduciosi, che i capelli neri, più ancora delle veglie e della pena, facevano sembrare pallido.

Rimasta sola con la madre, Louisa vide che il volto le si distendeva in una solenne quiete, come chi, galleggiando su un maestoso fiume, rinuncia a ogni resistenza, felice di abbandonarsi alla corrente. Si portò alle labbra la mano ormai ridotta a un'ombra e la chiamò di nuovo.

«Volevi parlarmi, mamma?».

«Eh? Sì, certamente, mia cara. Tuo padre è sempre via adesso, lo sai, e io devo scriverglielo».

«Scrivergli che cosa, mamma? Non darti pensiero. Che cosa devi scrivergli?».

«Devi sapere, mia cara, che tutte le volte che su un qualsiasi argomento ho espresso una qualsiasi opinione, non ho mai saputo come fosse andata a finire, e di conseguenza da un pezzo ho smesso di dire quel che pensavo».

«Ti ascolto, mamma». Ma soltanto chinandosi a parlarle nell'orecchio e nello stesso tempo guardando attentamente le sue labbra, Louisa riusciva a collegare quei deboli suoni spezzati in una sequenza di discorso.

«Hai imparato tante cose, Louisa, e anche tuo fratello. Da mattina a sera, sempre con le vostre logìe. Se esiste una qualsiasi logìa che non sia stata sfruttata fino in fondo in questa casa, tutto quello che posso dire è che spero di non sentirne parlare».

«Starò ad ascoltarti, mamma, quando avrai la forza di continuare». Questo per impedirle di divagare.

«Ma c'è qualcosa - non ha niente a che vedere con nessuna logìa - che tuo padre ha dimenticato o non è riuscito a cogliere, Louisa. Non so di che si tratta. Sono stata spesso qui seduta con Sissy vicino a me a pensarci. Ormai non ce la farò a sapere come si chiama, ma forse tuo padre è ancora in tempo. Mi rende inquieta. Voglio scrivergli per sapere che cos'è, in nome di Dio. Dammi la penna, dammi la penna».

Perfino l'irrequietezza si era spenta, e ormai solo la sua povera testa si muoveva da un lato all'altro.

Immaginò tuttavia che la sua richiesta fosse stata esaudita e pensò di tenere in mano la penna che non avrebbe mai avuto la forza di reggere. Poco importa quali ghirigori meravigliosamente privi di significato abbia tracciato sulle coperte che l'avvolgevano. La mano ben presto si arrestò nel bel mezzo; si spense la luce che era sempre stata fievole e indistinta dietro quel fragile trasparente, e perfino la signora Gradgrind, emergendo dall'ombra in cui l'uomo invano brancola e si dibatte, assunse la solenne compostezza dei saggi e dei patriarchi.

X

. LA SCALA DELLA SIGNORA SPARSIT

Giacché i nervi della signora Sparsit riprendevano tono con molta lentezza, la nobile dama prolungò la propria permanenza nell'eremo del signor Bounderby per qualche settimana, e qui, malgrado le scelte anacoretiche suggeritele dalla consapevolezza della mutata condizione sociale, si rassegnò, per così dire, a dormire sulle piume e a nutrirsi del grasso della terra. Durante tutto il periodo del suo ritiro dagli oneri e dagli onori di tutrice della Banca, la signora Sparsit fu un modello di ferma coerenza: in presenza del signor Bounderby in carne ed ossa, perseverò a partecipargli profondissima commiserazione, come è raro provare per un essere vivente, e, in presenza del signor Bounderby ritratto nel quadro, perseverò a chiamarlo con un rancore e un disprezzo altrettanto profondi.

Il quale signor Bounderby, ormai entrato nell'ordine di idee - la miccia era già stata accesa e le polveri pronte a esplodere - che la signora Sparsit fosse una donna di animo nobilissimo, che si rendeva conto della croce che lui doveva portare nel suo deserto - non aveva ancora deciso quale fosse questa croce - e tenuto conto che Louisa avrebbe trovato da ridire nell'avere la signora Sparsit ospite abituale (se mai le obiezioni della moglie su quanto lui aveva deciso di fare potevano essere compatibili con la sua maestà), decise di non perdere di vista quell'ottima gentildonna. Così, non appena i suoi nervi furono accordati sulla giusta tonalità e lei poté di nuovo assaporare il suo rognone in solitudine, il giorno precedente la partenza, durante la cena, il signor Bounderby le annunciò: «Voglio dirvi una cosa, signora! Fino a che il tempo si mantiene bello, dovete venire qui al sabato e fermarvi fino al lunedì». Al che la signora Sparsit, sebbene non fosse di fede musulmana, rispose che «udire è ubbidire».

Ora la signora Sparsit non era una creatura poetica, eppure prese forma nella sua testa una fantasia di carattere allegorico. A forza di tener d'occhio Louisa e, di conseguenza, a forza di trovarsi di fronte a un comportamento impenetrabile che acuiva e alimentava la sua curiosa acrimonia, la signora Sparsit maturò dentro di sé una tensione, per così dire, all'ascesi che prese la forma dell'ispirazione. Si urò nella mente una solenne scalinata che affondava in un oscuro abisso di vergogna e di rovina lungo la quale Louisa scendeva, giorno dopo giorno, ora dopo ora.

Osservare la discesa di Louisa divenne l'occupazione principale della signora Sparsit. A volte procedeva lenta, a volte l'incedere era rapido; talvolta faceva molti gradini insieme, talaltra indugiava; mai si volgeva indietro per risalire. Se solo una volta fosse ritornata sui propri passi, probabilmente la signora Sparsit sarebbe morta di dispetto e di dispiacere.

Fino al giorno in cui il signor Bounderby non formulò l'invito settimanale, riferito prima, Louisa era scesa con andatura sostenuta e costante, e quel giorno non si arrestò. La signora Sparsit, di buon umore, era incline a essere socievole e loquace.

«Scusate, signore, se mi avventuro a porvi una domanda su un argomento che ammantate di grande riserbo - ed è davvero con sforzo da parte mia che ve lo chiedo, perché so che avete sempre ottimi motivi per comportarvi in un certo modo - avete avuto notizie in merito al furto?».

«Perbacco, signora, no, non ancora. Date le circostanze, non le aspettavo. Roma non è stata costruita in un giorno, signora».

«Giustissimo, signore», commentò lei scuotendo la testa.

«E neppure in una settimana».

«Proprio così, signore», rispose la signora Sparsit con mestizia.

«E allora posso aspettare anch'io, signora. Se hanno aspettato Romolo e Remo, può aspettare anche Josiah Bounderby di Coketown. Loro se la passavano meglio di me da giovani; avevano la lupa che faceva da balia; io ho avuto una nonna che faceva da lupa. Non mi dava latte, mi dava botte. Una vera strega!».

«Ah!», sospirò la signora Sparsit rabbrividendo.

«No, signora, non ne ho saputo più niente. Abbiamo la situazione in pugno, però; e ci aiuta il giovane Tom che - cosa nuova per lui - in questo momento si dà da fare. Certo che lui non è andato alla scuola dove sono andato io! I miei ordini sono: niente chiasso; facciamo finta che la tempesta sia finita. Agite dietro le quinte, ma non lasciate trapelar nulla, altrimenti una cinquantina di loro si mettono in combutta e ci fanno scappar di mano, per sempre, quell'individuo che già se l'è filata. Acqua in bocca e niente chiasso, così un po' alla volta i ladri si sentiranno al sicuro e noi li prenderemo».

«Molto sagace, signore! Molto interessante, davvero! La vecchia di cui avete parlato, signore ».

«La vecchia di cui ho parlato, signora, non è ancora stata presa», disse Bounderby, tagliando corto, perché non c'era nulla di cui vantarsi. «Ma può scommetterci l'anima che, prima o poi, l'acchiapperemo, se questo serve a consolare quella mente scellerata. Nel frattempo, signora, se volete sapere la mia opinione, ritengo che meno si parla di lei, meglio è».

Quella stessa sera, durante una pausa nel preparare i bagagli, accanto alla finestra della sua camera, la signora Sparsit contemplò la solenne scalinata e vide che Louisa continuava a scendere.

Seduta vicino al signor Harthouse, in un angolo appartato del giardino, parlava con voce sommessa. Mentre sussurravano fra di loro, Harthouse che le stava accanto, nel chinare il volto verso di lei, quasi le sfiorava i capelli. «Fra poco ci siamo!», disse la signora Sparsit aguzzando gli occhi di falco. La signora Sparsit era troppo lontana per sentire le loro parole o anche per capire che si parlavano sottovoce, se non fosse stato per il loro atteggiamento, ma quello che si dicevano era questo:

«Ricordate quell'uomo, signor Harthouse?».

«Perfettamente».

«Il suo viso, i suoi modi, le sue parole?».

«Perfettamente. Mi è sembrata una persona estremamente tetra. Quanto mai tediosa e prolissa. Non c'è che dire: lo stile dell'eloquenza umile ha una sua efficacia, ma vi assicuro che quella volta ho pensato: 'Stai esagerando, vecchio mio!'».

«Mi è difficile pensare male di quell'uomo».

«Mia cara Louisa come direbbe il nostro Tom» - cosa che Tom non diceva mai - «sapete niente di positivo su quel tizio?».

«No, sicuramente no».

«E di nessun altra persona come lui?».

«Come potrei, se di loro, uomini e donne, non so niente?», replicò Louisa in un tono che a Harthouse sembrò più simile al suo vecchio modo di esprimersi che a quello da lei adottato di recente.

«Mia cara Louisa, acconsentite ad accogliere l'umile descrizione fatta da un devoto amico che conosce qualcosa degli uomini e della vasta gamma di passioni dei suoi simili, ottime persone, nessuno escluso, - sono pronto a crederlo - salvo quella piccola mania di arraffare tutto ciò su cui riescono a metter le mani. Questo tizio ha delle cose da dire: e chi non ne ha? Questo tizio professa grandi principi morali: non c'è ciarlatano che non professi grandi principi morali. Dal parlamento al carcere, è tutto un professare di grandi principi morali, tranne da parte delle persone come noi: e proprio questo ci rende validi. Avete visto e sentito quello che è accaduto. Ecco un uomo che appartiene alle classi 'lanute' rampognato dal nostro amico Bounderby, il quale - lo sappiamo entrambi - non possiede quel tocco delicato, quel guanto di velluto, che servirebbe ad ammorbidire il suo pugno di ferro. Il nostro 'lanuto' ne rimane offeso, esasperato; se ne va dalla casa del padrone brontolando; incontra qualcuno che gli propone di entrare nell'affare della Banca, in cambio di una fetta del gruzzolo. Lui ci sta, mette qualcosa nella tasca che prima era vuota, ed è tutto contento e soddisfatto. Se non avesse approffittato di una occasione simile, invece di essere uno dei tanti, sarebbe stato uno dei pochissimi o forse è stato proprio lui a escogitare tutto, se aveva l'intelligenza necessaria».

«Mi sembra quasi una cattiveria da parte mia accettare con tanta prontezza quello che mi dite e sentirmi tanto sollevata dalle vostre parole», ribatté Louisa, dopo essere rimasta a riflettere per un po'.

«Dico solo cose ragionevoli, niente di peggio. Ne ho parlato a più riprese con Tom - con lui sono in termini di assoluta confidenza - che la pensa come me, ed io la penso come lui. Volete passeggiare?».

Si allontanarono lungo i sentieri che nella luce del crepuscolo si facevano sempre più indistinti - lei appoggiata al suo braccio - inconsapevole che stava scendendo, giù, sempre più giù, per la scala della signora Sparsit.

Notte e giorno, la signora Sparsit tenne in piedi quella scala: una volta che Louisa fosse arrivata in fondo e precipitata nel baratro, la scala avrebbe anche potuto crollarle addosso, ma fino ad allora, lì doveva stare, piantata solidamente come una roccia, davanti ai suoi occhi. E sulla scala c'era Louisa. E scivolava giù, giù, giù.

La signora Sparsit vedeva James Harthouse che andava e veniva; ne sentiva parlar qui e là; spiava i mutamenti sul volto che lui aveva studiato con tanta attenzione; con meticolosa precisione osservava come e quando quel volto si rannuvolava e come e quando si schiariva; teneva spalancati gli occhi neri, senza che mai in essi si leggesse un lampo di pietà, un guizzo di rimorso, tutta assorta nella sua contemplazione, per il solo piacere di vederla avvicinarsi sempre di più, senza che nessuna mano si tendesse a fermarla, verso il fondo di quella novella Scalinata di Giganti.

Con tutta la deferenza per il signor Bounderby, contraddistinta dal modo in cui trattava il suo ritratto, la signora Sparsit non aveva la minima intenzione di interrompere quella discesa. Ansiosa di vederne il compimento, eppure paziente, aspettava l'ultimo passo, frutto maturo e copioso delle sue speranze. In silenziosa attesa, guardinga, teneva lo sguardo fisso sui gradini; ogni tanto, ma di rado, scuoteva cupamente il mezzoguanto destro (con dentro il pugno) in direzione della ura che scendeva.

XI

. SEMPRE PIÙ IN BASSO

La ura scendeva lungo la grande scala con passo costante e regolare avvicinandosi sempre più al nero abisso, come un peso che viene inghiottito dalle acque profonde.

Il signor Gradgrind, avvertito della morte della moglie, fece una rapida apparizione, venendo da Londra, e la seppellì con il solito piglio, in una cerimonia che sembrava una trattativa d'affari. Poi fece prontamente ritorno all'immondezzaio nazionale, per riprendere a passare al setaccio le scorie più disparate che gli stavano a cuore e a gettar polvere negli occhi di altra gente cui stavano a cuore altre scorie altrettanto disparate: insomma riprese i suoi doveri di onorevole.

Nel frattempo la signora Sparsit continuava a tenere gli occhi ben aperti. La separavano dalla sua scala, per tutta la settimana, le miglia di strada ferrata che si frapponevano fra Coketown e la casa di camna, ma non per questo lei allentava la sua vigilanza felina, controllando Louisa attraverso il marito, il fratello, attraverso James Harthouse, attraverso l'aspetto esteriore di lettere e pacchetti, attraverso qualsiasi essere animato od oggetto inanimato che, in qualsiasi momento, si avvicinasse alla scala. «Hai appoggiato il piede sull'ultimo gradino, mia cara: i tuoi artifici, le tue astuzie non mi impediscono di vedere», disse la signora Sparsit, rivolgendosi alla ura che scendeva e agitando, minacciosa, un mezzoguanto.

Artificio o istinto, nucleo originario della personalità o successivo innesto di mutamenti provocati dalle circostanze, fatto sta che il curioso riserbo di Louisa sconcertava e, nello stesso tempo, eccitava uno spirito sagace come quello della signora Sparsit. C'erano momenti in cui James Harthouse non era più sicuro di Louisa; c'erano momenti in cui non riusciva più a leggere nel volto che aveva studiato così a lungo, momenti in cui la giovane donna, nel suo solitario riserbo, gli appariva più misteriosa di qualsiasi altra donna esperta del mondo, circondata da una schiera di satelliti pronti ad aiutarla.

Il tempo passò; poi accadde che il signor Bounderby dovesse assentarsi da casa per tre o quattro giorni per occuparsi di certi affari che richiedevano la sua presenza. Ne diede l'annuncio alla signora Sparsit un venerdì sera, alla Banca, intimando: «Andrete laggiù domani, in ogni caso. Ci andrete come se ci fossi anch'io. Non farà differenza».

«Vi prego, signore, non parlate così», rispose la signora Sparsit in tono di rimprovero. «La vostra assenza sarà per me, signore, una differenza grandissima, come credo sappiate benissimo».

«E allora, signora, dovrete cavarvela senza di me come meglio potete», disse lui, per niente dispiaciuto.

«Signor Bounderby, la vostra volontà è legge per me. Se non fosse così, mi sentirei incline a mettere in discussione i vostri amabili ordini. Dubito, infatti, che la signorina Gradgrind sia incline a darmi ospitalità quanto lo siete voi, nella vostra munifica generosità. Non aggiungete altro, signore. Andrò in ottemperanza al vostro invito».

«Perbacco, spero proprio che quando vi invito a casa mia, non abbiate bisogno di altri inviti», disse Bounderby, sgranando gli occhi.

«No, certamente, signore. Spero di no. Non dite altro, signore. Quanto mi piacerebbe vedervi di nuovo allegro, signore».

«Che cosa volete dire, signora?», sbottò Bounderby.

«C'erano in voi, signore, una forza e una energia che rimpiango con tristezza. State su, signore!».

Sotto l'influenza di questa preoccupante perorazione, che un mesto sguardo di commiserazione rese ancora più efficace, il signor Bounderby non trovò di meglio che grattarsi la testa con gesto incerto e inconsulto, salvo poi, non appena fu a una certa distanza, angariare per tutta la mattina i pesci piccoli della Banca.

«Bitzer», chiamò la signora Sparsit quel pomeriggio, verso l'ora di chiusura della Banca, dopo che il padrone fu partito per il suo viaggio, «presenta i miei omaggi al giovane Tom e chiedigli se desidererebbe dividere con me una braciola di agnello in salsa di noci e un bicchiere di birra indiana». E poiché era sempre disponibile per cose del genere, il giovane Tom accettò di buona grazia e si precipitò dalla signora Sparsit. «Signor Thomas, ho pensato che vi sareste lasciato tentare da questi semplici piatti che sono già in tavola».

«Grazie, signora Sparsit», disse il marmocchio e si mise a mangiare con aria cupa.

«Come sta il signor Harthouse, signor Tom?», chiese lei.

«Oh, sta bene».

«Chissà dov'è in questo momento?», proseguì la signora Sparsit con l'aria di chi vuol scambiare quattro chiacchiere, mentre fra sé e sé mandava all'inferno quel marmocchio in quel momento così laconico.

«A caccia nello Yorkshire. Ieri ha mandato a Lou un carniere che sembrava una cattedrale».

«Il gentiluomo - c'è da giurarci - è un ottimo cacciatore», commentò lei con voce soave.

«Mira infallibile», concordò l'altro.

Tom, che non era mai stato incline a guardare in viso l'interlocutore, negli ultimi tempi aveva accentuato questa sua abitudine al punto che non teneva mai gli occhi in faccia a nessuno per più di tre secondi di fila. Di conseguenza, la signora Sparsit poteva osservarlo a suo piacimento.

«Il signor Harthouse mi è molto simpatico, come del resto lo è a tante altre persone. Possiamo sperare di rivederlo presto, signor Tom?».

«Sicuro! Io mi aspetto di vederlo domani», replicò il marmocchio.

«Che bella notizia!», esclamò la signora Sparsit in tono mellifluo.

«Ci siamo messi d'accordo che andrò a prenderlo domani sera alla stazione; poi andremo a cena insieme, credo. Non andrà per tutta la settimana o giù di lì nella casa di camna, perché ha impegni altrove. Così almeno dice, ma non sarei sorpreso se cambiasse programma e si fermasse da noi».

«Ora che mi viene in mente!», esclamò la signora Sparsit. «Se vi chiedessi di fare un'ambasciata a vostra sorella, ve ne ricordereste, signor Tom?».

«Be', ci proverò, se non è troppo lunga», ribatté il marmocchio con riluttanza.

«Soltanto i miei rispettosi omaggi. Non la infastidirò con la mia presenza, questa settimana. I miei nervi sono ancora un po' scossi e forse è meglio che me ne stia per conto mio».

«Oh, se è per questo, non succederebbe niente, anche se me ne dimenticassi, perché non credo che a Lou capiti di pensare a voi, a meno che non vi abbia sotto gli occhi».

Sdebitandosi per l'invito con questo amabile complimento, Tom piombò in un cupo mutismo fino a che non rimase più neanche una goccia di birra indiana. A quel punto, con un «Be', devo andarmene, signora Sparsit», prese congedo.

Il giorno successivo, sabato, la signora Sparsit rimase seduta alla sua finestra per tutto il giorno, guardando l'andirivieni dei clienti, tenendo d'occhio i portalettere, osservando in generale il traffico nella strada, rimuginando varie cose, ma soprattutto contemdo la scala. Quando fu sera, si mise la cuffia, prese lo scialle e uscì silenziosamente. Aveva le sue buone ragioni per aggirarsi furtiva nei pressi della stazione dove sarebbe dovuto scendere un viaggiatore proveniente dallo Yorkshire, e per sbirciarvi dentro standosene nascosta dietro le colonne, dietro gli angoli, o spiando dalle finestre della sala d'aspetto riservata alle signore, attenta a non farsi vedere.

Tom, che era lì ad aspettare, continuò ad aggirarsi fino a che non arrivò il treno. Che tuttavia non portò nessun signor Harthouse. Tom rimase in attesa fino a che la folla non si disperse e non si acquietò il trambusto; poi si diede a controllare l'orario dei treni in arrivo e a consultarsi con i facchini. Fatto questo, si mise a camminare con aria indolente; ogni tanto si fermava per la strada, guardava in su e in giù, si toglieva il cappello, se lo rimetteva, sbadigliava, si stiracchiava: insomma esibiva tutti i sintomi del tedio mortale di chi deve restare in attesa di un treno che sarebbe arrivato di lì a un'ora e quaranta minuti.

«È un trucco per tenerlo fuori dai piedi. In questo momento Harthouse è con sua sorella!», concluse la signora Sparsit allontanandosi dal vetro opaco della finestra di un ufficio, da dove lo aveva tenuto d'occhio da ultimo.

L'idea le venne in un momento di ispirazione, e subito eccola schizzar via, agile e lesta, pronta ad attuarla. La stazione si trovava all'altro capo della città, rispetto alla casa del signor Bounderby; c'era poco tempo e la strada non era agevole. Ma lei fu così pronta a balzare su una carrozza vuota, così pronta a sfrecciarne fuori, a porgere i soldi, afferrare il biglietto, buttarsi a capofitto sul treno, che si trovò a percorrere le arcate sovrastanti i pozzi di carbone abbandonati e di pozzi ancora attivi, come se fosse stata sospinta dal vento.

Per tutta la durata del viaggio, la signora Sparsit rimase a contemplare la sua scala: immobile nell'aria, fissa davanti a lei, si stagliava agli occhi della sua mente tortuosa con la stessa chiarezza con la quale si delineavano agli occhi del suo volto i fili elettrici che, simili alle righe di uno spartito, solcavano il cielo al crepuscolo. Sulla scala una ura scendeva. Ormai vicina al fondo. Sul ciglio del baratro.

La nuvolosa sera di settembre, ormai prossima alla notte, vide con sguardo insonnolito la signora Sparsit che scivolava fuori dallo stimento, che scendeva i gradini di legno della stazioncina, per imboccare una strada sassosa, attraversarla, immettersi su un sentiero fra il verde, sire alla vista nascosta dalla copiosa vegetazione estiva di rami e foglie. Uno o due uccelli che cinguettavano insonnoliti nei loro nidi, un pipistrello che con volo pesante le passava e ripassava accanto, la polvere che lei stessa sollevava camminando sullo spesso strato di caligine soffice come il velluto: soltanto questo, nient'altro, la signora Sparsit vide o udì.

Chiuse silenziosamente il cancello, si avvicinò alla casa, nascondendosi fra i cespugli, vi girò intorno, spiando le finestre più basse attraverso le foglie. Erano quasi tutte aperte, come spesso accadeva quando il tempo era bello e mite, ma le luci non erano ancora accese, e tutto era immerso nel silenzio. Si avventurò in giardino, ma senza risultato. Le venne in mente il bosco e si avviò in quella direzione, noncurante dell'erba alta, dei rovi, dei bruchi, dei lumaconi, delle chiocciole e di tutti gli altri animaletti striscianti. Aguzzando gli occhi neri e puntando il naso aquilino, la signora Sparsit, attenta a non fare rumore, si aprì un varco attraverso la fitta boscaglia, così tesa verso il suo scopo che non avrebbe desistito neppure se si fosse trovata in un bosco di serpi.

Attenzione!

La signora Sparsit si fermò ad ascoltare: per poco gli uccellini più piccoli non capitombolarono dai loro nidi, incantati dal bagliore di quegli occhi nell'oscurità. Voci sommesse nelle vicinanze. La voce di Harthouse e quella di Louisa. Aveva avuto ragione: l'appuntamento era un trucco per tenere lontano il fratello! Eccolo laggiù, accanto all'albero tagliato.

La signora Sparsit si avvicinò strisciando fra l'erba umida di rugiada. Si raddrizzò e si piantò dietro un albero, simile a Robinson Crusoe nell'imboscata contro i selvaggi: con un balzo, neppure molto lungo, avrebbe potuto toccarli entrambi. Harthouse era lì di nascosto, tanto che non si era neppure fatto vedere in casa. Era venuto a cavallo, probabilmente, attraversando i campi vicini. Il cavallo era legato alla siepe, dalla parte prospiciente i campi, a pochi passi da lì.

«Amore mio adorato», le diceva, «che potevo fare? Potevo mai starmene lontano, sapendo che eravate sola?».

«China pure la testa per essere più carina; io non so che cosa vedano in te, quando la tieni su», pensò la signora Sparsit. «Non immagini neppure, amore mio adorato, chi ti tiene gli occhi addosso».

Che Louisa tenesse la testa china era certo: lo incitava ad andarsene, gli ordinava di andarsene, senza volgere il viso verso di lui, senza guardarlo. Ed era davvero straordinario che Louisa se ne stesse seduta immobile, come l'aveva sempre vista, in ogni momento della sua vita, l'amabile donna che la spiava stando in agguato. Teneva le mani appoggiate una sull'altra, quasi fosse stata una statua, e neppure il suo modo di parlare era concitato.

«Mia cara bambina», disse Harthouse e la signora Sparsit fu deliziata nel vedere che la cingeva con il braccio, «non volete accettare neanche per breve tempo la mia comnia?».

«Non qui».

«Dove, Louisa?».

«Non qui».

«Ma abbiamo così poco tempo e tante cose da dirci, e sono giunto fino a questo punto e sono così devoto e così turbato. Non ci fu mai schiavo così devoto e, nello stesso tempo, così maltrattato dalla sua innamorata. È davvero cosa che strazia il cuore venire qui sperando di ricevere il radioso benvenuto che mi ha risvegliato alla vita e trovare, invece, questa gelida accoglienza».

«Sono costretta a ripetere che devo restare qui sola per conto mio».

«Ma noi dobbiamo vederci, mia cara Louisa. Dove possiamo incontrarci?».

Trasalirono entrambi. Trasalì anche colei che stava ad ascoltarli, con un senso di colpa, perché pensò che ci fosse qualcun altro fra gli alberi ad ascoltare. Ma era soltanto la pioggia che cominciava a cadere fitta in grossi goccioloni.

«Volete che vi raggiunga a cavallo fra qualche minuto a casa e, con aria innocente, finga di credere che ci sia vostro marito e che sarebbe deliziato di ricevermi?».

«No!».

«Ai vostri ordini crudeli si deve obbedienza, questo è sottinteso, ma io sono, ne ho la certezza, l'uomo più sfortunato del mondo per essere rimasto indifferente a tutte le altre donne e, alla fine, cadere ai piedi della più bella, della più affascinante, della più imperiosa di tutte. Mia adorata Louisa, non posso andarmene e non posso permettere che ve ne andiate voi, abusando in questo modo crudele del vostro potere».

La signora Sparsit vide che lui cercava di trattenerla cingendola con il braccio, e sentì che a tratti - entro il raggio d'ascolto del suo avido orecchio (quello della signora Sparsit) - le diceva quanto l'amasse e come fosse lei il premio per il quale era disposto a perdere tutto quello che aveva nella vita. Se paragonato a lei, ciò che aveva perseguito si rivelava privo di ogni valore; il successo, ormai a portata di mano, lo rifiutava - spazzatura, se messo a suo confronto. La conquista del successo, se fosse servito a restarle vicino, oppure la rinuncia, se questo l'avesse tenuto lontano, oppure la fuga, se lei lo avesse seguito, oppure la clandestinità, se lei gliela avesse imposta, oppure qualsiasi altro destino: tutto gli era indifferente purché lei fosse fedele e sincera verso di lui, l'uomo che l'aveva capita nella sua solitudine, l'uomo che fin dal primo incontro aveva provato per lei un interesse e un'ammirazione di cui non si riteneva capace, l'uomo nel quale lei aveva riposto la propria fiducia, l'uomo che le era devoto e che l'adorava. Tutto questo, e molto di più, la signora Sparsit immagazzinò nella propria mente in un turbinio di emozioni: la concitata agitazione di lui e la propria, l'estasi che le derivava dalla propria apata malignità e il terrore di essere scoperta; il crescente tamburellare della pioggia sulle foglie e il temporale che si addensava - il tutto avvolto in un alone così sfocato e vago che quando Harthouse scavalcò la staccionata e si allontanò a cavallo, lei non avrebbe saputo dire con certezza né dove né quando si sarebbero visti, salvo che l'incontro doveva avvenire quella notte.

Ma uno dei due indugiava ancora nell'oscurità davanti a lei e, seguendo le sue tracce, avrebbe saputo tutto. «Oh, amor mio adorato», pensò la signora Sparsit, «non immagini neppure quanto tu sia bene scortata!».

Vide Louisa uscire dal bosco ed entrare in casa. Che cosa le restava da fare? Cadeva un fitto velo di pioggia. Le calze bianche erano diventate di tutti i colori, ma predominava il verde; le scarpe erano piene di spine e di aghi; dai suoi abiti, in vari punti pendevano bruchi incapsulati in bozzoli da loro stessi costruiti; rivoletti d'acqua le scorrevano dalla cuffia lungo il naso romano: così ridotta la signora Sparsit se ne stava nascosta nel folto dei cespugli, dibattendo il da farsi.

Attenzione! Louisa esce dalla casa! Con un mantello frettolosamente gettato sulle spalle, si allontana furtiva. Fugge! Cade dall'ultimo gradino. Il baratro si apre davanti ai suoi piedi per inghiottirla.

Incurante della pioggia, con passo rapido e deciso, Louisa imboccò un sentiero laterale che correva parallelo a quello riservato ai cavalli. La signora Sparsit la seguì, nascondendosi tra gli alberi e tenendosi a breve distanza per paura di perderla, visto che camminava tanto in fretta nell'oscurità chiazzata dalle fronde.

Quando Louisa si fermò per chiudere, senza far rumore, il cancelletto laterale, anche la signora Sparsit si fermò; quando Louisa riprese il cammino, anche la signora Sparsit riprese il cammino. Percorse la stessa strada che aveva percorso la signora Sparsit; sbucò dal sentiero fra il verde, attraversò la strada sassosa, salì i gradini di legno che conducevano alla ferrovia. Fra poco sarebbe passato un treno diretto a Coketown, la signora Sparsit lo sapeva, e capì che Coketown sarebbe stata la prima destinazione.

Fradicia e zoppicante com'era, non occorreva mettere in atto misure di prudenza straordinarie per alterare il proprio aspetto: la signora Sparsit si fermò al riparo di un muro della stazione, ripiegò lo scialle e se lo mise in testa, sopra la cuffia. Così camuffata, la seguì su per i gradini fin dentro la stazione, e, senza timore di essere riconosciuta, acquistò il biglietto nel piccolo ufficio. Louisa aspettava seduta in un angolo; la signora Sparsit aspettava seduta in un altro angolo. Entrambe sentirono il fragore del tuono e rimasero ad ascoltare la pioggia che scrosciava sui parapetti dei viadotti. La pioggia spense due o tre lampioni; così entrambe videro il lampo che si abbatteva rapido come un fremito sui binari di ferro.

In preda a una crisi di convulsioni, la stazione cominciò a scuotersi in modo sempre più violento, annunciando così l'arrivo del treno. Fuoco e fumo e vapore e luce rossa; un sibilo, uno schianto, uno squillo, un fischio: Louisa entrò in uno stimento, la signora Sparsit entrò in un altro; la stazione rimase vuota, un puntolino nella tempesta.

Pur battendo i denti per il freddo e l'umidità, la signora Sparsit era esultante. Dopo aver percorso fino in fondo la scala, la ura era precipitata nell'abisso e lei aveva, per così dire, la sensazione di vegliare su un cadavere. Sentirsi esultante era il meno che potesse provare colei che era stata tanto attiva a organizzare quelle esequie, no? «Arriverà a Coketown molto prima di lui, per buono che sia il suo cavallo», pensò la signora Sparsit. «Dove andrà ad aspettarlo? Dove andranno insieme? Pazienza: staremo a vedere!».

Quando il treno giunse a destinazione, la pioggia, che continuava a scrosciare, aveva creato una gran confusione. Erano scoppiate grondaie e tubature, gli scarichi rigurgitavano, le strade erano allagate. Non appena scesa, la signora Sparsit volse lo sguardo verso le carrozze in attesa, che venivano prese d'assalto. «Ne prenderà una», pensò, «e sarà già lontana prima che io possa trovarne un'altra. Anche a rischio di farmi travolgere, devo prendere il numero della carrozza e sentire gli ordini che darà al cocchiere».

Ma la signora Sparsit aveva fatto male i suoi calcoli. Louisa non salì su nessuna carrozza; se ne era già andata. I neri occhi si posarono sul vagone nel quale Louisa aveva viaggiato, ma vi si fissarono un attimo troppo tardi. La signora Sparsit rimase ad aspettare per parecchi minuti che si aprisse la porta, vi passò e ripassò vicino, non vide nulla; guardò dentro e si accorse che era vuoto. Bagnata fradicia, tutta inzuppata, con i piedi che sguazzavano e sciaguattavano nelle scarpe a ogni passo, con il volto classico grondante di pioggia, con la cuffia spiaccicata in testa che pareva un fico troppo maturo; con gli abiti rovinati, e, sulla schiena che vantava parentele tanto altolocate, i segni lasciati da ogni asola, da ogni bottone, da ogni nastro; tutta ricoperta di una muffa verde simile al muschio che avvolge le vecchie staccionate nei sentieri umidi, alla signora Sparsit non rimase che scoppiare in lacrime amare e singhiozzare: «L'ho perduta!».

XII

. GIÙ IN FONDO

In quel periodo i netturbini addetti all'immondezzaio nazionale, dopo essersi trastullati con infinite schermaglie e rumorose polemiche, se ne erano andati tutti in vacanza e il signor Gradgrind era a casa.

Se ne stava seduto nella sua stanza in comnia dello spietato orologio statistico, intento a dimostrare che, molto probabilmente, il Buon Samaritano era, un Cattivo Economista. Il rumore della pioggia, pur senza disturbarlo, lo distraeva e, di tanto in tanto, lo costringeva ad alzare la testa con l'aria di essere piuttosto seccato con gli elementi. A ogni rombo di tuono, gettava un'occhiata verso Coketown, preoccupato che un fulmine si abbattesse su qualche ciminiera.

Il tuono cominciava ad allontanarsi brontolando e la pioggia continuava a scrosciare da parere il diluvio, quando ecco aprirsi la porta della sua stanza. Alzando lo sguardo al di sopra del lume appoggiato sul tavolo, con stupore, vide la sua primogenita.

«Louisa!».

«Devo parlarvi, padre!».

«Di che si tratta? Che strana sei! Santo cielo, sei venuta fin qui con questo temporale?», chiese il signor Gradgrind sempre più perplesso.

Louisa si lisciò l'abito con le mani, come se non se ne fosse neppure accorta. «Sì». Poi si scoprì la testa, lasciando cadere cappuccio e mantello dove capitava, e rimase in piedi a fissarlo: pallida, scarmigliata, con un'espressione di sfida così disperata che lui ne fu spaventato.

«Che cos'è? Ti supplico, Louisa, che cos'hai? Dimmelo».

Lei si lasciò cadere su una sedia che gli stava di fronte e gli posò sul braccio una mano gelida.

«Padre, voi mi avete educata fin dalla culla».

«Sì, Louisa».

«Maledico l'ora in cui sono nata a un destino come il mio».

La guardò inquieto e spaventato, ripetendo con aria vacua: «Maledico l'ora? Maledico l'ora?».

«Come avete potuto darmi la vita e togliermi tutte le cose inestimabili che la rendono diversa da uno stato di morte cosciente? Dov'è la grazia della mia anima? Che ne avete fatto, padre, che ne avete fatto del giardino che avrebbe dovuto fiorire nel grande deserto del mio cuore?».

Si batté le mani sul petto.

«Bastava che fiorisse per poco: le ceneri avrebbero salvato la mia vita dal nulla, dal vuoto nel quale affonda. Non volevo parlarvene, ma ricordate, padre, l'ultima volta che siamo stati insieme, qui, in questa stanza?».

Gradgrind, del tutto impreparato a quel discorso, rispose: «Sì, Louisa», con grande sforzo.

«Le parole che mi vengono alle labbra le avrei dette anche allora se solo per un attimo mi aveste aiutata. Non vi rimprovero, padre. Quello che non avete coltivato dentro di me, non l'avete mai coltivato dentro di voi. Se almeno lo aveste fatto, tanto tempo fa ormai, o se almeno mi aveste trascurata! Oggi sarei ben più felice e migliore!».

Nel sentirsi dire questo, dopo essersi tanto prodigato, Gradgrind si prese la testa fra le mani e gemette forte.

«Padre, se allora, quando, per l'ultima volta, siamo stati qui insieme, aveste saputo quello che perfino io paventavo, pur cercando con tutte le forze di soffocarlo - io che fin dall'infanzia ho avuto il compito di reprimere ogni moto spontaneo del cuore - se aveste saputo che dentro di me si annidano sentimenti, affetti, debolezze che avrebbero ben potuto, se accuditi con tenerezza, diventare forza d'animo, una forza irriducibile ai calcoli dell'uomo, estranea alla sua aritmetica quanto lo è il Creatore stesso, mi avreste data in moglie all'uomo che ora sono certa di odiare?».

«No, no, bambina mia».

«Mi avreste mai condannata al gelo e alla disperazione che hanno indurito e devastato il mio cuore? Mi avreste sottratto - senza che per questo nessuno si arricchisse, ma crescesse soltanto la desolazione di questo mondo - la parte incorporea, immateriale della mia vita: il rigoglio, la primavera e l'estate della mia capacità di credere, il mio rifugio dalle cose che intorno a me sono sordide e malvagie, il luogo in cui avrei potuto apprendere a essere più umile e più fiduciosa e, perfino, nel mio piccolo, a sperare di renderle migliori?».

«Oh, no, no. No, Louisa».

«Padre, se fossi nata cieca, se fossi stata costretta a muovermi a tentoni lungo la mia strada, aiutandomi soltanto con il tatto e se, conoscendo la forma e l'involucro esterno delle cose, fossi stata libera di giocarci con la fantasia, io sarei stata una donna mille volte più saggia, più felice, più tenera, più soddisfatta, più umana e innocente di quanto non lo sia ora, fornita, come sono, di occhi. Ascoltate quello che sono venuta a dirvi».

Gradgrind si mosse per sostenerla con il suo braccio e, a questo gesto, Louisa si alzò. Rimasero l'uno accanto all'altra: lei con la mano sulla spalla del padre, fissandolo assorta.

«Sentendo dentro di me una fame e una sete che non si sono mai placate, un ardente impulso che irresistibilmente mi chiamava verso regioni dove regole, cifre, definizioni non regnavano sovrane: così, padre, lottando palmo a palmo, sono diventata donna».

«Non sapevo, non ho mai saputo che tu fossi infelice, bambina mia».

«Io l'ho sempre saputo, padre. In questa lotta ho quasi respinto il mio buon angelo e l'ho trasformato in demonio. Quello che ho imparato mi ha lasciata dubbiosa, incredula, piena di disprezzo e di rancore, a rimpiangere quello che non ho imparato. Il pensiero che la vita trascorrerà in fretta e che per me non ha in serbo nulla per cui valga la pena di soffrire e battersi: ecco la mia squallida risorsa e consolazione».

«Sei tanto giovane, Louisa!», disse con profonda pena.

«Sì, tanto giovane. A me, in questa condizione - senza timore e senza ipocrisie vi rivelo, come lo sperimento io, il consueto stato d'animo di indifferenza e di apatia nel quale vivo - a me voi avete proposto di sposare l'uomo che è mio marito. Ho acconsentito. Non ho mai finto, né con lui, né con voi, di amarlo. Io sapevo di non amarlo, padre; lo sapevate voi e lo sapeva anche lui. Non c'era soltanto indifferenza in me: speravo di fare cosa gradita e utile a Tom. Una folle fuga verso un'illusione: mi ci è voluto del tempo per capire quanto fosse folle. Ma su Tom avevo riversato tutta la poca tenerezza della mia vita; forse è diventato quello che è diventato perché sapevo compatirlo. Poco importa ora, salvo che forse voi sarete più incline all'indulgenza nel giudicare i suoi errori».

Siccome il padre la teneva stretta fra le braccia, lei gli pose l'altra mano sulla spalla e, sempre guardandolo fisso, proseguì.

«Quando fui irrevocabilmente sposata, ecco crescere in me la ribellione contro quel legame, l'antica insofferenza, resa più acuta dalle infinite diversità che contraddistinguono due individui e che mai nessuna legge generale riuscirà a comporre o a disporre, padre, fino a quando non sarà possibile affondare il bisturi del chirurgo nel segreto dell'animo».

«Louisa!», esclamò, e la sua voce aveva un tono implorante, perché ricordava bene quello che si erano detti in quell'occasione.

«Non vi rimprovero, padre, non recrimino. Sono venuta per un altro motivo».

«Cosa posso fare, bimba mia? Chiedimi quello che vuoi».

«Arrivo al punto, padre. Il caso ha gettato sul mio cammino un'altra persona, un uomo quale non avevo mai conosciuto: esperto del mondo, noncurante, raffinato, disinvolto; un uomo che non fingeva, che ammetteva senza reticenze di aver così scarsa considerazione per ogni cosa che mi intimoriva il riconoscere in me anche soltanto metà di tanta indifferenza; un uomo che senza indugio mi ha lasciato intendere - io stessa non so come o attraverso quali fasi lui sia giunto a tanto - che mi capiva ed era in grado di leggere nei miei pensieri. Che fosse peggiore di me, questo non lo sapevo. Sembrava che ci fosse una profonda affinità fra noi. Mi sorprendeva soltanto che un uomo incapace di interessarsi ad alcunché, trovasse interesse per me».

«Per te, Louisa!».

Suo padre avrebbe istintivamente lasciato la stretta, se non avesse percepito che le forze stavano per abbandonarla e non avesse scorto negli occhi dilatati, fissi su di lui, uno sguardo che ardeva di una fiamma selvaggia.

«Non vi racconterò come si è conquistato la mia fiducia e la mia confidenza. Non importa sapere come abbia fatto. Il punto è che ci è riuscito. Le cose che voi ora sapete sul mio matrimonio, lui le ha intuite subito».

Il volto di suo padre era cinereo, mentre la stringeva fra le braccia.

«Non sono andata oltre, non ho gettato l'infamia su di voi. Ma se mi chiedete se l'abbia amato o se lo ami ora, vi rispondo, padre, con grande franchezza e semplicità, che forse è così. Non lo so».

All'improvviso ritrasse le mani che aveva appoggiato sulle spalle del padre e se le strinse contro i fianchi, mentre sul suo volto, che aveva un'espressione così diversa da quella consueta, sulla sua persona ritta, decisa a concludere con un ultimo sforzo quello che le rimaneva da dire, trasparivano emozioni a lungo trattenute.

«Questa notte, in assenza di mio marito, è venuto da me dichiarandomi il suo amore. In questo istante, poiché non avevo altra possibilità di liberarmi di lui se non promettendogli che lo avrei raggiunto, mi sta aspettando. Non so se provo dolore, non so se provo vergogna, non so se mi disprezzo. So soltanto che la vostra filosofia e i vostri insegnamenti non valgono a salvarmi. Siete voi che mi avete portata a questo punto. Salvatemi con qualche altro mezzo!».

Riuscì ad afferrarla in tempo prima che si afflosciasse a terra; con voce terribile Louisa urlò: «Morirò, se mi sorreggete! Lasciatemi cadere!». Ed egli la adagiò per terra e in quel mucchietto privo di sensi che giaceva ai suoi piedi, contemplò l'orgoglio del suo cuore e il trionfo del suo sistema.








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