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MOTIVAZIONE E APPRENDIMENTO - COMPONENTI COGNITIVE, STRATEGICHE E METACOGNITIVE DELL'APPRENDIMENTO

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MOTIVAZIONE E APPRENDIMENTO di R. De Beni e A. Moè


  1. COMPONENTI COGNITIVE, STRATEGICHE E METACOGNITIVE DELL’APPRENDIMENTO

Nel cercare di capire perché alcuni studenti imparano con facilità e piacere raggiungendo alti livelli di prestazione, mentre altri hanno carriere scolastiche più stentate, abbiamo individuato 4 distinti livelli o componenti:

§ abilità innate

§ strategie utilizzate per apprendere

§ capacità metacognitive

§ motivazione

Mentre questi livelli possono essere studiati e definiti separatamente, il loro funzionamento va visto nel complesso, poiché vi sono stretti rapporti fra l’una e l’altra componente e i confini fra livelli, in alcuni casi, risultano essere sfuocati.


I.    Abilità innate ed 'expertise'.

Abilità innate = capacità potenzialmente presenti fin dalla nascita che permettono l’acquisizione di apprendimenti complessi


È possibile pensare alle abilità

§ come forme geneticamente predeterminate che possono essere sostenute, ignorate o frenate dall’ambiente posizione, un po’ più rigida, che prevede l’esistenza di limiti (strutturali) per cui alcune persone, nonostante l’ambiente favorevole, la grande quantità di impegno prodigato, l’uso di efficaci strategie, la forte motivazione, non riescono ad andare oltre un certo livello prefissato(#)

oppure

§ come delle predisposizioni tendenzialmente universali ad apprendere nei più diversi ambiti (es: musicale, artistico, letterario, matematico) posizione che implica, invece, che, chiunque, dato un approccio corretto al compito, sia dal punto di vista strategico che motivazionale, e in seguito ad un adeguato sostegno sociale e culturale, può sviluppare in modo tendenzialmente illimitato le varie capacità



naturalmente esistono posizioni intermedie, secondo le quali le diverse abilità non sono rigide, ma possono migliorare, però fino ad un massimo che cambia da individuo ad individuo; un’ulteriore possibilità è quella che prevede l’esistenza di diverse sottoabilità, alcune più modificabili, altre più rigide, possedute in misura diversa da ogni singolo individuo (in questo caso, il termine 'misura' può riguardare il livello di predisposizione di base, come anche, soprattutto, quello di crescita potenziale fino ad un punto che è il massimo per quella persona)


Se la prima posizione(#) può contribuire a spiegare alcune situazioni particolari, quali le difficoltà specifiche di apprendimento, il ritardo mentale o altri deficit a volte anche di natura organica, la tendenza più attuale è quella di riconoscere un ruolo più limitato agli aspetti innati e rigidi e di attribuire maggiore importanza all’esperienza, all’apprendimento e al sostegno ambientale ð Abilità innate = capacità o dotazioni che, presenti alla nascita, emergono, crescono e modificano per effetto di numerosi elementi, alcuni più controllabili (ambienti favorevoli, istruzioni, esperienze, riflessioni), altri meno controllabili dal singolo (maturazione, sviluppo cognitivo, influenze socioculturali)


Alcuni autori hanno interpretato l’abilità o le abilità come forme di intelligenza. In tal senso, è possibile individuare un fattore generale che sovrintende ad una serie di abilità e una serie di tante piccole sottoabilità. Queste capacità, a loro volta, possono essere intese come del tipo tutto o niente o, più frequentemente, essere collocate lungo un continuum.


ð  Le relazioni fra abilità innate e componenti strategiche, metacognitive e motivazionali dell’apprendimento dipendono da come queste abilità vengono interpretate:

§ secondo una concezione più rigida che vede le abilità come poco modificabili e controllabili, gli individui sarebbero più strategici, metacognitivi e motivati solo per quelle attività in cui si sentono abili sostiene maggiormente l’evitamento

§ al contrario, secondo una visione più flessibile, le conoscenze e le capacità di controllo metacognitivo, nonché i livelli motivazionali, dipenderebbero dalla qualità delle strategie messe in atto per accrescere le abilità possedute o, in una visione intermedia, deriverebbero da un’interazione fra le proprie abilità e le strategie impiegate sostiene maggiormente la motivazione


ð  Le relazioni fra abilità e motivazione risentono quindi del modo in cui le abilità sono concepite, più che dell’effettivo livello di capacità. Anzi, non sempre capita che ad una maggiore abilità corrispondono una maggiore motivazione e prestazioni superiori. Questo avviene probabilmente perché ragazzi con abilità spiccate vengono posti in classi normali dove non possono incontrare situazioni adeguatamente sfidanti per metterle alla prova. Del resto, la creazione di classi composte da soli studenti particolarmente intelligenti o dotati può determinare un effetto definito come 'big fish little pond effect' (pesce grosso nello stagno piccolo) per cui la percezione di competenza di uno studente particolarmente abile (pesce grosso) è alta in classi normali (stagno piccolo), ma si abbassa immediatamente quando lo studente è posto in classi differenziali, dove tutti gli studenti sono abili, poiché tale percezione di competenza è basata essenzialmente sul confronto sociale. Tutto questo sta ad indicare non solo che le abilità non sono sufficienti a determinare buone prestazioni scolastiche, ma che a volte, addirittura, abilità particolarmente spiccate possono ostacolare l’apprendimento per effetto della mancanza di stimoli adeguati o di una confronto sociale troppo serrato.


Pur non negando l’esistenza di già spiccate abilità di base nel settore, l’esperto in uno specifico compito (es: il gioco degli scacchi, la risoluzione di problemi di fisica) è colui che, in seguito ad una lunga pratica in un settore, ha acquisito capacità e strategie che gli consentono di svolgere i compiti con maggiore precisione, velocità e soddisfazione. Spesso l’esperto è anche molto motivato per l’attività che svolge, anche se è difficile distinguere quanto la motivazione possa essere considerata causa o effetto dell’expertise. Expertise = insieme di abilità sviluppate in ambiti specifici attraverso una lunga pratica nel compito, in genere accomnata da un buon uso di strategie e da alti livelli motivazionali. Gli esperti, rispetto agli inesperti, e in relazione ad uno specifico ambito:

§ vedono e rappresentano il problema ad un livello più profondo e percepiscono degli insiemi significativi più grandi. Le strutture di conoscenza degli esperti sono più dettagliate e organizzate. La percezione e l’organizzazione dei problemi avviene a livello astratto per gli esperti e concreto per gli inesperti

§ sono più veloci e risolvono i problemi correttamente perché hanno acquisito delle conoscenze procedurali automatizzate che permettono loro di economizzare sul tempo necessario per attivare i processi di controllo. Utilizzano strategie, o tecniche di ricerca, per risolvere il problema a livello di memoria a breve termine e sono facilitati dalla possibilità di accesso ad una gran quantità di informazioni, immagazzinate nella memoria a lungo termine, relative a quell’ambito specifico

§ hanno capacità superiori di controllo sulla propria prestazione

§ di conseguenza, ottengono risultati migliori

SVANTAGGI:

§ le conoscenze dell’esperto possono venire superate da tecnologie o paradigmi più moderni ed essere difficilmente aggiornate a causa di una certa rigidità dovuta al consolidamento e all’automatizzazione derivanti da anni di pratica

§ l’esperto in un’area viene ritenuto dagli altri come uno specialista in quel dato ambito e non come un conoscitore di un settore più vasto

§ in casi estremi, l’esperto (es: calcolatori di calendari) può addirittura essere una persona con ritardo mentale (idiot savant) che, per compensare la mancanza di abilità e per essere socialmente più accettata, si esercita costantemente in un dato ambito, ottenendo (ma solo in quel settore) risultati eccezionali

§ l’esperto in un’area è portato ad essere sempre più esperto fino al punto di raggiungere i livelli massimi di conoscenza e abilità oltre i quali è ben difficile andare. A questo punto è possibile invece regredire o comunque ottenere prestazioni al di sotto del massimo. Questa situazione, se non correttamente interpretata, può far vacillare, dal punto di vista emotivo e motivazionale, l’esperto stesso

VANTAGGI:

§ l’esperto impara più velocemente nuovi compiti che ingloba nelle strutture di conoscenza preesistenti

§ riesce a svolgere compiti in parallelo: non solo sa di più, ma ha anche maggiori potenzialità di apprendimento e di analisi dei nuovi problemi per effetto degli automatismi e della possibilità di sfruttare strutture di conoscenza preesistenti


II.  Strategie e metodi di studio.

Come illustrato nel paragrafo precedente, alcune differenze di ordine qualitativo e/o quantitativo nell’apprendimento possono essere spiegate facendo riferimento alle abilità possedute e all’esperienza con il compito. Queste spiegazioni costituiscono un primo livello di analisi, certamente importante soprattutto in alcuni casi in cui la carenza di abilità rappresenta un vero ostacolo all’apprendimento. Esempi tipici sono i casi di ritardo mentale o di disturbo specifico dell’apprendimento in cui la mancanza di specifiche abilità impedisce l’effettivo progredire, nonostante gli interventi strategici e motivazionali. Questa spiegazione che fa riferimento alle abilità e all’esperienza, da sola, è però insufficiente per almeno 3 motivi:

§ le abilità possedute sono potenzialità che possono anche rimanere inespresse se non vengono dimostrate attraverso l’esecuzione di diversi compiti e la contemporanea adozione di strategie

§ vi è la possibilità concreta che, nell’affrontare le diverse situazioni di apprendimento, le abilità non solo vengono dimostrate, ma possono anche svilupparsi e migliorare

§ la possibilità di diventare esperto richiede molto esercizio a cui deve necessariamente associarsi l’uso adeguato e metacognitivo di efficaci strategie di apprendimento

E proprio le strategie costituiscono un aspetto ulteriore che può contribuire a spiegare le differenti prestazioni di studenti con abilità normali e ad interpretare in modo più critico i casi di abilità eccezionali (superdotati o 'bambini prodigio'). Infatti, soggetti che paiono come particolarmente dotati spesso possiedono abilità nella norma, mentre si distinguono per un più corretto uso di strategie e per una lunga pratica nel compito. Con questo non si intende dire che la conoscenza e l’uso di efficaci strategie e la loro applicazione ragionata (metacognitiva) e continua facciano di ogni bambino un genio, indipendentemente dalle abilità sottostanti. Strategie = procedure potenzialmente consapevoli e controllabili e aventi scopi specifici quali l’apprendimento. Può essere considerata strategia ogni tipo di attività che non deriva semplicemente dall’esecuzione del compito, ma rinvia ad una specifica scelta nell’ambito di diversi processi potenziali. Elementi importanti del concetto di strategia sono quindi lo scopo cognitivo e l’elemento di consapevolezza che implica la possibilità di scelta e di controllo. Studio = tipo particolare di apprendimento che consiste nella lettura attenta e selettiva, mirata a comprendere e a memorizzare le informazioni utili per eseguire una prova. La definizione di studio, come quella di strategia, implica intenzionalità. Si è soliti distinguere 3 differenti fasi di studio (per ognuna delle quali è possibile utilizzare diversi tipi di strategie):

§ organizzazione e definizione degli obiettivi (strategie per programmare il tempo di studio, concentrarsi, scegliere il luogo dove studiare o le ore del giorno in cui si studia con maggior profitto)

§ lettura, comprensione e elaborazione dei contenuti (strategie per leggere più velocemente, sottolineare, schematizzare, prendere appunti)

§ memorizzazione e successiva eventuale rievocazione del materiale (strategie per ricordare più a lungo e più efficacemente, organizzare il momento del ripasso, gestire l’ansia da esame, anticipare le domande e le possibili risposte, informarsi sul tipo di prova e sui più probabili contenuti)

Le strategie di studio possono essere organizzate in piani più complessi fino a costituire un metodo di studio = insieme strutturato di strategie che riguarda tutte le fasi dello studio. Ne esistono di numerosi:

§ uno dei più conosciuti è il metodo SQ4R proposto da Robinson. Questo metodo prevede di sfogliare il materiale (Survey), porsi delle domande (Question), leggere una prima volta (Read), rileggere analizzando bene il testo (Reread), ripetere appena finito di leggere (Recite) e ripassare (Review)

§ un altro metodo è il MURDER proposto da Dansereau e basato sull’apprendimento cooperativo e sul lavoro di gruppo. A partire da un atteggiamento mentale ed emotivo positivo verso il materiale di studio (Mood), lo studente dovrebbe leggere cercando di capire (Understand), riassumere e ricordare senza guardare il testo (Recall), controllare nel testo l’esattezza e la completezza del ricordo (Detect), mettere in atto strategie per fissare meglio i contenuti (Elaborate) e infine ripassare (Review)



Mentre questi 2 metodi presentano un approccio generale e ad ampio spettro, altri metodi risultano essere un po’ più specifici in quanto sottolineano alcuni ben determinati aspetti:

§ il metodo REAP si basa sull’assunto che i contenuti non sono ben compresi finché non vengono comunicati. L’applicazione del metodo implica pertanto di tradurre con parole proprie l’idea dell’autore, di rifletterci sopra e di annotare o ripetere quanto elaborato

§ il metodo Structured Overview sottolinea l’importanza di uno schema anticipatorio, la cui funzione è di consentire una maggiore integrazione delle informazioni in precedenti strutture di conoscenza. Il metodo prevede, pertanto, che l’insegnante prepari uno schema da presentare e discutere in classe prima della lettura del materiale che andrà elaborato e confrontato in base allo schema precedentemente fornito

§ il metodo DRTA puntualizza il valore delle aspettative iniziali sul contenuto del testo che il lettore si accinge a studiare e prevede pertanto la formulazione di predizioni da verificare o smentire nel corso della lettura

§ il metodo ReQuest pone l’accento sull’importanza delle domande, fattuali e di deduzione, che consentono di meglio comprendere e ricordare. Il metodo prevede pertanto la lettura mentale seguita da domande e risposte su quanto letto, piuttosto che la semplice e sola ripetizione di tutti i contenuti studiati

Questi e altri metodi esposti negli anni 60/70 pongono l’accento principalmente sulle strategie dirette alla lettura, comprensione e apprendimento del testo, quali la formulazione di attese e previsioni circa i contenuti che ci si accinge a leggere, l’uso di uno schema anticipatorio che permette di familiarizzare con i concetti chiave e i termini specifici e di comprendere le relazioni fra i concetti, il porsi delle domande dopo la lettura del testo, al fine di riuscire a comprenderlo meglio e quindi a ricordarlo di più, o l’adottare una sequenza di strategie di pre-lettura, lettura e ripasso tutte comunque relative al materiale di studio. Solo Dansereau anticipa alcune variabili importanti che riguardano anche il lettore piuttosto che il solo testo. Queste variabili, che tengono conto delle caratteristiche di chi affronta il materiale di studio e degli atteggiamenti che questi assume sono, invece, aspetti molto importanti al fine di valutare l’effettiva efficacia dei vari metodi. Le prime esperienze con i programmi strategici, condotte negli anni 70, avevano, infatti, portato a constatare

da un lato l’efficacia delle strategie

dall’altro   l’esistenza di importanti limiti, fra cui soprattutto il mancato mantenimento strategico (nelle stesse situazioni) e trasferimento (in situazioni o con materiali diversi) dei metodi appresi

L’insegnamento di strategie risultava efficace nell’immediato. Spesso, però, le strategie e i metodi appresi non venivano poi applicati nuovamente, in modo spontaneo, dai ragazzi in momenti successivi. L’insegnamento di una o più strategie è quindi condizione necessaria ai fini di una buona prestazione, ma non sufficiente per garantire una successiva applicazione spontanea delle strategie insegnate. Un corretto intervento strategico, al fine di garantire il successivo mantenimento e trasferimento:

§ dovrebbe comprendere anche gli aspetti di tipo metacognitivo, quali le conoscenze circa le proprie abilità (es: di memoria), e motivazionale che possono sostenere lo studente nell’applicazione delle varie strategie e metodi

§ la sua lunghezza ottimale dovrebbe essere tale da consentire di rendere automatizzate le procedure, senza per questo risultare noioso

§ dovrebbe fornire ai ragazzi consapevolezza dell’utilità del metodo insegnato (succede spesso, infatti, che i ragazzi siano restii a cambiare i vecchi metodi con i nuovi proposti)

Queste riflessioni hanno condotto a sviluppare un modo nuovo di insegnare le strategie, definito come intervento metacognitivo. Questa nuova modalità prevede di partire dalla presa di conoscenza da parte dello studente dei metodi di studio e delle strategie già adottate e dalla riflessione personale circa i vantaggi e i limiti degli approcci abituali. In questo modo, lo studente risulta più motivato. Tale modalità di intervento parte quindi dallo studente e dalle sue riflessioni, piuttosto che da una visione normativa del metodo di studio, come regola proposta dall’insegnante.


III.    Strategie di memoria.

I contenuti imparati devono non solo essere compresi, ma anche fissati e mantenuti in memoria per lungo tempo o comunque per il tempo necessario prima della prova d’esame o della verifica in classe. Alcuni dei metodi sopra presentati comprendono fasi relative al ricordo e suggeriscono alcune strategie che possono renderlo meno difficoltoso e più sicuro (es: comprendere a fondo, rielaborare con parole proprie, provare a ripetere con il testo chiuso, porsi delle domande, massimizzare la concentrazione, eliminare le distrazioni, focalizzare l’attenzione, provare interesse per i contenuti, anche collegandoli con gli scopi personali o con elementi autobiografici). Oltre a questi suggerimenti, che fondano la loro efficacia essenzialmente sull’elaborazione profonda e personale del materiale, sostenuta da concentrazione e interesse, esistono delle vere e proprie strategie di memoria la cui funzione è quella di potenziare il ricordo. Strategie di memoria = procedure che, enfatizzando i normali principi di funzionamento della memoria, quali l’organizzazione del materiale o l’uso di immagini, facilitano il ricordo. È possibile distinguere fra strategie di memoria

§ semplici procedure, spesso prodotte spontaneamente o con un minimo di intenzionalità e sforzo, che non richiedono alcuno specifico intervento per essere apprese (es: la ripetizione meccanica dei termini da memorizzare, l’uso di immagini mentali o di associazioni, l’organizzazione del materiale da ricordare)

§ complesse metodi strutturati quali il concatenamento, il metodo dei loci o fonetico che sono procedure complesse, che richiedono pianificazione e controllo e, in genere, sono state apprese in specifici corsi



§ metodo del concatenamento = prevede di immaginare il primo item, di immaginare il secondo e di collegare i 2, poi di immaginare il terzo e collegarlo con il secondo, il quarto con il terzo e così via

§ metodo dei loci e metodo fonetico = prevedono la creazione di uno schedario mentale in cui collocare gli item da memorizzare. Tale schedario, che può essere utilizzato ripetutamente con materiale diverso, è costituito nel caso del metodo dei loci da un serie di luoghi posti lungo un percorso familiare, nel caso del metodo fonetico da caselline costruite in base ad associazioni fonetiche

Alcune strategie sono applicabili ad una grande varietà di tipi di materiale, altre sono invece state ideate per specifiche situazioni. Ad esempio, per lo studio del lessico di una lingua straniera risulta particolarmente efficace la tecnica della parola chiave, che consiste nel creare l’immagine di una parola italiana il cui suono è simile alla parola straniera e nel renderla interattiva con un’altra immagine che rappresenti il significato della parola (es: pioggia rain ragno ragno sotto la pioggia). L’efficacia delle strategie di memoria è stata dimostrata anche con soggetti che presentano difficoltà di apprendimento. Molte strategie di memoria fondano la loro efficacia sull’uso di immagini mentali. Immagini mentali = rappresentazioni mentali degli item o dei contenuti da memorizzare, create da sé o suggerite da altri (es: l’insegnante) o dal testo (es: illustrazioni o diagrammi). Sono, frequentemente, di tipo visivo, ma possono essere anche di tipo uditivo o relative ad altre modalità percettive. Altri principi spiegano perché le strategie di memoria sono efficaci. Questi riguardano l’organizzazione del materiale da apprendere, l’uso di associazioni, il dare significato al materiale, l’individuazione di parole-chiave, l’uso di cues (indicazioni) di vario tipo: autobiografici, spaziali, su casellario. Questi principi sono, in realtà, gli stessi su cui si basa la memoria naturale, non intenzionale, ma, nel caso delle strategie di memoria, vengono massimizzati e utilizzati con la specifica intenzione di ricordare. L’efficacia delle strategie di memoria, inoltre, non si limita agli aspetti cognitivi, ma si estende anche a quelli metacognitivi e motivazionali. L’utilizzo delle strategie di memoria consente, infatti, di accrescere le conoscenze della propria memoria e del funzionamento mestico in generale e può produrre un miglioramento nel grado di fiducia circa le proprie possibilità di ricordare. Imparare attraverso l’uso di specifiche strategie di memoria, piuttosto che in modo più spontaneo e certamente meno strategico, può inoltre rendere più divertente e quindi più motivante l’apprendimento. Le strategie di memoria, insieme alle strategie di studio e alle abilità di base, contribuiscono quindi a spiegare le diverse prestazioni ottenute di fronte a compiti identici affrontati, però, con competenze di base e strategie differenti. Le motivazioni riguardano essenzialmente la scelta di affrontare o evitare il compito oppure di affrontalo in modo più o meno strategico oppure i livelli di persistenza di fronte a ostacoli o imprevisti o semplicemente nell’eseguire compiti e nel raggiungere mete che sono distanti nel tempo. Gli aspetti metacognitivi si riferiscono, invece, alle conoscenze e alle capacità di controllo.


IV.    Aspetti metacognitivi.

Gli aspetti metacognitivi costituiscono il terzo livello di spiegazione e si riferiscono ad elementi piuttosto eterogenei, ma accomunati dall’essere abilità di tipo meta (che sovrintendono, dirigono e organizzano una serie di aspetti per buona parte relativi all’uso e all’applicazione di strategie e alla capacità di identificare motivazioni adeguate e di sostenere le motivazioni preesistenti). Metacognizione = insieme di attività psichiche che presiedono al funzionamento cognitivo. All’interno della teoria metacognitiva una distinzione importante è quella che contrappone elementi di conoscenza del proprio e dell’altrui funzionamento cognitivo a elementi di controllo che si riferiscono alle abilità di valutazione e di monitoraggio della propria attività cognitiva.

§ Conoscenze: riguardano quanto il soggetto sa o crede circa una pluralità di aspetti distinti quali la memoria, la comprensione, lo studio, .. all’interno delle conoscenze metacognitive possono essere incluse le idee circa il funzionamento cognitivo in generale, le convinzioni a riguardo delle personalità capacità, la consapevolezza dell’esistenza di problemi cognitivi e delle proprie capacità di farvi fronte, la conoscenza dell’efficacia e dell’uso delle strategie e dei personali punti di forza e di debolezza. Tutti questi elementi possono derivare dalle esperienze personali o dalle osservazioni del comportamento degli altri

§ Controllo = concerne le capacità di valutare la qualità e la correttezza del compito che si sta eseguendo in modo continuo anche per decidere, eventualmente, un cambio di strategia o per sostenere i propri sforzi, persistendo fino all’ottenimento del risultato all’interno del controllo metacognitivo possono essere distinte diverse componenti, fra cui l’autoistruzione (che implica la conoscenza del come, quando e perché applicare le diverse strategie), l’autointerrogazione (che si riferisce alla conoscenza e all’uso in itinere delle strategie e implica una riflessione sulla loro adeguatezza) e, infine, l’automonitoraggio (che riguarda il controllo circa la corretta applicazione delle strategie durante l’esecuzione del compito)

Un ulteriore importante aspetto è quello che riguarda le stime metacognitive = giudizi soggettivi relativi alle personali capacità. Esistono diversi tipi di stime che si differenziano per il momento in cui vengono espresse e cioè prima, durante o dopo l’esecuzione del compito:

§ ease of learning (EOL): stima che consiste nella predizione della facilità di apprendimento del materiale espressa prima dell’esecuzione del compito

§ prediction of total recall (PTR): si riferisce ad una stima di ricordo espressa durante l’esecuzione del compito e, in particolare, nella fase del mantenimento

§ judgement of learning (JOL): riguarda la stima di memorabilità espressa dopo l’apprendimento del materiale

Conoscenze e controllo metacognitivo non sono elementi distinti. Per quanto riguarda le relazioni fra aspetti metacognitivi e cognitivi, in genere si osserva che ad un maggiore livello metacognitivo corrisponde una migliore prestazione, poiché il compito è svolto con maggiore competenza e impegno prolungato nel tempo. Flavell è uno dei primi e più importanti esponenti della teoria metacognitiva; la memoria è il settore in cui la metacognizione è stata originariamente studiata. Un buon funzionamento metacognitivo:

§ consente di trarre il massimo dall’uso flessibile, articolato e attivo delle diverse strategie

§ permette di organizzare e adeguare le strategie alle caratteristiche personali, del compito e della specifica situazione

§ influenza positivamente la motivazione ad apprendere, in quanto chi sa organizzare le varie strategie e applicarle adeguatamente sente di avere il controllo della situazione e questo stimola motivazioni quali l’autodeterminazione e un senso positivo di autoefficacia


V.  Stili cognitivi di elaborazione dell’informazione.

Esiste un ulteriore elemento, che è dato dagli stili cognitivi di elaborazione dell’informazione e che può spiegare differenze di ordine qualitativo nell’apprendimento, piuttosto che quantitativo, cioè i percorsi fatti e le modalità applicate per affrontare i diversi compiti di apprendimento piuttosto che i risultati raggiunti. Stile cognitivo = modalità individuale di apprendimento; il modo in cui ciascun individuo assimila e ritiene l’informazione e/o le abilità; la predisposizione ad adottare una particolare strategia di apprendimento indipendentemente dalle richieste specifiche del compito; un’abitudine di comportamento mentale. Si ha pertanto uno stile cognitivo tutte le volte in cui si manifesta una tendenza costante e stabile nel tempo ad usare una determinata classe di strategie, nell’ambito di una serie di strategie tutte ugualmente applicabili per affrontare lo specifico compito. ½ possono quindi essere stili cognitivi più sistematici o più intuitivi, stili che puntano più sugli aspetti globali o più sui dettagli, stili più impulsivi o più riflessivi, .. Gli stili possibili sono tanti e possono generare una certa confusione se visti nel complesso. Molti hanno la caratteristica di essere o sembrare dicotomici in quanto presentano modalità contrapposte di affrontare la situazione che costituiscono degli estremi ideali (es: impulsivo/riflessivo). In realtà, è da puntualizzare che questi casi rappresentano delle situazioni estreme in cui nessun individuo si ritrova appieno. Anzi è possibile pensare che ognuno possieda in misura diversa ciascun stile e che vi sia per ciascuno, in modo tendenzialmente stabile, la prevalenza dell’uno o dell’altro stile. Inoltre, tale propensione non esclude che, per influenze ambientali o di fronte a compiti particolari che richiederebbero l’adozione di uno stile diverso da quello preferito, possano essere messi in atto anche processi compatibili con lo stile opposto. Infine, non tutte le teorie prevedono la presentazione di stili contrapposti. Alcune distinguono delle tipologie: le caratteristiche di queste tipologie sono interpretate come parte della definizione dello stile del singolo dove la tendenza è quella di evidenziare l’unicità di ognuno piuttosto che contrapporre modi diversi di lavorare. Una di queste teorie, che ha avuto molto seguito, è quella proposta da Sternberg, secondo la quale la nostra mente può essere paragonata ad un sistema governativo con specifiche funzioni (legislativa, esecutiva, giudiziaria), forme (monarchica, gerarchica, oligarchica, anarchica), livelli (globale, locale), scopi (interni, esterni) e inclinazioni (liberali, conservative). In questo modo dall’incrocio delle varie caratteristiche si possono ottenere ben 96 tipologie, tutte fra loro differenti. Alcune di queste tipologie sono un po’ più frequenti di altre. Inoltre, possono esistere anche sfumature all’interno di ciascuna tipologia. Lo stile cognitivo di ognuno tende a stabilizzarsi nel tempo attraverso un processo di tipo circolare per cui

adozione dello stile preferito risultati migliori stimolo per la motivazione

riutilizzo delle stesse strategie, adottate in conformità allo stile, per affrontare in futuro, lo

stesso tipo di compito


Ciò non significa che lo stile sia necessariamente rigido. Anzi, in genere i vari stili cognitivi, che poi si traducono nello stile individuale di elaborazione dell’informazione, presentano la caratteristica della plasticità. Ciò significa che ci possono essere situazioni più facilmente risolvibili con uno stile diverso dal proprio. La capacità di riconoscere le situazioni come più o meno confacenti al proprio stile dipende dal livello metacognitivo del soggetto. In tal senso, nell’apprendimento, è opportuno che i ragazzi facciano esperienza anche con lo stile alternativo, loro meno confacente, imparando a riconoscere le situazioni in cui è preferibile utilizzare uno stile piuttosto che un altro. Per quanto riguarda i rapporti fra stile cognitivo e apprendimento, si riscontra che le prestazioni tendono ad essere migliori se il compito si presta ad essere svolto con una procedura confacente allo stile preferito. Inoltre, la possibilità di utilizzare lo stile preferito è, in genere, motivante e conduce ad una maggiore e più efficace adozione di strategie di apprendimento. È infine importante sottolineare che le relazioni fra aspetti strategici e metacognitivi, abilità, expertise, stili cognitivi e motivazioni sono molteplici.





  1. COMPONENTI MOTIVAZIONALI DELL’APPRENDIMENTO.

Gli aspetti motivazionali sono diversificati al loro interno a seconda dell’approccio teorico e degli aspetti particolari su cui ci si focalizza: gli obiettivi piuttosto che le aspettative, la prestazione piuttosto che l’ottenimento di una gratificazione, .. A volte i diversi ricercatori utilizzano termini differenti per esprimere lo stesso concetto. Così pure non sempre concetti uguali sono espressi con la stessa terminologia. Questo complica la possibilità di dare una spiegazione univoca dei diversi fattori presi in esame, ma chiarisce che la motivazione è un concetto piuttosto ampio, che può avere sfumature diverse a seconda del punto di vista da cui lo si considera. Una distinzione classica fra le motivazioni è quella che diversifica fra

§ motivazione intrinseca o estrinseca       e

§ motivazione intrinseca o alla riuscita

La motivazione estrinseca è ben rappresentata dalla teoria comportamentista del rinforzo, dove il rinforzo è lo stimolo in grado di modulare la frequenza di un dato comportamento. Ovviamente, anche in questo caso, è rilevante l’elaborazione cognitiva e insieme emotiva dello stimolo da parte del soggetto. Questo può distinguere, ad esempio, fra

§ premi controllanti, in cui si sente guidato dall’esterno (tendono a ridurre la motivazione intrinseca in quanto il soggetto non si sente libero di agire)     e

§ premi informativi, che lasciano una più ampia autonomia (incentivano la motivazione intrinseca, dando al soggetto autonomia e libera scelta d’azione)

Nonostante l’esaustività del modello del rinforzo non si deve dimenticare che è più probabile un effetto interattivo fra motivazione estrinseca e motivazione intrinseca, in quanto divengono rilevanti, oltre al rinforzo, anche altri aspetti, come il riconoscimento dell’autorità della persona che premia o punisce, la percezione di autoefficacia, il concetto di sé, e tutti i processi cognitivi ed emotivi che comunque sempre si accomnano ai processi di apprendimento.


I.    Definizione e classificazioni.

Etimologicamente la parola 'motivazione', in latino 'motus', indica un movimento, una spinta che suggerisce una direzione del soggetto verso un oggetto. Questa definizione può essere valida per alcune teorie (es: quelle comportamentiste e psicodinamiche), ma non per altre (es: quelle sociocognitive che pongono l’accento non su spinte, quali i bisogni o le pulsioni, ma su aspettative, obiettivi, atteggiamenti ed elementi sociali). Attualmente la motivazione all’apprendimento è sempre più interpretata come un insieme di aspetti cognitivi e affettivi fra loro interagenti. Esempi di interrelazione fra emozioni e conoscenze sono le aspettative che nutriamo, gli obiettivi di apprendimento e il concetto di abilità. Ad esempio, per quanto riguarda le aspettative, queste comprendono almeno 3 tipi di elementi:

§ descrittivo: può essere pensato come la rappresentazione dell’obiettivo che si intende raggiungere

§ strategico: si riferisce ai mezzi attraverso cui raggiungere l’obiettivo prefisso e, in particolare, ai piani, alle tecniche e strategie ritenute utili e applicabili nell’immediato e in momenti successivi per realizzare lo scopo

§ emotivo: riguarda l’emozione anticipata provata nel pensare al momento in cui la situazione attesa si realizza le emozioni anticipate, in particolare, consentono di distinguere le aspettative dagli obiettivi, essendo questi ultimi più di tipo descrittivo e, in quanto tali, privi della parte emotiva e riferita a sé

Motivazione = conurazione organizzata di esperienze soggettive che consente di spiegare l’inizio, la direzione, l’intensità e la persistenza di un comportamento diretto ad uno scopo. Il concetto di motivazione è quindi utilizzato per comprendere perché una persona svolge un compito e lo fa in un determinato modo (inizio e direzione), quanto insiste (intensità) e le ragioni per cui mantiene interesse e impegno sul compito (persistenza). La motivazione all’apprendimento non è quindi un processo unitario, ma può essere considerata come un insieme di esperienze soggettive, di origine intrinseca o estrinseca, quali gli obiettivi, le aspettative, i processi emotivi, i valori, gli interessi personali, le attribuzioni formulate nelle situazioni di successo e insuccesso, che conducono l’individuo ad imparare. Una caratteristica importante del concetto di motivazione è, infatti, l’esistenza di uno scopo da raggiungere. Con il termine motivazione si possono quindi intendere costrutti teorici differenti per contenuti e modalità di misura. Le classificazioni, all’interno delle diverse teorie della motivazione all’apprendimento, possono quindi essere molteplici, a seconda dell’impostazione teorica e dell’approccio adottato dai diversi autori. Le varie categorie motivazionali appaiono a volte più come fuzzy sets (= insiemi sfocati) che non come categorie univocamente definite. Una distinzione classica è quella fra

§ motivazioni intrinseche (es: l’interesse, la curiosità, il successo, il potere)

§ motivazioni estrinseche (es: i premi, gli elogi, gli incentivi, l’approvazione sociale o il raggiungimento di uno status)



Questa classificazione, ancora di attuale importanza, presenza il limite di non mettere in sufficiente evidenza le differenze fra motivazioni intrinseche innate e istintive (i bisogni) e altre mediate cognitivamente (gli obiettivi e le aspettative). Rheinberg, al contrario, effettua una distinzione differente, che ha il pregio di evidenziare l’esistenza di diverse motivazioni, rispetto alle quali il soggetto può avere un ruolo attivo (attrazione) o passivo (spinta). Pintrich e De Groot individuano, invece, piuttosto che costrutti, tipi di motivazione. Questi si riferiscono:

§ alle credenze del singolo circa le proprie capacità di affrontare determinati compiti (autoefficacia, percezioni di competenza, attribuzioni, senso di controllo)

§ agli scopi che portano ad affrontare il compito (obiettivi, interessi, valori, motivazioni intrinseche)

§ alle reazioni emotive al compito (ansia, rabbia, orgoglio, vergogna, sentimenti legati al valore di sé e all’autostima)



Tutti questi elementi dovrebbero costituire parte della ricerca sulla motivazione all’apprendimento, intesa come un insieme complesso di più aspetti, relativi alle caratteristiche del singolo, del materiale e della situazione. La motivazione, quindi, non è nel singolo e neppure nell’ambiente, ma risiede nelle complesse relazioni fra la persona e il contesto e risente, inoltre, del tipo di materiale o del compito o comunque di fattori accidentali più o meno controllabili e, in quanto tali, prevedibili. Per quanto riguarda le caratteristiche del singolo, attualmente una distinzione importante è quella fra i 2 filoni motivazionali relativi alla

§ motivazione intrinseca esiste un bisogno di apprendere svincolato dai rinforzi e dai risultati ottenuti e ottenibili

§ motivazione alla riuscita le azioni sono mosse principalmente dal bisogno di ottenere successi personali e dai personali livelli di aspirazione che, se soddisfatti, consentono di provare emozioni positive e di mantenere un’adeguata percezione delle proprie abilità e una corretta visione delle relazioni fra impegno, risultati di apprendimento e motivazione

Infine, è importante distinguere fra motivazione e volizione. Il concetto di VOLIZIONE si distingue da quello di motivazione in quanto include, oltre agli obiettivi, agli aspetti intrinseci, alle autopercezioni, .. anche elementi di controllo necessari per il mantenimento della motivazione nel tempo. Tale mantenimento può essere inteso come persistenza di fronte agli ostacoli o alle difficoltà o come concentrazione sul compito e quindi come tendenza a conservare la motivazione per il compito o l’attività che si sta affrontando, di fronte alla tentazione di svolgere attività più attraenti. Nessuna delle teorie motivazioni può essere considerata esaustiva nello spiegare le diverse situazioni. Verrà considerata, per prima, la teoria del rinforzo (nata nell’ambito del comportamentismo e dello studio del condizionamento) basata essenzialmente su aspetti estrinseci. Poi saranno esaminati, uno alla volta, 4 filoni di studio che si riferiscono alla motivazione intrinseca, alla motivazione alla riuscita, agli obiettivi di apprendimento e alle percezioni di abilità. Lo scopo è stato quello di fornire un quadro complessivo dello studio della motivazione ad apprendere, secondo una prospettiva che mira ad individuare modelli di spiegazione dei rapporti fra componenti motivazionali e strategiche dell’apprendimento. Questa prospettiva, che è la più attuale, costituisce la terza fase della storia della motivazione all’apprendimento, dove

§ la prima si riferisce ai modelli idraulici e meccanicistici e metaforici, rappresentati, in particolare, dalla teoria del rinforzo

§ la seconda ai diversi filoni relativi alla motivazione alla riuscita, agli obiettivi di apprendimento, ognuno considerato separatamente nell’intento di evidenziare le numerose componenti cognitive, sociali ed emotive del fenomeno motivazionale


II.  La teoria del rinforzo.

Rinforzo = stimolo capace di aumentare, mantenere o ridurre la frequenza di un determinato comportamento (es: un complimento, un regalo, in ambito scolastico lo stesso voto). È possibile distinguere fra

§ rinforzi positivi tendono a creare delle motivazioni

§ rinforzi negativi mirano a demotivare il comportamento oggetto di punizione

La teoria del rinforzo richiama alcuni principi fondamentali del comportamentismo, quali i processi di mantenimento, la generalizzazione e l’estinzione. Ciò significa che:

§ se un rinforzo viene dato in una forma continuativa il comportamento tende a mantenersi. La situazione più efficace non è quella in cui il comportamento viene rinforzato ogni volta che si manifesta (modello a rinforzo fisso), ma quella in cui il comportamento viene rinforzato solo alcune volte a caso (modello a rinforzo intermittente)

§ l’effetto del rinforzo tende a generalizzare comportamenti simili a quelli in cui è stato inizialmente associato

§ quando il comportamento non viene più rinforzato progressivamente tende ad estinguersi

Per la teoria del rinforzo, la motivazione deriva da scambi verbali o non verbali fra almeno 2 persone, attraverso un processo che può essere tendenzialmente unidirezionale, allorché esiste anche una relazione di potere fra i 2, ma che non si esclude essere anche bidirezionale (se la persona che è rinforzata si comporta come l’altro vorrebbe, dandogli soddisfazione, rinforzerà ulteriormente gli atteggiamenti che hanno originariamente generato il rinforzo). La teoria del rinforzo presenta quindi il grosso vantaggio di sottolineare il ruolo e l’importanza della relazione fra chi rinforza e chi è rinforzato. Un buon rinforzo dovrebbe essere

§ contingente alla prestazione, cioè vicino temporalmente al comportamento da rinforzare

§ specifico, cioè relativo ad un ben determinato comportamento o aspetto del comportamento

§ credibile, cioè non contraddetto da livelli di prestazione troppo bassi e inadeguati per essere premiati o da altri comportamenti non verbali



Questo tipo di rinforzo risulta essere più efficace perché maggiormente compreso, più memorabile e di maggiore impatto emotivo. Un rinforzo può, invece, risultare demotivante quando:

§ viene dato a tutti indipendentemente dal risultato

§ a parità di risultati alcuni studenti vengono premiati, altri no

§ si riferisce alla prestazione in sé, piuttosto che al miglioramento rispetto ai risultati precedenti

§ sostiene la competitività e il confronto con i comni piuttosto che essere centrato sul lavoro del singolo

§ sottolinea il compiacimento dell’insegnante o dei genitori piuttosto che l’impegno del ragazzo



Rinforzi di questo tipo possono favorire lo sviluppo di alcuni elementi demotivanti ai fini dell’apprendimento quali la tendenza ad attribuire a cause esterne l’eccessivo bisogno di approvazione sociale, un abbassamento dell’autostima scolastica e la tendenza a privilegiare obiettivi di prestazione. La teoria del rinforzo, sviluppata inizialmente in campo animale, incontra ostacoli e limiti, allorché viene applicata alla comprensione e spiegazione della motivazione umana. 2 critiche fondamentali riguardano:

§ la semplicità l’idea per cui un comportamento rinforzato tende a ripetersi non tiene conto delle riflessioni fatte e delle emozioni provate da chi viene rinforzato

§ l’aspetto del controllo la persona che è rinforzata può vivere un controllo esterno sul proprio comportamento, controllo che può anche essere interiorizzato come senso di colpa p del dovere e che assume una connotazione negativa, producendo demotivazione, nella misura in cui limita il margine d’azione dell’individuo

Tali critiche sono state parzialmente smorzate da alcune considerazioni che riguardano il rinforzo vicariante e la distinzione fra rinforzi controllanti o informativi.

§ Rinforzo vicariante = è quello che non viene dato al soggetto, ma ad altri. Se gli altri sono stati rinforzati per alcuni comportamenti, l’individuo è portato a pensare che se si comporterà nello stesso modo verrà ugualmente rinforzato. La motivazione è quindi data dall’aspettativa di premio, la demotivazione dall’aspettativa di punizione. Questo processo avviene in assenza di controllo diretto sul proprio comportamento

§ Rinforzi controllanti = sono quelli che si caratterizzano per apparire prevalentemente come forme di coercizione esterna, che indirizzano il comportamento. Sono spesso accomnati da pratiche educative basate sulla valutazione, sull’imposizione di obiettivi e sulla competizione tendono a portare verso una causalità esterna e a ridurre la motivazione intrinseca

§ Rinforzi informativi = hanno la funzione di informare su come si sta procedendo e sulla qualità della prestazione. Fanno quindi riferimento al risultato o alle strategie attraverso cui è stato raggiunto e non a norme. Il giudizio, semmai presente, non riguarda la persona, ma la prestazione possono sostenere la motivazione intrinseca e consentono di mantenere una causalità interna

Il grado in cui l’individuo si lascia condizionare dai rinforzi dipende da numerosi aspetti:

§ l’autorità e la fiducia riposte nella persona che rinforza

§ la convinzione di essere capace di svolgere il compito

§ la possibilità di poter attuare comportamenti diversi da quello rinforzato

§ un bilancio di costi e benefici derivanti dal comportamento oggetto di rinforzo

Tutte queste possibilità lasciano al rinforzo il ruolo di una possibile e non secondaria fonte motivazionale. L’approccio forse più corretto è quello che considera l’esistenza nello stesso momento di più motivazioni: estrinseche e di altro tipo. Inoltre, è da tenere conto che la motivazione, indipendentemente dall’origine intrinseca od estrinseca, risente di numerosi elementi cognitivi o sociocognitivi, quali le aspettative, i valori e gli obiettivi che influenzano il livello motivazionale complessivo dell’individuo. Secondo questa prospettiva, la situazione ideale sarebbe quella di un insieme in cui siano presenti motivazioni di tipo intrinseco (es: la curiosità), estrinseco (es: l’approvazione per il proprio lavoro) e altre componenti motivazionali quali gli scopi, le aspettative e le autopercezioni.


III.    Dal rinforzo agli aspetti cognitivi.

L’applicazione dei principi della teoria del rinforzo, in ambito scolastico, prevedrebbe un sistema in cui l’insegnamento è prevalentemente centrato su premi e punizioni e il bambino motivato solo o quasi all’ottenimento di specifici risultati o voti, piuttosto che ad imparare cose nuove. Secondo questa logica, l’eventuale, anche temporanea, assenza del rinforzo, causerebbe un calo della motivazione all’apprendimento. Il bambino pertanto affronterebbe solo quei contenuti su cui sa di essere interrogato, mentre tralascerebbe quelle parti che non costituiscono oggetto di verifica. Questo importante limite del rinforzo indica la fragilità della motivazione estrinseca. Questo fenomeno, per cui l’introduzione di un premio produce un calo immediato nella motivazione non appena l’aspettativa del premio viene a mancare, è stato inizialmente interpretato in base alla teoria dell’ipergiustificazione o dello sconto, per la quale il motivo per svolgere un compito è unico, secondo una prospettiva dicotomica in cui la motivazione estrinseca è contrapposta a quella intrinseca (se lo scopo è ottenere il premio, allora non può più essere la curiosità o altre motivazioni più di tipo intrinseco). Questa teoria postulerebbe l’impossibilità di essere motivatati per più ragioni e prevedrebbe che l’introduzione del rinforzo sostituisca la motivazione intrinseca con quella estrinseca. Altri autori, non convinti di questa unica possibilità interpretativa, hanno introdotto altre 2 possibilità di spiegazione:

§ una facente riferimento alla teoria degli scripts gli scripts sono schemi conoscitivi determinati culturalmente che rappresentano conoscenze specifiche organizzate sul come fare determinate cose (es: andare al ristorante, fare un viaggio in treno, ..). In base a questa teoria, il motivo per cui il bambino, in assenza di premio, sembra più riluttante ad eseguire un compito è che impara che in quel determinato scripts (lo svolgere quel compito), entra un premio che conclude l’evento. Il bambino, quindi, sarebbe riluttante a cominciare un’azione in cui manca il completamento che è dato dal premio. Questa teoria, pur riuscendo a spiegare il calo di motivazione conseguente all’introduzione di un rinforzo senza ricorrere all’idea per cui una motivazione è sostituita con un’altra, non spiega perché un rinforzo generale introdotto alla fine e dato a tutti non produce un deterioramento dell’originario livello di motivazione intrinseca

§ l’altra alla teoria dell’autodeterminazione questa teoria offre una spiegazione più completa; la motivazione intrinseca verrebbe sostituita da quella estrinseca qualora il premio fosse interpretato come una forma di controllo esterno (premio controllante). Ma non qualora venisse inteso come informativo della bontà e correttezza del proprio lavoro (premio informativo). In quest’ultimo caso il bambino non si sentirebbe controllato dall’esterno, ma continuerebbe a vivere la sensazione di scegliere liberamente la propria attività

Di conseguenza, la motivazione non può più essere considerata solo in base a modelli meccanicistici, quali quello del rinforzo, ma deve fare riferimento anche a costrutti in cui viene sottolineato il ruolo dell’interpretazione data dal soggetto alla situazione.


  1. LA MOTIVAZIONE INTRINSECA.

In questo modulo verrà dedicata una maggiore attenzione alle componenti intrinseche della motivazione, intese nel loro duplice aspetto di

§ spinta e bisogno  o

§ interesse e autodeterminazione

All’interno del filone della motivazione intrinseca esistono, infatti, diversi costrutti quali:

§ la curiosità epistemica bisogno di conoscere

§ la motivazione di effectance bisogno di sentirsi competenti

§ l’autodeterminazione libera scelta di affrontare un certo compito o lavorare con determinati materiali, che implica interesse e spontaneità e produce gratificazione proprio perché si ha il desiderio di intraprendere quell’attività e il piacere di svolgerla e portarla a termine

§ l’esperienza di flusso in questo caso, la concentrazione su ciò che si sta facendo è tale che viene addirittura alterata la percezione del tempo

§ l’interesse interazione fra un soggetto interessato e una situazione interessante; il coinvolgimento in una situazione interessante riduce la richiesta di risorse attentive, impiegabili per la comprensione, e aumenta alcuni aspetti positivi della situazione di apprendimento, ad esempio il piacere nell’esecuzione del compito





I.    Curiosità epistemica.

Il concetto di curiosità epistemica trae origine da quelle teorie che spiegano la motivazione quale risposta a bisogni di vario tipo. Questi possono essere semplici, innati e universali (es: sfamarsi, proteggersi dal freddo), come anche più complessi e legati ad aspetti socioculturali (es: essere stimati e approvati). Le teorie dei bisogni sono state criticate per 2 aspetti:

§ ruolo passivo assegnato all’individuo

§ categorizzazione dei bisogni diversi autori hanno presentato delle vere e proprie liste di bisogni. Il limite di queste liste è che, per quanto ampie, non sono mai complete e quindi non possono spiegare tutti i comportamenti

Un modello motivazione fondato sulla teoria dei bisogni è tuttavia rimasto popolare: si tratta della gerarchia dei bisogni umani di Maslow. Tale gerarchia comprende bisogni fisiologici, di sicurezza, d’amore, di considerazione, di realizzazione di se stessi. Il modello gerarchico implica che i bisogni siano soddisfatti nell’ordine dato. Secondo tale logica, gli studenti stanchi (o affamati) non potrebbero essere interessati alla lezione. La realtà, però, è che non sempre avviene ciò. Un bisogno innato, che può essere osservato già in bambini molto piccoli, consiste nella curiosità sul funzionamento delle cose, definita come curiosità epistemica. Curiosità epistemica = bisogno universale di conoscere e di apprendere, bisogno che si manifesta tramite l’esplorazione dell’ambiente, motivata solo dal desiderio di sapere. La curiosità può essere stimolata dalla noia del soggetto e quindi dal bisogno di nuove stimolazioni o dalle caratteristiche strane e inconsuete dell’ambiente. La teoria della curiosità epistemica sottolinea soprattutto il ruolo dell’ambiente e dà particolare importanza alle caratteristiche degli stimoli che possono innescare la curiosità, piuttosto che agli atteggiamenti e agli obiettivi del singolo. Queste caratteristiche vengono definite come proprietà 'collative' dello stimolo; esse si riferiscono ad elementi di novità, complessità, incongruenza con precedenti conoscenze. Tali incongruenze e aspetti nuovi creano un conflitto e generano una specifica motivazione ad apprendere. Questa motivazione risponde al bisogno (curiosità) di ottenere nuove informazioni per superare l’incertezza. Le proprietà collative dovrebbero, in una situazione ottimale, consentire una quantità di stimolazione media. Se il livello di stimolazione è basso si può generare una situazione di monotonia, se è eccessivo ci può essere un effetto inibitorio caratterizzato anche da manifestazioni d’ansia. Solo se l’intensità della stimolazione, o la discrepanza dell’informazione, sono di livello medio ci può essere una motivazione intrinseca di curiosità che consente un’esplorazione libera e la focalizzazione dell’attenzione su aspetti dell’ambiente senza ansia e rischio di fallimento. Questa situazione di adeguata stimolazione ambientale, di motivazione intrinseca di conoscere, libera da ansia, come in una situazione di gioco, è stata definita 'sorpresa ottimale'. Un esempio di corretta (media) intensità di stimolazione è il caso di un bambino che desidera conoscere (esplorare) una stanza che non ha mai visto. L’idea per cui le persone sono attratte da situazioni che generano curiosità o incongruenza e possono produrre sorpresa è stata ripresa in ambito educativo da Bruner. L’autore ha proposto una tecnica definita come apprendimento per scoperta. Questa tecnica si attua lasciando il bambino libero di esplorare e di scoprire in ambienti ricchi di opportune stimolazioni. In tali situazioni i contenuti appresi appaiono frutto delle proprie esplorazioni e scoperte piuttosto che imposizioni dell’esterno di informazioni da apprendere.

la curiosità epistemica può essere considerata come un’importante componente motivazionale che può innescare il processo di apprendimento

il suo grosso limite è quello che non garantisce la costanza e la persistenza di fronte agli ostacoli e non può quindi costituire l’unica motivazione intrinseca ad imparare

Ciononostante, il bisogno di rispondere a curiosità o incongruenze risulta interessante, in quanto presente precocemente nello sviluppo e sostenibile, fin dai livelli scolari inferiori, attraverso elementi esterni. Questi possono essere dati, per i bambini più piccoli, da elementi ricchi di giochi o oggetti di varia natura, funzione, colore, dimensione e, per i più grandi, da libri di testo che stimolano livello di curiosità adeguati all’età del lettore.


II.  Motivazione di effectance.

Secondo White il comportamento esplorativo dei bambini non riflette solo un bisogno, quale può essere la curiosità epistemica, ma risponde ad una motivazione intrinseca a padroneggiare e controllare l’ambiente e le situazioni e a sentirsi competenti ed efficaci, bisogno definito come effectance. Questo bisogno è così forte che si manifesta non solo in assenza di incoraggiamento da parte degli adulti, ma anche se il comportamento viene punito. Tale motivazione è presente fin dalla nascita e si esplica attraverso un’interazione giocosa con l’ambiente. Harter ha esaminato lo sviluppo della motivazione di effectance per effetto dei successi e degli insuccessi incontrati nei tentativi di padronanza e della presenza o assenza di sostegno da parte degli adulti. Il modello proposto indica che la motivazione di effectance attiva nel bambino tentativi di padronanza in diverse aree di attività. Fra queste vengono individuate l’area cognitiva (apprendimento), l’area sociale (rapporto con i comni), e l’area fisica (attività sportiva e di gioco).

§ Se il bambino viene sostenuto in questi primi tentativi di padronanza e ottiene rinforzi positivi o approvazione, tende a sviluppare un sistema di autoricompensa. Tale sistema rende sempre meno importante l’approvazione esterna dell’adulto e consente di sviluppare obiettivi di padronanza. Questi obiettivi, a loro volta, consentono di affrontare le situazioni come una sfida in cui vengono messe alla prova le proprie abilità allo scopo di sentirsi efficaci. Tutto questo fa sentire il bambino più competente e gli fa interiorizzare una percezione di controllo personale e di piacere che, a sua volta, fa aumentare la motivazione di effectance.

§ Se il bambino, invece, viene scoraggiato o disapprovato nei tentativi di padronanza, tende a sviluppare un bisogno di approvazione esterna che lo porta a sentirsi dipendente dal rinforzo dell’adulto e a porsi obiettivi di approvazione e di prestazione caratterizzati dal desiderio di mostrare le proprie abilità e dal complementare timore di dimostrarsi incapace. Tutto questo fa sentire il bambino meno competente e più controllato dall’esterno e comporta una diminuzione della motivazione di effectance. La bassa percezione di competenza può, inoltre, generare il timore di dimostrarsi incapace. Questo timore, a sua volta, produce esperienze emotive negative, quali l’ansia, che portano ad un’ulteriore diminuzione della motivazione di effectance, innestando un processo circolare per cui i fallimenti generano ansia di fronte alle situazioni di apprendimento future e fanno vivere la sensazione di non essere competenti. La poca percezione di competenza, sostenuta anche da un ambiente controllante, porta ad evitare le situazioni di apprendimento impedendo un reale sviluppo delle competenze o ad affrontare la situazione con ansia a timore di fallire. Il tutto conduce ad ulteriori abbassamenti della motivazione di effectance iniziale.

questa teoria risulta particolarmente importante per l’introduzione di alcuni fondamentali concetti chiave che verranno ripresi da altre teorie motivazionali. Questi riguardano la percezione di competenza, che può essere considerata come un costrutto simile all’autoefficacia, la percezione di controllo, il concetto di sfida ottimale e la motivazione interiorizzata. Inoltre vengono introdotti gli obiettivi di apprendimento, ossia le finalità che il soggetto persegue

§ Percezione di competenza = si distingue dall’istinto innato di competenza, in quanto si sviluppa per effetto dei successi e degli insuccessi incontrati, delle interpretazioni ad essi date e del sostegno ambientale e quindi a seconda degli esiti e della qualità dei tentativi di padronanza

§ Percezione di controllo = si riferisce alla sensazione di sentirsi personalmente agenti della situazione. Questa percezione dipende dalla quantità di impegno dedicato nello svolgimento di un’attività come anche dal tipo di approvazione ricevuta e dalla bontà del risultato

§ Sfida ottimale = costituisce la situazione in cui la difficoltà del compito è tale per cui il soggetto lo vive come una sfida, una possibilità per mostrarsi competente. La difficoltà del compito è ottimale se media o leggermente superiore alla media rispetto alla competenza percepita in quello specifico compito

§ Motivazione interiorizzata = è quella forma di motivazione che emerge allorché il bambino impara ad autopremiarsi e ad autopunirsi, creandosi un sistema di autogratificazione. Essa si può mantenere se l’ambiente favorisce l’indipendenza promuovendo la motivazione intrinseca e rinforzando l’autonomia. All’inizio il bambino necessita di un feedback da parte dell’adulto per sapere se un compito è stato padroneggiato. Poi interiorizza gli standard di riuscita socialmente condivisi o comunque comunicati dagli adulti. La motivazione interiorizzata può essere considerata come una motivazione estrinseca che è stata fatta propria. Si riferisce, quindi, ad una modalità interna di autosostegno che non dipende da bisogni o disposizioni interiori, ma dall’acquisizione della capacità di premiarsi da sé


III.    Teoria dell’autodeterminazione.

Le teorie analizzate nei 2 paragrafi precedenti si riferiscono essenzialmente a 2 spinte motivazionali di base, una relativa al bisogno di conoscere, l’altra a quello di sentirsi competenti. Le persone, però, hanno anche il bisogno di esercitare altre forme di controllo, in particolare per quanto riguarda il tipo di compito o situazione da affrontare, hanno cioè bisogno di scegliere. Tale concetto di scelta è legato alla teoria dell’autodeterminazione. Autodeterminazione = consiste nella libera scelta, svincolata da bisogni o forze esterne, di condurre un’azione. Il modello per eccellenza di un comportamento autodeterminato è l’azione intrinsecamente motivata che implica curiosità, spontaneità e interesse. L’impegno che viene dedicato per l’esecuzione del compito è quindi svincolato da incentivi esterni, possibili risultati, obiettivi e dipende dal desiderio di svolgere proprio quella specifica attività per le caratteristiche ad essa inerenti. La teoria dell’autodeterminazione ci dice quindi che, se il soggetto vive una situazione di libera scelta, mantiene o accresce la motivazione per il compito, se invece sente che lo svolgimento di quell’attività è imposto dall’esterno si sentirà meno autodeterminato e intrinsecamente motivato. Alla base di una condotta autodeterminata sta quindi il bisogno di sentirsi artefici delle proprie azioni e di scegliere liberamente il tipo di compito e la sua modalità di svolgimento. L’ambiente sociale può promuovere l’autodeterminazione quando consente di soddisfare i seguenti 3 bisogni psicologici innati:

§ competenza consiste nel sentirsi capaci di agire sull’ambiente sperimentando sensazioni di controllo personale

§ autonomia si riferisce alla possibilità di decidere personalmente cosa fare e come

§ relazione riguarda la necessità di mantenere e costituire legami in ambito sociale

La teoria dell’autodeterminazione prevede, quindi, che gli individui siano motivati non solo quando possono scegliere liberamente le attività da svolgere, ma anche quando possono sentirsi competenti e accettati. La scelta verso l’una o l’altra attività verrà quindi fatta considerando le abilità possedute e verso quei compiti che possono costituire una sfida e nel contempo consentire di essere approvati socialmente.


IV.    Esperienza di flusso.

Esperienza di flusso = profondo coinvolgimento nella situazione, accomnato da un’intensa concentrazione. L’attenzione appare particolarmente focalizzata nello svolgimento del compito, piuttosto che sui possibili risultati. In questo caso, la motivazione si mantiene per effetto del piacere provato nel controllo e nella realizzazione del compito. Questa situazione favorisce l’emergere di raffinate strategie e lo sviluppo delle proprie capacità. Alcune fra le più importanti caratteristiche che accomnano l’esperienza di flusso sono

§ il feedback immediato circa l’efficacia delle proprie azioni

§ l’elevata concentrazione

§ il senso di controllo personale

§ un’alterata percezione del tempo

Questo tipo di esperienza si verifica più spesso nell’ambito dei passatempi e attività ricreative, ma può manifestarsi anche in esperienze di lavoro, di classe o in qualsiasi altra attività. Gli individui possono vivere esperienze di flusso soprattutto in quelle situazioni dove percepiscono di avere un alto grado di abilità e quando sentono di affrontare compiti adeguatamente impegnativi.


Percezione della propria abilità

Percezione di difficoltà del compito

bassa

alta

facile

APATIA

NOIA

difficile

ANSIA

FLUSSO







Le esperienze di flusso si realizzano, pertanto, quando l’individuo affronta compiti impegnativi in cui le proprie abilità vengono messe alla prova, non necessariamente quando svolge attività divertenti. La percezione di abilità e del livello di difficoltà del compito sono elementi soggettivi che possono non trovare riscontro nella realtà. Ad esempio

§ la percezione della propria abilità dipende anche dal sostegno sociale e dalle esperienze precedenti. Chi ha quasi sempre fallito tenderà a pensare che non possiede adeguate abilità, quando, in realtà, il fallimento potrebbe essere ricondotto ad un approccio sbagliato al compito oppure al fatto che non sono state impiegate le strategie più efficaci

§ la percezione della difficoltà del compito, oltre che dipendere dalla percezione della propria abilità, per cui tendiamo a pensare che è difficile ciò che non sappiamo fare, è strettamente legata al confronto con gli altri, per cui se quasi tutti falliscono, il compito è, con molta probabilità, percepito come difficile

Lo schema riportato sopra, enfatizzando il ruolo delle percezioni personali, piuttosto che dei dati oggettivi, spiega perché il potenziale di flusso differisce non solo a seconda delle situazioni, ma anche delle persone. Infatti, ci sono persone che sviluppano una personalità di flusso. Se devono svolgere attività di routine, cercano di rendere le stesse più interessanti e impegnative. Altre persone, invece, vivono più raramente esperienze di questo genere. Ciò può essere dovuto anche al fatto che, in loro, la paura di fallire porta ad evitare situazioni impegnative che sono, invece, essenziali per l’esperienza di flusso.


V.  Interesse.

Dal punto di vista storico, agli inizi del 900 l’interesse era considerato come la più importante motivazione all’apprendimento. Negli anni successivi sono state proposte numerose teorie motivazionali. Il concetto di interesse è piuttosto complesso, poiché comprende aspetti di varia natura, che vanno da quelli più di tipo individuale a quelli più ambientali e sociali:

§ gli aspetti individuali sono relativi alla preferenza del singolo, cioè a quanto il soggetto è interessato

§ gli elementi ambientali riguardano gli stimoli offerti e quindi quanto l’oggetto, l’attività o il compito sono di interesse

§ gli elementi sociali si riferiscono al grado in cui la situazione, anche in interazione con gli aspetti individuali e ambientali, può stimolare la motivazione in quello specifico contesto sociale o socioculturale

Secondo una posizione sostenuta da Krapp, Hidi e Renninger, l’interesse emerge per effetto dell’interazione di aspetti relativi al singolo e alle sue preferenze e di caratteristiche del materiale e della situazione. Secondo tale concezione, l’interesse è il risultato della ripetuta applicazione in un contesto di una persona interessata a materiale che, per le sue particolari caratteristiche, risulta essere interessante. Tale ripetuta applicazione produce importanti effetti su aspetti

§ di tipo cognitivo l’interesse influisce sull’impegno, sulle aspettative, sulla persistenza e sulla scelta del compito

§ di tipo emotivo-affettivo gli effetti più importanti si riferiscono al piacere e alla soddisfazione sperimentate nello svolgimento di quella specifica attività

L’interesse non è sinonimo di piacere o divertimento, e non dipende dalla facilità del compito, ma va associato, piuttosto, alla rilevanza personale di quel materiale in quello specifico contesto. Una continua pratica, da parte di un soggetto interessato con un oggetto interessante, conduce, quindi, a sviluppare un interesse per quella specifica attività o materia. L’interesse tende quindi ad essere stabile nel tempo e a mantenersi per effetto delle ripetute applicazioni con specifici materiali o in determinate situazioni.


Curiosità epistemica

Interesse

si riferisce ad un’attivazione derivante da un bisogno, che è quello di conoscere l’ambiente attraverso l’esplorazione

si sviluppa per effetto di un’interazione fra un individuo interessato e materiale stimolante in specifici contesti

costituisce principalmente uno stimolo iniziale che consente di cominciare le varie attività ed è finalizzata alla ricerca di risposte più immediate

caratteristica fondamentale è l’applicazione protratta nel tempo dell’individuo con il materiale o il compito interessante


Essendo l’interesse, una volta sviluppato, un concetto tendente alla stabilità, è possibile chiedersi se sia possibile e cosa si può fare per cambiare l’interesse:

§ una prima risposta riguarda la percezione di competenza: una maggiore percezione di competenza scolastica a inizio semestre produce maggiore interesse a fine semestre (e viceversa)

§ una seconda, non contrapposta, possibilità è quella secondo la quale le possibilità di modificazione dell’interesse risiedono in un cambiamento nella stima soggettiva di poter, attraverso l’interesse, soddisfare i propri bisogni primari di competenza, autonomia e relazione. Ciò è possibile in quanto l’interesse è composto da 2 tipi di valenza, la prima legata ai valori, la seconda alle sensazioni. Per l’emergere di una vera situazione di interesse è necessario, pertanto, che la situazione abbia un significato personale (valore) e dia luogo a stati emotivi e affettivi positivi (sensazioni)

Il livello di interesse, proprio per la sua tendenza alla stabilità e al mantenimento, si collega con l’apprendimento più di altre misure di motivazione. Tale relazione positiva fra interesse e prestazioni scolastiche, maggiore per i maschi e per i livelli alti di istruzione, può essere spiegata in relazione alla selezione di specifici campi di interesse e alla particolare applicazione nei settori scelti. Non solo il maggiore interesse personale si collega alle migliori prestazioni, ma anche il materiale valutato come più interessante dal singolo o da giudici esterni è appreso meglio e ricordato di più sia nell’immediato che nel differito. Esistono alcune caratteristiche che possono rendere il materiale o le situazioni o i compiti mediamente più interessanti:

§ la novità (che suscita la curiosità)

§ la chiarezza (che rende più facilmente comprensibile e affrontabile il compito)

§ (per quanto riguarda in particolare i testi di studio) il valore d’immagine e il collegamento con elementi autobiografici (elementi entrambi che facilitano la comprensione e il ricordo del materiale)



Tutti questi elementi, da un lato facilitano una forma di interesse legata al testo. Una presentazione del materiale più facile tende a rendere il testo più interessante in quanto meno faticoso da leggere e studiare. Dall’altro, in particolare il valore d’immagine e gli elementi autobiografici, consentono di accrescere i livelli di elaborazione e comprensione profonda del materiale e il ricordo. Le possibilità di capire e ricordare meglio possono costituisce un’ulteriore fonte di motivazione, che contribuisce ad alimentare l’interesse. La relazione fra interesse e apprendimento è mediata da alcuni elementi

§ di ordine cognitivo la comprensione (per cui il materiale valutato come più interessante è processato in modo più profondo con particolare attenzione alle idee principali e al significato), l’uso di strategie (per cui gli studenti più interessati tendono a mostrare un atteggiamento più positivo verso la ricerca di strategie di studio e un effettivo maggiore uso di strategie in situazioni concrete), l’attenzione (le richieste attentive sono minori per il materiale valutato come più interessante; questo perché l’attenzione viene catturata automaticamente, liberando risorse cognitive e consentendo quindi di avere più possibilità di impegnarsi per comprendere e ricordare)

§ di ordine emotivo la possibilità di apprendere senza sforzarsi eccessivamente produce immediati risvolti sugli aspetti emotivi, contribuendo a spiegare perché il materiale giudicato come interessante è, in genere, vissuto come più piacevole e coinvolgente


  1. LA MOTIVAZIONE ALLA RIUSCITA.

La componente motivazionale è fondamentale nei processi di apprendimento. Come si è potuto riscontrare precedentemente, le persone sono diversamente interessate alle attività che svolgono. Questo dipende dalla loro libertà di condurre l’azione (autodeterminazione), dal grado di coinvolgimento nell’attività stessa (esperienza di flusso), dal bisogno di padroneggiare le situazioni (effectance) o semplicemente dalla curiosità e dagli interessi personali relativi all’attività in questione. Una distinzione classica all’interno della motivazione all’apprendimento è quella che contrappone la motivazione intrinseca alla motivazione alla riuscita. In quest’ultima categoria rientrano 2 importanti teorie:

§ quella di Lewin, secondo cui la motivazione è vista come un’energia che origina da un conflitto e viene liberata nel momento in cui il conflitto viene risolto fondamentali i concetti di conflitto e di gradiente di avvicinamento/evitamento

§ quella di Atkinson, secondo cui la motivazione nasce dall’esigenza di misurare le proprie abilità in compiti valutati come importanti importante per aver definito la motivazione alla riuscita come la risultante di 2 tendenze contrapposte: la tendenza al successo e quella ad evitare il fallimento (queste 2 tendenze, contemporaneamente presenti nelle persone, danno origine a diverse tipologie, a seconda che prevalga l’una o l’altra)

La tendenza ad affrontare o ad evitare i compiti dipende anche dalle attribuzioni formulate in precedenti esperienze negli stessi contesti o con materiali simili. Secondo la prospettiva di Weiner, le attribuzioni possono essere distinte in base

§ al locus of control (cause interne o esterne alla persona)

§ alla stabilità (stabili nel tempo o variabili)

§ alla controllabilità (cause più o meno controllabili dal soggetto)

L’attribuzione a cause interne e controllabili incentiva l’apprendimento in quanto stimola il soggetto a sentirsi responsabile dei propri risultati e a riconoscere l’impegno ai traguardi raggiunti.


I.    La teoria di Lewin. Compito interrotto, conflitti e gradienti.

Lo psicologo Lewin è noto per l’introduzione del concetto di campo psicologico, per cui il comportamento (C) può essere spiegato come una funzione che risente delle caratteristiche della persona (P) e dell’ambiente (A), secondo la formula:

C = f (P, A)


Il campo psicologico interno della persona è suddiviso in varie regioni (o sistemi). Ogni regione rappresenta una meta d’azione della persona (motivazione) e possiede una certa energia che produce una tensione per essere liberata (carica energetica motivazionale). La motivazione è quindi interpretata da Lewin come energia che origina da un conflitto e viene liberata nel momento in cui il conflitto si risolve. L’energia crea degli obiettivi che devono essere raggiunti per evitare il sovraccarico. Tali obiettivi sono distinti in 'bisogni autentici', che sono i bisogni veri e propri, e in 'quasi bisogni', che sono quelli che si rifanno al completamento dell’obiettivo. Ad esempio, può costituire un bisogno il desiderio di completare lo studio di un modulo, mentre il quasi bisogno si riferisce alla conclusione delle singole parti o alle varie fasi dello studio. i bisogni e i quasi bisogni sono, a volte, talmente forti da condurre ad una diversa strutturazione dell’ambiente a seconda degli obiettivi. Ad esempio, soggetti invitati a guardare tutti gli oggetti rossi di una stanza vedono quegli oggetti, ma non altri. La demotivazione è invece intesa come la risoluzione del conflitto, come stato di distensione del sistema e di rilassamento. Il sistema, comunque, non rimane mai disteso per molto tempo. Ogni volta che viene soddisfatto un obiettivo, si crea un altro conflitto che pone di nuovo in tensione il sistema e conduce al desiderio di liberare l’energia e di eseguire l’azione e quindi alla motivazione. 3 aspetti fondamentali della teoria di Lewin, dal punto di vista della motivazione, riguardano:

§ il compito interrotto (*)

§ la descrizione di differenti tipologie di conflitti (§)

§ il concetto di gradiente di avvicinamento e di evitamento (#)


Per quanto riguarda il compito interrotto, si è osservato che soggetti sperimentali che vengono interrotti durante lo svolgimento di un certo compito spesso manifestano reazioni di collera. Questa constatazione aveva inizialmente portato alla conclusione che esistesse nelle persone una tendenza (motivazione) a completare i compiti interrotti e che questa potesse essere interpretata in base alle leggi della Gestalt, in particolare a quella della buona forma. Questa ipotesi prevede una sorta di bisogno di completamento, presente per i compiti che il soggetto è stato costretto a lasciare incompiuti, ma non per quelli interrotti in generale da altri. La spiegazione fornita dalla teoria del conflitto di Lewin è che questo comportamento di completamento di verifica perché si genera all’interno della persona una tensione, che costituisce un quasi bisogno, il cui desiderio di realizzazione porta ad un accumulo di energia che dà la motivazione al completamento del compito. Se il compito viene terminato si ha una scarica energetica che porta alla distensione del sistema. Se il compito è lasciato in sospeso il sistema rimane teso e la motivazione attiva. Le energie spese nell’eseguire un compito sembrano vane se questo non è concluso, per cui le persone tendono a voler completare le attività che intraprendono.


(§) Per quanto concerne i conflitti, Lewin descrive 3 tipologie:

§ conflitto appetitivo si ha quando la persona ha una sola possibilità di scelta tra 2 situazioni che ugualmente la attirano e cioè a valenza positiva. Si determina così una situazione instabile e fluttuante, fra le 2 soluzioni A e B. Quando il soggetto si avvicina mentalmente alla soluzione A di cui, inizialmente, vede solo i vantaggi, comincia a vederne anche i lati negativi. Allora si sposta, mentalmente, sulla scelta B, ma succede la stessa cosa di A. Si tratta di un’oscillazione che poi si risolve con la scelta di una delle 2 possibilità

§ conflitto avversivo si realizza quando il soggetto deve scegliere tra 2 situazioni che non lo attraggono, quindi entrambe a valenza negativa. Affinché il conflitto si realizzi ci dev’essere una barriera di costrizione, che obbliga ad una delle 2 scelte, altrimenti il soggetto cercherà di evitare la situazione. La soluzione di questo conflitto consiste nello scegliere la possibilità che appare meno negativa oppure nella fuga attraverso la fantasia

§ conflitto appetitivo-avversivo (o di ambivalenza) si realizza quando la meta presenta aspetti positivi e negativi. In tal caso, si creano delle tensioni e dei sotto-obiettivi o quasi-mete sulle quali si potrà basare la scelta di affondare o non affrontare quel determinato compito o obiettivo


lo studente può risolvere questo conflitto tra 'fare' e 'non fare' ponendosi dei sotto-obiettivi, ad esempio stabilendo delle piccole scadenze, del tipo un modulo ogni 3 giorni. Questi piccoli sotto-obiettivi possono, infatti, consentire di affrontare il compito con la giusta carica di energia. Inoltre, i sotto-obiettivi permettono di alternare momenti di tensione e di distensione, e impediscono, quindi, di rimanere in uno stato iniziale di indecisione che si caratterizza per l’esistenza di un conflitto eccessivo, in quanto troppo carico di energia

Miller ha introdotto, infine, una quarta tipologia di conflitto:

§ duplice conflitto appetitivo-avversivo si realizza quando il soggetto si trova a dover scegliere fra 2 mete, ciascuna delle quali presenta aspetti positivi e negativi. Questa situazione è accomnata da instabilità e incertezza. Questo conflitto viene, in genere, risolto quando, per una delle 2 possibilità, che è quella che viene scelta, si ha una prevalenza di aspetti positivi rispetto ai negativi e rispetto all’altra scelta, situazione che porta ad una distensione del sistema


I conflitti si realizzano pertanto in quanto le mete presentano, allo stesso tempo, sia aspetti positivi (attraenti), sia negativi (avversivi). Gli aspetti positivi tendono a creare una motivazione e danno luogo a dei gradienti di avvicinamento, mentre quelli negativi tendono a demotivare e costituiscono dei gradienti di evitamento(#).



forza dei

gradienti  gradiente di evitamento


gradiente di avvicinamento

oggetto


+

ambivalente



distanza

tendenza comportamentale risultante


La situazione rappresentata qui sopra si verifica, ad esempio, in un conflitto di ambivalenza. A grande distanza dalla meta il soggetto vede soprattutto gli aspetti positivi, per cui tende ad avvicinarsi. Quando è abbastanza vicino comincia a vedere anche gli aspetti negativi. A questo punto si ha un tentennamento (nel disegno: il punto di intersezione delle 2 rette). Se il soggetto si avvicinerà ulteriormente vedrà sempre più gli aspetti negativi, se si allontana tornerà a percepire gli aspetti positivi. In effetti si può osservare che il gradiente di avvicinamento cresce lentamente, ma è presente già da molto lontano. Il gradiente di evitamento, invece, cresce molto in fretta, ma appare solo quando il soggetto è già parecchio vicino alla meta. La soluzione di un conflitto di questo tipo consiste nel trovare un equilibrio mentale per cui vengono soppesate tutte le condizioni positive e quelle negative in modo che l’aspetto dell’attrazione riesca ad essere superiore rispetto a quello deterrente. Inoltre, è importante, come detto prima, stabilire dei sotto-obiettivi anche vicini nel tempo. La teoria della motivazione di Lewin è quindi basata sull’idea di una scelta tra più possibilità. Il punto interessante è che la motivazione non è vista come desiderio, ma come una sorta di tensione, di disagio, contrariamente a come viene comunemente rappresentata e a come è considerata da molte altre teorie della motivazione.


II.  La teoria di Atkinson. Tendenze motivazionali e scelte a rischio.

La teoria di Atkinson si conura come la prima teoria motivazionale alla riuscita e riprende il concetto di conflitto introdotto da Lewin aggiungendo una nuova componente che è quella emotiva. Scopo della motivazione alla riuscita è quello di misurare le proprie abilità attraverso il raggiungimento di successi in attività valutate come importanti. Tale obiettivo motivazionale è un aspetto innato che può essere osservato già nei bambini quando tentano di fare cose di cui ancora non sono capaci. Secondo Atkinson la motivazione alla riuscita dipende da 2 componenti o tendenze motivazionali contrapposte e potenzialmente conflittuali:

§ una tendenza al successo (o speranza di riuscita) porta a voler affrontare i compiti e quindi alla motivazione

§ una motivazione ad evitare il fallimento (o paura dell’insuccesso) porta ad un atteggiamento di ritiro o di fuga nei confronti delle situazioni, alla poca persistenza, alla noia e al disinteresse e quindi alla demotivazione

Tali componenti motivazionali sono comunque entrambe presenti per una data persona di fronte a specifiche situazioni. Se l’energia che le accomna è molto forte si possono generare situazioni di conflitto dovute all’impossibilità di affrontare e contemporaneamente non affrontare un dato compito, per cui si impone una scelta tra il 'fare' e il 'non fare' che porta con sé diverse aspettative di riuscita e timori dovuti all’eventuale insuccesso. Tale conflitto si manifesta per effetto delle caratteristiche non sovrapponibili delle 2 componenti motivazionali illustrate, in particolare per quanto riguarda la scelta del compito e quindi il livello di aspirazione (tanto più alto quanto più difficile è il compito scelto), il tipo di emozione provata, le riflessioni fatte e gli atteggiamenti assunti prima e durante l’esecuzione del compito.




Emozioni, riflessioni e atteggiamenti

Componente motivazionale

Compito scelto. Livello di aspirazione

Anticipatamente

Durante l’esecuzione del compito

Tendenza al successo

di media difficoltà o difficile

emozioni: eccitazione, anticipazione fiduciosa del successo

emozioni: soddisfazione, orgoglio



riflessioni e atteggiamenti: percezione di riuscire a svolgere il compito con relativa facilità, attenzione rivolta al raggiungimento dell’obiettivo

riflessioni e atteggiamenti: percezione di facilità e fattibilità del compito, attribuzione del successo all’impegno, perseverazione, desiderio di imparare e migliorare le proprie abilità

Motivazione ad evitare il fallimento

molto facile o molto difficile

E: apatia, rassegnazione e ritiro

E: vergogna, ansia, paura di fallire



R e A: percezione di non riuscire ad affrontare il compito

R e A: confusione, sentimenti di impotenza appresa, attribuzione dell’insuccesso alla mancanza di capacità


L’insieme di atteggiamenti legati alla motivazione ad evitare il fallimento risulta essere poco funzionale all’apprendimento e rischia di porre lo studente in una reale situazione di fallimento del compito. Le convinzioni rispetto alla propria incapacità e i pensieri distraesti durante lo studio possono infatti rendere insufficiente o inadeguata la preparazione. La tendenza al successo (TS) e la motivazione ad evitare il fallimento (EF) sono state definite da Atkinson come il prodotto di una relazione moltiplicativa fra:

§ una componente di personalità, che costituisce una differenza individuale fra soggetti, tendenzialmente stabile (M)

§ la probabilità di successo, che è legata, in modo inversamente proporzionale, al livello di difficoltà percepita del compito (P)

§ l’incentivo che si riferisce all’emozione anticipata di orgoglio, per il successo, o di vergogna per il fallimento (I)

La motivazione, secondo Atkinson, è quindi data dai seguenti 3 fattori:

§ M che può essere inteso come un fattore individuale, per cui esistono persone che affrontano con entusiasmo una pluralità di compiti e attività e altre che, invece, sono tendenzialmente più portate ad evitare le situazioni per paura di fallire

§ P che è il fattore cognitivo, che si riferisce all’aspettativa (probabilità) di successo, che può derivare dalla quantità di successi o insuccessi precedenti in situazioni simili, dall’importanza data al compito, dai valori e dagli obiettivi, dalla situazione, oltre che, ovviamente, dell’effettiva difficoltà del compito, anche in relazione alle abilità possedute dal soggetto

§ I che è il fattore emotivo anticipato, che funziona come un incentivo per cui la persona nello scegliere se affrontare la situazione o evitarla cerca di prevedere anche quale sarà l’emozione che proverà in caso di successo o di insuccesso

Le relazioni fra i 3 fattori possono essere rappresentate matematicamente nella maniera seguente:

Tendenza al successo TS = Ms Ï Ps Ï Is

Tendenza ad evitare il fallimento EF = Mf Ï PfÏ If

Dove:

Ms = disposizione relativamente stabile alla tendenza al successo

Mf = disposizione relativamente stabile ad evitare il fallimento

Ps = probabilità di successo percepita (aspettativa)

Pf = probabilità di fallimento percepita (aspettativa)

Is = valore incentivante del successo (orgoglio anticipato)

If = valore disincentivante del fallimento (vergogna anticipata)

La differenza fra la tendenza al successo e la motivazione ad evitare il fallimento viene definita come speranza netta (S). La somma fra le 2 componenti costituisce, invece, la motivazione complessiva (M), secondo le formule seguenti:

Speranza netta S = TS – EF

Motivazione complessiva M = TS + EF

La speranza netta, posto che TS > EF, ci dice quanto la persona è motivata ad affrontare il compito con la speranza di avere successo, oppure, posto EF > TS, quanto è motivata a ritirarsi nel timore del fallimento. La motivazione complessiva, invece, rappresenta la spinta motivazionale totale che deriva da tendenze contrapposte e, in quanto tali, conflittuali. Tale somma di motivazioni contrapposte pone in luce il concetto di demotivazione, in questo caso EF. La demotivazione si conura come un importante tipo di motivazione (a non fare), completamente diversa dall’assenza di motivazione, in quanto carica di emozioni anticipate, riflessioni cognitive e quindi energia. Naturalmente, nelle situazioni concrete, le persone non eseguono calcoli precisi per dare vita alla loro motivazione e decidere se affrontare o non affrontare i compiti. Quello che invece fanno è la stima della probabilità di successo e quindi della facilità o difficoltà del compito e la previsione di uno scenario di riuscita o di fallimento in cui vengono anticipate, principalmente, le emozioni di orgoglio o di vergogna. Per meglio spiegare le modalità di scelta di una persona che deve decidere se affrontare o abbandonare un compito, e che è spinta da 2 opposte tendenze, al successo o all’evitamento, Atkinson ha proposto un modello definito delle scelte a rischio. Secondo il modello, l’individuo considera, in base alla stima della difficoltà del compito, la probabilità di successo e l’incentivo, cioè l’emozione anticipata, che sono fattori legati da un rapporto moltiplicativo inversamente proporzionale. Se la probabilità di successo è alta, perché il compito viene valutato come facile, l’orgoglio anticipato per la riuscita sarà basso (e viceversa). Questo rapporto moltiplicato può essere rappresentato graficamente attraverso una curva a forma di U rovesciata che rappresenta la motivazione.


Al crescere della difficoltà del compito (calo della probabilità di successo) corrisponde un aumento dell’incentivo (emozione anticipata di orgoglio). La motivazione complessiva cresce, fino ad un certo punto e cioè fino a quando la fatica di affrontare il compito (livello di difficoltà) è riata da adeguate emozioni positive (anticipate) di soddisfazione e orgoglio. Quando la difficoltà del compito è eccessiva e quindi la probabilità di riuscita è bassa allora, pur essendo l’emozione anticipata alta, ci può essere un calo di motivazione dovuta al timore di fallire e al venire meno di un congruo rapporto costo/benefici fra la difficoltà del compito e la soddisfazione per la riuscita. La situazione ottimale è quindi quella che si realizza quando c’è un giusto incrocio fra le dimensioni incentivo al successo e probabilità di successo. Ciò avviene in corrispondenza di compiti di difficoltà media o leggermente superiore alla media. La forma a U rovesciata della motivazione sta quindi ad indicare che gli individui sono, tendenzialmente, poco motivati ad affrontare compiti facili che spesso appaiono anche noiosi e ripetitivi, molto motivati verso compiti di medio-alta difficoltà, e di nuovo poco motivati per compiti che appaiono loro troppo impegnativi e ad alto rischio di fallimento. Il modello prende il nome di 'scelte a rischio' perché si riferisce al rischio di fallimento cui il soggetto va incontro se sceglie compiti troppo difficili anticipando un’emozione di soddisfazione eccessiva. Se l’individuo sceglie un compito di media difficoltà, probabilmente riuscirà a risolverlo ottenendo un successo e traendo un medio livello di soddisfazione. Se, invece, sceglie un compito molto semplice avrà un basso rischio di fallimento, ma allo stesso tempo un incentivo poco attraente. Se, infine, sceglierà compiti un po’ più difficili, sarà molto soddisfatto per l’eventuale, ma meno certa, riuscita, ma avrà un rischio maggiore di fallimento. Infine, è importante osservare che se l’individuo affronta un compito valutato come difficile nella speranza di riuscire e di provare orgoglio e, invece, fallisce, rischia di provare un’emozione negativa, anziché positiva. Le emozioni negative provate di fronte al fallimento tendono a far abbassare le aspettative future di riuscita e le autopercezioni di abilità. Questa situazione può incidere sulle successive stime di difficoltà del compito e quindi, in ultima analisi, sulla scelta dello stesso. Infatti, quando un soggetto riesce in un compito tende a scegliere, la volta successiva, un livello di difficoltà leggermente superiore e quindi a innalzare il proprio livello di aspirazione, perché acquista maggiore fiducia in sé. Se, invece, fallisce tende a mantenere uguali o addirittura ad abbassare le proprie aspettative. Gli individui, infatti, sono spinti a scegliere compiti di un livello di difficoltà che consenta loro, ragionevolmente, di ottenere un successo. Ciò implica che il giudizio per cui una data prestazione costituisce un successo o un insuccesso è soggettivo (es: lo stesso voto 7 costituisce un fallimento per uno studente brillante e un successo per uno studente con una carriera scolastica più stentata).


III.    La teoria di Atkinson. Tipologie e stili di motivazione.

Le 2 componenti motivazionali individuate da Atkinson (tendenza al successo e motivazione ad evitare il fallimento) sono indipendenti. Ciò significa che sono entrambe presenti, anche se in misura diversa, nella stessa persona, e che possono fra loro incrociarsi costituendo 4 tipologie di individui, secondo il modello quadripolare della motivazione alla riuscita. Le 4 tipologie sono:

§ over-strivers (alta tendenza al successo e alta motivazione ad evitare il fallimento)

§ success-oriented (alta tendenza al successo e bassa motivazione ad evitare il fallimento)

§ failure-avoiders (bassa tendenza al successo e alta motivazione ad evitare il fallimento)

§ failure-acceptors (bassa tendenza al successo e bassa motivazione ad evitare il fallimento)



Tipologia

Conflitto

Atteggiamento

Emozioni

over-strivers

massimo tra forze opposte. impegno eccessivo

difensivo (riesce per paura di fallire)

inadeguatezza. paura

success-oriented

lieve. impegno verso il proprio miglioramento

motivazione intrinseca. curiosità

fiducia

failure-avoiders

lieve. abilità non sviluppate adeguatamente

disinteresse. massimo risultato con il minimo sforzo. procrastinazione

noia. paura. ansia

failure-acceptors

minimo (nessuna speranza o paura)

indifferenza, disinteresse e passività

rassegnazione (attribuzione all’incapacità). rabbia (attribuzione esterna)


Queste tipologie non vanno considerate come esaustive, ma rappresentano, in modo forse un po’ schematico, l’esistenza di situazioni motivazionali forti e conflittuali per cui il soggetto si impegna molto allo scopo di evitare il fallimento (over-strivers), forti, ma meno conflittuali, in cui il soggetto è motivato dalla curiosità, dalla soddisfazione anticipata per la riuscita e dal desiderio di mettere alla prova le proprie abilità (success-oriented) oppure dal dimostrare le proprie abilità attraverso la competizione o applicando il principio del minimo sforzo con il massimo risultato (failure-avoiders) e di situazioni di mancanza di motivazione in assenza di conflitto (failure-acceptors). Queste tipologie sono sicuramente estreme, ma rappresentano in modo abbastanza adeguato le autopercezioni e i vissuti emotivi presenti nel momento di decidere se, e a quale prezzo, cognitivo, ed emotivo, affrontare una specifica situazione. La decisione di confrontarsi con un determinato compito viene presa comunque non solo in base alle spinte motivazionali, ma anche in relazione

§ al grado di attrazione dell’obiettivo, che può più o meno collimare con gli scopi e i valori dell’individuo

§ alle aspettative che vengono comunicate dagli insegnanti e dai genitori

§ alle riflessioni fatte di fronte ai precedenti successi e insuccessi



e quindi, in conclusione, alle attribuzioni formulate in situazioni analoghe


IV.    La teoria attributiva.

Attribuzioni = percezioni che gli individui hanno circa le cause degli eventi che accadono a se stessi (autoattribuzioni) e agli altri (eteroattribuzioni); sono il risultato di decisioni che l’individuo mette in atto in genere in modo spontaneo. Il processo attributivo comprende elementi cognitivi ed emotivo-motivazionali. In tale accezione le attribuzioni possono essere considerate come le reazioni cognitive individuali al successo e al fallimento. Il processo attributivo emerge dal bisogno di comprendere il mondo e le sue regole, necessità che può essere considerata analoga alla curiosità epistemica e alla motivazione di competenza. Questo bisogno di conoscere il perché delle cose può essere osservato già a 3 mesi di vita, quando il bambino cerca di individuare semplici relazioni di tipo causa-effetto. Heider ha studiato questo bisogno di causalità nella vita sociale, distinguendo fra

§ cause interne a sé, quali le caratteristiche personali, l’abilità e l’impegno

§ cause esterne, quali quelle legate alla situazione, alla fortuna e all’aiuto di altri

Il successo attribuito a sé (causa interna), piuttosto che agli altri o a fattori legati alla situazione (causa esterna), comportava maggiore gratificazione. Il fallimento attribuito a se stessi induceva al rimprovero, attribuito agli altri o a fattori legati alla situazione portava a giustificarsi. Tali effetti possono essere ulteriormente distinti a seconda del fatto che le attribuzioni riguardino i comportamenti e risultati propri (autoattribuzioni) o altrui (eteroattribuzioni). A tal proposito, Jones e Nisbett hanno descritto il fenomeno definito come 'errore fondamentale di attribuzione' o 'bias edonico'. Secondo tale fenomeno, è tendenza comune quella di scegliere cause di tipo interno per il successo e di tipo esterno per il fallimento per le autoattribuzioni e viceversa per le eteroattribuzioni. Questo effetto viene denominato come 'errore fondamentale di attribuzione' in quanto si riferisce ad un bias di ragionamento. Chi cerca di attribuire una causa ad un evento dovrebbe riflettere su aspetti che riguardano la persona e la situazione. Non sempre il soggetto però dispone di complete e corrette informazioni. Anzi, spesso, alcuni dati non sono precisi oppure mancano. Naturalmente questo si verifica più spesso quando cerchiamo di interpretare il comportamento di altri, in quanto l’altro, per quanto ci possa essere familiare, è comunque conosciuto meno e spesso in modo più distorto rispetto a se stessi. L’errore fondamentale di attribuzione è stato definito anche come 'bias edonico' in quanto si riferisce ad un errore di ragionamento (bias) mirato alla protezione di sé (edonico). Esso, infatti, costituisce un sistema naturale di difesa che consente di mantenere intatta l’autostima. Formulare delle attribuzioni serve, infatti, non solo a spiegare il proprio comportamento, ma anche a giustificarlo. Ciò avviene, in genere, in persone con adeguati livelli di fiducia in sé. Chi presenta, invece, un basso grado di autostima (il caso limite è dato dalle persone depresse) tende ad attribuire i propri successi a fattori esterni e ad accollarsi la responsabilità degli insuccessi. L’errore fondamentale di attribuzione può essere ridotto o annullato dall’empatia, mentre può risultare ampliato per effetto di condizionamenti culturali o di stereotipi. Per quanto concerne gli stereotipi, questi renderebbero più facilmente disponibili alcuni elementi che favorirebbero l’espressione di particolari tipi di attribuzioni. Essi sarebbero sostenuti anche da distorsioni nel giudizio che derivano da fenomeni quali l’euristica della rappresentatività per effetto della quale la persona di cui ci ricordiamo viene assunta quale prototipo dell’intera categoria di appartenenza (es: idea comune per cui le femmine siano meno brave in matematica dei maschi).


V.  Classificazione delle attribuzioni.

La necessità di trovare una giustificazione e delle regolarità nelle situazioni quotidiane spiega anche il tipo di attribuzione formulata. Ad esempio, l’abilità può spiegare ripetuti successi in un preciso ambito, mentre la fortuna può meglio giustificare un insuccesso all’interno di ripetuti successi oppure un risultato (successo o insuccesso) in contrasto con il grado di abilità percepita. Per quanto riguarda le specifiche cause espresse, queste possono essere diversamente classificate e interpretate in base a differenti teorie. Le più importanti sono quelle esposte da Kelley e da Weiner.

Secondo il modello ANOVA di Kelley, il soggetto, nel formulare un certo tipo di attribuzione rispetto ad un dato comportamento di un certo attore (se stesso o altri), tiene conto di informazioni relative

§ al consenso (se anche altri si comportano così o interpretano il comportamento dell’altro nello stesso modo)

§ alla consistenza (nel tempo e attraverso le situazioni di quel dato comportamento da parte di quell’attore)

§ alla specificità (se lo stesso comportamento è assunto anche in materiali diversi)

Considerando i diversi livelli di consenso, consistenza e specificità, si possono ottenere diversi tipi di attribuzione. Le persone tendono ad attribuire:

§ all’abilità (o alla mancanza di capacità) del singolo se solo una specifica persona in una pluralità di occasioni si comporta in un certo modo, ad esempio uno studente è giudicato come brillante in matematica (attribuzione all’abilità) se ottiene sempre, in media, voti più alti dei comni in quella materia

§ alle caratteristiche del compito se molti credono e spesso che sia facile o difficile riuscire in quello specifico compito, ad esempio una materia è valutata come facile se quasi sempre tutti ottengono buoni voti

§ a fattori casuali se esiste un buon consenso per cui una pluralità di comportamenti simili a quello in oggetto si manifestano solo occasionalmente, ad esempio il fatto di vincere un pronostico è per molti un evento casuale sia per se stessi che per gli altri e che risulta slegato dalle caratteristiche della persona e dal tipo di scommessa

In altri casi, la situazione può essere spiegata ricorrendo a 2 o più cause, ad esempio ad un’interazione fra abilità del singolo e facilità del compito per cui solo quella data persona (basso consenso) ottiene quel risultato sempre in uno specifico compito (alta consistenza e specificità).

Questo modello presenta il vantaggio di distinguere una pluralità di tipologie di attribuzioni, in base a riflessioni da parte del singolo su 3 dimensioni. Queste riguardano elementi legati alla persona e alle sue abilità (consenso), al tipo di compito (specificità) e alla situazione (consistenza)

Il modello presenta però 2 importanti limiti, uno legato alla sua applicabilità concreta e quotidiana spesso l’individuo non dispone di tutte le informazioni precise relative al consenso, alla consistenza e alla specificità. Questo può essere vero per le autoattribuzioni e lo è ancor più per le eteroattribuzioni. Dal punto di vista evolutivo, inoltre, il bambino può non essere capace di giudicare correttamente i 3 diversi aspetti. Inoltre, anche nel caso in cui tutte le informazioni fossero disponibili ed esatte, il ragionamento svolto a partire da queste 3 dimensioni potrebbe non essere corretto, ma fuorviato da biases di ragionamento

L’altro relativo all’impossibilità di distinguere, nell’ambito delle attribuzioni interne, fra più dimensioni, ad esempio fra impegno e abilità Kelley riconoscere essenzialmente un solo tipo di attribuzione interna indifferenziata (abilità) e 2 tipi di attribuzioni esterne (compito e fortuna) e le loro possibili interazioni. Fra le attribuzioni interne è invece importante distinguere almeno fra i tratti tendenzialmente stabili della persona, quali le abilità specifiche, l’expertise, la costanza e lo zelo, e le componenti maggiormente variabili a seconda della situazione, quali l’impegno, l’importanza attribuita al compito e le strategie adottate per riuscire

Una prospettiva più completa, che esamina nel dettaglio le attribuzioni interne, è quella proposta da Weiner, secondo la quale le attribuzioni possono essere distinte in base alle 3 seguenti dimensioni:

§ locus of control, per cui è possibile distinguere fra cause interne alla persona, o esterne

§ stabilità, per cui le cause, indipendentemente dal locus, possono essere tendenzialmente stabili nel tempo e nelle differenti situazioni o instabili e variabili a seconda dei contesti

§ controllabilità, per cui si possono distinguere cause più o meno direttamente controllabili dal soggetto

Dall’incrocio di queste 3 dimensioni è possibile ottenere la tipologia proposta da Weiner:


Caratteristiche dell’attribuzione

Attribuzione

Locus of control

Stabilità

Controllabilità

interno

stabile

controllabile

tenacia

incontrollabile

abilità

instabile

controllabile

impegno

incontrollabile

tono dell’umore

esterno

stabile

controllabile

pregiudizio

incontrollabile

facilità del compito

instabile

controllabile

aiuto

incontrollabile

fortuna


Fra queste attribuzioni alcune risultano più frequenti (impegno, abilità, fortuna, facilità del compito), altre più funzionali all’apprendimento (impegno, abilità), altre efficaci nel mantenere specifici sistemi di difesa (mancanza di abilità, aiuto).

La classificazione di Weiner presenta il vantaggio, rispetto a quella di Kelley, di definire le principali attribuzioni in base a etichette di immediata interpretazione e di uso quotidiano, piuttosto che in base a giudizi su distinte dimensioni

Un importante limite di questo approccio è però dato dal fatto che non tutti gli individui assegnano alla stessa etichetta lo stesso significato o comunque il significato definito dalla teoria

Un’ulteriore dimensione di analisi delle attribuzioni, che può essere aggiunta alle 3 di Weiner, è quella proposta da Abramson, Seligman e Teasdale, che distingue fra attribuzioni

§ globali riguardano la generalità di possibili situazioni

§ specifiche sono relative ad una sola specifica situazione

Ad esempio, uno studente può pensare abitualmente di non essere capace solo in una determinata disciplina (causa specifica) oppure di non essere bravo in genere, a scuola, in una pluralità di materie (causa globale).


VI.    Attribuzioni e motivazione al successo.

La teoria attributiva riprende e interpreta in termini cognitivi la teoria di Atkinson. La tendenza al successo, intesa come forma di motivazione

§ veniva spiegata da Atkinson come l’effetto di un’emozione anticipata di orgoglio, interpretata come una forza interiore, simile ad un istinto sottolinea l’aspetto emotivo: se il soggetto anticipa il successo e la riuscita, prova un’emozione di orgoglio o di soddisfazione, se anticipa il fallimento prova vergogna

§ secondo Weiner, invece, sarebbe una disposizione cognitiva, non affettiva; la tendenza ad impegnarsi/non impegnarsi dipenderebbe dalle convinzioni del soggetto circa le possibili cause del successo/insuccesso; la motivazione dipenderebbe, quindi, dalle spiegazioni date, cioè dalle attribuzioni formulare in precedenti situazioni di successo o di fallimento; la maggiore motivazione al successo si collegherebbe, pertanto, ad un maggiore riconoscimento di cause interne e, in particolare, dell’impegno

La capacità di provare orgoglio nella realizzazione è sostituita con la capacità di percepire il successo come causato da fattori interni:

§ la tendenza al successo si caratterizza quindi per l’attribuzione del successo ad una combinazione di abilità e impegno e l’attribuzione dell’insuccesso alla mancanza di impegno

§ la motivazione ad evitare il fallimento si contraddistingue, invece, per l’attribuzione del successo a fattori esterni e dell’insuccesso a mancanza di abilità

Secondo la teoria attributiva, quindi, la motivazione non deriva dalle emozioni anticipate, ma dai normali processi di riflessione sulle cause dei propri successi e insuccessi. Gli aspetti emotivi esistono, ma non sono visti come causa e quindi come spinta motivazionale, ma come conseguenza, poiché derivano dallo specifico tipo di attribuzione formulata. Un fallimento potrà determinare un’emozione di vergogna se attribuito alla mancanza di abilità, ma non se attribuito a fattori casuali e imprevisti. Analogamente l’orgoglio e la soddisfazione potranno conseguire da un successo attribuito all’impegno, ma non alla fortuna o all’aiuto esterno. Le componenti motivazionali individuate da Atkinson possono essere reinterpretate in base alla teoria attributiva nel seguente modo:


Componente motivazionale prevalente

Attribuzione del successo

Attribuzione dell’insuccesso

Autovalutazione

Tendenza al successo

sforzo, buona abilità personale

sforzo insufficiente, sfortuna

bilancio positivo di successo/insuccesso

Motivazione ad evitare il fallimento

fortuna, compito facile

mancanza di capacità personali

bilancio negativo di successo/insuccesso


La prevalenza dell’una o dell’altra motivazione (tendenza al successo o motivazione ad evitare il fallimento) dipenderebbe, quindi, secondo la teoria attributiva, dalle spiegazioni date dall’individuo rispetto ai precedenti successi e insuccessi. Queste sarebbero più orientate verso cause interne e controllabili per chi tende al successo e verso cause esterne o interne non controllabili (abilità) per chi è prevalentemente motivato ad evitare il fallimento.


  1. OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO COME CONTENUTI O STRUTTURE.

Attribuire ad una causa anziché ad un’altra episodi di successo/insuccesso a cui andiamo incontro riveste una notevole importanza sulle nostre successive decisioni relative alle attività da intraprendere e agli obiettivi di apprendimento da perseguire. Per quanto riguarda gli obiettivi di apprendimento, questi racchiudono aspetti sia cognitivi sia emotivi, in quanto coinvolgono valutazioni relative alla proprie capacità, alle proprie possibilità di ottenere successo e alle emozioni che verranno provate di fronte ai personali successi e insuccessi. Esistono diversi tipi di obiettivi:

§ un primo tipo si riferisce agli obiettivi concreti da raggiungere

§ un secondo tipo riguarda il modo in cui il soggetto si percepisce e quindi la rappresentazione di sé

Le persone sono maggiormente motivate ad impegnarsi in quelle attività che avvicinano il sé reale a quello ideale piuttosto che a svolgere attività irrilevanti per il proprio concetto di sé. Così pure il modo in cui una persona si percepisce può anche limitare le sue aspettative di successo e, in difesa del sé, portarla ad evitare alcune situazioni in cui teme il fallimento. Le aspettative del soggetto, relative alla possibilità di ottenere un successo, e il valore che viene attribuito al compito da affrontare sono variabili determinanti, in quanto è molto più facile impegnarsi in un’attività interessante o comunque valutata importante per il raggiungimento dei propri obiettivi, piuttosto che impegnarsi in un’attività giudicata irrilevante, se non addirittura inutile, per i propri scopi. Altro aspetto importante sono le emozioni associate alle esperienze di successo/fallimento: se una situazione di apprendimento si accomna ad un vissuto positivo, il soggetto, al ripresentarsi di una situazione uguale o simile, sarà più motivato ad apprendere, perché memore di un’esperienza positiva.


I.    Obiettivi come contenuti, strutture o orientamenti.

Obiettivi di apprendimento = mete che il soggetto si pone; queste possono essere intese come disposizioni affettive e cognitive che motivano verso l’una o l’altra attività in modo più o meno efficace e duraturo. È possibile distinguere fra teorie che concepiscono gli obiettivi come

§ contenuti

§ strutture

§ orientamenti



Tale distinzione può essere esemplificata attraverso il caso di uno studente che si accinge ad affrontare lo studio di un manuale di informatica. I contenuti si riferiscono al che cosa e quindi agli elementi descrittivi della situazione futura verso cui il soggetto tende, ad esempio studiare 3 moduli entro la prossima settimana. Le strutture fanno riferimento alla specificità e alla vicinanza rispetto alla propria definizione di sé, ad esempio conoscere bene le basi teoriche dell’informatica per poter diventare un buon programmatore. Gli orientamenti riguardano il perché, ovvero il tipo di obiettivo che costituisce la base motivazionale per il raggiungimento della meta, ad esempio studiare per ottenere buoni voti all’esame o per accrescere le proprie conoscenze.

§ Le teorie che concepiscono gli obiettivi come contenuti sono quelle proposte da Ford e da Wentzel (*)

§ Le teorie che fanno riferimento alle strutture sono quelle relative alle percezioni di sé, alle aspettative e ai valori (paragrafi II-IV)

§ Le teorie che vedono gli obiettivi come orientamenti sono quelle relative agli obiettivi di prestazione o padronanza e alle teorie implicite dell’intelligenza (modulo 6)

Ford identifica una serie di 24 obiettivi che costituiscono la spinta motivazionale, raggruppandoli nelle seguenti 6 mete: affettive, cognitive, soggettive, legate a relazioni sociali di tipo assertivo o di tipo integrato, legate al lavoro. Fra queste, quella che interessa più direttamente l’apprendimento è la meta di tipo cognitivo, anche se, nei contesti di classe, possono, a seconda dei casi, risultare almeno ugualmente importanti anche le mete di tipo sociale e affettivo. Il modello di Ford è stato criticato per alcuni importanti aspetti:

le mete proposte possono non essere esaustive nello spiegare i diversi tipi di situazione, non sono ben definite, ad esempio per quanto riguarda l’origine e le possibilità di modificazione nel tempo, non sono ben distinte dai bisogni

non viene considerata la possibilità di competizione fra obiettivi diversi, ad esempio fra obiettivi di socializzazione e obiettivi cognitivi

Questa competizione può essere meglio evidenziata qualora, invece di elencare specifici obiettivi, vengano analizzate le dimensioni sottostanti e compresi i meccanismi che portano all’uno o all’altro obiettivo. Sulla scorta delle critiche mosse alla teoria di Ford, Wentzel ha fornito una parziale soluzione alla semplice elencazione di mete. Secondo l’autore gli studenti sono motivati da 3 tipi di obiettivi:

§ sociali (essere approvati, avere relazioni soddisfacenti)

§ legati al compito (ottenere un certo risultato)

§ cognitivi (soddisfare la curiosità, sviluppare un pensiero creativo)

Per quanto riguarda la loro origine, gli obiettivi possono derivare dal singolo o dal contesto e comunque non possono essere studiati separatamente dalle regole e della convenzioni sociali in cui si manifestano. In genere, i soggetti perseguono più di un obiettivo alla volta e cercano continuamente il modo per coordinare le singole mete efficacemente e per risolvere eventuali competizioni fra di esse. In particolare, Wentzel sostiene che la capacità di coordinare efficacemente mete diverse corrisponde ad un’importante abilità di autoregolazione, particolarmente funzionale all’apprendimento, e riflette un buon adattamento della persona all’ambiente. Questo approccio pare quindi interessante per 2 motivi:

la prospettiva multimeta, per cui uno stesso soggetto si pone più mete contemporaneamente ed è tanto più motivato quanto meglio riesce a coordinare obiettivi di diversa natura

ha individuato nel contesto sociale e educativo un’importante fonte degli obiettivi

Proprio quest’ultimo aspetto introduce un secondo tipo di teorie motivazionali legate agli obiettivi, quelle che li concepiscono come strutture.


II.  Percezioni di sé.

Le percezioni di sé consistono in un insieme di rappresentazioni riguardanti:

§ il sé attuale è dato dalla rappresentazione che un individuo ha di se stesso e delle qualità che pensa di avere effettivamente

§ il sé ideale si riferisce a come l’individuo spera, desidera o vorrebbe essere, alle caratteristiche che vorrebbe possedere e alle situazioni che desidererebbe realizzare

§ il sé imperativo riguarda le caratteristiche che l’individuo crede di dover possedere e le modalità secondo cui pensa di doversi comportare in base a norme socialmente o culturalmente condivise

Queste rappresentazioni di sé possono essere espresse dal soggetto stesso (e in tal caso definite come proprie) oppure da altri, in particolare da insegnanti, genitori o amici. Le percezioni di sé sono importanti fonti motivazionali. Gli individui tendono, infatti, a svolgere quelle attività che consentono di avvicinare il più possibile il sé attuale a quelle ideale o imperativo. Oltre a ciò, recenti dati di ricerca hanno dimostrato, in relazione alle strategie adottate per studiare che, chi possiede una più coerente percezione di sé come studente, si sente più efficace nelle situazioni di apprendimento e ottiene migliori prestazioni scolastiche. Inadeguate o discrepanti percezioni di sé possono, di converso, costituire importanti situazioni demotivanti che portano, attraverso specifiche emozioni e riflessioni, ad evitare o ad abbandonare le situazioni di apprendimento, in funzione della difesa del sé.


Tipo di discrepanza

Emozione

Motivazione

Sé attuale/proprio VS sé ideale/proprio

delusione e insoddisfazione

tendenza al ritiro, disinteresse

Sé attuale/proprio VS sé imperativo/proprio

senso di colpa

alta motivazione al successo e attribuzione all’impegno

Sé attuale/proprio VS sé ideale/per gli altri

vergogna e imbarazzo

timore di fallire, attribuzione alla mancanza di abilità

Sé attuale/proprio VS sé imperativo/per gli altri

paura o sensazione di essere minacciato

motivazione estrinseca e tendenza ad attribuire esternamente


In definitiva, un solo tipo di discrepanza risulta motivante: quello in cui il sé attuale (proprio) tende al sé imperativo (proprio) (2° caso). Questo tipo particolare di discrepanza è stato ripreso e ampliato da Lewis. L’autore distingue fra

§ emozioni primarie slegate dalle convinzioni sociali e culturali (es: gioia, tristezza, paura)

§ emozioni di autoconsapevolezza derivano dalle attribuzioni espresse in un contesto in cui i comportamenti vengono giudicati in base a modelli e regole cui il bambino deve tendenzialmente adeguarsi (= sé imperativo) (es: superbia, senso di colpa, vergogna)

Il modello proposto da Lewis indica la modalità attraverso cui il bambino, nel corso dello sviluppo, interiorizza modelli e regole e la consapevolezza di essere giudicato dagli altri e da se stesso rispetto a queste norme (sé imperativo). Nel momento in cui si trova a dover riconoscere una causa, il bambino confronta i propri risultati e comportamenti con i modelli noti e interiorizzati e individua, se prova un senso di responsabilità per quanto accaduto, una causa interna:



Successo


Insuccesso

a) Modelli e regole

b) Giudizio

c) Attribuzione al sé

superbia

orgoglio

vergogna

colpa/rimorso

globale

specifica


Secondo Lewis, quindi, il bambino valuta se stesso (giudizio globale) e la bontà delle proprie singole azioni (giudizio specifico) attraverso un filtro che è dato dalla conoscenza, condivisione e interiorizzazione di norme sociali e culturali. Dal punto di vista motivazionale la tendenza sarà quella di essere motivati per quei compiti e attività che sono approvati dagli altri, al fine di evitare giudizi negativi e provare emozioni spiacevoli e demotivanti, come la vergogna per se stesso in toto, frutto del processo attributivo sottostante.


III.  Aspettative e valori.

Aspettative = attese nutrite circa la qualità delle prestazioni. Queste possono essere espresse

§ dal singolo aspettative personali

§ da parte di altri circa i propri risultati e comportamenti aspettative interpersonali (es: quelle espresse dai genitori e dagli insegnanti rispetto al bambino)

Le aspettative personali dipendono da numerosi fattori, alcuni già precedentemente discussi, quali la percezione di competenza e di controllo della situazione e le interpretazioni date alle precedenti esperienze proprie e altrui. In particolare, l’attribuzione a cause stabili (abilità o capacità, facilità i difficoltà del compito) porta ad aspettarsi, in caso di successo, un ulteriore successo o, in caso di fallimento, un ulteriore fallimento, situazione che può portare ad evitare di affrontare compiti falliti in precedenza. Al contrario, l’attribuzione all’impegno, essendo una causa controllabile, può condurre ad una positiva aspettativa di riuscita e a persistere nonostante i precedenti fallimenti e le difficoltà incontrate o attese.

Le aspettative interpersonali implicano una relazione fra un soggetto che esprime l’attesa (es: l’insegnante o il genitore) e un destinatario (es: il bambino). Tale relazione è, in alcuni casi, unidirezionale. In molti altri, però, anche il destinatario può influenzare la formazione delle aspettative con i suoi comportamenti e atteggiamenti, secondo una relazione che è spesso di tipo bidirezionale. Ad esempio, se un insegnante si aspetta che, in genere, le femmine siano più attente dei maschi tenderà a verificare la sua ipotesi. Le ragazze, cogliendo questi messaggi e questa comunicazione di attese, tenderanno, a loro volta, a comportarsi come l’insegnante vorrebbe. Le aspettative interpersonali rispetto ad un singolo, soprattutto se attribuite a cause interne e a caratteristiche tendenzialmente stabili della persona, possono naturalmente estendersi alle aspettative per gruppi sociali o per membri di una stessa categoria (vedi esempio citato sopra). Le aspettative sono infatti influenzate dagli stereotipi posseduti. Questi, a loro volta, influenzano il processo attributivo. È, infatti, tendenza comune quella di attribuire il comportamento conforme agli stereotipi a fattori interni e stabili (abilità), quello difforme a fattori esterni e instabili (fortuna) o stabili (facilità del compito). Ad esempio, supponiamo che una convinzione diffusa (stereotipo) sia quella che gli studenti stranieri sono più indisciplinati degli italiani. Se un bambino extracomunitario disturba durante la lezione, gli insegnanti, lasciandosi condizionare dallo stereotipo, tenderanno ad attribuire la responsabilità al bambino. Se, invece, questo bambino è tranquillo penseranno che è un caso o che dipende da aspetti legati alla situazione. Al contrario, se è un bambino italiano a disturbare, l’insegnante tenderà ad attribuire questo comportamento ad elementi esterni al bambino, ad esempio al fatto che l’argomento trattato può essere noioso.


Per quanto riguarda i valori, questi possono essere diversamente definiti a seconda delle teorie:

§ alcune teorie li concepiscono come obiettivi a lungo termine (es: la teoria delle percezioni di sé)

§ altre li considerano come emozioni anticipate per il successo (fra queste la più importante è la teoria di Atkinson)

§ per altre, il termine comprende più elementi, relativi sia a specifici obiettivi sia ad altre componenti motivazionali e strategiche


Ad esempio, Eccles definisce i valori come credenze circa la desiderabilità di certi risultati o obiettivi e ne distingue le seguenti 4 componenti:

§ valore intrinseco, che coincide con la motivazione intrinseca

§ utilità, che si riferisce alla motivazione estrinseca

§ costo, che riguarda gli elementi negativi anticipati relativi allo svolgimento del compito, quali l’ansia, la paura di fallire, l’impegno richiesto rispetto ai benefici attesi, anche rispetto ad altri obiettivi di competizione e alla stima delle possibilità di successo

§ importanza o valore del raggiungimento di un risultato, che si riferisce al desiderio di realizzare lo schema ideale di sé

Il valore attribuito al compito ha una forte rilevanza motivazionale che può essere analizzata considerando le emozioni provate, gli atteggiamenti e le riflessioni fatte di fronte a compiti valutati positivamente o negativamente:


Valutazione

Prima dell’esecuzione del compito

Durante l’esecuzione del compito

Positiva

Emozioni: senso di forza, forte desiderio di acquisire nuove conoscenze o abilità


Atteggiamenti e riflessioni: il compito è vissuto come qualcosa che consente, tramite l’acquisizione di conoscenze e abilità, di raggiungere obiettivi più importanti

Emozioni: divertimento, piacere, senso di gratificazione nello svolgimento del compito


Atteggiamenti e riflessioni: concentrazione rilassata, esperienza di flusso, consapevolezza metacognitiva delle richieste del compito

Negativa

E: resistenza, senso di estraneità, scarso desiderio di acquisire nuove conoscenze o abilità


A e R: percezione di un conflitto fra quanto il compito rappresenta e la propria percezione di sé o identità, anticipazione di conseguenze indesiderate nello svolgere il compito

E: rabbia o timore, disinteresse per il compito che è vissuto come una punizione


A e R: risentimento che porta alla poca concentrazione sul compito, consapevolezza di essere coinvolti in attività spiacevoli o irrilevanti


Tali emozioni e atteggiamenti dipendono non solo da quanto positivamente è valutato il compito, ma anche dalle aspettative di successo nutrite, a loro volta riconducibili alla percezione di abilità. Ciò significa che chi si sente capace di affrontare determinati compiti tende ad avere anche buone aspettative di successo:




Valore dato al compito

Aspettative di successo

Basse

Alte

Poco importante

rifiuto di affrontare il compito

evitamento del compito

Molto importante

dissimulazione di disimpegno

sfida e impegno


La condizione più funzionale all’apprendimento è quella che si realizza quando si verifica un corretto incrocio fra adeguate percezioni di abilità, e conseguenti aspettative di successo, e una positiva valutazione del compito. In tal caso il compito viene vissuto come un’importante sfida delle proprie abilità e, in quanto tale, affrontato strategicamente, con livello di interesse che possono condurre ad esperienze di flusso. Questi 2 modelli di analisi, illustrati nelle 2 tabelle, sono, in realtà, parziali,

§ da un lato perché distinguono solo 2 livelli, alto e basso, assegnabili (fra l’altro soggettivamente) al valore del compito

§ dall’altro perché non esaminano le dinamiche che conducono al costituirsi dei valori

Una risposta a questi 2 limiti sopra delineati può essere fornita dal modello aspettative-valori, proposto da Eccles. Tale modello considera la possibilità di valori discreti e, soprattutto, illustra alcune importanti relazioni fra numerosi elementi motivazionali e di prestazione, fra i quali un ruolo centrale è svolto delle aspettative e dai valori.

Le aspettative e il valore del compito influenzano 3 indici di apprendimento:

§ prestazione si riferisce all’effettivo livello di bontà e correttezza dei risultati raggiunti

§ persistenza riguarda la capacità di mantenere la motivazione nello svolgimento del compito, nonostante eventuali difficoltà, ostacoli o stati di stanchezza che si possono manifestare, anche in modo imprevisto

§ scelta del compito riguarda la preferenza per compiti facili o difficili (la scelta di compiti di media o medio-alta difficoltà si conura, in genere, come una situazione adeguatamente motivante)

Secondo il modello di Eccles, la motivazione è il prodotto delle aspettative e del valore attribuito al compito. Il tutto rientra, comunque, in un processo circolare la cui origine può essere vista nella parte centrale dello schema e, in particolare, nella relazione bidirezionale fra credenze sul compito e obiettivi. Queste credenze riguardano, in gran parte, alcune importanti autovalutazioni di sé e delle proprie capacità e costituiscono un punto di vista individuale attraverso cui vengono filtrate (come in uno schema interpretativo) le diverse situazioni di apprendimento, al fine di stabilirne l’importanza. Ad esempio, la bidirezionalità della relazione indica come uno schema di sé povero (tipico, ad esempio, di uno studente che si sottovaluta o che ha basse aspettative) si associa ad una bassa percezione di abilità e alla tendenza a valutare i compiti come eccessivamente difficili e di conseguenza ad evitarli. La qualità e la quantità delle occasioni di apprendimento dipenderebbero, quindi, dal livello di abilità percepita e dalla stima della difficoltà del compito che, a loro volta, sarebbero frutto delle interpretazioni dei successi e insuccessi precedenti, delle aspettative di insegnanti e genitori e degli obiettivi e dei valori da questi comunicati. In questo contesto non si esclude, anche se gli autori non vi fanno esplicito riferimento, che si possano manifestare anche effetti 'pigmalione', per cui le attese espresse da insegnanti e genitori nei confronti degli studenti tenderebbero ad influenzare il comportamento dei ragazzi, trovando così una conferma nella realtà. In conclusione, il modello di Eccles vede la motivazione ad affrontare un certo compito come il risultato delle proprie percezioni e aspettative circa la difficoltà del compito e le personali capacità di affrontarlo. In definitiva, la motivazione è intesa come frutto di stime e valutazioni del soggetto, derivanti da processi di socializzazione mediati cognitivamente. Il ruolo dei processi di socializzazione e dell’ambiente culturale sono stati approfonditi più nel dettaglio in un successivo ampliamento del modello:


Com’è possibile osservare, rispetto al modello originale sono state introdotte 4 nuove componenti:

§ il contesto culturale e un insieme di credenze, quali, ad esempio, gli stereotipi legati al sesso o al ruolo professionale

§ le credenze e i comportamenti legati alla socializzazione

§ il ricordo delle emozioni associate all’apprendimento

§ le attitudini del bambino

È da osservare che le attitudini (oltre alla motivazione, che può essere intesa come il prodotto finale di una serie complessa di interazioni fra più elementi) paiono essere l’unico aspetto che agisce su altre componenti senza però ricevere alcuna influenza, probabilmente in quanto inteso come elemento innato e poco modificabile per effetto delle esperienze di apprendimento.

(Per esemplificare queste componenti e le loro relazioni è possibile pensare alla convinzione, legata al contesto culturale, per cui la professione di ingegnere è maschile)

Il modello aspettative-valori, originariamente nato per esaminare la relazione congiunta e spesso moltiplicativa delle aspettative e dei valori sulla motivazione, anche per effetto delle nuove aggiunte, risulta essere particolarmente complesso e includere elementi che spaziano dalle personali percezioni di abilità e di sé, alle aspettative degli altri fino a giungere al contesto culturale e alle pratiche educative. Queste ultime, in particolare, come meglio evidenziato nella seconda formulazione del modello, risentono di numerosi elementi legati al contesto, sociale e culturale, in cui si realizza l’apprendimento. Questo modello induce a 2 osservazioni:

§ la prima è relativa al legame fra le credenze sul compito e i valori, relazione che potrebbe far concludere che viene valutato più positivamente ciò che si sa fare e non ciò che è effettivamente importante

§ la seconda, più di tipo generale, riguarda la circolarità del modello, il suo modificarsi per effetto dello sviluppo e la possibilità di identificare percorsi individuali differenziati


Rispetto al primo punto è da precisare che la relazione fra credenze sul compito e valori va letta nel complesso. È pur vero che nel valutare l’importanza delle varie situazioni, le persone tendono a giudicare come più importanti le cose che, in realtà, sanno fare, ma i valori risentono anche di altre componenti più di tipo generale, quali gli obiettivi di apprendimento e le percezioni di sé e di valutazioni risultanti da elementi passati, quali i precedenti successi e insuccessi. Inoltre, 2 delle componenti che influenzano i valori (credenze sul compito e obiettivi e percezioni di sé) sono influenzate anche dalle aspettative degli altri e quindi non solo da auto-, ma anche da etero-valutazioni. Infine, dal punto di vista evolutivo, fin dai primi anni delle elementari i bambini dimostrano di possedere credenze distinte circa le personali capacità di riuscire ad affrontare specifici compiti e il valore assegnato ai compiti stessi.


Per quanto riguarda, invece, il secondo punto, è difficile identificare un momento iniziale preciso all’interno del modello, salvo per quanto riguarda la freccia bidirezionale centrale. Come appena osservato, il valore del compito e le aspettative sono elementi ben differenziati già a partire dalla scuola primaria, anche se gli indici assoluti sono un po’ più alti nei primi anni per poi calare verso il periodo dell’adolescenza. Tale tendenza decrescente, riscontrabile, ad esempio, proprio per i valori, è un aspetto generale osservabile anche per altre componenti motivazionali. Questo calo è dovuto, in genere, ad almeno 3 distinte cause:

§ la prima riguarda strettamente lo sviluppo di motivazioni specifiche, attraverso la selezione di determinati ambiti, verso cui il bambino si sente particolarmente abile, che vengono distinti da altri verso cui prova meno attrazione e motivazione

§ la seconda si riferisce all’acquisizione, al crescere dell’età, di una maggiore accuratezza nel rispondere ai quesiti o ai test proposti per misurare la motivazione

§ la terza va ricercata nel tipo particolare di sistema educativo che può, ad esempio attraverso l’instaurarsi di un clima competitivo, favorire lo sviluppo di certi tipi di motivazione piuttosto che di altri

Per quanto concerne, infine, le differenze individuali, queste riguardano 2 aspetti:

§ il primo è dato dal peso assoluto assegnato alle diverse componenti del modello, in particolare a quelle più di tipo autovalutativo

§ il secondo si riferisce al valore delle frecce, per cui alcuni tipi di relazione sono più forti per alcuni soggetti rispetto ad altri un caso tipico è quello degli stili attributivi che, per effetto delle loro peculiarità, possono influenzare, in modo anche radicalmente diverso, le credenze sul compito (es: vi è differenza fra uno studente che ha attribuito un precedente insuccesso ad un impegno inadeguato e uno studente che ha attribuito l’insuccesso a cause poco controllabili o esterne)


IV.    Emozioni come aspettative.

Come si è osservato, le emozioni (es: soddisfazione per la riuscita/vergogna per il fallimento) provate di fronte ai precedenti risultati di apprendimento costituiscono un’importante fonte motivazionale. Lo stretto legame fra emozioni e motivazione è stato evidenziato fin dal lavoro di Atkinson, il quale aveva postulato l’esistenza di 2 diversi tipi di emozioni (presenti prima di affrontare il compito):

§ l’uno positivo, di orgoglio, collegato alla tendenza al successo e quindi ad un’attesa di riuscita nel compito

§ l’altro negativo, di vergogna, dipendente dalla motivazione ad evitare il fallimento e quindi dal timore di non riuscire ad affrontare il compito con successo

L’esame del legame emozioni-aspettative-motivazione è stato approfondito, ampliato e modificato, rispetto alla posizione di Atkinson, da Weiner, il quale, invece di distinguere fra tipi di emozioni, ha postulato l’esistenza di 3 livelli di reazioni emotive presenti nelle diverse situazioni di apprendimento:

§ un primo livello si riferisce alle emozioni immediate, generali e indifferenziate strettamente dipendenti dal risultato, che sono positive (felicità, gioia) in caso di successo o negative (tristezza) in caso di insuccesso e che non si ricollegano alle riflessioni fatte o agli atteggiamenti assunti di fronte al compito

§ un secondo livello riguarda le emozioni specifiche dipendenti dall’attribuzione formulata, diverse a seconda del tipo di causa attribuita all’evento

§ un terzo livello si riferisce alle emozioni di autostima (orgoglio, vergogna, senso di competenza, ..) che derivano dal tipo di attribuzione interna formulata


Attribuzione

Situazione di successo

Situazione di insuccesso

Impegno

soddisfazione, orgoglio

senso di colpa

Abilità

fiducia in sé, superbia

vergogna, depressione, apatia

Facilità del compito

sorpresa

rabbia, rassegnazione

Fortuna

sorpresa

sorpresa

Aiuto di altri

gratitudine

rabbia


Queste reazioni emotive dipendenti dal tipo di attribuzione formulata possono essere meglio comprese in riferimento alle dimensioni di analisi delle attribuzioni (interne o esterne, stabili o instabili, controllabili o incontrollabili) e considerando la diversa prospettiva di attore (autoattribuzioni) o osservatore (eteroattribuzioni). In genere,

§ le autoattribuzioni a cause incontrollabili producono apatia, rassegnazione e depressione, quelle a cause controllabili generano fiducia in sé

§ le eteroattribuzioni a cause incontrollabili producono, invece, simpatica, pietà, commozione, quelle a cause controllabili ira, irritazione, impazienza, disinteresse

§ la dimensione locus of control (causa interna o esterna) e, in minor misura, la 'stabilità' della causa influiscono sulla stima e la fiducia che il soggetto ha di sé o dell’attore osservato, mentre la dimensione 'controllabilità' influenza soprattutto i sentimenti e i giudizi interpersonali quali la simpatia e l’amicizia

La posizione di Weiner differisce quindi sostanzialmente da quella di Atkinson per 2 aspetti:

§ il primo si riferisce alla tipologia di emozioni proposta

§ il secondo alla direzione della relazione fra emozioni, aspettative e motivazione


Per quanto riguarda la tipologia di emozioni proposta, Weiner riprende e amplia la distinzione di Atkinson fra emozioni associate al successo ed emozioni collegate all’insuccesso. Weiner distingue fra un livello di base, evolutivamente anche più precoce, che si riferisce all’associazione successo-felicità ovvero insuccesso-tristezza (simile a quello proposto da Atkinson) e 2 livelli successivi. Questi ultimi sono il frutto delle riflessioni causali fatte e si riferiscono l’uno alla specifica attribuzione, l’altro al grado di riconoscimento della propria responsabilità o comunque del ruolo personale nel determinare lo specifico successo o insuccesso.


Per quanto riguarda la direzione della relazione fra emozioni, aspettative e motivazione, per Atkinson è l’emozione anticipata di orgoglio o di vergogna che porta ad affrontare o a evitare il compito, secondo una relazione in cui l’aspetto emotivo influenza le aspettative che, a loro volta, agiscono sul livello complessivo di motivazione. Weiner, al contrario, ritiene che le cause attribuite ai successi e agli insuccessi determinano specifiche emozioni che, a loro volta, generano aspettative che si riflettono sui comportamenti futuri, secondo una relazione opposta, per cui l’aspetto emotivo è una conseguenza delle riflessioni fatte di fronte ai propri risultati.


La relazione fra attribuzioni, aspettative e motivazione, proposta da Weiner negli anni 70, di recente è stata ampliata dallo stesso Weiner rispetto alle sole attribuzioni interne di impegno e abilità. Questa nuova prospettiva prevede una distinzione fra emozioni personali, che sono quelle dirette a sé e derivanti da processi di autoattribuzione, ed emozioni sociali, che sono quelle dirette agli altri (eteroattribuzioni), ad esempio da parte dell’insegnante verso il ragazzo. La ura illustra l’insieme di riflessioni fatte, emozioni provate e comportamenti assunti da parte del bambino e dell’insegnante (o di qualsiasi altro adulto significativo per il bambino) di fronte a situazioni di insuccesso:



Insuccesso

Attribuzione

poco impegno

(controllabile, instabile, specifica)

§   Punizione, rabbia (eteroattribuzioni) (giudizio di responsabilità)

§   Senso di colpa (autoattribuzione)

§   Buone aspettative di successo

§   Alta motivazione e persistenza

§   Maggiore prestazione

   









Insuccesso

Attribuzione

mancanza di abilità

(non controllabile, stabile, generale)

§   Non punizione, compassione (eteroattribuzioni) (giudizio di non responsabilità)

§   Vergogna (autoattribuzione)

§   Cattive aspettative di successo

§   Bassa motivazione e persistenza

§   Minore prestazione









Il modello potrebbe erroneamente suggerire che a maggiori rimproveri o punizioni facciano seguito livelli superiori di prestazione. Weiner puntualizza che l’elemento critico non è il rimprovero o la punizione (che potrebbero anche non esserci), ma il tipo di emozione comunicata, emozione che può riflettere la fiducia nelle possibilità di riuscita attraverso un impegno più adeguato e costante oppure la convinzione che il bambino non ha le capacità per riuscire. Le emozioni sociali, normalmente espresse in qualsiasi tipo di relazione, sono importanti in quanto consentono al bambino di comprendere le convinzioni e le riflessioni sottostanti alle manifestazioni emotive degli adulti, e di trarre da queste indicazioni per valutare le proprie capacità e per capire quale comportamento è più desiderato e accettato dall’insegnante e dai genitori. Un bambino punito comprende che ha sbagliato, ma che può farcela perché ne ha le capacità (e viceversa).







  1. OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO COME ORIENTAMENTI.

In questo modulo verrà analizzata la distinzione degli obiettivi basata sull’orientamento, cioè sulle finalità (es: imparare cose nuove) piuttosto che sui contenuti (es: finire lo studio del libro). In particolare verranno distinti

§ obiettivi alla prestazione, in cui il soggetto si pone lo scopo di evitare i giudizi negativi e ottenere giudizi favorevoli

§ obiettivi alla padronanza, in cui il fine principale è acquisire nuove competenze e saper padroneggiare il compito


Questi obiettivi influenzano diversi aspetti, fra cui il livello di difficoltà del compito scelto (semplice o impegnativo) e la persistenza nell’esecuzione di compiti che si presentano come particolarmente impegnativi e difficili. Un tipo particolare di obiettivi è costituito dagli obiettivi sociali, che possono essere prevalentemente orientati sul sé, come essere approvati e considerati bravi, o sugli altri, ad esempio essere considerati come membri degni della famiglia o del gruppo di appartenenza. Un importante aspetto che influenza il tipo di obiettivi o di apprendimento prescelto è la teoria implicita della propria intelligenza, che si riferisce alla concezione generale delle proprie capacità e che può essere

§ dell’entità chi possiede una teoria dell’entità ritiene l’intelligenza come un insieme di tratti fissi

§ incrementale chi possiede una teoria incrementale percepisce l’intelligenza come un’abilità modificabile grazie al proprio impegno


Queste teorie implicite influenzano la persistenza in caso di compiti difficili, in quanto chi possiede una teoria incrementale pensa di riuscire nel compito se cerca la strategia più adeguata e si impegna maggiormente, mentre chi ha una teoria dell’entità tende ad assumere un atteggiamento rinunciatario, perché, pensando di non poter migliorare, ritiene inutile impegnarsi ulteriormente.


I.    Obiettivi di prestazione o padronanza.

Questi tipi di obiettivi non si riferiscono alle mete concrete e quindi alla quantità o qualità di contenuti appresi, ma ad un insieme organizzato di credenze che indirizzano l’apprendimento e rispetto alle quali viene valutata la prestazione.

§ Chi si pone obiettivi di prestazione tende, con le sue buone prestazioni, a dimostrare le proprie capacità e a ottenere giudizi di competenza positivi ed evitare quelli negativi in genere studia principalmente per dimostrare le proprie conoscenze e ottenere riconoscimenti (voti) adeguati

§ Chi si pone obiettivi di padronanza mira all’acquisizione di nuove conoscenze e abilità, finalizzate a migliorare e sviluppare le proprie capacità e conoscenze studia per apprendere e imparare cose e abilità nuove, indipendentemente dal riconoscimento esterno di questo impegno

La contrapposizione fra obiettivi di prestazione o di padronanza può essere sovrapposta con quella fra orientamento al sé o al compito:

orientamento al sé D obiettivi di prestazione

orientamento al compito D obiettivi di padronanza

Una sovrapposizione solo parziale si ha fra

motivazione estrinseca D obiettivi di prestazione

motivazione intrinseca D obiettivi di padronanza

Le differenze tra chi si pone principalmente obiettivi di prestazione o di padronanza sono molto più profonde della differenziazione fra motivazione estrinseca o intrinseca. Tutto questo si riflette su numerosi aspetti emotivi e strategici che caratterizzano i 2 tipi di obiettivi:


Caratteristiche

Obiettivi

Prestazione

Padronanza

Compito scelto

facile o molto difficile

adeguatamente difficile

Persistenza

bassa

alta

Emozioni

noia e ansia

soddisfazione e fiducia in sé

Fiducia nell’efficacia dell’impegno

bassa

alta

Strategie adottate

poche e/o inefficaci

ricerca delle migliori

Attenzione nell’eseguire il compito

bassa

alta

Attribuzione dell’insuccesso

mancanza di capacità

mancanza di adeguato impegno

Aspettative di successo futuro

basse

alte

Teoria dell’intelligenza

entità

incrementale

Queste caratteristiche, prese nel loro insieme, costituiscono 2 modelli motivazionali, uno definito come orientamento alla padronanza e corrispondente agli obiettivi di padronanza e l’altro, meno funzionale all’apprendimento, tratteggiato come impotenza appresa.

§ Orientamento alla padronanza: è quello di chi ricerca situazioni impegnative che gli possono consentire di migliorare e acquisire nuove conoscenze e abilità. Alla base di questo atteggiamento vi sono la fiducia in sé, uno stile attributivo che si caratterizza per il riconoscimento dell’impegno e buone aspettative di riuscita. Il tutto si accomna ad emozioni positive e ad un’efficace adozione di strategie di apprendimento.

§ Impotenza appresa: modello tipico di chi per timore di dimostrarsi incapace sceglie i compiti più semplici e con l’obiettivo primario di mostrare le conoscenze e abilità possedute e non di imparare cose nuove. Le aspettative di miglioramento sono basse. Questa convinzione porta a dubitare dell’efficacia del proprio impegno e quindi a non ricercare il modo migliore per affrontare i compiti e, anzi, a rinunciare di fronte alle prime difficoltà o ad evitare le situazioni di apprendimento. La tendenza attributiva associata è quella di riconoscere la mancanza di abilità quale causa dei fallimenti.

Nella realtà, gli obiettivi di prestazione e padronanza (e i 2 conseguenti modelli dell’impotenza appresa e della padronanza) non sono così nettamente distinti. Ciò significa che una stessa persona può possedere in misura più o meno forte la tendenza a sviluppare le proprie capacità all’interno di un orientamento alla padronanza oppure a confermare le proprie capacità come è tipico di chi tende a porsi obiettivi di prestazione. Inoltre, questa tendenza può variare rispetto agli elementi contingenti e alle richieste dell’ambiente, oltre che per effetto di specifiche disposizioni o di ben definiti interessi individuali. Ci sono infatti delle situazioni o degli incroci persona Ï situazione (interesse) che meglio si prestano a confermare (obiettivo di prestazione) o a sviluppare (obiettivo di padronanza) le proprie competenze. Anche negli adulti vi è una tendenza a preferire obiettivi dell’uno o dell’altro tipo in una pluralità di situazioni. È poi molto probabile che il clima in cui si realizza l’apprendimento, ad esempio di tipo competitivo o cooperativo, faccia emergere, rispettivamente, obiettivi di prestazione o padronanza. Il modello motivazionale proposto da Dweck ha avuto un lungo seguito. Nonostante tale popolarità e aderenza alla realtà, il modello è stato criticato per 2 importanti aspetti:

uno legato alla modalità di misura lo strumento originariamente proposto da Dweck è stato discusso in quanto composto da soli 4 item mirati a misurare una sola fra le diverse caratteristiche che contraddistinguono gli obiettivi e cioè la scelta del livello di difficoltà del compito; in lavori più recenti, al questionario è stata associata, o addirittura sostituita, una procedura mirata a misurare la persistenza nell’esecuzione di puzzle impossibili

l’altro alla netta contrapposizione fra l’uno e l’altro obiettivo questo limite richiede un ampliamento della teoria attraverso la ricerca di sotto-obiettivi o varianti all’interno dello stesso obiettivo

§ Una prima possibilità è quella proposta da Ames e Archer, secondo la quale i 2 obiettivi sono indipendenti e ortogonali. Uno stesso studente può nel contempo desiderare di imparare (obiettivi di padronanza) e anche di dimostrare le proprie conoscenze (obiettivo di prestazione). Anzi, la situazione in cui il soggetto persegue obiettivi di diverso tipo è molto frequente. Si ritiene addirittura che il successo scolastico dipenda proprio dalla capacità di utilizzare flessibilmente l’uno o l’altro o entrambi gli obiettivi.

§ Una seconda possibilità è stata data dall’introduzione di obiettivi diversi da quelli di padronanza e prestazione. Uno di questi riguarda l’obiettivo di evitamento del compito (work-avoidant) proposto da Meece, Blumenfeld e Hoyle. Chi si pone questo tipo di obiettivo cerca di ottenere il massimo con il minimo sforzo e pertanto tende a ridurre l’impegno il più possibile. Tale riduzione dell’impegno non è funzionale a dimostrare la propria abilità agli altri, come per gli obiettivi di prestazione, ma ad investire poche risorse, probabilmente perché il compito non è ritenuto sufficientemente importante o per la presenza di obiettivi in competizione. Il ritiro dell’impegno, per chi si pone obiettivi di evitamento, riflette quindi una personale disposizione verso il compito, slegata dalla personale percezione di abilità o dal desiderio di apparire capace.

Recentemente, Elliot ha proposto una distinzione, all’interno degli obiettivi di prestazione, fra almeno 2 differenti possibilità:

§ la prima si riferisce alla prospettiva approach o self-enhancing per cui lo studente affronta il compito con lo scopo di dimostrare le proprie conoscenze e abilità e di sembrare più intelligente dei comni porta ad affrontare le situazioni, anche se scegliendole di difficoltà media, con un basso rischio di fallimento, e può risultare positivamente correlata con l’apprendimento. Tale relazione positiva non si collega, come per l’obiettivo alla padronanza, ad un vero interesse, ma al desiderio di mostrarsi bravo e capace

§ la seconda riguarda la prospettiva avoidance o self-defeating secondo la quale lo studente non affronta il compito nel timore di sembrare stupido o poco intelligente ai comni porta ad evitare i compiti o ad affrontare quelli più semplici, è connotata da disinteresse e noia, con sottostanti timori del fallimento e delle sue conseguenze negative, quali la vergogna e ulteriore riduzione delle aspettative future di successo. Nel caso degli obiettivi avoidance si ha una relazione negativa fra apprendimento e prestazione. Questi obiettivi conducono il soggetto a non impegnarsi, e di conseguenza a non ottenere risultati apprezzabili, oppure a non dimostrare competenze e conoscenze che pur potrebbero esserci. Tutto ciò avviene a causa dell’eccessivo timore di essere giudicato incapace. Questo timore può condurre a fenomeni di demotivazione tendenti alla circolarità. I pochi progressi possono condurre potenzialmente all’impotenza appresa

Infine, in linea con queste riflessioni e approfondendo la prospettiva sopra descritta, Pintrich ha proposto un modello, secondo cui anche gli obiettivi di padronanza possono presentarsi nelle prospettive approach o avoidance.


Obiettivo

Prospettiva

Approach

Avoidance

Prestazione

Scopo: sembrare superiore rispetto agli altri


Parametri di valutazione: normativi quali i voti

Scopo: evitare di sembrare incapace rispetto agli altri


Parametri di valutazione: normativi quali i voti

Padronanza

S: imparare, capire, padroneggiare il compito


PV: propri, quali i progressi personali

S: evitare di non capire o non imparare o non riuscire a padroneggiare il compito


PV: propri, quali non sentirsi all’altezza


Rispetto alla prospettiva individuata da Elliot, la possibilità ulteriore prevista nel nuovo modello è quella di chi possiede obiettivi di padronanza secondo una prospettiva avoidance. Chi rientra in questa tipologia tende ad essere perfezionista. Desidera apprendere e migliorarsi (obiettivo di padronanza), ma nel contempo teme di commettere errori che possono mettere in dubbio le personali valutazioni di abilità. Pertanto, tende ad evitare le situazioni in cui rischia, non tanto di essere giudicato incapace di fronte agli altri (come per gli obiettivi di prestazione), ma di valutare se stesso come incapace. Pintrich, inoltre, associa a ciascuna possibilità, derivante dall’incrocio fra obiettivi e prospettiva, specifici compiti e parametri di valutazione.

Questa nuova prospettiva pertanto illustra come la tendenza ad affrontare (approach) o ad evitare (avoidance) i compiti possa essere associata e forse, almeno in parte, determinata da obiettivi differenti. L’evitamento del compito, in particolare, potrebbe derivare dal timore di dimostrarsi incapaci (obiettivi di prestazione) oppure di non riuscire ad affrontare la situazione (obiettivo di padronanza). Nel primo caso la paura del fallimento sarebbero associata al giudizio o alle critiche da parte degli altri, nel secondo a parametri di valutazione personale e quindi a giudizi su se stessi relativi alle proprie abilità e competenze.


II.  Teorie implicite dell’intelligenza.

Intelligenza = insieme di abilità mentali di tipo cognitivo e di ragionamento che consentono di svolgere determinati compiti e/o di adattarsi all’ambiente e alle situazioni. Teoria dell’intelligenza = si riferisce a come l’intelligenza, quali che siano i contenuti, viene interpretata. È possibile distinguere fra

§ teorie esplicite fanno riferimento ai risultati che emergono dall’applicazione dei test di intelligenza standardizzati

§ teorie implicite si basano sul concetto di intelligenza posseduto dalle singole persone

Le idee della gente sull’intelligenza possono, almeno in parte, combaciare con le teorie esplicite oppure differenziarsi da queste per contenuti e modalità. Ad esempio, Sternberg ha dimostrato che la gente comune concepisce l’intelligenza come un insieme di abilità riconducibili ai seguenti 3 aspetti: capacità di risoluzione di problemi, abilità verbali, intelligenza pratica o sociale. Alcuni di questi, in particolare quelli relativi all’intelligenza pratica o sociale, non vengono considerati da una pluralità di teorie esplicite. Per quanto riguarda le teorie, è possibile distinguere fra

§ chi concepisce l’intelligenza come una quantità fissa di abilità difficilmente modificabili e migliorabili per effetto di opportune esperienze e apprendimenti (teoria dell’intelligenza come entità)

§ chi ritiene che possa essere modificata, in genere in senso positivo, in seguito ad opportune stimolazioni (teoria dell’intelligenza incrementale o dell’accrescimento)

Tale modo di concepire l’intelligenza, indipendentemente dagli specifici contenuti, è stato studiato da Dweck anche in riferimento alle relazioni con le percezioni di abilità e gli obiettivi di apprendimento:



Teoria dell’intelligenza

Abilità percepita

Modello motivazionale

Caratteristiche

Entità

alta

orientato alla prestazione; attribuzione all’abilità; motivazione estrinseca

ricerca di situazioni di apprendimento di media difficoltà per dimostrare le proprie competenze

bassa

impotenza appresa

evitamento di situazioni impegnative; poca persistenza

Incrementale

alta o bassa

orientato alla padronanza; attribuzione all’impegno; motivazione intrinseca

impegno finalizzato all’apprendimento e crescita


Le relazioni fra teorie implicite dell’intelligenza e obiettivi di apprendimento sembrerebbero indicare che

teoria dell’intelligenza come entità D obiettivi di prestazione

teoria dell’intelligenza incrementale D obiettivi di padronanza

Tale relazione non è, comunque, rigida, ma tendenziale. Come sottolinea Dweck, ci sono situazioni in cui anche chi possiede una teoria dell’intelligenza incrementale potrebbe possedere obiettivi di prestazione. Ciò è possibile in quanto gli obiettivi di prestazione possono assumere sfumature nel significato a seconda del tipo di teoria dell’intelligenza posseduta:

§ per chi possiede una teoria dell’intelligenza come entità l’obiettivo alla prestazione indicherebbe una valutazione globale della propria intelligenza, valida sia per il presente che per situazioni future

§ per chi possiede una teoria dell’intelligenza incrementale l’obiettivo alla prestazione farebbe riferimento alla dimostrazione di una specifica abilità in un dato momento

Le differenze sostanziali sono quindi 2:

§ la prima fa riferimento alla dimostrazione della propria intelligenza in toto (teoria dell’entità) o di specifiche abilità (teoria incrementale)

§ la seconda riguarda, invece, la stabilità nel tempo della valutazione data, che è alta per chi possiede una teoria dell’intelligenza come entità e bassa per chi, invece, possiede una teoria dell’intelligenza incrementale

Dweck, inoltre, distingue la forza motivante o demotivante della teoria implicita dell’intelligenza posseduta dal singolo anche in base al livello di fiducia nelle proprie abilità:

teoria dell’entità + buon livello di fiducia = basso livello di motivazione

('credo proprio di avere questo livello di intelligenza e di non poterlo migliorare')

teoria incrementale + basso livello di fiducia = massima motivazione

('so che posso migliorare le mie competenze e conoscenze e mi chiedo quante e quali queste siano')

L’importanza della teoria dell’intelligenza risiede negli effetti che questa produce sull’apprendimento. In particolare, una teoria dell’intelligenza come accrescimento sostiene l’apprendimento e produce differenze in positivo sulle effettive prestazione nei seguenti casi:

§ di fronte agli insuccessi, che non vengono vissuti come dimostrazione di scarse abilità, ma come indice di un impegno insufficiente o non adeguato. Tale interpretazione è particolarmente funzionale all’apprendimento, in quanto consente di mantenere positive aspettative di riuscita, nonostante i precedenti fallimenti

§ quando l’ambiente scolastico pone richieste impegnative che inducono lo studente ad affrontare compiti lunghi e difficili in cui le proprie abilità vengono messe alla prova, con il rischio di fallire, ma anche con la possibilità di imparare

§ nel passaggio dall’uno all’altro livello scolare per cui studenti che possiedono una teoria incrementale tendono a migliorare rispetto alle prestazioni precedenti, indipendentemente dall’effettivo livello di queste, mentre coloro che possiedono una teoria dell’entità tendono a mantenere i livelli preesistenti

La teoria dell’intelligenza posseduta dagli studenti può quindi contribuire a spiegare e a predire le possibilità di miglioramento (maggiori per chi possiede una teoria dell’intelligenza incrementale). Gli effetti della teoria dell’intelligenza sull’apprendimento sono quindi piuttosto importanti. Una teoria dell’intelligenza come entità può condurre a situazioni di basso rendimento o comunque a vivere la scuola con il continuo timore di fallire e con molta ansia, in particolare nelle situazioni d’esame. Ci si chiede, quindi, quanto le persone siano ferme nelle loro convinzioni e quanto, invece, sia possibile modificare la teoria posseduta, al fine di cambiare quelle convinzioni che costituiscono un reale blocco all’apprendimento. Secondo Dweck le teorie dell’intelligenza tendono ad essere tratti stabili della personalità. Poiché però sono manipolabili sperimentalmente, è possibile pensare a delle possibilità di modificazione. Una di queste, che si è dimostrata efficace con studenti adulti, fa riferimento ad una tecnica di apprendimento vicariante (intervento, rivolto a studenti che concepiscono l’intelligenza come entità, basato sulla visione di filmati che sottolineano gli aspetti positivi della teoria dell’intelligenza incrementale). Dunque, le teorie implicite non sono rigide, ma modificabili. Inoltre, tale modifica sembra non richiedere training particolarmente lunghi e impegnativi, ma può essere svolta semplicemente attraverso l’esposizione a modelli di comportamento adeguati.


III.    Obiettivi sociali.

Precedentemente sono stati esaminati obiettivi che, pur facendo riferimento ad approcci teorici diversificati, si accomunano per essere strettamente legati all’apprendimento ed essenzialmente di tipo cognitivo. È evidente che nella realtà esistono anche numerosi altri tipi di obiettivi. Alcuni di questi, pur non essendo riferiti ad aspetti di tipo cognitivo, influenzano, in modo più o meno diretto, l’apprendimento, attraverso effetti sulla sfera emotiva, sulle riflessioni cognitive e infine sul comportamento. Nell’ambito di questi obiettivi, assumono una particolare importanza quelli sociali, mirati a stabilire e a mantenere buone relazioni con gli altri. È possibile distinguere diversi tipi di obiettivi sociali:

§ un primo tipo si caratterizza per essere orientato al sé. Questo tipo comprende obiettivi di appartenenza, ad esempio di essere approvati (approval) e di essere considerati come bravi e capaci (compliance)

§ un secondo tipo è, invece, maggiormente orientato agli altri. A questo secondo tipo possono essere ricondotti gli obiettivi di appartenenza ad un gruppo con cui ci si identifica (solidarity) e quello di essere un membro degno e produttivo del gruppo, ad esempio di onorare la famiglia (welfare)

Un quesito interessante riguarda le reciproche relazioni fra obiettivi di diverso tipo, ad esempio sociali e cognitivi, e gli effetti di questi obiettivi sulla prestazione. È facile pensare a situazioni in cui un obiettivo sociale, ad esempio il desiderio di essere approvato dai comni, impedisce di realizzare contemporaneamente obiettivi di tipo cognitivo. È altresì facile immaginare situazioni in cui, al contrario, un obiettivo sociale, quale il desiderio di compiacere i genitori che si aspettano buone prestazioni scolastiche, conduce a perseguire con maggiore forza obiettivi cognitivi. Secondo alcuni autori gli obiettivi sociali possono competere con obiettivi più di tipo cognitivo, secondo altri è possibile identificare soluzioni in cui i 2 obiettivi, anziché escludersi a vicenda, si coordinano. Una possibilità è quella proposta da Ainley. Secondo l’autore, ai fini di una buona prestazione, è importante che il ragazzo si ponga obiettivi di diversa natura e sappia associare questi diversi tipi di obiettivi, ad esempio, riesca a sviluppare buone relazioni con i comni e con gli insegnanti ottenendo risultati ritenuti validi dal contesto sociale, quali l’apprendimento e il buon rendimento scolastico. Ciò può avvenire concretamente attraverso la scelta di frequentare comni bravi che valutano positivamente l’apprendimento, piuttosto che comni con carriere scolastiche più stentate, che ritengono poco importante riuscire bene a scuola e anzi etichettano i più bravi come 'secchioni'. Risultati di ricerca hanno in realtà dimostrato l’esistenza di relazioni a volte positive, altre volte negative o nulle fra obiettivi sociali e cognitivi. Questi differenti risultati, per cui gli obiettivi sociali solo a volte competono con quelli cognitivi, possono dipendere da alcune ragioni. Queste fanno riferimento:

§ al contesto culturale e in particolare alla distinzione fra culture individualistiche, in cui gli obiettivi sociali e non sociali tendono a competere maggiormente, e culture collettivistiche, in cui i 2 tipi di obiettivi si integrano maggiormente essendo meno forte la differenza fra sé e il gruppo o la famiglia di appartenenza

§ ai valori di coloro cui il singolo si sente affiliato, per cui l’apprendimento può essere più o meno importante e quindi coordinarsi in modo più o meno efficace con gli obiettivi sociali. Un esempio tipico di poca coordinazione è quello dell’adolescente che vorrebbe riuscire bene a scuola, ma teme di essere escluso dal gruppo passando per secchione e in cui è evidente la conflittualità fra obiettivi sociali e cognitivi

§ alle caratteristiche del compito e della situazione che possono collimare o presentare discrepanze rispetto a quanto sarebbe auspicabile per vivere un senso di appartenenza e di responsabilità nei confronti del gruppo di riferimento. Un caso tipico è quello in cui la famiglia ritiene che alcune materie sono importanti e altre inutili, in quanto lontane dal reale o non direttamente legate alla professione futura. Il ragazzo, in tale situazione, presenterà una buona coordinazione fra obiettivi cognitivi e sociali per le materie valutate come importanti, ma non per le altre

§ al sistema educativo più o meno orientato verso la cooperazione. Questa stimola la coordinazione fra obiettivi differenti, attraverso il costituirsi di gruppi sociali in cui ci si aiuta ai fini del raggiungimento dell’apprendimento, a differenza della competizione che, invece, porta al primeggiare di alcuni rispetto ad altri e dunque all’istaurarsi di sentimenti di inferiorità e all’esclusione di chi presenta maggiori difficoltà e incontra numerosi insuccessi

Gli obiettivi sociali, al di là delle diverse relazioni con gli obiettivi più di tipo cognitivo, sono importanti ai fini dell’apprendimento. Lo studente infatti ha bisogno tanto di realizzare lo schema di sé, di perseguire obiettivi di padronanza o prestazione, di lavorare in linea con i propri valori e le personali aspettative, quanto di sentirsi accettato e approvato per quanto fa. Alcuni autori, sulla scia di questo tipo di riflessione, hanno proposto modelli che cercano di spiegare le reciproche relazioni fra obiettivi di diverso tipo, ponendo l’accento sul ruolo degli obiettivi sociali. Uno di questi, che postula relazioni di tipo circolare, è quello proposto da Kinderman.

  1. PERCEZIONI DI ABILITÀ.

Nel modulo precedente sono state prese in considerazione 2 variabili fondamentali nel determinare il tipo di approccio al compito:

§ gli obiettivi di apprendimento

§ le teorie implicite dell’intelligenza

In questo modulo verrà considerato il ruolo motivazionale dato da diverse percezioni di abilità. Saranno descritti costrutti quali l’autoefficacia e il valore di sé. L’autoefficacia si riferisce alla percezione di riuscire ad affrontare il compito e la situazione. Il fatto di percepirsi autoefficaci influisce sulle proprie prestazioni, in quanto sentirsi capaci e in grado di esercitare un certo controllo sulla situazione aumenta l’impegno e la persistenza di fronte al compito (e viceversa). La teoria del valore di sé di Covington si riallaccia a quella dell’autoefficacia, in quanto si riferisce sempre all’abilità percepita o dimostrata. Se il soggetto ritiene di avere scarse abilità, tenderà ad evitare tutte quelle situazioni che possono portarlo ad un fallimento o alla disapprovazione da parte degli altri, per sostenere il proprio valore di sé. Se il soggetto non riesce ad evitare una situazione ritenuta difficile, può mettere in atto delle strategie di 'autosabotaggio' (self-handicapping), che consistono nell’anticipare dei possibili ostacoli alla prestazione. La funzione primaria di queste strategie è di proteggere la propria autostima, evitando di dimostrarsi incapaci. Una delle spinte motivazionali più influenti sull’apprendimento è quindi quella di voler dimostrare le proprie capacità e di evitare di dimostrarsi incapaci.


I.    Credenze di autoefficacia.

Autoefficacia = si riferisce alla percezione soggettiva, espressa prima dell’esecuzione del compito, di riuscire a controllare e ad affrontare la situazione con successo. Si distingue da altri costrutti motivazionali, quali le percezioni di sé o l’autostima, per la specificità: la valutazione soggettiva data si riferisce a quello specifico compito in quella determinata situazione e non ad una pluralità di casi. È stata originariamente studiata da Bandura. Questo autore distingue 3 sue caratteristiche fondamentali:

§ generalità (la misura dell’estendibilità a contenuti, situazioni o compiti simili)

§ forza (riguarda la fiducia riposta e il grado di certezza espressi nella propria percezione di autoefficacia)

§ livello (quanto il soggetto si sente autoefficace in un ipotetico continuum, fra i 2 estremi di nessuna e di massima percezione di controllo)

Secondo Pajares l’autoefficacia comprende almeno 3 diversi aspetti:

§ la valutazione del proprio livello di abilità si riferisce alla percezione delle competenze personali possedute per affrontare lo specifico compito e si collega ad una valutazione delle difficoltà poste dalla situazione

§ le aspettative di riuscita riguardano la stima della possibilità di ottenere un successo. Esse si collegano sia al livello di difficoltà del compito, così come percepito in relazione anche alle abilità possedute, sia ai parametri attraverso cui il singolo stabilisce se e in che misura un certo risultato costituisce un successo

§ l’importanza assegnata al compito e alla situazione consiste nel valore assegnato alla situazione, la quale può contribuire in modo più o meno efficace a soddisfare gli obiettivi del soggetto, con particolare riferimento alla realizzazione dello schema ideale di sé


In una situazione ottimale queste 3 componenti sono tutte positive e sinergiche e conducono ad una buona percezione di autoefficacia. In altri casi, invece, o sono negative, per cui la percezione di autoefficacia è complessivamente bassa, oppure sono discrepanti e, in quanto tali, conflittuali. Un elemento fondamentale del concetto di autoefficacia è infatti, secondo Bandura, l’esercizio del controllo. Sentire di avere le capacità per affrontare una specifica situazione e credere che le proprie azioni producono effetti desiderati, porta ad anticipare scenari di riuscita, ad impegnarsi e, di conseguenza, ad ottenere buoni risultati (e viceversa). Tutto questo può tradursi in un processo circolare, mediato dalle aspettative (di successo/di fallimento). Queste e altre relazioni fra il livello di autoefficacia ed elementi di tipo cognitivo, motivazionale ed emotivo sono illustrate nella seguente tabella:









Caratteristiche

Bassa autoefficacia

Alta autoefficacia

Aspettative

di fallire nell’esecuzione del compito

di successo

Scelta del compito

facile

mediamente difficile

Obiettivi

non chiari o irraggiungibili

concreti e ben definiti

Impegno nel compito

basso

alto

Persistenza

bassa

alta

Attribuzioni

abilità

impegno

Emozioni

depressione, ansia

fiducia in sé, soddisfazione


Quei soggetti che si sentono poco autoefficaci possono provare sentimenti tipici della depressione associati ad un forte senso d’ansia e alla carenza di strategie di coping. Infatti, chi deve affrontare un compito che avverte come superiore alle proprie possibilità ha tutta una serie di reazioni psicofisiologiche che possono determinare, in ultima istanza, addirittura un abbassamento del sistema immunitario. Esiste una stretta relazione fra il livello di autoefficacia percepita e la prestazione. Gli effetti positivi dell’autoefficacia sull’apprendimento possono dipendere da almeno 4 distinti meccanismi:

§ la quantità di impegno e di persistenza esercitati nell’esecuzione del compito

§ la scelta del livello di difficoltà del compito

§ gli obiettivi che consentono di sostenere la percezione di autoefficacia. Gli obiettivi possono essere assoluti e quindi riferiti, ad esempio, alla quantità di materiale da apprendere o a specifiche scadenze, oppure normativi. Gli obiettivi normativi riguardano il confronto con norme di riferimento, ovvero il paragone con le abilità o le prestazioni di altri. In tal caso la percezione di autoefficacia è legata alla persona o al gruppo di confronto. Infine importanti distinzioni riguardano la contrapposizione fra obiettivi specifici (es: 'esegui più esercizi di traduzione') o generali ('fai del tuo meglio'), prossimali (es: prepararsi bene per il compito di domani) o distali (es: conseguire il diploma), facili o difficili. Ad una maggiore percezione di autoefficacia si accomnano, in genere, obiettivi specifici, prossimali e tendenzialmente più difficili, cioè impegnativi. La caratteristica di questi obiettivi è di essere ben definiti e vicini. Queste peculiarità consentono di individuare con maggiore facilità le modalità strategiche attraverso cui è possibile affrontare il compito. L’uso di efficaci strategie, a sua volta, consente di sviluppare una buona percezione di competenza che sostiene l’autoefficacia

§ le capacità di autoregolazione dell’apprendimento e la conseguente ricerca di equilibrio fra aspetti strategici, motivazionali e prestazioni. La persona più autoefficace tende ad essere maggiormente capace di regolare, monitorare e valutare da sé il proprio apprendimento. Inoltre, è sostenuta da motivazioni che consentono una scelta di strategie efficaci per quel tipo di compito e dall’aspettativa di riuscire ad affrontare la situazione con successo

La rilevanza della percezione di autoefficacia ai fini dell’apprendimento è quindi notevole. Ci si può pertanto chiedere com’è possibile incrementare e sostenere la percezione di autoefficacia. A questo quesito è possibile rispondere facendo riferimento alle fonti di autoefficacia. Queste sono state delineate da Bandura, secondo il quale il giudizio di autoefficacia dipende dai seguenti 4 elementi:

§ aver svolto in precedenza il compito o compiti similari con successo

§ aver visto altri, ad esempio un comno, svolgere il compito o compiti similari con successo (apprendimento vicariante)

§ credere di poter riuscire (persuasione verbale)

§ essere capaci di gestire il proprio livello di stress, fatica o ansia collegato all’esecuzione del compito

Il livello di autoefficacia percepita può essere incrementato agendo su una o più di queste fonti. Cambiamenti nel livello di autoefficacia percepita possono derivare da modifiche sia a livello cognitivo che emotivo e comportamentale.


II.  La teoria del valore di sé di Convington.

L’autoefficacia, costrutto esposto nel paragrafo precedente, è un tipo di motivazione traducibile in 'se mi sento capace, faccio'. Un altro costrutto motivazionale legato alla percezione di abilità è quello proposto da Covington e riguardante il valore di sé = le persone si sentono motivate verso quelle situazioni che consentono di esprimere e di sostenere al meglio il valore di sé, attraverso l’approvazione, l’accettazione e il rispetto da parte degli altri. Una delle principali espressioni del valore di sé è la dimostrazione di abilità. L’abilità, intesa come una capacità relativamente stabile, diventa parte della definizione di sé. Questo tipo di motivazione è traducibile in 'se faccio valgo'. La convinzione sottostante è quella per cui una persona vale se si dimostra abile. Ciò può condurre a ricercare situazioni, anche di tipo competitivo, in cui dimostrarsi competenti e ad evitare quelle che comportano il rischio di dimostrarsi incapaci. Il bisogno di sostenere il valore di sé può quindi condurre a proteggere la propria percezione di abilità, nel timore che si verifichino delle situazioni di fallimento che possono generare disapprovazione o rifiuto. Ciò avviene specialmente se la causa principale cui vengono attribuiti i propri successi e insuccessi è l’abilità, in quanto proprio quest’ultima viene messa in discussione dal fallimento. Un ulteriore fattore che può condurre a proteggere la propria percezione di abilità è il clima di apprendimento competitivo in cui il valore può essere confuso con l’abilità. Il tentativo di proteggere la propria abilità può portare all’adozione di strategie difensive, alla formulazione di obiettivi di apprendimento avoidance (evitamento) o al rifiuto della situazione con conseguente ritiro dall’impegno. Quest’ultimo è un caso estremo che, pur consentendo di evitare di dimostrarsi incapaci, impedisce anche di dimostrare la propria abilità. Vi potrebbe essere, invece, in altri casi, un maggiore impegno a seconda delle personali valutazioni circa la propria abilità e il livello di difficoltà del compito. L’obiettivo di proteggere il valore di sé porta, infatti, a scegliere compiti di difficoltà adeguata alle proprie abilità, così come sono percepite, e che possono essere affrontati con la speranza di riuscire, dimostrando la propria competenza e valore. Porta, invece, ad escludere compiti troppo facili, che non danno senso di soddisfazione nella riuscita, o troppo difficili, che possono condurre ad un fallimento. L’insuccesso, infatti, potrebbe mettere in dubbio il valore di sé (soprattutto in quelle situazioni in cui la scelta di affrontare il compito non dipende da richieste esterne, ma è facoltà del singolo). In situazioni scolastiche, invece, il tipo e la difficoltà del compito vengono per lo più decisi dall’insegnante e il problema che si pone è quello di affrontare il compito impegnandosi, o di rifiutarlo dimostrandosi demotivati. Questa situazione può mettere in luce la doppia faccia dell’impegno:

§ se lo studente affronta il compito e si impegna, ma, nonostante ciò, fallisce, rischia di dimostrarsi incapace. Il fallimento, a fronte di molto impegno, può infatti indicare bassa abilità, situazione, in genere, accomnata da vergogna e umiliazione

§ se lo studente, al contrario, evita il compito o lo affronta spendendo il minimo di energie e aspettandosi solo una sufficienza, mentre poi ottiene prestazioni buone, può incrementare la percezione del proprio valore di sé. Un successo ottenuto con poco impegno viene, infatti, interpretato come segno di grande abilità

A volte, dunque, si cerca di non mostrare grande impegno, per evitare, in caso di fallimento, di essere giudicati incapaci. Al contrario, gli insegnanti, in genere, tendono a valutare più positivamente chi si impegna, pur non essendo ritenuto molto bravo, rispetto a chi è ritenuto capace, ma non si impegna. Ciò determina situazioni conflittuali fra il desiderio di impegnarsi e quello, per certi versi contrapposto, di dimostrarsi bravi. Si può così verificare una situazione per cui se gli studenti si impegnano troppo e ottengono poi risultati mediocri rischiano di abbassare la propria percezione del valore di sé. Al contrario, se si impegnano poco, pure nella convinzione di essere capaci, mantengono intatto il proprio senso del valore di sé, ma rischiano di dimostrarsi poco impegnati e di non essere approvati dagli insegnanti. È evidente che uno stesso studente non può, nel contempo, impegnarsi e anche non impegnarsi. È quindi necessario trovare una soluzione in cui entrambe le esigenze (dimostrarsi bravi e dimostrarsi impegnati) possano risultare soddisfatte. Una di queste soluzioni può essere data dall’adozione di strategie di autodifesa, quali quelle definite come self-handicapping.


III.  Le strategie 'self-handicapping'.

Strategie self-handicapping o di autosabotaggio = consistono nell’anticipazione, attraverso espressioni verbali o comportamenti precedenti all’esecuzione del compito, di ostacoli (reali o presunti) alla prestazione. Esempi di ostacoli reali sono:

§ il procrastinare (una delle strategie più frequenti)

§ lo stabilire obiettivi irraggiungibili o troppo facili (che consente di attribuire l’eventuale fallimento o riuscita alle caratteristiche del compito)

§ il ritiro dell’impegno

§ l’uso di sostanze che possono compromettere l’efficienza intellettiva (es: alcool o psicofarmaci)



Gli ostacoli reali sono, in genere, più convincenti di quelli presunti, però rischiano di abbassare veramente le possibilità di riuscita. Gli ostacoli presunti, invece, possono risultare meno convincenti. In realtà, sono però anche meno dannosi e, in genere, non ostacolano direttamente la prestazione. Esempi tipici sono le dichiarazioni d’ansia, di stress, di debolezza o di malattie. Il loro scopo è quello di preservare la propria immagine di competenza, attraverso la dimostrazione della propria debolezza e la ricerca di comprensione e aiuto da parte di altri. La funzione delle strategie self-handicapping è quindi quella di sostenere un’immagine positiva di sé. L’anticipazione di una giustificazione al possibile fallimento consente, in caso di insuccesso, di proteggere l’autostima e l’immagine di sé e, in caso di successo, di incrementare l’autostima, acquistando maggiore merito. L’adozione di queste strategie consente quindi di evitare di dimostrarsi incapace, attraverso una modalità attributiva in cui il successo è ricondotto all’abilità e l’insuccesso all’ostacolo, declinando la responsabilità per il fallimento. L’uso di self-handicapping può essere occasionale o diventare un’abitudine. Le occasioni in cui l’uso di queste strategie è certamente più frequente sono quelle competitive o di cruciale importanza, quando le aspettative di riuscita proprie e degli altri sono alte. Pare inoltre che i maschi tendano ad utilizzare queste strategie più delle femmine. Ciò nonostante esistono differenze legate all’età, per cui l’anticipazione di ostacoli alla prestazione è più frequente durante l’adolescenza, nel momento in cui si forma un’immagine di sé da proteggere. Per quanto riguarda, invece, l’abitudine all’uso di self-handicapping, questa è spesso sostenuta da uno schema motivazionale caratterizzato da:

§ obiettivi di prestazione

§ teoria dell’intelligenza dell’entità

§ sistema attributivo fondamentale orientato verso il riconoscimento dell’abilità quale causa principale dei propri risultati positivi o negativi

Questo insieme di motivazioni e il ricorso frequente a strategie self-handicapping può determinare un circolo vizioso in cui un reale disimpegno impedisce l’emergere di capacità esistenti, facendo venire meno lo scopo per cui le strategie self-handicapping erano attuate, cioè la dimostrazione della propria competenza. Inoltre, ad un maggiore e più frequente uso di self-handicapping corrispondono, in genere, risultati di apprendimento inferiori. Quando l’uso di self-handicapping è eccessivo potrebbe essere opportuno intervenire, al fine di cambiare questa abitudine che, come detto sopra, può concretizzarsi in un circolo vizioso. Tale tipo di intervento è però particolarmente delicato in quanto le strategie self-handicapping hanno una ben definita funzione di difesa di cui è importante tenere conto nel predisporre le modalità di intervento. Un intervento corretto dovrebbe quindi partire dal sostegno dell’immagine di sé attraverso meccanismi alternativi all’autosabotaggio, ad esempio intervenendo sul sistema attributivo, sugli obiettivi di apprendimento, sulle credenze e sulle aspettative. Il tutto potrebbe essere favorito da un clima meno competitivo. Le strategie self-handicapping mantengono, comunque, una connotazione positiva che è data dalla difesa dell’immagine di sé e dalla protezione dell’autostima, funzione che, invece, manca in una situazione più grave e meno funzionale all’apprendimento e al proprio benessere psicologico che è quella dell’impotenza appresa.


IV.    Attribuzione all’abilità e impotenza appresa.

Come si è visto precedentemente, un’importante spinta motivazionale è data dal voler dimostrare le proprie capacità e dall’evitare di sembrare incapace. A questa tendenza si associa spesso uno stile attributivo tendente a riconoscere l’abilità quale causa principale dei propri successi e insuccessi. Quando la tendenza ad attribuire all’abilità diventa uno stile consolidato, in caso di ripetuti fallimenti l’individuo può rischiare di ritrovarsi in una situazione in cui, convinto di non possedere le abilità necessarie per riuscire in quella situazione o in altre simili, pensa che non ce la farà mai e che qualunque caso faccia per riuscire sia inutile. Tale situazione è stata definita come impotenza appresa, poiché si caratterizza per un senso di incapacità appreso attraverso esperienze fallimentari vissute come il riflesso della propria mancanza di abilità. Il fenomeno dell’impotenza appresa è stato studiato inizialmente in ambito animale. Studi successivamente condotti in ambito umano hanno invece dimostrato che non sempre i ripetuti fallimenti conducono ad abbandonare il compito senza alcuna speranza di riuscire. La variabile critica che pare cruciale nello stabilire se l’individuo svilupperà o meno impotenza appresa è il tipo di attribuzione formulata:

§ se gli insuccessi sono ricondotti a cause controllabili, ad esempio alla mancanza di impegno, o instabili, ad esempio all’aiuto, l’individuo può preservare l’aspettativa di riuscita futura

§ se, invece, vengono attribuiti alla mancanza stabile di capacità (causa interna, globale e stabile) ci sarà una maggiore probabilità di sviluppare la sensazione di non poter far niente per evitare il fallimento o per avere prestazioni superiori

Questo processo può essere esemplificato attraverso il caso di uno studente che fallisce nella prova di matematica:



Causa

Locus attributivo

Interno

Esterno

Stabile

Instabile

Stabile

Instabile

Globale

non sono intelligente

ero esausto

gli esami sono difficili per tutti

è stato un giorno nero per tutti

Specifica

sono negato per la matematica

ero saturo di matematica

l’esame di matematica è difficile per tutti

questa volta l’esame è difficile


Se lo studente esprime una causa interna, stabile e globale ('non sono intelligente') tenderà con maggiore probabilità a sviluppare impotenza appresa, rispetto a tutte le altre situazioni e, in particolare, a quella in cui esprime un’attribuzione interna, ma instabile e specifica per quella situazione ('ero saturo di matematica'). La situazione in cui il fallimento è attribuito a mancanza di impegno, a strategie inadeguate o ad un errato metodo di studio è, infatti, quella in cui l’impotenza appresa ha minori possibilità di manifestarsi. L’impotenza appresa comporta, secondo Seligman, deficit a 3 livelli:

§ cognitivo vi è la percezione di mancanza di controllo e di non riuscire a padroneggiare la situazione, che si accomna ad una teoria dell’intelligenza come entità e a obiettivi di apprendimento prevalentemente orientati alla prestazione

§ emotivo si hanno paura, timore e ansia di fronte alle situazione che non si vorrebbero affrontare, depressione per la propria incapacità di riuscire e apatia e rassegnazione di fronte ai fallimenti che sono vissuti come inevitabili. Tali emozioni sono tanto più forti quanto più la situazione è vissuta come incontrollabile

§ motivazionale c’è la tendenza ad attribuire eventuali successi a cause esterne (aiuto, fortuna, facilità del compito) e un generale abbassamento della fiducia in sé e dell’autostima

Una situazione di impotenza appresa protratta nel tempo può condurre ad una vera depressione.

§ Secondo la versione originale della teoria dell’impotenza appresa, il modo in cui l’individuo pensa agli eventi negativi che gli accadono consente di predire se vi reagirà con sintomi depressivi. Chi sente di avere uno scarso controllo su tutto quanto accade nella propria vita è un soggetto a rischio per lo sviluppo di sintomi depressivi. Secondo tale interpretazione, l’impotenza appresa può essere pensata come una causa di depressione gli aspetti emotivo-affettivi precedono le riflessioni cognitive sulle cause dei propri risultati

§ La seconda formulazione della teoria prevede, piuttosto, che chi è a rischio depressivo spieghi gli eventi negativi appellandosi a cause interne, stabili e globali (incapacità personale) e ritenga, invece, gli eventi positivi provocati da cause esterne, instabili e specifiche (fortuna o aiuto). Uno stile attributivo di tal genere, che può essere definito pessimistico, può condurre alla depressione solo se il soggetto si troverà ad affrontare eventi per lui particolarmente difficili. Mentre quanto più uno stile attributivo sarà adattivo, minore sarà la possibilità di sviluppare sintomi depressivi. La depressione può quindi essere vista come causa o come conseguenza delle interpretazioni date ai propri insuccessi sono le interpretazioni date ai propri fallimenti (aspetti cognitivi) che determinano il tipo di emozione provate (aspetti emotivi)

Non tutti gli autori convergono che la depressione sia generata da un certo stile attributivo. La relazione fra lo stile attributivo pessimistico ('non riesco perché non sono bravo, riesco solo se sono fortunato o aiutato') e i sintomi depressivi sembra valere non solo per gli adulti, ma anche per i bambini e gli adolescenti. Alcuni autori ritengono, inoltre, che i sintomi depressivi possano riguardare anche un solo specifico demonio, ad esempio legato all’ambito interpersonale o all’apprendimento. L’impotenza appresa è quindi un sistema disadattivo di comprensione e spiegazione della realtà per cui alcuni aspetti di tipo cognitivo agiscono su altri di tipo emotivo determinando conseguenze che, a loro volta, si riflettono sulle cognizioni, ad esempio le riflessioni circa le proprie abilità, in un circuito autorigenerantesi che, nel caso del disturbo depressivo, risulta sempre più difficile da interrompere. Assumendo tale punto di vista teorico, un eventuale intervento dovrebbe essere svolto agendo sul sistema attributivo e sottolineando le cause controllabili e, in particolare, l’impegno. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, attraverso l’inserimento, in un insegnamento strategico, di alcuni momenti di riflessione sulla cause dei propri risultati, in cui venga sottolineato il ruolo dell’impegno personale attraverso l’uso ragionato di opportune strategie, spezzando, in tal modo, la relazione negativa e circolare fra aspettative di insuccesso, fallimento, attribuzione alla mancanza di capacità e stile depressivo.


  1. SVILUPPO DELLA MOTIVAZIONE AD APPRENDERE.

L’apprendimento, con particolare riferimento a quello scolastico, si realizza comunemente e per gran parte in età di sviluppo e attraverso il lungo periodo della crescita che parte dalla scuola materna fino ai livelli superiori dell’istruzione. Per capire se e perché la motivazione di un bambino è differente in quantità e qualità da quella di un adulto è importante considerare alcune linee si sviluppo della motivazione ad apprendere e i sottostanti presupposti teorici. Nel presente modulo verranno delineate alcune prospettive che cercano di spiegare come normalmente si sviluppa la motivazione e come si modificano le relazioni fra motivazione e apprendimento. Le cause all’origine della modificazione della motivazione possono essere molteplici

§ alcune più legate a caratteristiche peculiari del bambino con la crescita il bambino acquisisce una maggiore capacità di selezione di alcuni ambiti di interesse o di competenza, verso cui si sente particolarmente abile, che distingue da altri, verso cui prova meno attrazione e motivazione. Inoltre, impara a conoscere e a controllare meglio alcune componenti del proprio comportamento strategico e a riflettere sulle cause dei propri risultati. Infine, diventa più accurato nel rispondere ai quesiti o ai test proposti per misurare la motivazione

§ altre all’interazione con l’adulto e al sistema educativo l’ambiente socioculturale e il sistema educativo possono, ad esempio attraverso l’instaurarsi di un clima competitivo o cooperativo, favorire lo sviluppo di certi tipi di motivazione piuttosto che di altri


La prospettiva più corretta è quella per cui più fattori, fra loro interrelati, legati alla persona, all’ambiente o alla situazione, come ad esempio la maturità cognitiva, i processi di adattamento e gli obiettivi educativi, contribuiscono a spiegare lo sviluppo della motivazione e delle relazioni fra motivazione e apprendimento.


I.    Le prospettive innatista e comportamentista. Lo sviluppo dell’interesse.

Una prima spiegazione dello sviluppo della motivazione ad apprendere può essere ricercata in 2 prospettive che mettono in risalto

§ l’una gli aspetti innati, in particolare i bisogni (prospettiva innatista)

§ l’altra l’influenza dell’ambiente (prospettiva comportamentista)

Queste 2 prospettive, pur nella loro diversità, si accomunano per il fatto di porre maggiore enfasi su aspetti in gran parte al di fuori del controllo del soggetto e di considerare come marginali gli aspetti più di tipo cognitivo, quali le riflessioni fatte di fronte ai propri risultati di apprendimento e le aspettative nutrite.

Secondo la prospettiva innatista la motivazione riflette la soddisfazione di bisogni innati, quali la curiosità epistemica, la competenza e l’accettazione sociale che si manifestano, in misura differente, nel corso dello sviluppo, nelle diverse attività. Questa modalità di sviluppo può essere esemplificata attraverso l’interesse. I bambini mostrano, già a livello di scuola materna, una chiara attrazione per le diverse attività che vengono loro proposte. Tali dimostrazioni di interesse, pur essendo stabili, sono inizialmente piuttosto generalizzate, in quanto non riguardano specifiche situazioni o materiali. Una maggiore differenziazione fra ambiti, situazioni e materiali valutati come più o meno interessanti emerge con lo sviluppo. In media il livello complessivo di interesse può diminuire con il passare degli anni, in modo lieve durante la scuola elementare e in misura maggiore negli anni successivi. Esaminando, però, le singole discipline, si assiste ad una crescita di interesse per alcune e ad un calo per altre. Per quanto riguarda il mantenimento dell’interesse, questo si verifica soprattutto per quegli argomenti che hanno valenza personale e per quelle situazioni che consentono di provare emozioni quali la soddisfazione e l’orgoglio. Il processo che porta all’emergere di un interesse durevole nel tempo si esplica in contesti di apprendimento diversi in cui è cruciale il ruolo svolto dagli agenti di socializzazione, che possono sostenere o frenare i naturali bisogni del bambino. Ad esempio, secondo Krapp sono cruciali

§ il tipo di insegnamento se vengono effettuate delle dimostrazioni pratiche (si pensi ad esempio al caso delle scienze naturali) si ha, in genere, da parte degli alunni, maggiore interesse rispetto al caso in cui vengono semplicemente insegnate delle regole. Ciò indica come, in realtà, lo sviluppo dell’interesse, pur riflettendo un bisogno innato, è comunque modulato dal tipo di insegnamento e dall’esperienza con materiali e situazioni di diverso tipo

§ la possibilità di selezione autonoma degli obiettivi di apprendimento l’interesse è maggiore per gli argomenti scelti personalmente, rispetto a quelli imposti, in quanto questi danno un senso di controllo personale che consente di mantenerlo attivo

La prospettiva comportamentista enfatizza il ruolo dell’ambiente e postula che la motivazione si sviluppa per effetto di premi e punizioni. Questa prospettiva prevede che la motivazione ad apprendere sia sostenuta quando il bambino è premiato o elogiato per i risultati ottenuti. Al contrario, la punizione ovvero il rimprovero o la disapprovazione, condurrebbero ad un calo della motivazione ad apprendere che può riguardare lo specifico ambito in cui c’è stato il rinforzo negativo, oppure, nel tempo, una pluralità di situazioni di apprendimento.


II.  Motivazione e sviluppo cognitivo. Lo sviluppo del concetto di abilità.

Una seconda importante prospettiva di spiegazione dello sviluppo della motivazione è quella cognitiva. Secondo tale interpretazione, lo sviluppo della motivazione ad apprendere, o comunque di alcune componenti o costrutti motivazionali, riflette lo sviluppo cognitivo del bambino. Al crescere dell’età con l’acquisizione della reversibilità di pensiero prima, e della capacità di pensiero operatorio poi, si assiste allo sviluppo di una maggiore e più adeguata capacità di ragionamento e di riflessione. La prospettiva cognitiva può essere esemplificata attraverso l’analisi dello sviluppo dei concetti di abilità e impegno:

§ in una prima fase dello sviluppo (fino ~ 7 anni), il bambino confonderebbe l’abilità con l’impegno. Durante tale fase risulterebbe difficile distinguere fra cause interne di diverse natura, dove l’abilità è più stabile e meno controllabile e l’impegno è instabile nel tempo e più facilmente controllabile. La tendenza sarebbe quella di credere che chi si impegna è bravo e chi è bravo di impegna

§ in una seconda fase (dai 7 ai 10 anni ~), abilità e impegno verrebbero considerati come mutualmente esclusivi, per cui, a parità di risultati, il maggiore impegno riflette, necessariamente, minore abilità. Il bambino sarebbe portato a pensare che chi si impegna poco è già molto bravo e, al contrario, che chi è poco bravo deve impegnarsi molto per riuscire

§ infine (solo verso i 10/11 anni), il bambino comincerebbe a cogliere che è attraverso l’impegno che l’abilità può essere dimostrata e che le 2 dimensioni abilità e impegno sono separate e non in competizione. Il bambino che si impegna molto potrebbe quindi essere anche molto bravo e semplicemente far emergere tramite l’impegno le abilità possedute. Il bambino che si impegna poco, invece, potrebbe anche essere bravo, ma la mancanza di impegno impedirebbe di cogliere le abilità possedute e quindi di stabilire se è bravo oppure no

Date queste difficoltà di ragionamento del bambino e secondo questa interpretazione, la distinzione fra le 2 attribuzioni interne più frequenti e cioè fra impegno e abilità risulterebbe problematica fino ai 10/11 anni. Altri autori non d’accordo con questa modalità per certi versi restrittiva di definire e misurare l’abilità, hanno considerato diverse interpretazioni del termine, ciascuna caratterizzabile da distinte linee di sviluppo:

§ una prima interpretazione si riferisce alla possibilità di controllo, per cui l’abilità può essere concepita come stabile e difficilmente modificabile (teoria statica) o flessibile e soggetta a cambiamento per effetto di adeguate esperienze e apprendimento (teoria incrementale). Precedenti ricerche non sono riuscite ad identificare chiare linee di sviluppo di questo concetto, almeno limitatamente alle situazioni di apprendimento

§ una seconda interpretazione riguarda la costanza nel tempo e nelle varie situazioni. Secondo tale concezione l’abilità è un insieme di capacità e/o conoscenze tendenzialmente stabile per quella persona in quella data situazione. Tale concezione sembra essere acquisita fra i 7/9 anni

§ una terza interpretazione (che è quella precedentemente illustrata) vede l’abilità come una capacità tendenzialmente fissa che può essere dimostrata (o meglio sviluppata) attraverso l’impegno e che risulta essere ben distinta e differenziata dall’effettivo sforzo prodigato

Una prospettiva simile, in quanto prevede diverse modalità di concepire il termine 'abilità', è stata assunta anche da altri autori che hanno identificato e distinto le seguenti 4 diverse percezioni legate all’abilità:

§ aspettative per il futuro prossimo

§ aspettative a lungo termine

§ abilità percepita

§ attribuzione all’abilità

Queste componenti e le loro reciproche relazioni sono state studiate in quell’età che, mediamente, sembra apparire piuttosto critica per l’emergere nel bambino di motivazioni simili a quelle dell’adulto (10 anni). Questa stessa età è stata interpretata, fino a tutti gli anni 80, come un importante momento di passaggio prima del quale, a causa della vaghezza del concetto di abilità, risultava impossibile per il bambino l’instaurarsi di situazioni demotivanti, poco funzionali all’apprendimento e al benessere psicologico, come l’impotenza appresa. Questa certezza, che poneva i bambini dai 9 anni in giù in un limbo in cui potevano considerarsi protetti da esperienze frustranti quali quelle di non riuscire ad esercitare il controllo sulle situazioni e di non trovare vie d’uscita al fallimento, è stata messa in discussione da alcuni dati di ricerca che, usando metodologie alternative a quelle tradizionali, hanno identificato alcuni precursori dell’impotenza appresa già in bambini di scuola materna. Tali ricerche hanno dimostrato che i bambini cominciano molto precocemente (4/5 anni ~) a dubitare delle proprie abilità. Questo dato parrebbe in contrasto con l’idea per cui il bambino non possiede un ben definito concetto di abilità prima dei 10/11 anni e può essere spiegato solo ricorrendo all’idea per cui il bambino valuta l’abilità secondo parametri diversi da quelli utilizzati dall’adulto. Mentre l’adulto riflette su specifiche dimensioni quali la costanza nel tempo di determinati comportamenti, il livello di specificità o generalità, il grado di controllo personale esercitato, il bambino compie valutazioni basate, in genere, su un’unica dimensione. Una di queste, che è stata ampiamente studiata, riguarda la valutazione di sé. Questa tende ad essere di tipo globale, cioè riferita alla propria persona nella sua interezza, piuttosto che specifica, cioè relativa solo ad alcune situazioni o a determinati compiti. Questa valutazione globale, definita come self-worth (valore di sé), può essere positiva, del tipo 'sono un bambino buono o bravo', o negativa, ad esempio ' sono un bambino cattivo'. Tali giudizi vengono prodotti dalle lodi e dai rimproveri elargiti che possono in misura diversa sostenere quest’idea di bravura in toto piuttosto che di capacità più o meno sviluppare nell’una o nell’altra area o situazione. In particolare, Dweck identifica 3 grosse categorie di lodi, ulteriormente distinguibili al loro interno, che possono favorire o limitare questa percezione di un sé valutato nella sua interezza:

§ la prima categoria si riferisce a complimenti del tipo 'bravo!' (*)

§ la seconda a lodi quali 'sono proprio contento/a di te!' (§)

§ la terza a espressioni del tipo 'hai fatto bene, cos’altro puoi fare per migliorare?' (#)

La prima(*) e la seconda(§) stimolano una valutazione globale di sé in quanto sono centrate sulla persona piuttosto che sui risultati ottenuti e le strategie adottate. La seconda(§) enfatizza anche l’approvazione da parte dell’adulto, lanciando il messaggio implicito che le cose si fanno non per imparare o per un personale interesse, ma per essere approvati da genitori e insegnanti. La terza possibilità(§), invece, predispone meno a valutazioni globali di sé, in quanto sposta l’attenzione dalla persona alla situazione e in particolare all’approccio strategico, efficace o meno, al compito. Queste 3 grosse categorie di lodi pertanto possono limitare (le prime 2) o favorire (la terza) un corretto sviluppo della motivazione ad apprendere, in quanto sostengono in misura diversa la tendenza a valutare il sé globalmente. In particolare le prime 2 situazioni possono portare all’emergere di comportamenti tipici dell’impotenza appresa, quali la scelta di compiti facili e la rinuncia alle sfide e alle situazioni nuove da padroneggiare. Inoltre, i primi 2 tipi di lode tendono ad indirizzare gli obiettivi di apprendimento verso la prestazione, mentre solo il terzo tipo tende a stimolare obiettivi di padronanza. L’identificazione precoce di situazioni che pongono il bambino a rischio di sviluppare impotenza appresa consentirebbe, attraverso specifici interventi, di prevenire lo sviluppo di fenomeni depressivi poco funzionali sia per il benessere psicologico e l’adattamento sociale sia per la riuscita scolastica. Una corretta forma di prevenzione potrebbe consistere nel modificare il tipo di lode elargita, in modo che diventi più funzionale ad un corretto sviluppo della motivazione ad apprendere e cioè che enfatizzi il ruolo dell’impegno instabile e controllabile e delle strategie impiegate, piuttosto che delle abilità possedute. Un adeguato ed efficace intervento a posteriori potrebbe, invece, essere condotto in una pluralità di contesti, preferibilmente familiari al bambino, e attraverso una modalità che potrebbe consistere anche nella stessa procedura che consente di osservare l’impotenza appresa già in bambini di 4 anni. Questa procedura, condotta in una situazione e con materiale familiare al bambino, si basa su indici di persistenza e scelta del compito oltre che su riflessioni soprattutto di tipo attributivo e consente di identificare i bambini che rinunciano facilmente alle sfide. I bambini che scelgono di fare il puzzle che avevano già completato potrebbero essere incoraggiati all’uso di strategie per affrontare con successo i diversi compiti in cui temono di fallire e verso cui si sentono poco motivati e sostenuti nei tentativi di padronanza al fine di incrementare la percezione di controllo.


III.    Le prospettive sociocognitiva e socioculturale.

Nei paragrafi precedenti sono state considerate alcune importanti spiegazioni dello sviluppo della motivazione ad apprendere: innatista, comportamentista, cognitiva.

§ Mentre le prospettive innatista e cognitiva considerano la motivazione come una disposizione individuale presente nell’individuo

§ la prospettiva comportamentista enfatizza il ruolo dei rinforzi suggerendo come anche alcuni aspetti ambientali, quali il sostegno o l’approvazione, possono indirizzare il singolo, motivandolo o demotivandolo, verso l’una o l’altra attività

Il ruolo del contesto di apprendimento e, in particolare delle relazioni fra il singolo e gli altri viene enfatizzato nelle prospettive sociocognitiva e socioculturale:

§ secondo la prospettiva sociocognitiva la motivazione dipende da come l’individuo percepisce la propria abilità, il livello di difficoltà del compito, gli obiettivi di apprendimento e le cause dei propri risultati, attraverso riflessioni condotte in contesti sociali

§ la prospettiva socioculturale, rispetto a quella sociocognitiva, enfatizza ancora di più il ruolo del contesto, postulando che l’apprendimento è un’attività mediata socioculturalmente e, quindi, che la motivazione ad apprendere non sta solo nell’individuo, ma è innanzi tutto nel contesto socioculturale

La differenza sostanziale fra le 2 prospettive è che per la prima la motivazione è nell’individuo, mentre per la seconda è nel contesto e nella modalità di interazione fra il singolo e la situazione. Secondo la prospettiva sociocognitiva, quindi, lo sviluppo della motivazione ad apprendere dipende da come diversi elementi socioambientali e contestuali sono analizzati dal sé.


Fattori socioambientali:

§   valori socialmente condivisi

§   esperienze educative

§   contesto sociale

§   ruoli sessuali

Processi legati al sé:

§   concetto di sé

§   attribuzioni

§   obiettivi di apprendimento

§   valori intrinseci ed estrinseci

Indici di motivazione:

§   impegno

§   scelta del compito

§   persistenza

§   determinazione nel raggiungere gli obiettivi

Fattori personali:

§   attitudini

§   temperamento

§   personalità

§   apprendimento















La motivazione, espressa dall’impegno esercitato, dalla persistenza e dalla determinazione, dipende quindi dagli esiti dei processi di riflessione (cognitivo) in un contesto sociale (socio). Queste riflessioni, comuni e quotidiane, possono diventare particolarmente salienti in situazioni di conflitto sociocognitivo, ad esempio quando il bambino si trova di fronte a persone che interpretano in modo differente situazioni simili. Ciò è stato riscontrato, ad esempio, per quanto riguarda lo sviluppo dello stile attributivo. Bambini in un contesto scolastico con 3 insegnanti sviluppano uno stile attributivo articolato più precocemente rispetto a bambini che hanno come modello un solo insegnante, che presenta solo il suo modo di interpretare i successi e gli insuccessi. Ricerche transculturali hanno dimostrato che le attribuzioni e il comportamento strategico del ragazzo sono influenzati dal tipo di insegnamento impartito dai genitori e dagli insegnanti e quindi dal contesto culturale e che le differenze esistenti nel sistema attributivo di diverse culture influenzano notevolmente la motivazione ad apprendere. La prospettiva sociocognitiva è stata assunta da alcuni autori anche per spiegare il declino della motivazione ad apprendere (o, almeno, di alcune sue componenti, quali l’interesse, la curiosità e gli obiettivi di padronanza) a partire dalla fine della scuola primaria. Secondo tale interpretazione questo calo di motivazione dipende dal contesto e, in particolare, dall’ambiente scolastico. Il contesto sociale ed educativo in cui si realizza l’apprendimento influenza la motivazione attraverso 2 modalità:

§ la prima consiste nella comunicazione da parte degli adulti di credenze che influenzano il tipo di motivazione, ad esempio quelle relative alla teoria dell’intelligenza come entità o incrementale. Tale comunicazione può avvenire sia attraverso il canale verbale sia quello non verbale, ad esempio tramite la comunicazione di specifiche aspettative

§ la seconda riguarda invece lo stile e le pratiche educative, che possono favorire un clima competitivo o cooperativo, con conseguenti importanti risvolti sulla motivazione e sui livelli d’ansia in situazioni d’esame

La prospettiva sociocognitiva è stata adottata anche per spiegare alcune differenze nella motivazione legate al genere. Ad esempio, per quanto riguarda le attribuzioni relative alla matematica, i maschi tenderebbero ad attribuire a sé, e in particolare alla propria abilità, il merito e agli altri un eventuale insuccesso, mentre le femmine attribuirebbero il successo a cause esterne e l’insuccesso a sé, e in particolare alla mancanza di sufficiente impegno. Ricerche in cui sono stati impiegati strumenti che proponevano situazioni di apprendimento generali, piuttosto che legate a specifici ambiti quale quello matematico, non sono riuscite a dimostrare alcune effetto dovuto al genere. Il fatto che effetti apparentemente dipendenti dal genere siano stati trovati solo per i casi particolari, suggerisce che le differenze fra maschi e femmine possano essere imputate soprattutto alle aspettative e ai conseguenti atteggiamenti di insegnanti e genitori e quindi derivino dal contesto sociocognitivo e non da differenze più di tipo innato e genetico. In questo processo di comunicazione delle aspettative un ruolo importante è dato dal rinforzo e da come questo viene elargito e interpretato. In particolare, Boggiano e Pittman hanno studiato le caratteristiche e gli effetti dei rinforzi differenziandoli in:

§ informativi sono quelli che costituiscono un feedback sulla prestazione e indicano la bontà dei risultati e/o la correttezza delle strategie adottate, senza costituire un giudizio o una critica al ragazzo

§ controllanti sono quelli che tendono a controllare la prestazione impedendo al ragazzo di sviluppare l’autostima e l’autodeterminazione, ad esempio nella scelta dei percorsi attraverso cui giungere ad una soluzione o dei materiali di studio o di esercitazione. Tale tipo di rinforzo può incitare il confronto sociale e sostenere come migliore colui che maggiormente si adegua alle attese dell’insegnante o comunque dell’adulto. In tale situazione, chi, nonostante l’aspetto controllante del rinforzo, persegue con autodeterminazione obiettivi diversi o semplicemente sceglie percorsi differenziati per giungere agli stessi traguardi, rischia di essere giudicato in modo meno positivo

§ demotivanti (o negativi) consistono in reali punizioni o divieti che limitano le possibilità di esplorazione, conoscenza e sfida e alimentano peraltro il timore di fallire. Rinforzi di questo tipo possono condurre ad evitare le diverse situazioni o a provare stati d’ansia allorché tali situazioni devono, per ragioni contingenti, essere affrontate

Secondo questa tripartizione dei rinforzi è possibile tratteggiare situazioni che sostengono o impediscono un corretto sviluppo della motivazione ad apprendere. Si supponga, ad esempio, che i genitori nutrano alte aspettative circa l’apprendimento scolastico del loro lio:

§ ciò li può portare, nella situazione ottimale (rinforzo informativo), ad approvare i successi e ad ignorare gli insuccessi sostenendo un insieme di motivazioni positive quali l’interesse, gli obiettivi di padronanza, l’autoefficacia, l’attribuzione all’impegno, ..

§ in una situazione meno ottimale, le alte aspettative possono condurre a punire i comportamenti o risultati non in linea con le aspettative dei genitori e a ignorare, invece, i comportamenti e risultati che soddisfano le attese. Tale situazione, che rappresenta un esempio di rinforzo controllante, tende ad alimentare il timore di fallire e l’ansia di fronte alle situazioni. Inoltre, può condurre a motivazioni poco efficaci per l’apprendimento (obiettivi di prestazione, basso senso di autoefficacia, attribuzione dell’insuccesso a mancanza di capacità)

§ una terza pericolosa situazione, che può condurre a stati conflittuali e a fenomeni di demotivazione, spesso caratterizzati dal desiderio di apprendere, ma dalla contemporanea incertezza sul come e cosa fare, è quella in cui i genitori (o insegnanti o altri adulti significativi per il bambino) esprimono alte aspettative, chiedono buone prestazioni e il raggiungimento di specifici obiettivi senza indicare la modalità. In casi di questo tipo il bambino si sente confuso perché vorrebbe essere all’altezza delle aspettative, ma non capisce come può fare. Il bambino, in tal caso, può vivere la situazione come al di fuori del proprio controllo e sentirsi spinto esternamente in una certa direzione, quasi come una pedina, con il continuo timore di fallire associato ad un approccio al compito casuale e poco strategico. Il rischio è che si senta inadeguato e incapace e che perda la fiducia in sé, e provi vergogna per la propria situazione

Il contesto pertanto determina credenze e mantiene modalità comunicative tali da influenzare la motivazione dei ragazzi. Questi effetti, pur risultando spesso in una riduzione, reale o apparente, dell’originale motivazione all’apprendimento, possono, a volte, consentire un incremento o una maggiore differenziazione della motivazione.


IV.    Deficit strategici e loro componenti motivazionali.

La spinta motivazionale è certamente importante per l’apprendimento, però è altresì fondamentale che la motivazione, sia essa intesa come istinto o come frutto di elaborazioni, convinzioni e obiettivi personali, venga diretta verso mete più o meno specifiche e sostenuta dalla conoscenza di come i traguardi prefissi (e verso cui il singolo si sente motivato) possono essere raggiunti. Questo 'come' si riferisce, in particolare, alle strategie di apprendimento, che consentono di realizzare concretamente la situazione verso cui la motivazione è espressa, ad esempio, l’acquisizione di specifici contenuti. Nel primo modulo è stata fornita una definizione di strategia in cui venivano evidenziati i nuclei fondamentali del concetto e cioè:

§ l’intenzionalità (esistenza di uno scopo cognitivo da raggiungere)

§ la consapevolezza (elemento che implica scelta e controllo durante l’applicazione della strategia)

La conoscenza delle modalità attraverso cui raggiungere gli obiettivi prefissi (verso cui la motivazione è espressa) è un aspetto importante. Alcune teorie sostengono che il comportamento motivato comprende sia componenti legate agli obiettivi, sia la conoscenza dei mezzi attraverso cui raggiungere gli scopi, cioè le strategie. Altre teorie enfatizzano l’importanza di un corretto approccio e sviluppo strategico ai fini della motivazione. Questo paragrafo verrà pertanto dedicato alle tematiche relative allo sviluppo strategico e dei rapporti fra uso di strategie e motivazione. Al crescere dell’età, per effetto di un’acquisizione spontanea o in seguito a specifiche istruzioni, i bambini utilizzano un numero sempre maggiore di strategie e le stesse vengono utilizzate in modo più efficace. Per quanto riguarda le strategie di memoria, una possibile spiegazione per cui il bambino può sembrare strategico solo a volte è quella che fa riferimento alle possibilità di comprendere il senso dei compiti di memoria che vengono proposti. Queste possibilità sono certamente superiori se i compiti sono familiari, vengono presentati come un gioco e da persone conosciute. È stato dimostrato che anche i bambini di 2 anni dimostrano una certa intenzionalità nel ricordo e che il livello di consapevolezza dell’esistenza di un problema di memoria predice l’acquisizione e il mantenimento strategico. Al contrario, in una situazione di laboratorio con liste di parole (materiale poco interessante e poco familiare), i bambini a 4/5 anni non distinguono fra l’istruzione 'guarda' o 'ricorda', a 7 anni mostrano comportamenti differenziati che però non si riflettono sulla prestazione, che è la stessa nelle 2 situazioni 'guarda' o 'ricorda'. Solo i bambini un po’ più grandicelli hanno una prestazione mnestica superiore quando è chiesto loro di ricordare, piuttosto che di guardare. A partire da questa età i bambini comprendono che, per ricordare, è necessario conoscere, selezionare e utilizzare queste strategie efficacemente. Quindi il comportamento strategico può emergere in momenti diversi dello sviluppo a seconda del materiale e della situazione, ma anche in ragione della comprensione che l’istruzione a ricordare implica un’attenzione e un impegno maggiore rispetto all’istruzione di guardare solamente. Inoltre, la possibilità di manifestare adeguati comportamenti strategici si collega alla consapevolezza dell’esistenza di un problema di memoria e alla conoscenza di strategie utili per risolvere questo problema. La capacità di usare consapevolmente ed efficacemente delle strategie di apprendimento è soggetta a sviluppo, attraverso specifiche fasi originariamente descritte da Flavell, attraverso le quali il bambino passa da uno stadio non strategico ad uno strategico. Queste fasi, pur differendo per collocazione temporale sia rispetto al tipo e alla complessità della strategia considerata, sia per i diversi fattori contestuali sopra tratteggiati, sono uguali per successione:

§ in una prima fase, definita come deficit di mediazione, il bambino risulta incapace di utilizzare una specifica strategia anche se questa gli viene insegnata

§ in una seconda fase, definita come deficit di produzione, il bambino non utilizza spontaneamente la specifica strategia, ma è capace di farlo se la strategia gli viene insegnata. Ciò indica che, in questo momento, ci sono le potenzialità per l’apprendimento strategico, ma che queste devono essere stimolate attraverso l’insegnamento e per effetto di un contesto che sostiene i tentativi di acquisizione strategica del bambino

§ infine, in una terza fase, definita come uso maturo, il bambino riesce ad applicare spontaneamente la strategia senza alcun intervento o insegnamento

Queste fasi sono state evidenziate in ricerche che hanno impiegato differenti tipi di strategie e modalità di insegnamento, dalle strategie di memoria esterna all’organizzazione in categorie. Quest’ultima strategia ben si presta allo studio della fasi di acquisizione strategica in quanto consente di valutare l’uso della strategia sia in codifica (il momento della memorizzazione) sia in recupero (il momento del ricordo), e quindi di capire se le difficoltà di memoria dipendono da un mancato uso della strategia fin dall’inizio o da difficoltà che emergono nei successivi momenti in cui è chiesto di ricordare. Dati di ricerca ottenuti in tempi successivi hanno però indicato che non sempre l’uso corretto di strategie di per sé efficaci conduce a miglioramenti nella prestazione. Soprattutto in una fase dello sviluppo strategico, che può essere collocata fra il deficit di mediazione e quello di produzione, può capitare che il bambino, se istruito, riesca ad applicare passo a passo le strategie proposte senza peraltro incrementare la prestazione. Tale fenomeno, definito come deficit di utilizzazione, è stato originariamente interpretato come effetto di un eccessivo carico cognitivo. Il bambino dedicherebbe tutte le sue risorse cognitive nell’applicare le strategia, e quindi nel processo di apprendimento, con il risultato che verrebbe a mancare dello spazio mentale per apprendere o ricordare gli effettivi contenuti. Interpretazioni successive hanno però puntualizzato che anche altri aspetti possono contribuire a spiegare questo tipo di deficit:

§ le conoscenze precedenti e la familiarità con il materiale da ricordare. Il deficit di utilizzazione tende ad essere più marcato in situazioni nuove dove molte risorse cognitive sono assorbite nel cercare di comprendere il compito e familiarizzare con il materiale e poche risorse restano libere per utilizzare efficacemente le diverse strategie

§ le conoscenze e le abilità di controllo metacognitivo, ad esempio la capacità di integrare e coordinare più strategie. Di fronte ad una strategia nuova, chi è meno metacognitivo incontra maggiori difficoltà nell’integrare le nuove conoscenze strategiche con le preesistenti e, di conseguenza, nello sfruttare in modo più flessibile le differenti strategie

§ l’incapacità di inibire l’uso di altre strategie alternative a quella insegnata, ma meno efficaci. Queste strategie alternative possono essere nuove e utilizzate solo per il gusto di provare qualcosa di diverso oppure abituali e costituire una modalità abituale di affrontare il compito

Secondo una prospettiva socioculturale, in cui viene maggiormente enfatizzato il ruolo del sostegno ambientale e analizzata la relazione fra bambino e adulto, il deficit di produzione può essere messo in relazione con la zona di sviluppo prossimale. La zona di sviluppo prossimale corrisponde a quella fase dello sviluppo in cui il bambino, pur non dimostrando un certo comportamento strategico in modo spontaneo, può essere condotto ad una maggiore conoscenza e uso delle strategie se adeguatamente sostenuto dall’adulto, ad esempio se stimolato a riflettere sul compito, sulle possibilità di soluzione e sugli strumenti di cui può disporre per risolvere la situazione-problema. La zona di sviluppo prossimale si distingue dal concetto di deficit di produzione, non solo per l’impostazione teorica sottostante, ma anche perché prevede un processo discreto, per cui è possibile distinguere all’interno della zona di sviluppo prossimale più livelli di intervento mirati a stimolare nel bambino l’uso strategico, ad esempio da un semplice richiamo ad una situazione precedente fino alla dimostrazione pratica di come si può fare. La misura della zona di sviluppo prossimale può essere fatta quindi considerando il livello di intervento necessario affinché il bambino riesca ad utilizzare la strategia insegnata oppure attraverso la stima dinamica del potenziale di apprendimento. Questa si riferisce alla misura di quanto il bambino può potenzialmente apprendere se posto in contesti e in relazione con persone che stimolano l’acquisizione strategica. Il contesto assume, pertanto, il ruolo di fattore motivante che stimola la ricerca di strategie e il conseguente sviluppo strategico. Questa riflessione porta a chiedersi quali possono essere le condizioni ambientali o di relazione favorevoli alla sa delle strategie. Queste condizioni favorevoli, oltre che nel contesto e nella relazione fra bambino e adulto o anche fra pari, possono essere ricercate nelle caratteristiche:

§ del compito, sia per quanto riguarda la familiarità del contesto (di gioco o più strutturato) sia per l’effettiva difficoltà rispetto alle capacità e conoscenze possedute dal bambino

§ del materiale, per cui le strategie tendono ad apparire spontaneamente con materiali familiari o che ben si prestano all’uso della specifica strategia considerata

§ del soggetto, per quanto concerne diversi aspetti quali l’età, l’esperienza, le conoscenze, le preferenze per l’una o l’altra situazione e ovviamente la motivazione

Risulta quindi importante analizzare lo sviluppo delle relazioni fra componenti strategiche e motivazionali dell’apprendimento. Queste relazioni possono essere evidenziate a più livelli:

§ un primo livello più di tipo generale (in quanto discende dal legame positivo fra una corretta motivazione ad apprendere, l’uso di strategie e la prestazione e dal fatto che le strategie sono, per definizione, delle procedure che richiedono impegno e che sono dirette ad uno scopo) riguarda una maggiore spinta all’uso efficace di strategie e probabilmente un più precoce raggiungimento del livello di uso maturo per i ragazzi più motivati o comunque motivati per le ragioni più corrette, ad esempio verso la padronanza piuttosto che verso la semplice dimostrazione delle capacità possedute. Più autori hanno sottolineato che una differenza critica nello sviluppo strategico non riguarda tanto la capacità da parte del bambino di utilizzare la strategia, quanto l’inclinazione o la motivazione ad utilizzare quella particolare strategia per risolvere quello specifico compito

§ un secondo livello si riferisce al momento in cui è più opportuno intervenire per sostenere la motivazione ad apprendere e, nel contempo, l’uso di strategie. Questo momento può essere collocato nella fase in cui il bambino manifesta un deficit di produzione, cioè quando non usa la strategia spontaneamente, ma è capace di utilizzarla se viene opportunamente istruito. Precedentemente il bambino, per quanto possa essere motivato, non riesce ad utilizzare le strategie insegnate. In questo caso, l’insegnamento strategico può addirittura risultare dannoso in quanto il bambino vede che i suoi sforzi non sono coronati da successo e che all’impegno non segue un miglioramento nella prestazione. Inoltre, anche l’insegnante può sentirsi frustrato, poiché non riesce a vedere gli effetti dell’intervento

§ un terzo possibile livello riguarda i legami fra sviluppo della motivazione e sviluppo strategico


Secondo un modello definito come GSU (Good Strategy User, cioè 'buon utilizzatore di strategie' o studente strategico), proposto da Pressley, Borkowski e O’Sullivan, lo sviluppo strategico precede lo sviluppo motivazionale, in quanto la capacità di affrontare con strategicità le situazioni conduce a risultati positivi di apprendimento che, a loro volta, sostengono la motivazione (e viceversa).





























abilità


impegno




Si viene così a creare un processo circolare in cui dal fatto di affrontare i diversi compiti emerge l’uso sempre più sofisticato di strategie e dall’uso efficace di strategie si forma un corretto stile attributivo e motivazionale che sostiene il desiderio di apprendere e l’impegno. Quando il bambino raggiunge una buona pratica (expertise) con specifiche strategie in ben determinati compiti, il processo diventa più semplice (linea tratteggiata) e l’adozione di strategie più automatica. Il 'buon utilizzatore di strategie' è, pertanto, chi conosce le strategie e ne comprendere l’utilità, sa come e quando usarle, selezionarle e controllarne l’efficacia durante l’esecuzione;

§ crede nell’impegno

§ è intrinsecamente motivato e orientato sul compito

§ non teme il fallimento poiché si pone obiettivi di padronanza

§ concepisce le prove di valutazione come opportunità di apprendimento

§ applica spontaneamente le strategie in momenti successivi, quando ne viene ravvisata l’utilità

È possibile concludere che esistono diverse componenti capaci di stimolare sia lo sviluppo motivazionale sia quello strategico. 2 di queste, particolarmente importanti, possono essere individuate:

§ nello sviluppo cognitivo con la crescita il bambino impara sempre più ad individuare obiettivi (motivazioni) e soluzioni per raggiungerli (strategie) e a coordinare i 2 elementi. Inoltre diventa più abile nel riflettere sul compito, su se stesso e sulle modalità più efficaci per affrontare le situazioni verso cui si sente motivato. Anche le motivazioni espresse sono più articolare, ad esempio vi è una maggiore differenziazione fra ambiti valutati come più o meno interessanti, fra situazioni in cui è possibile esercitare nel modo migliore la propria competenza o fra attribuzioni di diverso tipo

§ nel contesto socioculturale in condizioni familiari e naturali o con persone a cui è particolarmente legato, il bambino risulta essere più motivato e dimostra un comportamento strategico o comunque intenzionale ad un’età inferiore rispetto a quando si trova in situazioni nuove o poco stimolanti, ad esempio in contesti di laboratorio o con persone che non gli sono familiari


V.  Un esempio. Lo sviluppo dello stile attributivo e delle relazioni con la prestazione.

I contenuti espressi in modo essenzialmente teorico nei paragrafi precedenti vengono qui esemplificati attraverso l’analisi dello sviluppo dello stile attributivo e delle relazioni fra stile attributivo, uso di strategie e prestazione in compiti cognitivi.

§ L’abitudine e la capacità di riflettere sulle cause degli eventi che accadono a sé e agli altri è probabilmente la risposta ad un bisogno innato di conoscenza e di comprensione del mondo e delle regole che lo governano.

§ La capacità, invece, di formulare specifiche e distinte attribuzioni sembra emergere non prima della fine del terzo anno di vita. In questo momento dello sviluppo, il bambino comincia a riflettere sulle cause dei propri risultati positivi o negativi e sulle conseguenti emozioni di felicità o di tristezza, riuscendo a distinguere fra diverse emozioni di felicità (soddisfazione, orgoglio, sfida) o di tristezza (rabbia, paura, depressione) che dipendono dal tipo di causa espressa. Ciò significa che il bambino riesce anche ad interpretare la situazione e ad attribuire una causa al proprio successo o insuccesso. Dal punto di vista emotivo non solo si sente felice o triste per un certo risultato, ma riesce a provare emozioni differenziate, quali la vergogna e la rabbia, legate all’autoconsapevolezza di essere o non essere agente di determinati risultati. I bambini in età prescolare, però, non riescono a distinguere bene fra cause differenti per effetto di importanti limiti legati allo sviluppo cognitivo e del linguaggio.

§ La capacità di riflettere sulle cause dei propri successi e insuccessi si sviluppa principalmente fra i 6 e gli 11 anni. Al crescere del livello scolastico, in particolare per quanto riguarda i risultati di apprendimento, vengono formulate più frequentemente attribuzioni interne (impegno o abilità), mentre viene riconosciuta minore importanza alle attribuzioni esterne, ad esempio all’aiuto di genitori o insegnanti. I soggetti con difficoltà d’apprendimento di scuola media inferiore, tendono, invece, rispetto ai bambini normali, a riconoscere maggiormente l’importanza di cause esterne quali l’aiuto o la fortuna. Non tutti gli autori però concordano nell’identificare il momento preciso in cui l’impegno comincia ad essere considerato come l’attribuzione più importante. Inoltre, varie ricerche hanno trovato differenze per quanto riguarda il rapporto fra stile attributivo e prestazione. Ad esempio, l’attribuzione all’abilità, che, in genere, non è la più funzionale all’apprendimento, perché si tratta di una causa stabile, non produce effetti negativi sulla prestazione quando il bambino non riesce ancora a distinguere l’abilità dall’impegno.

§ Solo a partire dalla scuola media l’attribuzione all’impegno è predittiva dell’uso di strategie e produce effetti positivi sul ricordo.

2 sono le spiegazioni che chiariscono lo sviluppo dello stile attributivo e delle sue relazioni con l’approccio strategico e la prestazione:

§ una prima spiegazione fa riferimento all’esperienza del soggetto. Un corretto stile attributivo, che riconosce soprattutto l’impegno, emerge in contesti familiari e motivati per il bambino, secondo una prospettiva sociocognitiva per cui lo sviluppo si realizza in particolare per effetto delle riflessioni condotte in contesti di socializzazione e anche in relazione alle esperienze con compiti e materiali diversi e a come queste esperienze sono state vissute ed elaborate

§ una seconda spiegazione, che non esclude, ma anzi completa la precedente, può essere ricercata nel contesto culturale e nelle modalità di relazione con il bambino. Lo stile attributivo, infatti, oltre ad essere influenzato dalle precedenti esperienze di successo o di fallimento, e dalle reazioni emotive personali che accomnano, in particolare, l’insuccesso, risente del contesto culturale, perché si sviluppa anche a partire dagli atteggiamenti e dalle emozioni sociali che genitori e insegnanti comunicano di fronte ai successi e ai fallimenti. Queste emozioni, a loro volta, sono il riflesso delle attribuzioni espresse dai genitori, che influenzano notevolmente il comportamento verso i li

§ infine, ulteriori spiegazioni possono essere ricercate nello sviluppo cognitivo e, ovviamente, in aspetti innati legati al bisogno di riflessione causale e che si esprimono in situazioni ed età diverse. Così, ad esempio, oltre a differenze nella comunicazione di stili attributivi peculiari, esistono differenze anche nella capacità di ricezione dei ragazzi che, a seconda dell’età o di altre caratteristiche individuali, possono essere più o meno sensibili al canale di comunicazione verbale o non-verbale. I più giovani potrebbero essere maggiormente sensibili al canale non-verbale, i più grandi a quello verbale. Infine, per quanto riguarda l’età dei soggetti, importanti differenze possono essere ricercate nel modo in cui le diverse cause sono interpretate. Ad esempio, i bambini piccoli tendono ad interpretare l’aiuto positivamente e lo valutano come una buona strategia per apprendere oppure come indice dell’abilità della loro maestra o della loro stessa abilità ('sono bravo e quindi merito di essere aiutato'). I più grandi, invece, considerano l’aiuto come il riflesso di mancanza di abilità e quindi in senso negativo per quanto riguarda la motivazione ad apprendere.



Questi 3 gruppi di spiegazioni dello sviluppo dello stile attributivo e delle relazioni con l’uso di strategie e la prestazione sono tutte valide e complementari. In tal modo contribuiscono alla comprensione di un fenomeno di per sé complesso in cui interagiscono aspetti individuali, sociali e culturali.


  1. LA MISURA DELLA MOTIVAZIONE.

I.    Motivazioni, stili e convinzioni.

La motivazione è un processo

§ interno in quanto stato interno, può essere dedotta da comportamenti esterni che vengono ipotizzati come l’effetto concreto delle motivazioni possedute, ad esempio dal livello di persistenza di fronte alle difficoltà, dalle convinzioni relative a sé e al compito, dal tempo dedicato ad una attività

§ dinamico una corretta valutazione della motivazione andrebbe fatta attraverso misurazioni nel tempo le quali, però, implicano importanti difficoltà legate:

§ al ricordo, nel caso dell’esame di gruppo, delle risposte date precedentemente, e quindi alla necessità-opportunità in caso di studi longitudinali di creare nuove versioni o versioni complementari dello strumento

§ alla presenza di variabili intervenienti che possono costituire un disturbo all’analisi del fenomeno, una delle quali, molto importante, riguarda la crescita e la maturazione del soggetto, soprattutto se si tratta di bambini

§ alla regressione statistica che significa, a livello concreto, che a prestazioni alte seguono necessariamente prestazioni medie; ciò comporta particolari cautele sulle modalità di trattamento dei dati, ad esempio una valutazione su quali aspetti considerare: singole variazioni dal tempo1 al tempo2 o la media del periodo o gli scarti dalla media o un qualche altro indice, che comunque è da considerare come un dato trasformato

A queste importanti difficoltà metodologiche, in parte prevedibili e superabili attraverso opportuni accorgimenti, è importante aggiungere una riflessione fondamentale sul costrutto che si vuole misurare e sugli indicatori che presumibilmente possono meglio rappresentarlo. È possibile distinguere fra almeno 3 differenti costrutti che si caratterizzano per diversi livelli di misurabilità:

§ il primo è dato dalle motivazioni e si riferisce alla disposizione cognitiva e affettiva verso il compito in un dato momento. È certamente un aspetto dinamico per cui il livello motivazionale può crescere per effetto di elementi interessanti, oppure calare in conseguenza di ostacoli esterni. È quindi di difficile misurabilità. Una corretta valutazione richiederebbe numerose misurazioni ripetute nel tempo con le problematiche metodologiche sopra accennate. Inoltre, le motivazioni, o comunque alcuni aspetti o costrutti motivazionali, spesso riflettono processi interni e profondi, per cui il rischio è quello di misurare solo alcune componenti, che magari non sono nemmeno le più rappresentative del costrutto che si intende indagare (es: lo spendere molto tempo nel compito può essere un buon indice di motivazione, se riflette l’interesse e il coinvolgimento, oppure indicare il desiderio di cessare un’attività considerata come poco interessante, ma obbligatorio, oppure ancora essere indice di poca motivazione, che conduce ad affrontare il compito con scarsa organizzazione e strategicità)

§ il secondo si riferisce agli stili motivazionali. Questi possono essere definiti come un insieme organizzato di motivazioni che conducono verso i vari comportamenti, ad esempio l’apprendimento, oppure che portano ad evitare o ignorare le situazioni. Un esempio di stile motivazionale è quello che conduce all’impotenza appresa. Gli stili motivazionali, pur essendo potenzialmente modificabili, nel momento in cui si instaurano tendono alla stabilità, spesso attraverso processi circolari. Essendo gli stili un po’ più stabili delle motivazioni, vengono a cadere alcune delle difficoltà di misura legate alla dinamicità del processo. Ciò significa che gli stili possono essere misurati o che, comunque, alcune importanti componenti di ogni stile possono essere descritte e esaminate anche nel confronto fra soggetti con stili differenti o nello studiare le relazioni fra l’uno o l’altro stile e l’apprendimento. Nel misurare gli stili, particolari cautele devono essere prestate nella scelta degli indicatori più adeguati. Questi indicatori dovrebbero essere quelli che meglio rappresentano lo stile considerato (costituendone l’elemento o gli elementi caratteristici e misurabili con il minor rischio di errore) e che più di altri consentono di discriminare fra stili differenti o addirittura contrapposti

§ il terzo è dato dalle convinzioni. Queste consistono nelle idee che le persone esprimono o comunicano attraverso comportamenti più o meno motivati. Le convinzioni possono riguardare una serie di elementi che spaziano dalla propria abilità, alle attribuzioni, alla facilità o rilevanza del compito, agli obiettivi, alle aspettative. Le convinzioni sono, in genere, un po’ più facilmente misurabili delle motivazioni e degli stili. Le convinzioni, infatti, sono tendenzialmente stabili e abbastanza facilmente verbalizzabili. Anche in questo caso, però, è importante prestare alcune cautele. Innanzi tutto, la stabilità è da intendersi come relativa. È infatti da tenere presente che le convinzioni sono soggette a sviluppo e a cambiamenti per effetto dell’età o di esperienze con compiti di diversa natura o in ambienti e contesti diversi. Anche la facilità di verbalizzazione delle convinzioni dipende dall’età del soggetto. Infine, un ruolo importante è dato dalle capacità di riflessione e dalle elaborazioni cognitive sottostanti, che sono elementi soggetti a sviluppo e non chiaramente delineati, almeno per alcuni costrutti, ad esempio per l’abilità, prima dei 10/11 anni


II.  Strumenti e tecniche di analisi della motivazione.

Premesso che non è sempre possibile avere un indice affidabile di motivazione e che, nel misurare i vari costrutti motivazionali, si incontrano varie difficoltà sia teoriche sia di ordine pratico, in questo paragrafo verranno descritte le principali modalità attraverso cui, in genere, viene misurata la motivazione:

una prima possibilità è data dall’uso di questionari o di interviste, che possono essere strutturate o semistrutturate in base allo schema del questionario cui fanno riferimento. I questionari e le interviste:

§ sono ampiamente utilizzati per misurare alcune importanti convinzioni

§ sono, in genere, uno strumento di agevole, veloce e non problematica somministrazione

§ spesso sono utilizzati proprio in quanto non richiedono tempi lunghi, possono essere somministrati direttamente dall’insegnante o da un operatore che sia a conoscenza delle modalità e dei tempi di presentazione e che legga o faccia leggere con attenzione le istruzioni

§ essendo uno strumento uguale per tutti e somministrato in uno stesso contesto, spesso collettivamente, consentono di ottenere dati affidabili e soprattutto confrontabili sia con i valori normativi sia, se opportuno, con i punteggi ottenuti dai pari, ad esempio con la media della classe

§ presentano il grosso vantaggio di consentire di ottenere con facilità punteggi espressi numericamente e quindi di agevole elaborazione statistica e facilmente abili fra soggetti o per lo stesso soggetto in somministrazioni successive

§ possono, però, presentare dei limiti (evidenziati qui sotto) e rispetto ai quali è opportuno prestare particolari cautele, in particolare per quanto riguarda l’interpretazione dei punteggi ottenuti e il loro valore prescrittivo

Questi LIMITI possono essere ricercati:

  nell’età dei soggetti. I bambini possono differire nelle capacità di comprensione degli item sia a causa di limiti di pensiero, di ragionamento e metacognitivi sia per effetto della diversa competenza verbale, anche all’interno di una stessa categoria di soggetti o età

  nell’adeguatezza dello strumento rispetto a ciò che si vuole misurare, per cui attraverso uno specifico questionario/intervista si può ottenere un qualche indicatore che spesso non coglie la complessità del fenomeno o che non rappresenta esattamente il costrutto che si intende misurare

  nella desiderabilità sociale. Chi compila lo strumento in genere tende a pensare a quale sarebbe la risposta auspicabile e ad esprimere le convinzioni socialmente più accettabili e desiderabili. Questo limite è particolarmente evidente allorché lo strumento non è anonimo o è somministrato in situazioni tali da far sospettare che l’anonimato non sarà garantito

  nella capacità di introspezione per cui chi compila può non essere capace di immaginare alcune delle situazioni ipotetiche proposte, anche a cause di limiti a livello metacognitivo, frequentemente legati all’età, oppure può fornire risposte che riguardano più il sé ideale che non il sé reale

una seconda possibilità è data dalle tecniche osservative. Queste consistono nel guardare il comportamento, in genere senza intervenire, e nel valutare alcuni aspetti, che possono essere assunti come indici di motivazione, precedentemente definiti in base agli scopi e tenendo conto delle teorie sottostanti. Esistono differenti tecniche di osservazioni, che si distinguono per numerosi aspetti, 2 dei quali sono particolarmente cruciali per quanto riguarda la motivazione:

§ il primo aspetto riguarda la partecipazione dell’osservatore in genere si distingue fra un osservazione partecipata, in cui l’osservatore è presente nel contesto dove si trovano gli osservati e, a volte, interagisce anche con loro, da un’osservazione non partecipata, caso in cui gli osservati non sanno di essere guardati, ad esempio quando vengono visti attraverso uno specchio unidirezionale

§ il secondo la distribuzione dei tempi di osservazione è possibile distinguere fra tecniche che prevedono una lunga osservazione o videoregistrazione, dalla quale vengono estrapolati i comportamenti di interesse, anche in momenti successivi se il tutto è registrato, e tecniche che, invece, prevedono l’osservazione e la registrazione di alcuni segmenti, ad esempio 10minuti ogni ora di lezione oppure il momento iniziale della lezione, il momento dell’interrogazione, ..

L’osservazione, comunque condotta, prevede una preliminare riflessione sui comportamenti specifici che vogliono essere osservati e su quanto questi riflettono il costrutto che si vuole indagare, riflessione spesso collegata ad aspetti teorici e a conoscenze derivanti da ricerche precedenti, ma a volte anche dalla più o meno facile accessibilità di alcuni comportamenti e dalla frequenza con cui effettivamente di manifestano. Alcuni VANTAGGI dell’osservazione riguardano la possibilità di:

cogliere aspetti che non vengono sufficientemente evidenziati con i questionari, perché legati a limiti di introspezione

essere adottata anche per bambini piccoli che ancora non sanno leggere e scrivere e quindi comprendere e compilare dei questionari

ottenere molti dati relativi a diversi aspetti motivazionali anche in relazione a situazioni e richieste differenti per strutturazione e contenuti

esaminare il costrutto motivazionale nel contesto sociale e culturale esaminato, piuttosto che in forma più staccata dalla realtà concreta, che è quella espressa negli item dei vari questionari

Per quanto riguarda i LIMITI, questi si riferiscono:

  al tempo richiesto nella fase di raccolta dei dati e, forse ancora di più, nella successiva codifica dei comportamenti e nella trasformazione in indici (numeri o livelli) che possono essere analizzati o comunque considerati al fine di effettuare un qualche paragone ad esempio con i comni o, negli studi longitudinali, fra osservazioni compiute in momenti diversi

  all’osservatore, che dev’essere una persona addestrata, ben preparata all’osservazione e particolarmente attenta alla modalità con cui interviene, nei casi di osservazione partecipata

infine, un’ulteriore possibilità è quella di dedurre lo stato motivazionale da alcuni comportamenti. Uno di questi, che è stato particolarmente studiato e per cui i pericoli precedentemente menzionati assumono particolare peso, riguarda la persistenza, cioè la quantità di tempo impiegata e le strategie utilizzate nello svolgere compiti estremamente difficili o resi impossibili per effetto di manipolazioni sperimentali. L’idea sottostante è che se un soggetto è molto motivato, in particolare alla riuscita o alla sfida, oppure è orientato tendenzialmente alla padronanza e attribuisce la riuscita all’impegno, persiste di più perché vuole riuscire ed è convinto che il successo dipende da sé e da come il compito è stato affrontato. In realtà, la persistenza è un buon indicatore di motivazione per molte delle teorie della motivazione all’apprendimento. Considerare unicamente la misura del tempo speso può però essere riduttivo se non si tiene conto di cosa il soggetto fa in quel tempo e cioè delle strategie adottate e delle motivazioni adottate nell’abbandonare il compito. Comunque, la persistenza può essere vista come un sinonimo dell’impegno e dello sforzo prodigato. Questo impegno può significare 'lavorare sodo e a lungo' oppure ' cercare la strategia migliore' per affrontare il compito ed eventualmente interrogarsi sull’impossibilità di soluzione, attraverso una serie coordinata di processi metacognitivi di conoscenza e di controllo. L’abbandono del compito può significare ridotta persistenza se il soggetto esprime disinteresse, scarso coinvolgimento, senso di sfiducia e mancanza di capacità, mentre può esprimere una corretta motivazione e un ancora più adatto livello strategico se il soggetto si rende conto dell’impossibilità di soluzione o se, nei vari tentativi di risoluzione, cerca di adottare differenti strategie e di controllarne l’efficacia, modificandole in itinere. Quindi la poca persistenza, se questa significa solo 'tempo impiegato nel cercare di risolvere il compito', può a volte indicare un buon livello motivazionale e strategico. Di conseguenza, una corretta valutazione delle persistenza andrebbe fatta considerando anche come lo sforzo è concepito, le strategie adottate nel risolvere il compito e il motivo dell’abbandono




III.    La scelta della modalità di misura più adeguata.

Lo strumento utilizzato e il metodo impiegato per misurare la motivazione sono variabili particolarmente importanti nel determinare un certo tipo di risultato. La diversa metodologia può fornire la spiegazione di alcuni dati di ricerca parzialmente contrastanti oppure del mancato ottenimento di effetti positivi in un intervento mirato a sostenere la motivazione ad apprendere. Nello scegliere gli strumenti e la modalità per misurare la motivazione, gli stili o le convinzioni è importante valutare alcuni importanti elementi, quali:

le caratteristiche e l’età dei soggetti è importante tenere conto delle capacità di comprensione e di verbalizzazione, in alcuni casi non ancora completamente sviluppate. I bambini possono, ad esempio, in caso di questionario, non capire le domande, oppure, in caso di intervista, non riuscire ad esprimere in forma verbalmente corretta una loro risposta. Se esistono già delle risposte codificate, ad esempio in caso di domande con risposta a scelta multipla, si mantiene il rischio che il bambino, se non comprende bene la richiesta, risponda in modo casuale. Difficoltà simili possono essere trovate nel caso in cui vengano testati soggetti che presentano ritardo mentale o difficoltà di apprendimento circoscritte agli aspetti di comprensione e verbali. A questi limiti se ne aggiungono altri legati allo sviluppo cognitivo e alle capacità di ragionamento. Sembra quindi che, con queste particolari categorie di soggetti, sia più opportuno ricorrere a tecniche di tipo osservativo. Il limite di queste tecniche è che però, oltre agli aspetti illustrati prima, non consentono (o consentono solo parzialmente) di valutare alcuni costrutti motivazionali, in particolare quelli che riflettono elementi di tipo cognitivo, come le attribuzioni, i valori e le aspettative. È da osservare che la rilevanza di questi limiti risiede anche nel fatto che i bambini e i soggetti con difficoltà sono anche le categorie che più frequentemente abbisognano di interventi a sostegno della motivazione e quindi di una qualche misurazione degli aspetti motivazionali

le peculiarità del costrutto che si intende misurare al fine di una più agile riflessione sulle difficoltà che si possono incontrare, è interessante disti qualche misurazione deglinguere fra questionari e interviste, da un lato, e osservazione, dall’altro:

§ QUESTIONARI E INTERVISTE per quanto riguarda il contenuto e il tipo di domanda, ad esempio le situazioni ipotetiche proposte, è importante che questo sia familiare per il bambino e quindi faccia riferimento a situazioni già vissute, cose note, meglio se relativamente recenti o comunque frequenti. Gli item svolti al positivo sono di per sé semplici da capire e comunque anche più facilmente accettati, trattandosi di situazioni che si sono risolte senza problemi o comunque di successi. In alcuni casi è possibile prevedere che l’item o la domanda siano parafrasati se il bambino dimostra o dichiara apertamente di non aver compreso. Per quanto riguarda la forma e la modalità di risposta, la scelta fondamentale da compiere è quella fra risposte aperte, cui il bambino può rispondere liberamente, oppure risposte strutturate di diverso tipo: scelta multipla, vero o falso, valutazioni su scale tipo Likert, scelta fra 2 possibilità opposte, .. Alcuni autori ritengono particolarmente importante consentire ai bambini di esprimersi con le proprie parole piuttosto che forzarli a scegliere fra risposte precostituite o a valutare dimensioni o aspetti definiti esternamente. Le risposte aperte, in effetti, non risentono del limite legato al fatto che il bambino potrebbe rispondere a caso oppure fornire le risposte che ritiene come socialmente più accettabili e che, in definitiva, sostengono il bisogno di affiliazione. È anche vero però che, attraverso risposte aperte, possono emergere differenze che non sono dovute al costrutto che si intende misurare, ma alle abilità verbali (es: alla capacità di tradurre in parole il proprio pensiero). Le risposte aperte, inoltre, richiedono maggiori cautele in caso di valutazione, particolarmente se la persona che valuta è la stessa che ha somministrato le domande o comunque conosce la persona che sta valutando o gli scopi della ricerca che sta conducendo. La conoscenza degli scopi e delle ipotesi di lavoro oppure della persona che viene valutata può, infatti, condurre a prestare maggiore attenzione a quei dati che confermano l’ipotesi posseduta e a non vedere, invece, quegli elementi che potrebbero smentire l’idea originale. È quindi evidente che la scelta di operare attraverso l’uso dell’una o dell’altra modalità di risposta va effettuata tenendo conto dei vantaggi e dei limiti di ognuna e che la situazione ottimale è quella in cui possono essere considerate entrambe le modalità di risposta. Un ulteriore aspetto importante da valutare nel predisporre o nello scegliere uno strumento è la modalità di presentazione e di risposta. Lo strumento può essere letto direttamente dal ragazzo, se è capace, o da un operatore, un insegnante o un ricercatore, nei casi in cui il bambino possa incontrare difficoltà nella lettura o ancora non sappia leggere. Per i bambini di scuola materna è importante considerare anche chi pone le domande. Con persone familiari il bambino potrebbe esprimere delle risposte che non esprime con altri oppure potrebbe avvenire il contrario, cioè il bambino potrebbe sentirsi più libero di esprimersi quando parla con estranei. Ulteriori aspetti possono riguardare la scelta fra una somministrazione individuale, a piccoli gruppi o collettiva; oppure la presentazione di vignette o filmini, invece che di materiale verbale (così pure anche le possibili risposte)

§ OSSERVAZIONE a sua volta, la predisposizione di un’osservazione implica una valutazione dei seguenti aspetti:

§ i comportamenti che si intendono osservare

§ gli indici da raccogliere, ad esempio la sola presenza o assenza di un dato comportamento o la sua frequenza e durata

§ la durata dell’osservazione e l’eventuale suddivisione in intervalli temporali

§ la scelta delle situazioni in cui effettuare l’osservazione, ad esempio costruite sperimentalmente o naturali

§ la decisione di effettuare un’osservazione partecipata o di guardare senza essere visti

Tutti questi aspetti vanno valutati rispetto al costrutto che si intende misurare, oltre che considerando i limiti legati alla situazione o alle caratteristiche dei soggetti. Ad esempio, se si vogliono studiare le motivazioni espresse in situazioni di ripetuto fallimento può essere più opportuno introdurre dei compiti volutamente fallimentari, perché troppo difficili o addirittura impossibili, piuttosto che aspettare che naturalmente si verifichino delle situazioni di insuccesso. In ricerche di questo tipo è una prassi deontologica riconosciuta quella di far seguire dei successi alle situazioni fallimentari al fine di evitare emozioni e sentimenti negativi per il bambino, quali, in particolare, la frustrazione. Al contrario, se si vuole misurare quanto il bambino tende ad evitare le varie situazioni di apprendimento, nel timore di fallire o nell’idea di non essere capace, è più opportuno considerare i comportamenti spontanei in normali situazioni di apprendimento, ad esempio durante una lezione o in occasione delle verifiche in classe.

Qualunque sia la tecnica o metodologia adottata, un aspetto particolarmente importante riguarda la persona che osserva e la relazione fra questa e gli osservati. Il bambino può mostrare o meno certi comportamenti a seconda della persona che lo guarda e rispondere in modo differente a seconda di chi propone il questionario. Anche l’osservatore o chi propone lo strumento, inavvertitamente, può lasciarsi guidare da ipotesi o da idee preconcette e stereotipi. Al fine di minimizzare gli effetti di disturbo causati da queste attese precedenti all’osservazione o alla somministrazione del questionario è possibile predisporre un’osservazione partecipata in cui l’osservatore abbia però già una traccia di come operare. In quest’ultimo modo l’osservazione e l’intervista (o questionario) potrebbero essere messi assieme in quanto l’intervistatore-osservatore potrebbe sia riportare su apposite griglie specifici comportamenti che, nel contempo, elicitare riposte di tipo verbale attraverso l’uso di opportuni strumenti. Questa procedura, benché più lunga e complessa, consentirebbe di ottenere più dati e anche di colmare con una metodologia i limiti dell’altra, pur mantenendo i vantaggi offerti da entrambe. Molte delle indicazioni e cautele riportate possono essere applicate non solo in soggetti in età di sviluppo (per i quali il problema della motivazione è fondamentale), ma anche in soggetti adulti, i quali, pur non presentando o presentando in misura minore difficoltà legate alla comprensione o alle abilità verbali possono, forse ancora più dei bambini, esprimere la desiderabilità sociale.


IV.    Un esempio. La misura dello stile attributivo.

Lo stile attributivo costituisce un insieme di convinzioni personali sui motivi per cui si ottengono determinati risultati. In quanto stile tendente alla stabilità, ma soggetto a sviluppo per effetto dell’età, può essere misurato allo scopo di individuare a quali cause il soggetto tende ad attribuire i propri e gli altrui successi e insuccessi. La modalità di misura più frequente dello stile attributivo è il questionario. In una rassegna, Weiner considera i 3 principali gruppi di problemi a cui si va incontro nel predisporre o scegliere un adeguato strumento di misura dello stile attributivo:

§ un primo tipo di problema riguarda il modo in cui il soggetto interpreta la situazione ipotetica. Il fallimento in una data attività è vissuto in modo diverso a seconda dei valori, degli obiettivi e delle aspettative nutrite rispetto a quell’ambito. Le situazioni ipotetiche proposte, inoltre, possono essere distanti dalla realtà del soggetto, trattandosi di casi mai avvenuti o accaduti molto tempo prima. Infine, in particolare i bambini possono non immedesimarsi e non accettare il fallimento ipotetico sostenendo che a loro non è mai successo di sbagliare in quel tipo di compito o di fallire in un dato ambito. Questo primo tipo di problema richiede particolari attenzioni nella scelta del tipo di situazioni da proporre, in particolare per quelle di insuccesso. Questa è la ragione per cui, in particolare con i bambini, alcuni autori hanno suggerito di utilizzare scenette o filmini piuttosto che descrizioni verbali

§ un secondo problema si riferisce al numero e al tipo di attribuzioni proposte, che possono risultare insufficienti o poco appropriate. In genere, in molti strumenti vengono fornite 4 o 5 cause possibili con l‘indicazione di sceglierne alcune, di fare una graduatoria o di valutarle, ognuna per l’importanza che ha nel contribuire a spiegare l’evento. Tale modalità costituisce un vantaggio, in quanto consente di riflettere solo su poche possibilità, che, in base alla teoria, risultano essere le più frequenti. Il limite sta nel fatto che alcune cause, che potrebbero essere prodotte spontaneamente, in realtà non vengono espresse perché non sono previste fra le possibili risposte. Un ulteriore problema legato al tipo di attribuzioni proposte si riferisce, in particolare, ai bambini piccoli, per i quali ci possono essere concreti problemi di comprensione delle cause, ad esempio di confusione fra abilità e impegno, che vengono visti come un’unica causa interna

§ una terza difficoltà deriva dal modo in cui il soggetto interpreta le cause, che può essere diverso da quello previsto dalla teoria. Ciò comporta problemi legati alla scelta del tipo di attribuzioni o cause. Queste osservazioni hanno portato a pensare a metodi di misurazione del sistema attributivo che considerino adeguatamente il significato che il singolo attribuisce alla situazione ipotetica e alla causa che, in quanto etichetta verbale, potrebbe in realtà rappresentare cose diverse

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§ Secondo Russel, McAuley e Tarico, metodi adeguati di valutazione dello stile di attribuzione sono le domande aperte (proposte da sole o prima della scelta di cause) e la valutazione delle dimensioni sottostanti, ad esempio quanto l’attribuzione è interna, quanto è stabile, quanto è specifica, .. Inoltre, sarebbe opportuno considerare situazioni concrete piuttosto che ipotetiche e valutare, in tali situazioni, non solo se il soggetto è riuscito o ha fallito, ma anche se e quanto bene crede di essere riuscito. È infatti importante tenere conto delle aspettative e del valore dato al compito e alla situazione. In molti casi, infatti, a seconda delle aspettative e dell’importanza data al compito, uno stesso risultato può rappresentare un successo per una persona e un insuccesso per un’altra.

§ Analogamente, Benson suggerisce che il metodo migliore consiste nel chiedere al soggetto perché è/ non è riuscito (domanda aperta) e, successivamente, nel valutare le dimensioni dell’attribuzione fornita. Secondo l’autore tale valutazione andrebbe fatta in una situazione concreta e tenendo conto preliminarmente dell’ansia, delle aspettative, della motivazione verso lo specifico compito e del livello di autoefficacia percepita.

§ De Beni, Mazzoni e Fagotto hanno proposto di fornire anziché solo 4 o 5 cause, tutte le cause possibili secondo la tipologia di Weiner (interna/esterna; stabile/instabile; controllabile/incontrollabile).

§ Altri autori, che si sono occupati dello studio del sistema attributivo di bambini piccoli, hanno puntualizzato che anche i bambini di scuola materna possono esprimere correttamente delle attribuzioni se viene posta loro la giusta domanda.

Negli anni sono stati proposti numerosi strumenti per misurare lo stile attributivo. Le situazioni possono riguardare l’apprendimento, la vita quotidiana, lo sport o altro e, in genere, prevedono per metà successi e metà insuccessi, perché, in genere, le spiegazioni date agli eventi positivi sono diverse da quelle date a quelli negativi (vedi: errore fondamentale di attribuzione). A volte può essere proposta anche una sola situazione con l’indicazione di valutare quanto, attraverso scale tipo Likert, una serie numerosa di cause (16 o 25) può avere contribuito all’evento. L’uso di una sola situazione può essere riduttivo, in quanto uno strumento efficace dovrebbe misurare sia l’aspetto individuale sia le differenze maggiormente legate alla situazione, ma è utile in situazioni specifiche, ad esempio nell’analisi di casi singoli, che presentano particolari difficoltà d’apprendimento che potrebbero essere imputate ad un sistema attributivo poco funzionale. In italiano sono disponibili il Questionario di attribuzione, con taratura riferita a studenti dagli 11 ai 20 anni e la Prova di attribuzione. Questi strumenti permettono di valutare quanta importanza viene attribuita all’impegno, all’abilitò, alla facilità o difficoltà del compito, alla fortuna o all’aiuto nel successo e nell’insuccesso in situazioni di apprendimento scolastico, di vita quotidiana e di memoria. La Prova di attribuzione (per i bambini fino ai 10 anni) risente di alcuni dei limiti descritti all’inizio di questo paragrafo. È stato dimostrato che quando il bambino è invitato ad esprimere le attribuzioni relative ad un successo o ad un insuccesso immediatamente dopo aver svolto il compito, riesce a distinguere meglio fra i tipi diversi di cause e a riconoscere come causa principale l’impegno più precocemente rispetto al caso in cui gli vengano proposte verbalmente delle situazioni ipotetiche. Questo risultato serve ad illustrare l’importanza dello strumento o della tecnica utilizzati e indica come con procedure diverse si possano ottenere misurazioni differenti. In realtà, dal punto di vista pratico, tale procedura, anche se inserita nella normale attività scolastica, richiede tempi considerevolmente più lunghi rispetto alla somministrazione di un questionario come la Prova di attribuzione e, soprattutto, non consente di valutare il sistema attributivo in una molteplicità di situazioni riguardanti l’apprendimento, la memoria, la vita quotidiana, limitandosi ad un solo contesto, mentre è noto dalla letteratura che, a seconda delle situazioni, anche nell’ambito dell’apprendimento, uno stesso soggetto può formulare cause differenti circa il motivo dei propri successi e insuccessi. Inoltre, dal punto di vista teorico, resta aperta la possibilità che attraverso tale procedura non venga misurato lo stile attributivo consolidato del soggetto, ma la reazione attributiva immediata che dipende dal risultato ottenuto e quindi un costrutto che si avvicina più alla motivazione di quel momento che non ad un effettivo stile di motivazione.


  1. STILI DI MOTIVAZIONE.

Questo modulo verrà dedicato all’esame delle caratteristiche più o meno adattive dei vari stili motivazionali, con particolare attenzione agli effetti dello stile motivazionale sull’apprendimento e sulla prestazione e a quanto questi effetti siano compatibili oppure in competizione con altre funzioni degli stili. Ogni stile ha proprie caratteristiche, che lo rendono motivante o demotivante e, quindi, più o meno funzionale all’apprendimento. Negli stili di motivazione, come ad esempio l’autoregolazione, prevale il senso di controllo sulla situazione e la possibilità di soddisfare i propri bisogni innati. Negli stili di demotivazione sono prevalenti l’inadeguata adozione di strategie di apprendimento, la scarsa percezione di competenza e una bassa aspettativa di successo. L’assenza di motivazione è un terzo concetto che si distingue dai 2 precedenti, in quanto mancano atteggiamenti di attrazione, interesse o spinta o, al contrario, di evitamento o rinuncia.


I.    Funzionalità e circolarità degli stili.

A cosa dovrebbe essere funzionale un buono stile di motivazione?? Un primo aspetto dovrebbe riguardare quanto lo stile motivazionale risulta favorire oppure rendere difficoltosa l’acquisizione di contenuti e/o di abilità, con i conseguenti riflessi sulla prestazione scolastica. Nel corso del volume, trattando le varie teorie motivazionali, sono stati fatti espliciti riferimenti all’efficacia dell’una o dell’altra motivazione per l’apprendimento. È evidente che stili che contemo le motivazioni che sono state descritte come più funzionali per l’apprendimento, sono essi stessi funzionali. Naturalmente esistono anche stili che contemo tipi di motivazioni con diversa efficacia per l’apprendimento e la cui funzionalità deriva non dalla singola spinta motivazionale, ma dalle relazioni che si instaurano fra le differenti motivazioni e fra queste e aspetti strategici. Infine il tutto dipende anche dalle abilità e conoscenze precedenti del singolo e dallo specifico contesto sociale e culturale. Altre funzioni degli stili motivazionali riguardano aspetti diversi dall’apprendimento, ma non per questo meno importanti o privi di effetti sulla prestazione. Questi possono riguardare la protezione dell’autostima e del concetto o immagine di sé, la possibilità di stimolare la percezione di controllo e di responsabilità per i propri risultati, l’adeguata risposta a bisogni innati o a pressioni esterne. In alcuni casi queste funzioni sono compatibili con la funzione di apprendimento, in altri si crea una competizione che, a seconda degli obiettivi, dei valori e della situazione, può condurre al prevalere dell’una o dell’altra funzione o al crearsi di situazioni più conflittuali e problematiche. A questo si aggiunge il fatto che uno stesso stile può, a seconda dei casi, essere più o meno funzionale all’apprendimento. Questo vale, ad esempio, per uno stile caratterizzato da impegno nel compito e dal riconoscimento che è attraverso l’impegno che si possono ottenere buoni risultati. Tale stile, in apparenza buono e funzionale per l’apprendimento può, invece, essere più o meno motivante a seconda di alcune differenti e spesso fondamentali caratteristiche:

§ la prima di queste riguarda il tipo di impegno. È possibile distinguere un impegno strategico, caratterizzato dalla ricerca di modalità efficaci per riuscire e dalla conoscenza degli obiettivi specifici verso cui si tende, da un impegno non strategico che significa essenzialmente lavorare sodo o comunque spendere molto tempo sul compito, senza in realtà riflettere sulle modalità per affrontarlo il più efficacemente possibile. È evidente che il primo tipo di impegno è più funzionale all’apprendimento del secondo. Anzi, il secondo può risultare disfunzionale nella misura in cui il soggetto vive una sproporzione fra il tempo e la fatica spesi e i risultati in realtà ottenuti, per cui si sente insoddisfatto e poco efficace e può tendere a perdere fiducia e a ridurre i tempi di studio, piuttosto che a ricercare modalità più adeguate e strategiche per affrontare le diverse situazioni

§ una seconda caratteristica riguarda la contrapposizione fra impegno reale e impegno dimostrato. ½ sono studenti che si impegnano a lungo, ma dichiarano di aver studiato poco. Tale modalità di porsi è funzionale alla protezione dell’immagine di sé, in quanto di fronte ad un fallimento non vengono messe in dubbio le abilità o caratteristiche della persona, ma l’insuccesso è semplicemente imputato all’impegno insufficiente o al poco studio. Così, le abilità della persona, come percepite dagli altri, rimangono preservate, mentre il singolo, conoscendo il tempo realmente speso, può cominciare a dubitare delle proprie competenze. La funzionalità è quindi limitata, in particolare in caso di insuccesso, alla protezione dell’immagine pubblica di sé, ma non alla protezione della personale percezione di autoefficacia e della fiducia in sé. Tale stile si conura, pertanto, come uno stile tendenzialmente demotivazione, che può condurre a ritirare realmente l’impegno allo scopo di evitare di sembrare incapaci anche di fronte a se stessi. Il ritiro dell’impegno, anche a causa del tempo insufficiente dedicato allo studio, può portare a reali situazioni di insuccesso scolastico

§ una terza caratteristica dell’impegno può essere riferita ad una contrapposizione fra impegno come stato o come tratto. La prima definizione fa riferimento ad un impegno variabile a seconda della situazione, che può richiedere maggiori o diverse risorse. La seconda considera l’impegno come sinonimo di zelo o, in una accezione forse un po’ più negativa, di testardaggine. In tal caso l’impegno riflette più il desiderio, a volte ostinato, di raggiungere determinati risultati che il coinvolgimento nel compito, vissuto con il piacere della sfida. In entrambi i casi possono essere raggiunti buoni risultati di apprendimento. La differenza sta nel fatto che l’impegno come stato è probabilmente accomnato da livelli di piacere e soddisfazione superiori e da una ricerca e riflessione più accurata sulle strategie più efficaci, mentre nell’impegno come tratto la modalità è quella di dare il meglio di sé e lavorare per obiettivi, a volte con il timore di fallire, e con un approccio che porta a perpetuare strategie già note, magari anche efficaci, ma che non danno il gusto del nuovo e della sfida. Quindi l’impegno come stato è probabilmente più motivante dell’impegno come tratto. In alcuni casi non si esclude però che siano entrambi presenti in un soggetto

In questa ricerca della funzionalità è implicito lo scopo di individuare una relazione fra motivazione e apprendimento oppure motivazione e autostima o motivazione e protezione dell’immagine di sé. Per quanto riguarda l’esistenza di aspetti che mediano la relazione fra motivazione e apprendimento, un importante elemento riguarda poi l’uso di strategie. Si può quindi pensare ad un insieme di reciproche influenze fra aspetti strategici e motivazionali che conduce ad affrontare efficacemente il compito e, di conseguenza, a buoni risultati. Tutto questo apre il discorso della circolarità, per cui, tendenzialmente, la relazione fra motivazione e apprendimento può essere pensata come bidirezionale. Tale bidirezionalità può concretizzarsi in un circolo virtuoso (stili di motivazione) se si instaura uno stile motivazionale efficace in cui buone motivazione sostengono lo sforzo e conducono a risultati positivi che a loro volta sostengono la motivazione oppure in un circolo vizioso (stili di demotivazione), in cui motivazioni inadeguate, assenti o conflittuali possono condurre a difficoltà strategiche e di studio che si riflettono, inevitabilmente, sui livelli di prestazione scolastica. Le ridotte prestazioni, a loro volta, in un processo circolare, possono influenzare in senso negativo la motivazione ad apprendere.


II.  Stili di motivazione.

Le caratteristiche di uno stile di motivazione dovrebbero essere numerose e positive, essendo implicito, per definizione, che si tratta di un sistema funzionale. In realtà, esistono diversi stili di motivazione, ognuno con le sue peculiarità. Ciò che accomuna maggiormente i diversi stili motivazionali e li contraddistingue da altri meno adattivi sono 2 elementi:

§ il primo si riferisce al senso di controllo personale sulla propria prestazione la possibilità di sentirsi artefici dei propri risultati e di esercitare un controllo sulle situazioni, ad esempio attraverso la scoperta che è possibile utilizzare delle strategie per riuscire, accresce il senso di padronanza e la percezione di efficacia. Il soggetto tende ad acquisire fiducia in sé e a sviluppare convinzioni positive, quale quella di avere abilità adeguate per affrontare il compito. Questi elementi possono predire la quantità di impegno e la persistenza nell’esecuzione del compito e, in ultima analisi, influenzare positivamente i livelli di apprendimento e la prestazione

§ il secondo alla possibilità di soddisfare efficacemente importanti bisogni innati la risposta positiva e adattiva a bisogni quali l’autodeterminazione, la competenza, l’affiliazione e la curiosità, è una componente motivazionale importante perché riflette il soddisfacimento di necessità insite nella natura umana, attraverso forme e modalità di espressione adeguate e in situazioni socialmente accettate e condivise. Ciò non significa solo che i bisogni sono soddisfatti e che quindi la sottostante carica energetica è liberata o (in alcuni casi) addirittura accresciuta, ma anche che questo modo di porsi è sostenuto, o comunque approvato, dall’ambiente. Proprio da questa possibilità di esprimente i bisogni personali in forme socialmente adeguate sorge lo stile, inteso come sistema positivo autorigenerantesi

Tenendo quindi conto di questi 2 importanti elementi vengono qui di seguito descritti 3 differenti tipi di stili, i primi 2 più di tipo generale, il terzo più specifico in quanto comprende più stili:

il primo stile è quello caratteristico dell’autoregolazione. Un soggetto autoregolato è indipendente, partecipe, attivo e flessibile nell’uso di differenti strategie ed esercita un buon controllo metacognitivo. Elementi caratteristici dell’autoregolazione sono l’uso prevalente e ragionato di strategie di studio profonde e la capacità di modificare il proprio atteggiamento di fronte al compito, al fine di mantenere la motivazione, nonostante le distrazioni. Quale conseguenza di tale atteggiamento flessibile lo studente autoregolato tende a percepire livelli superiori di autoefficacia, ad esprimere motivazioni di tipo intrinseco e, infine, ad ottenere prestazioni superiori. Lo studente autoregolato, pertanto, non differisce nello specifico tipo di motivazione posseduta, ma nella capacità di modificare la qualità della propria motivazione a seconda delle richieste del compito, attraverso l’uso efficace di adeguate strategie di apprendimento. Le tipiche strategie di apprendimento adottate da uno studente autoregolato sono: elaborare, parafrasare, riassumere, prendere appunti, fare domande, tutte strategie di tipo attivo, mirate alla comprensione profonda del materiale e alla sua integrazione. Lo studente autoregolato usa poco le strategie di tipo superficiale, quali copiare e provare ad indovinare le risposte, tendenti alla mera riproduzione dei contenuti e ad ottenere il massimo con il minimo sforzo. L’applicazione di strategie attive consente di eliminare le distrazioni, di mantenere un’attenzione focalizzata e di incrementare la percezione di controllo personale. In tal modo, lo studente riesce a sentirsi artefice dei propri risultati di apprendimento. Ed è proprio da questo atteggiamento caratterizzato dall’uso di strategie di elaborazione, da pensiero critico e da buone capacità di regolazione metacognitiva che conseguono un impegno strategico nell’esecuzione del compito e livelli adeguati di persistenza. L’impegno e la persistenza si riflettono direttamente sui livelli di motivazione, che aumenta. In tale sistema, la motivazione ad apprendere risulta accresciuta sia per effetto dell’insieme di atteggiamenti assunti durante l’esecuzione del compito sia quale conseguenza dei positivi risultati di apprendimento ottenuti. Ed è proprio in questo meccanismo in cui si collegano aspetti motivazionali, atteggiamenti e prestazioni che si può riscontrare la circolarità del modello. Alcuni autori ritengono addirittura che questo atteggiamento flessibile e autonomo non solo riflette e consente buoni livelli di motivazione, ma può essere considerato esso stesso motivazione. L’autoregolazione, infatti, richiama l’autodeterminazione, la scelta autonoma di obiettivi di apprendimento, il riconoscimento dell’impegno quale causa principale dei propri risultati e la percezione di controllo tipica dello studente autoefficace, tutti elementi caratteristici delle principali teorie della motivazione ad apprendere

il secondo stile fa esplicito riferimento al concetto di volontà. Di fronte ad una pluralità di situazioni di apprendimento lo studente spesso prova motivazione o semplicemente entusiasmo per aspetti positivi quali la possibilità di esercitare padronanza, la curiosità, la motivazione alla riuscita oppure anche per elementi più di tipo esterno, legati alla prestazione o al bisogno di approvazione e accettazione da parte degli altri. Dopo questo primo impatto iniziale, di per sé motivante, capita però frequentemente di assistere ad un calo o addirittura ad una perdita della motivazione che favorisce fenomeni di demotivazione che possono comportare il ritiro dal compito o l’abbandono della situazione. Questo avviene particolarmente quando vi sono delle carenze nella capacità d’uso di strategie volitive, cioè di quelle procedure atte a mantenere nel tempo le originarie motivazioni e intenzioni o addirittura ad incrementarle. Tali strategie si distinguono da altre, già precedentemente esaminate, principalmente per la funzione di mantenere e sostenere una motivazione già esistente. Alcune di queste strategie sono, in realtà, le stesse che conducono alla motivazione e cioè la curiosità, l’interesse, il desiderio di sfida, la tendenza al successo, la possibilità di vivere emozioni positive, il rispecchiarsi, nella specifica attività, di valori importanti per la realizzazione di sé. Altre strategie sono invece maggiormente caratteristiche del concetto di volontà. Queste si riferiscono a quelle procedure che lo studente mette in atto per affrontare i momenti di stanchezza, che normalmente accomnano un’attività che si protrae nel tempo, o per mantenere focalizzata l’attenzione nel compito da svolgere, contro la tentazione di intraprendere altre attività distraesti o viste come più attraenti, facili e veloci. Esempi tipici di strategie volitive sono: stabilire obiettivi distali da tenere presenti nei momenti di stanchezza, ricercare modalità per vivere comunque il compito come una sfida, cambiare strategie di studio, utilizzare flessibilmente motivazioni di tipo intrinseco o estrinseco oppure obiettivi di prestazione o padronanza. L’uso di queste strategie e soprattutto la capacità di riflettere su come si sta affrontando il compito e sull’efficacia delle strategie che si stanno utilizzando costituiscono gli elementi che consentono di mantenere o incrementare la motivazione e quindi di sostenere la volontà. La circolarità di questo stile di motivazione risiede pertanto nella capacità, di tipo metacognitivo e autoregolatorio, di sostenere la motivazione ad apprendere, consentendo di raggiungere, attraverso sforzi prodigati nel tempo e per mezzo della ricerca di strategie efficaci, gli obiettivi prefissi. Il raggiungimento degli obiettivi costituisce un feedback che sostiene la motivazione, conferma l’efficacia delle strategie volitive utilizzate e avvalora le proprie abilità e capacità di controllo metacognitivo. Tutto ciò consente e conferma l’emergere di uno stile che, a partire dalle motivazione, sostiene l’uso di strategie di studio e motivazionali di tipo volitivo e produce effetti sulla persistenza e sui risultati. I risultati positivi, a loro volta, incrementano il desiderio di imparare e quindi l’originaria motivazione ad apprendere



I 2 stili presi in considerazione riguardano abilità di tipo macro, quali quelle autoregolatorie e quelle inerenti i processi di volontà

il terzo gruppo di stili, invece, fa riferimento ad una specifica classificazione proposta da Eronen, Nurmi e Salmela-Aro, la quale comprende sia stili di motivazione che stili di demotivazione. I motivi per cui più tipi di stili sono stati messi assieme sono essenzialmente 2:

§ il primo, di tipo più generale, è che anche gli stili di demotivazione hanno una loro funzionalità, benché non riferita all’apprendimento, per cui è importante capire perché questi stili si formano e come si mantengono

§ il secondo riguarda il fatto che gli stili, per quanto tendenti alla stabilità, non sono rigidi

Una classificazione per dimensioni consente di individuare le possibilità di passaggio dall’uno all’altro stile e, di conseguenza, le modalità attraverso cui incrementare la motivazione ad apprendere a partire da un processo circolare sottostante meno funzionale fino a renderlo più funzionale. Eronen, Nurmi e Salmela-Aro hanno individuato 4 stili che si differenziano per le capacità di pianificazione, le emozioni positive e negative provate in situazioni di apprendimento, l’entusiasmo nell’iniziare il compito e la presenza di comportamenti distraesti:

§ il primo stile è stato definito come ottimistico. È uno stile di motivazione, caratterizzato da una prevalenza di emozioni positive sulle negative, da buone capacità organizzative e da una concentrazione focalizzata sulle modalità e sulle strategie più efficaci per affrontare il compito, piuttosto che sui risultati o sui giudizi che possono derivare dalla prestazione ottenuta

§ il secondo stile, chiamato difensivo-pessimistico, si caratterizza per la presenza di buone capacità di pianificazione, ma anche di emozioni negative o miste. Chi rientra in questo stile tende ad avere aspettative di riuscita negative e a temere il fallimento. La paura dell’insuccesso costituisce, in questo caso, la motivazione che predispone ad affrontare con tenacia, organizzazione, strategicità e, in genere, anche con successo, le diverse situazioni di apprendimento

§ il terzo stile, che è il self-handicapping, è caratterizzato dalla presenza di comportamenti irrilevanti per il compito, da poca pianificazione e concentrazione e da emozioni negative. Questo insieme di emozioni, motivazione e strategie poco efficaci si ripercuote sulle prestazioni che spesso risultano non essere adeguate

§ il quarto stile, definito come impulsivo, assomiglia al precedente per quanto concerne la ridotta pianificazione e strategicità, mentre differisce per l’aspetto emotivo e l’assenza di comportamenti irrilevanti. Chi rientra in questo stile tende a provare un buon entusiasmo iniziale, sostenuto da emozioni positive, ma a perseverare e concentrarsi poco successivamente, a causa del venir meno della spinta motivazionale e di importanti limiti a vari livelli: strategico, motivazionale e organizzativo

Questa classificazione è interessante in quanto consente di distinguere fra 2 differenti parametri di valutazione della funzionalità, e cioè fra successo e soddisfazione. Tutto questo rimanda al discorso iniziale della funzionalità, per cui

§ lo stile ottimistico è funzionale nel mantenere un buon livello emotivo e un adeguato senso di soddisfazione

§ lo stile difensivo-pessimistico nel consentire buone prestazioni ed elevati livelli di strategicità e organizzazione

§ lo stile self-handicapping nel preservare l’immagine di competenza

§ lo stile impulsivo nel sostenere l’inizio delle varie attività e quindi l’entusiasmo per i compiti

Da un certo punto di vista, volendo considerare la motivazione all’apprendimento, sembrerebbe che i primi 2 stili siano tendenzialmente più motivanti e comunque conducano a risultati superiori di apprendimento, rispetto agli ultimi 2 che possono essere visti come stili di demotivazione, caratterizzati da poco strategicità e da prestazioni inferiori alle reali capacità.


III.    Stili di demotivazione.

Analogamente agli stili di motivazione, anche per quelli di demotivazione possono essere identificate alcune caratteristiche che accomnano le diverse tipologie:

§ una prima caratteristica può essere ricercata nell’insufficiente o inadeguata adozione di strategie di apprendimento che può portare all’impegno di una quantità di tempo eccessivo rispetto ai vantaggi offerti o a vere e proprie situazioni di insuccesso. Il bilancio negativo fra costi e benefici può condurre, a sua, volta, all’abbandono del compito o a ritenere il materiale di studio come noioso, irrilevante, poco interessante o poco importante, non tanto per effetto delle caratteristiche del materiale stesso, ma in quanto mancano le strategie efficaci per affrontarlo

§ una seconda caratteristica si riferisce alle convinzioni e attese negative, ad esempio ad una bassa percezione di competenza o ad una marcata paura dell’insuccesso, sostenute da esperienze fallimentari precedenti o da aspettative di insuccesso sia personali che espresse da altri

§ una terza caratteristica fa riferimento ad aspetti legati all’ambiente, ad esempio alle relazioni insegnante-bambino o al clima scolastico. Situazioni demotivanti tipiche sono quelle che si creano per effetto dell’aiuto non richiesto o dal clima competitivo. Di fronte ad un bambino che manifesta delle difficoltà risulta spontaneo il comportamento di aiuto, anche in assenza di una specifica richiesta. Questo che da parte dell’insegnante o dell’operatore è un atteggiamento sicuramente normale in quanto si conura come parte della funzione di sostegno può essere, invece, interpretato dal bambino come indice di poca abilità. Queste riflessioni conducono alla convinzione di non avere le capacità e quindi anche al ritiro dell’impegno e alla demotivazione. Questo atteggiamento e quest’insieme di comportamenti possono, a loro volta, generare situazioni che richiedono ulteriore aiuto. Tutto ciò conduce ad un circolo vizioso in cui l’aiuto conferma le convinzioni di incapacità e queste ultime portano ad un atteggiamento di rinuncia che, a sua volta, induce ulteriori aiuti

Inoltre, è importante distinguere fra demotivazione e assenza di motivazione, che sono 2 concetti assolutamente diversi. La demotivazione fa riferimento a quelle situazioni in cui c’è una qualche spinta o attrazione e in cui vi sono, spesso, anche elementi conflittuali, mentre l’assenza di motivazione riguarda quei casi in cui l’attenzione, l’impegno o la ricerca di strategie non sono diretti ad alcun tipo di obiettivo, né di attrazione verso il compito, né di evitamento o rinuncia. La demotivazione è quindi simile alla motivazione per quanto riguarda la presenza di elementi che conducono verso determinati atteggiamenti, specifiche convinzioni o comunque verso un qualche obiettivo, mentre è simile all’assenza di motivazione per gli effetti talvolta nulli, ma più spesso negativi, sull’apprendimento. Per quanto riguarda, quindi, gli stili di demotivazione, oltre ai 2 stili self-handicapping e impulsivo proposti da Eronen, Nurmi e Salmela-Aro, è possibile individuare almeno altri 3 stili, uno caratterizzato da noia e disinteresse, l’altro da manifestazioni o dichiarazioni d’ansia in situazioni di apprendimento e, infine, l’ultimo tendente all’espressione di stati depressivi:

l’espressione di noia e disinteresse è particolarmente frequente in diverse situazioni di apprendimento. Spesso, però, questi atteggiamenti sono solo apparenti, in quanto non riflettono poca motivazione verso le attività proposte, ma mascherano il timore di fallire e di esporsi a critiche e derisioni da parte di comni, insegnanti o genitori. Il timore di un giudizio negativo porta pertanto al ritiro dell’impegno. Questo atteggiamento, che può essere scambiato erroneamente per apatia, maschera una motivazione ad apprendere che è però frenata da una serie di convinzioni e timori che impediscono di mettere a frutto le capacità che pur sono presenti. Questa situazione, protratta nel tempo, si concretizza in un continuo rifiuto delle situazioni impegnative e nel desiderio di affrontare solo compiti semplici. Ciò che si verifica è una riduzione dell’impegno finalizzata a mantenere il personale concetto di abilità. Tutto ciò conduce a fallimenti o comunque a pochi progressi. L’evitamento conduce ad ottenere risultati minimi o insufficienti che tendono a confermare il senso di inadeguatezza iniziale e ad alimentare i timori legati alle conseguenze negative del fallimento. A tutto ciò si associa la mancanza di adeguate strategie di studio che non sono mai state cercate o sperimentate per effetto della continua rinuncia ad affrontare situazioni un po’ più impegnative e sfidanti

il secondo stile demotivazionale si caratterizza per manifestazioni e dichiarazioni d’ansia in situazioni di apprendimento. L’ansia è un elemento emotivo che può incidere negativamente sull’apprendimento e sulla prestazione, in particolare se eccessiva o comunque non adeguata alla situazione o al livello di difficoltà della prova. È possibile distinguere fra un’ansia di stato, che riguarda in particolare la specifica situazione, e un’ansia di tratto, che può essere pensata come una caratteristica individuale, per cui, in generale, esistono persone più o meno ansiose. Lo stesso livello d’ansia può quindi essere eccessivo per una persona e più adeguato per un’altra. Alti livelli d’ansia possono essere assunti anche come la conseguenza di ripetute situazioni fallimentari. Chi sperimenta ripetuti insuccessi tende quindi a diventare più ansioso in situazioni future, se imputa il fallimento a fattori al di fuori del proprio controllo e se, pertanto, teme di non riuscire o comunque sente di non avere le capacità per farcela. La conseguenza più immediata dell’ansia, a livello scolastico, è il minor rendimento. Gli studenti che presentano un maggior grado di ansia da prestazione, rispetto ai meno ansiosi, sono più concentrati su di sé e autocritici, cosa che impedisce loro di prestare il giusto grado di attenzione agli aspetti rilevanti del compito. Il tutto si traduce, ancora una volta, in un processo circolare in cui si influenzano vicendevolmente componenti emotive, quali quelle legate all’ansia, e componenti di tipo motivazionale e strategico che, insieme, conducono ad un impegno insufficiente o inadeguato e, infine, a prestazioni non adeguate

il terzo stile demotivazionale è quello del depresso. Questo stile si caratterizza per la convinzione di non avere il controllo della situazione, di non possedere l’abilità per riuscire e per la tendenza ad attribuire gli insuccessi alla mancanza di capacità personale e i successi a casi fortuiti o comunque a cause al di fuori delle proprie possibilità di controllo. La depressione, o comunque la tendenza a sviluppare sintomi depressivi, si collega all’impotenza appresa e spesso anche a difficoltà d’apprendimento. Alcuni autori ritengono che le difficoltà d’apprendimento possano essere considerate esse stesse come un sintomo di depressione, altri, al contrario, considerano la depressione come una causa delle difficoltà cognitive, inclusi i disturbi dell’apprendimento. Qualunque sia la direzione causale, in genere gli adolescenti con disturbo d’apprendimento sono più ansiosi, manifestano più spesso episodi depressivi, anche seri, e si pongono a maggiore rischio di suicidio rispetto a chi non presenta difficoltà di apprendimento. Ciò vale soprattutto per le femmine, che, con maggiore frequenza dei maschi, provano emozioni negative. Anche questo stile può portare ad un processo circolare che conduce ad un abbassamento delle aspettative e alla riduzione dell’impegno, che, a loro volta, portano a prestazioni inferiori e a inadeguati risultati di apprendimento. In questo processo un ruolo importante è svolto anche dall’ambiente sociale, scolastico e familiare, che può comunicare convinzioni e atteggiamenti verso il compito che condizionano il modo di pensare dei ragazzi. Questo ruolo può essere esemplificato considerando alcune associazioni fra un basso status socioeconomico e il ridotto rendimento


IV.    Un esempio. Gli stili attributivi.

Nei paragrafi precedenti sono state delineate le caratteristiche degli stili di motivazione e di demotivazione e tratteggiate alcune tipologie. Il tutto verrà qui esemplificato attraverso l’analisi e la descrizione dei principali stili attributivi e delle relazioni fra ciascuno degli stili descritti e l’apprendimento. Una stessa persona può formulare diversi tipi di attribuzioni, in relazione alla situazione specifica e al tipo di compito. Ad esempio

§ per il fenomeno dell’unanime consenso, se tutti ottengono una buona prestazione, questa sarà attribuita prevalentemente a cause esterne, mentre se pochi ottengono una buona prestazione sarà più probabile l’attribuzione all’impegno

§ per il fenomeno della costanza, i risultati conformi alle prestazioni precedenti vengono più frequentemente attribuiti all’abilità, mentre i risultati imprevisti sono attribuiti più spesso all’impegno e alla fortuna

Nonostante l’esistenza di questi fenomeni di tipo generale, è possibile riconoscere diversi stili attribuitivi, che si caratterizzano per imputare il successo e l’insuccesso tendenzialmente all’una o all’altra causa. Nella realtà, con particolare riferimento a quella scolastica, vi sono alcuni stili o gruppi di stili attributivi particolarmente frequenti e importanti, perché presentano stretti legami con l’approccio strategico allo studio:



Stile


Successo

Insuccesso

Impegno

Abilità

Esterne

Impegno

Abilità

Esterne

Strategico







Depresso







Negatore







Pedina







Abile








Le cause esterne possono essere: fortuna, caratteristiche del compito, aiuto. Per semplicità descrittiva in ognuna delle 2 situazioni di successo e di insuccesso è stata segnata come alta solo una delle 3 attribuzioni (segno + ). Ciò non esclude casi in cui vi sia un alto riconoscimento di più di una causa e in cui si abbiano situazioni conflittuali. Tali casi sono però da considerarsi come intermedi fra quelli tratteggiati o come momenti di passaggio dall’uno all’altro stile.

Il primo stile, definito come strategico, si caratterizza per l’attribuzione del successo all’impegno e in parte all’abilità e l’attribuzione dell’insuccesso alla mancanza di adeguato impegno. Si tratta di uno stile particolarmente funzionale all’apprendimento, poiché è l’unico che consente di mantenere buone aspettative di successo anche dopo il fallimento, senza abbassare il livello di aspirazione o il grado di difficoltà del compito scelto. Per altri stili, invece, il fallimento non è un’esperienza positiva in quanto non insegna niente (se l’attribuzione è esterna) oppure è addirittura dannoso nel caso in cui l’insuccesso è attribuito alla mancanza di abilità e tende pertanto a confermarla. In questo stile la qualificazione di 'strategico' deriva dal fatto che l’impegno è inteso come ricerca, applicazione, flessibilità d’uso di differenti strategie di apprendimento, e l’impegno inadeguato si riferisce ad un uso carente di opportune strategie. Chi possiede questo stile riesce quindi a vivere positivamente anche le situazioni di fallimento, che vengono considerate come indice della necessità e possibilità di fare di più o meglio in futuro per riuscire. Anche il successo è vissuto positivamente, a causa dell’alto coinvolgimento personale, e contribuisce ad un consolidamento della fiducia in sé e al mantenimento di buone aspettative future. Chi possiede questo stile è più motivato al successo, tende a sentirsi più autoefficace, ha un buon concetto di sé, si pone principalmente obiettivi di padronanza e presenta buoni livelli di interesse, curiosità e coinvolgimento in compiti e/o situazioni sfidanti. Per effetto di tutte queste motivazioni, che si sostengono a vicenda, persiste maggiormente nella risoluzione di compiti impegnativi. Di conseguenza, riesce ad ottenere migliori risultati e ha una migliore riuscita scolastica. Tutto questo si traduce in un processo circolare positivo. Lo stile strategico è più frequente tra ragazzi normali e meno tra i soggetti con difficoltà di apprendimento.

Il secondo stile, definito come depresso, si caratterizza per un eccessivo riconoscimento della mancanza di abilità in caso di insuccesso e di cause esterne per il successo. È lo stile tipico dell’impotenza appresa, che risulta essere particolarmente disfunzionale per l’apprendimento e per lo stesso benessere psicologico dello studente. È uno stile abbastanza frequente in ragazzi con problemi. Questi, dopo essere stati esposti a ripetuti fallimenti, possono aver imparato che non sono in grado di apprendere, che non sono capaci di affrontare il compito, e che il successo è da considerare come cosa inattesa e fortuita. I ripetuti fallimenti, imputati a cause incontrollabili, possono aver fatto loro concludere che, data la mancanza di relazione fra impegno e risultati, è inutile impegnarsi. Ciò porterebbe ad effettive situazioni di evitamento o ad un impegno minimo caratterizzato da poca riflessione e da un approccio superficiale. Tutto questo porta ad un circolo vizioso che causa ulteriori fallimenti e diminuisce ulteriormente la fiducia in sé. Questo stile si caratterizza per un atteggiamento non strategico: il depresso infatti pensa di non avere le capacità per riuscire e di non poter esercitare alcun controllo sulla situazione; pertanto non ricerca modalità per ottenere il successo, e piuttosto tende ad evitare le situazioni oppure, se questo non è possibile, a viverle passivamente. Componenti motivazionali tipicamente associate a questo stile sono una bassa percezione di autoefficacia e di fiducia in sé, una prevalente tendenza ad evitare l’insuccesso, la preferenza per gli obiettivi di prestazione, livelli medi o bassi di ricerca di sfide ottimali e scarsa curiosità e interesse nelle situazioni di apprendimento. Di tutto questo è necessario tenere conto in una prospettiva di intervento, di certo auspicabile per questa tipologia che, nei casi estremi, in particolare qualora si tenda a generalizzare anche in contesti diversi da quello scolastico, può condurre a vere e proprie forme depressive.

Il terzo stile, definito come negatore, è quello di chi, nella convinzione di essere capace, attribuisce il successo all’abilità e ricerca 'scuse' esterne per gli insuccessi, attribuendo alla difficoltà del compito, alla sfortuna o alla mancanza di aiuto. Studenti che tendono a questo stile rischiano di non tenere adeguatamente conto degli insuccessi, cui non riconoscono un ruolo personale, e di non riflettere sugli errori commessi al fine di trovare soluzioni strategiche più adeguate. Questo avviene perché non è colta la relazione fra impegno e risultati. L’insuccesso, essendo imputato a cause esterne, non mette in discussione le abilità che il soggetto ritiene di possedere. Si potrebbe arrivare alla situazione estrema di un ragazzo (e poi di un adulto) che si sente un genio incompreso, che pensa di essere bravo, ma che la sua abilità non sia compresa da nessuno o addirittura a forme cliniche quali il delirio di persecuzione, caratterizzato da attribuzioni esterne, globali e stabili, o la paranoia, in cui è tipica la dissociazione fra sé reale e sé ideale. L’insuccesso non è vissuto negativamente, in quanto non viene attribuito a fattori che possono essere modificati sa sé, ma nemmeno positivamente, poiché non sta ad indicare la necessità di fare qualcosa per evitarlo. Il successo, per quanto possibile, visto l’atteggiamento non strategico di fronte alle diverse situazioni di apprendimento, contribuisce invece a mantenere un positivo concetto di sé. È evidente che la stabilità di questo stile poggia sul mantenimento di un bilancio positivo fra successi frequenti e insuccessi sporadici. Dal punto di vista motivazionale complessivo, la percezione di autoefficacia è buona e il concetto di sé è alto, ma protetto da un uso più o meno marcato di self-handicapping. Inoltre, vi è spesso conflittualità fra le 2 opposte tendenze ad affrontare o ad evitare le situazioni di apprendimento. I livelli di interesse e curiosità sono medi e gli obiettivi tendono ad essere di prestazione. La credenza sottostante è quella per cui l’abilità è un aspetto innato (le cui componenti possono essere possedute, ma non modificate) per cui si ritiene che esistono studenti portati e altri non portati e che il successo è possibile per i primi, ma non per i secondi. È evidente che tale stile, pur non determinando situazioni di disagio psicologico, non è funzionale all’apprendimento, in quanto non porta alla ricerca e all’adozione di strategie e, inoltre, risulta anche essere difficile da modificare, perché basato sulla convinzione di non dover far niente per riuscire. Lo stile negatore tende ad essere più frequente nei maschi (attribuzione dell’insuccesso a cause esterne), quello depresso nelle femmine (attribuzione dell’insuccesso alla mancanza di abilità). Questa differenza sembra essere legata al sistema educativo e, in particolare, al tipo di feedback che gli agenti di socializzazione danno.

Il quarto stile è quello della pedina, cioè del ragazzo che attribuisce sia il successo che l’insuccesso a cause esterne, instabili e poco controllabili. Chi possiede questo stile è poco probabile che si sforzi in situazioni ad alto carico cognitivo, perché sa di non poter padroneggiare gli eventi e quindi non crede nell’impegno e manca di adeguate aspettative di successo. Ancor più del negatore avverte la mancanza di controllo sul proprio apprendimento, sia nel successo sia nell’insuccesso, fino a sentirsi manovrato dagli altri o dalla situazione. Di conseguenza tenderà, da un lato, a sviluppare un atteggiamento fatalistico e superstizioso e, dall’altro, ad ottenere prestazioni inferiori rispetto alle reali capacità, manifestando poco interesse e poco coinvolgimento nel compito.

Il quinto stile è quello dell’abile, cioè di chi attribuisce sia il successo che l’insuccesso prevalentemente all’abilità (o mancanza di abilità) personale e quindi ad una causa interna, ma stabile e non modificabile. Spesso questo stile è dovuto all’effetto di stereotipi o aspettative di tipo rigido e distorto, ad esempio da parte di genitori e insegnanti. Pensare di riuscire per abilità può andar bene fintanto che i risultati sono positivi (quando all’abilità si affianca l’impegno), mentre risulta estremamente dannoso in caso di fallimento o di fallimenti ripetuti per cui il ragazzo comincia a pensare di non essere abile, mettendo in moto, in tal modo, un processo di cambiamento del proprio stile attributivo, che spesso tenderà ad avvicinarsi a quello depresso, con il rischio di trasformarsi in una situazione di impotenza appresa. L’eccessiva attribuzione all’abilità può indurre a temere molto il fallimento, inteso come misura e indice della propria incapacità. Tale timore di fallire potrebbe portare alla riduzione o al ritiro dell’impegno, per proteggere il proprio senso di competenza. Riducendo l’impegno, l’eventuale fallimento può essere ricondotto a questa causa, piuttosto che alla mancanza di abilità, consentendo di proteggere la propria autostima e il personale senso si competenza. La circolarità di questo stile si basa pertanto nel ricercare situazioni in cui possa essere dimostrata l’abilità e nell’evitare quelle in cui c’è il rischio di mettere in luce il limite delle proprie capacità. Tutto questo può condurre ad evitare le situazioni impegnative o a provare ansia di fronte a compiti o attività che devono essere affrontati, nonostante la percezione di non essere capaci.



Gli stili attributivi qui descritti si distinguono per 2 importanti elementi che riguardano la percezione di controllo e la possibilità di soddisfare bisogni innati, quali l’autodeterminazione e il bisogno di competenza, e che costituiscono le 2 caratteristiche degli stili di motivazione identificate precedentemente. La percezione di controllo

§ è massima nello stile strategico

§ minima negli stili pedina e depresso

§ assume valori intermedi per il negatore e l’abile

Così pure il senso di autodeterminazione e la percezione di competenza

§ sono soddisfatti nello stile strategico, che è certamente il più funzionale all’apprendimento, conurandosi come uno stile di motivazione

§ e molto meno in altri stili, in cui le poche conoscenze strategiche, la mancata comprensione del legame fra impegno e risultati e la tendenza ad esternalizzare fanno sentire il soggetto meno competente e meno capace di autoregolare la propria attività di apprendimento.


  1. CONCLUSIONI. PROBLEMI APERTI E PROSPETTIVE.

L’apprendimento, con particolare riferimento a quello scolastico, risente di numerose componenti che riguardano aspetti fra loro eterogenei, quali:

§ le abilità di base

§ l’uso di strategie

§ le capacità metacognitive

§ le convinzioni

§ il sostegno ambientale

§ i condizionamenti culturali

§ la motivazione ad apprendere

Alcune componenti, che di per sé non fanno parte della motivazione in senso stretto, si pensi ad esempio ad una buona competenza nell’uso di strategie, sono state considerate da alcuni autori come componenti motivazionali, in quanto, in modo più o meno diretto, influenzano il desiderio di affrontare e portare a termine i diversi compiti. Teorie che, inizialmente, sembravano ignorarsi, vanno oggi verso una maggiore integrazione, integrazione che porta all’emergere di modelli che cercano di spiegare il rapporto fra motivazione e apprendimento e all’identificazione di stili motivazionali più o meno efficaci. Lo stato dell’arte in questi ultimi anni ha assistito, infine, al tentativo di definire nel modo più chiaro e univoco i diversi concetti motivazionali e di integrare prospettive teoriche diverse. Schunk identificava 3 direzioni nuove della ricerca sulla componenti motivazionali dell’apprendimento:

§ la prima, che è quella che in questi ultimi anni è stata maggiormente seguita, si riferiva alla maggiore integrazione fra teorie e dati di ricerca ottenuti secondo diversi paradigmi

§ la seconda riguardava gli aspetti metodologici e, nello specifico, il suggerimento di studiare di più i reali comportamenti degli studenti e di fare un uso minore o parziale di self-reports

§ la terza suggeriva di focalizzare l’interesse non solo sugli alunni e sui loro atteggiamenti e pensieri, ma anche sulle credenze e sul comportamento degli insegnanti

Successivamente, Schunk riprende il terzo punto sostenendo l’importanza degli aspetti sociali e richiamando l’attenzione anche sulle relazioni con i comni e, inoltre, prospetta anche altre 2 nuove importanti direzioni di ricerca:

§ la prima, che parte dalla riflessione per cui non sempre i vari costrutti motivazionali predicono l’apprendimento, riguarda la ricerca delle componenti motivazionali o delle relazioni fra motivazioni e situazioni in grado di influenzare positivamente l’apprendimento(*)

§ la seconda fa riferimento alle motivazioni a lungo termine e, in particolare, alle modalità attraverso cui gli studenti riescono a mantenere nel tempo gli obiettivi o le originarie motivazioni(#)

Per quanto riguarda la ricerca dei predittori, un aspetto che potrebbe spiegare perché, a volte, non si ottengono le relazioni attese fra motivazione e apprendimento riguarda le differenze individuali nel valutare la bontà dei propri risultati. Mentre alcune situazioni si concretizzano per tutti in chiari successi o insuccessi, molte altre possono essere diversamente interpretate a seconda di diversi fattori. Ad esempio, frequenti fallimenti attribuiti a cause stabili tendono a demotivare, mentre se attribuiti alla mancanza di adeguato impegno sostengono il desiderio di riuscire e la ricerca di strategie efficaci. È evidente che se la situazione è interpretata in modo diverso da differenti persone, uno stesso tipo di motivazione può risultare efficace nel predire la prestazioni di alcuni, mentre non lo sarà altrettanto per altri.

Per quanto concerne lo studio del concetto di perseveranza, questo si conura come un settore di estremo interesse per almeno 3 motivi:

§ il primo si riferisce al fatto che esistono numerose situazioni, che possono poi trasformarsi in veri e propri stili, che si caratterizzano per una buona motivazione iniziale, o addirittura per un vero entusiasmo, cui segue un calo, che, vanificando l’impegno iniziale di risorse, non si concretizza nel raggiungimento dell’obiettivo (es: lo stile impulsivo presentato da Eronen, Nurmi e Salmela-Aro). Tali situazioni richiederebbero una comprensione più dettagliata dei meccanismi sottostanti, anche al fine di prospettare eventuali interventi per chi risulta essere particolarmente carente nel perseverare anche di fronte ad una difficoltà minima

§ il secondo si riferisce all’importanza che la capacità di perseverare di fronte agli ostacoli assume al crescere del livello scolare. Gli studenti che, pur possedendo anche buone abilitò, abbandonano il compito alle prime difficoltà sono coloro che maggiormente di pongono a rischio di insuccesso scolastico

§ il terzo riguarda la possibilità che la perseveranza rifletta oppure costituisca parte delle capacità metacognitive. Riuscire a mantenere la motivazione nel tempo richiede infatti non solo la capacità di continuare a perseguire gli obiettivi prefissi, ma anche abilità di controllo, quali la flessibilità nell’uso di strategie e le abilità di autovalutazione della bontà dei processi attuati per raggiungere i diversi scopi, naturalmente sostenute da conoscenze metacognitive relative al funzionamento mentale proprio e generale

Quindi, i punti importanti, verso cui la ricerca futura sulle componenti motivazioni dell’apprendimento dovrebbe indirizzarsi, si riferiscono:

§ ad una più approfondita analisi degli aspetti sociali e culturali che determinano o influenzano la motivazione dei ragazzi

§ alla ricerca delle componenti motivazionali più critiche ai fini dell’apprendimento

§ allo studio delle motivazioni a lungo termine e dei processi volitivi



Tutto questo può essere fatto attraverso la descrizione dei vari fenomeni e l’elaborazione di modelli causali che illustrano le relazioni fra i vari aspetti considerati. Secondo Rheinberg, la descrizione della varie componenti motivazionali, delle loro reciproche relazioni e dei rapporti con altri aspetti, ad esempio strategici o metacognitivi, è importante ma non sufficiente. L’autore ritiene che la ricerca futura dovrebbe occuparsi non solo dello studio dello stato attuale delle cose, ma di trovare il sistema per apportare miglioramenti. Ciò concretamente potrebbe avvenire attraverso l’individuazione di modalità di intervento in grado di migliorare le motivazione esistenti o cambiare le convinzioni o gli stili di demotivazione poco funzionali all’apprendimento. 2 fra le più interessanti modalità proposte riguardano il tipo di feedback dato dagli agenti di socializzazione e le caratteristiche degli interventi efficaci nello stimolare positivamente la motivazione ad apprendere.

 



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