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Il testo poetico tra tecnica e pathos

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Il testo poetico tra tecnica e pathos


Il testo letterario può essere inteso come un insieme organico di elementi linguistico-espressivi organizzati in un sistema in cui per una reciproca interagibilità, cioè per una scambievole relazione, ogni elemento linguistico acquista valenza e comprensione se rapportato ad altri elementi linguistici o a tutto il componimento; e per struttura di un testo si intende questa fitta rete di corrispondenze interne tra elemento e elemento che nel complesso formano un'unità.

Per testo poetico più specificatamente si intende quel componimento artistico fondato sull'unità del verso, che è portatore di suono e senso, di significante e significato; inoltre ciascun verso è da rapportarsi ad un preciso piano espressivo di suono e di ura.

V'è da dire che il linguaggio poetico ha una sua singolarità che lo rende del tutto diverso dalla comunicazione quotidiana, poiché autoreferenziale, ovvero si attiene alla sfera personale dell'artista, che in questo testo trasferisce le proprie idee sulla vita, sul mondo, sugli uomini e sulla morte.

E se il linguaggio con cui comunichiamo è pratico, finalizzato cioè a farci vivere meglio, e quindi informativo; il linguaggio poetico per sua natura è un linguaggio intransitivo poiché si autoriflette sulla personalità di chi lo compone; per cui definisce questo del tutto privo di referenti oggettivi e determinanti poiché la realtà riguarda il mondo interiore del poeta, il quale trasura artisticamente, ricreandolo, il proprio tessuto interiore di sentimenti, idee ed emozioni.



Ma è proprio questo il fascino della lingua poetica: la sua incapacità di definire scientificamente le cose, lasciando al lettore un territorio di mistero, un fondo fermentante di ambiguità e tortuosità, ma anche di irresistibile seduzione.

Il lettore in mancanza di dati oggettivi può dare una personale interpretazione al testo, scosso in un'indagine del significato ultimo della parola poetica.

Se la parafrasi del testo e il suo carpirne il senso complessivo rientra nella fase denotativa, la ricerca, invece, dei valori simbolico-universali insiti nelle parole stesse rientra nella fase connotativa.

Si tratta quindi adesso, per analizzare completamente il testo poetico, di sostanziare l'impatto emotivo di una conoscenza tecnica degli strumenti della sua analisi; per una teoria e pratica di tale analisi occorre distinguere il testo in vari livelli di analisi:


analisi extratestuale analizza il rapporto tra testo e clima storico culturale dell'epoca in cui è stato scritto riferendosi poi anche ad altri testi dello stesso ambito cronologico.


analisi intertestuale pone in relazione il testo preso in esame con tutta la produzione di quel determinato autore.


analisi intratestuale capacità dell'analista di riconoscere le relazioni tra i vari elementi linguistici, smontarla, per poi ricostruirne, mettendo in relazione i vari elementi linguistici, l'unità organica.

Tale tipo di analisi può essere suddivisa in piccole parti:


tematico concettuale in cui è manifesto quello che l'autore vuol dire, in cui si proietta il mondo poetico e i temi di cui parla, i concetti che vuole esprimere l'artista e ciò che esprime, infine, tutto il componimento.

Terminologico semantico per cui l'analisi deve occuparsi della presenza di particolari ambiti semantici, mediante parole chiave.

Metrico ritmico che analizza la strofa e la metrica dei versi gli accenti interni, insomma l'andamento ritmico del verso stesso.

Morfosintattico che prende in esame l'articolazione sintattica delle frasi, le categorie grammaticali nei versi

Fonetico fonologico osserva la semantizzazione della parola attraverso il suo suono

Retorico del verso si occupa di riconoscere le cosiddette ure di significato (come la litote, cioè esprimere un concetto secondo il suo contrario, l'analogia, lo zeugma, la sinestesia e la prosopopea, cioè quando parla un essere inanimato o animale)




Analisi della poesia di Umberto saba Ulisse


Questo testo fortemente autobiografico, facente parte della sua raccolta Mediterranee del 1944, ripercorre le tappe fondamentali della vita del poeta (si ricordi infatti che da giovane egli fece il mozzo) ma soprattutto questa poesia coglie di lui l'incessante, ininterrotta, ricerca del senso della vita, riproponendo la consueta metafora del cammino nella vita come un'avventura per mare.

C'è questa particolare nota che spicca sulle altre: mentre gli altri comni di Saba, ormai anziani, si sentono apati nel loro quieto vivere (rappresentato nella poesia dal porto e dalle sue luci), Umberto Saba, pur vecchio, si sente ancora lontano dalla meta e in petto si sente ruggire il suo non domato spirito in una perenne insoddisfazione di se.

E se la prima parte del suo componimento vede i tempi al passato riferiti alla sua giovinezza, che l'autore chiama "giovanezza" secondo la tradizione aulica, nella seconda parte, che comincia con lo stacco decisivo "oggi", il poeta va in profondità a scandagliare la sua anima insoddisfatta.

Il testo insomma, oltre a fornire delle bellissime immagini del paesaggio marino, ripropone il percorso di una vita umana soffocata nel cieco labirinto di una verità sempre introvabile.


Nella mia giovanezza ho navigato

lungo le coste Dalmate. Isolotti

a fior d'onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede,

coperti d'alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l'alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più al largo

per sfuggirne l'insidia. Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi, me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.


Nell'ultimo verso non solo si rivela il significato della poesia, ma viene spiegata tutta la poetica di Saba, che crede che solo il poeta può carpire la verità delle cose, il senso più profondo di queste, ma se la vita è male e dolore, la capacità del poeta di innamorarsene è pari alla sua capacità di tollerarne la sofferenza (ciò è un evidente richiamo al "Mal di vivere")

Domande

Definisci la motivazione che spinge il poeta a paragonarsi al mito di Ulisse.

Il poeta si sente teso verso l'ignoto per poter apare così la sua sete di sapere, pertanto ciò non può non avvicinarlo alla ura di Ulisse che è senza dubbio l'eroe che pur di conoscere si avventura in viaggi nei mari sconosciuti.

Opera un confronto tematico tra il viaggio verso la terra di nessuno e il porto.

Se il porto rappresenta l'agognata tranquillità, il soddisfacimento dell'inquietudine umana, il regno di nessuno rappresenta il significato ultimo della vita, irraggiungibile ma così desiderabile per gli uomini.

Perché il poeta utilizza, sul piano lessicale, il termine regno?

Regno allude all'essere del poeta padrone di se, cioè alla sua monarchia sulla propria vita

Attraverso quale tipo di articolazione sintattica è condotta la rappresentazione simbolica del paesaggio marino?

La principale caratteristica sintattica di questa descrizione è la netta lontananza del soggetto dai suoi attributi.

Evidenzia e commenta il livello retorico dell'ultimo periodo.

In questo periodo abbiamo una litote che addolcisce il significato dello spirito indomato del poeta, e una ripetizione del suono liquido "r" e "l" che dà scorrevolezza al periodo, come se fluttuasse sulle onde marine.

Il Classicismo


Il termine "Classicismo" deriva dalla parola classus ("marinaio della flotta"). Il primo che attuò il traslato fu Aulo Gallio, il quale, dall'ambito puramente marinaio, portò questa parola ad indicare un valore, una eccellenza a proposito di certi autori e opere che acquistavano una loro esemplarità e divenivano dei modelli, dei punti di riferimento.

Ciò è valido tutt'oggi, perché con questo termine intendiamo non solo l'antico, ma anche l'autore moderno che trascende la sua epoca per la sua sensibilità e si pone profeticamente oltre.

Classico è pertanto quell'autore che, anche se lio della sua epoca, è portatore di cose nuove.

L'anima del classicismo e dell'opera classica è quella che è alla base della stessa concezione sua ("Il sole che illuminò Omero è lo stesso che illumina noi"); l'artista quindi nello scrivere, nel suo creare, prende spunto dal reale, attingendo al vasto quadro della natura (mimesis biou), ma partendo da questa si inarca verso un piano ideale di insegnamento della bellezza, il reale per lui è quindi il primo gradino.

Quindi possiamo intendere il classicismo come atemporalità e universalità insieme.



Le nuove idee sull'arte e la nascita dell'estetica moderna


La tendenza tipica della cultura del settecento di sottoporre al vaglio della ragione e della riflessione critica ogni campo del sapere, investe ineluttabilmente l'arte e la letteratura.

Il settecento infatti è il secolo in cui nasce l'estetica moderna, intesa come disciplina autonoma atta ad indagare il bello e l'arte, in un età in cui si infittisce l'interscambio tra linguaggio urativo, letterario, musicale e teatrale, in cui insomma si intrecciano i rapporti tra le diverse arti contemporanee, si traccia di ogni arte  la propria specificità, la propria funzione e le caratteristiche.

Assieme all'estetica nascono quindi le "Belle Arti" concepite nella loro diversa unitarietà, separate da scienza, morale e filosofia.

È chiaro che questa cultura settecentesca, tutta permeata del razionalismo, affondi le sue radici nel pensiero di sectiunesio e già negli ultimi decenni del seicento questa estetica razionalistica provi parecchio disgusto nei confronti del cattivo gusto barocco e di tutto ciò che quella rappresentava come gonfiezza, dismisura ed eccesso; ed è parimenti chiaro che alle esagerazioni del barocco questa estetica risponda con l'esigenza di un arte della semplicità, naturalezza, essenzialità espressiva e quindi, sulla scorta degli esempi dei classici, quest'estetica si riproponga l'imitazione del vero. A proposito scrive Nicolas Boileau: "Nulla è bello se non il vero, solo il vero è piacevole".

Quando queste conseguenze sul piano estetico penetrarono in Italia da parte degli spiriti illuminati italiani queste idee ebbero un'accoglienza ed un'applicazione più temperata e moderata. Soltanto Vico, in una posizione isolata ed individualistica, aveva trovato e riaffermato nella natura passionale della poesia il linguaggio originale dell'uomo, ma la sua era rimasta una voce sola in un mare di pensiero razionalistico.

Se i pensatori italiani accolsero questo razionalismo estetico con moderazione ed equilibrio, significa che certamente obbedirono alle esigenze di chiarezza e di semplicità ma allo stesso tempo salvaguardarono i diritti della fantasia, dell'immaginazione egli impulsi della passione.

È evidente che con la nascita dell'estetica si focalizzarono concetti nuovi e concetti vecchi ridefiniti come nuovi, come "genio", "sensibilità", "gusto", "passione" e "sentimento".

Si pensi ad uno dei fondatori dell'Arcadia, il giurista e filosofo GianVincenzo Gravina il quale scrisse che un opera per aver valore deve essere moderata dalla ragionevolezza razionalista e dalla pacatezza, ma allo stesso tempo egli tessé gli elogi dell'artista capace di trasformare le "cognizioni universali in sembianze popolari"; l'artista è perciò colui che è capace di far penetrare le altre verità negli intelletti incolti della gente comune.

C'è poi Ludovico Antonio Muratori il quale dà un nome a questa facoltà mediatrice tra intelletto e passione, tra natura e stile, e la chiama il buon gusto; soltanto con essa si sarà infatti capaci di discernere il vero dal falso.

Con lo sviluppo del pensiero Illuminista, l'attenzione verso l'efficacia comunicativa del prodotto artistico e la sua conseguente funzione didattica si accentua ancor di più, al punto che agli Illuministi  non interessava la funzione morale dell'arte quanto la sua "utilità sociale" e propugnavano un'arte fatta di cose e non di parole, un'arte pratica che divulgasse le riflessioni critiche del pensiero politico; ma comunque in questi anni la novità assoluta è rappresentata dalle nuove teorie Sensiste.

"Se gli uomini fossero perfettamente sani ed allegri, non sarebbero mai nate le Belle Arti"

(Pietro Verri)

Si pensi che l'arte è una forma di conoscenza e, come tale, penetra attraverso le sensazioni di chi ne fruisce. Questa riflessione potrebbe essere il fondamento delle nuove dottrine Sensiste che si espandono nella seconda metà del secolo dei Lumi, per cui il prodotto artistico, sia esso musicale, letterario o urativo, davanti all'ascoltatore, al lettore e allo spettatore, deve saper destare delle particolari emozioni; deve insomma agire sulla psiche del fruitore procurandogli degli stimoli.

Più un'opera d'arte sarà capace di svegliare in chi la gode una tempesta di emozioni, tanto più essa rimarrà valida. L'importante secondo il Sensismo non sarà giudicare l'opera secondo forme e contenuti, ma rapportandola a colui che ne fruisce. Parafrasando un frequente slogan di oggi si può dire che l'attenzione si sposta "dal produttore al consumatore". Quindi gli effetti che l'opera produce nel nostro animo saranno i veri metri di giudizio.

È evidente uno sviluppo in questo senso, visto che dalla seconda metà del secolo il pubblico si andava ampliando e l'artista doveva tener conto dell'estro e della mutevolezza dei gusti del pubblico e riuscire ad assecondarlo: nasce così il mercato della cultura che, come tale rende inutile il vecchio e docile servilismo dell'artista a dei principi rigidi che valevano per un pubblico aristocratico ed utilitario.

Intervengono a dir la loro sull'arte, sull'artista e sul pubblico due importanti personaggi della società italiana di fine Settecento: Cesare Beccaria (indimenticabile autore del "Dei Delitti e delle Pene") e Pietro Verri (militante nel "Il Caffè"). Il primo in un suo trattato "Ricerche sulla natura dello stile" scrive che sì l'artista deve comporre un'opera semplice e chiara ma il compito,in verità, è di trasmettere più sensazioni possibili, per cui sarà necessario all'artista, accanto alle idee principali, addensare delle idee accessorie. In questo modo si restituisce all'artista il diritto a fantasie e finzione.

Ben più importante è il pensiero sensista di Pietro Verri che, sulla scorta del filosofo francese Condillac (che affermava che il piacere ed il dolore fanno parte di un unico principio che deve elevare l'anima fino alle più alte conoscenze), affermava che quel sottile piacere e seduzione che l'opera d'arte ci dà sono strettamente collegate a delle sensazioni dolorose; e come nella vita egli è convinto che il piacere sia tanto più intenso quanto improvvisa è la cessazione del dolore, dove per dolore egli intende quello stato d'animo indefinito che si usa chiamare noia, malinconia o semplicemente dolore immotivato; così nell'opera d'arte l'artista deve saper dare al fruitore, se è la  musica, delle dissonanze, se è la poesia, dei versi aspri, se è la pittura, delle cupe ombre e dei tratti disordinati di pennello, per poi farli rapidamente sire e dare, di conseguenza, al fruitore delle sensazioni piacevoli e sensibili atte a suscitare emozioni.

Questa teoria del Verri ebbe interessanti sviluppi che sarebbero piaciuti ai Romantici d'inizio ottocento; egli infatti esaltava la musica per la sua vaghezza e indefinitezza, che da atto all'ascoltatore delle capacità di interpretarla anche al di là delle stesse intenzioni dell'artista; e parimenti afferma che soltanto le anime delicate e sensibili possono comprendere e godere pienamente il significato di un'opera. Malinconia e noia sono fonti essenziali per la predizione e il consumo del prodotto artistico, al contrario allegria e sanità, apando totalmente l'uomo, non gli consentono l'esplorazione di quell'oltre che si nasconde nella sua intimità. In questa esaltazione della malinconia e della tristezza c'è già la premessa della futura prossima rivoluzione Romantica, le cui opere, contrapposte alla solarità geometrica dell'Illuminismo, si tingeranno dei colori della notte.

Il metron principale di misura dell'opera d'arte sarà quindi la grazia ossia il limite della razionalità che deve mitigare le passioni "come il mare che, agitato nei suoi fondali, deve essere quieto e tranquillo in superficie" (Winckelman).

Si può dunque parlare di concetto di bello che è diverso dal concetto di sublime (da "sublemus" che in latino significa guardare dal basso verso l'alto in posizione bieca, con l'idea dell'oltrepassare); infatti sublime può essere considerato il paesaggio che si offre agli occhi di Jacopo Ortis o nelle sensazioni che certi quadri della pittura Romantica ci suscitano. Si può dire quindi che se il bello infonde serenità, il sublime infonde agitazione. Questo termine "sublime", che abbiamo detto contrapporsi al concetto di bello, appare anche come titolo di un'opera, il "De Sublime" scritto da un anonimo greco, per divenire poi una categoria estetica.


ordine

BELLO armonia arte Classica

serenità


disordine

sublime   disarmonia   arte romantica

turbamento


Se l'arte classica impone che le passioni non devono entrare nelle opere d'arte e che, anzi, esse ne siano il superamento, un'opera d'arte, invece, all'insegna del sublime sarà connotata in un'idea di spontanea creatività. La creatività dell'artista, la sua individualità, la sua immaginazione e fantasia saranno infatti più riconoscibili nell'opera sublime; poiché nell'opera classica l'artista deve sottostare alle regole che vietano l'espressione di passioni ed emozioni e deve obbedire a quella simmetria e proporzione che sono patrimonio genetico del classicismo.

Associato al bello sarà quindi il gusto,e cioè la capacità, nel nome della ragione, di frenare l'impulsività creativa; mentre caratteristica del sublime sarà il genio, caratteristico della trasgressione e della disobbedienza, che altro non è che quella forza implosivi che diviene esplosiva nell'opera d'arte.

Si pensi che perfettamente conoscitori di questa distinzione erano gli Illuministi che scrivevano che il genio è un dono di natura, opponendolo, quindi, in modo evidente al gusto.

Pertanto è possibile definire il genio come il libero scatenarsi dell'istinto creativo dell'artista.

Anche in Italia vi fu un dibattito e cominciarono a penetrare queste idee. E se Saverio Bettinelli parla delle necessità che il genio deve avere per espandersi liberamente oltre gli ostacoli del gusto; Melchiorre Cesaretti, nei suoi "Canti di Ossian" (che ebbero una fortuna immensa anche in Italia), afferma che il genio e la sublimità dell'animo devono sempre accomnarsi alla sublimità delle parole e dello stile "senza la sublimità dell'animo la sublimità delle parole altro non è che fumo e rimbombo".

Questa ricerca di un perfetto equilibrio tra natura e stile sarà, inoltre, il tormento che conoscerà Foscolo in tutta la sua opera.


Il neoClassicismo e il preromanticismo


Queste nuove idee sull'arte, che impregnano di se tutta la seconda metà del Settecento fino ai primi decenni dell'Ottocento, sono alla base di quei due grandi orientamenti della produzione artistica, di quelle due nuove tendenze di gusto (risulta difficile chiamarli movimenti), che si chiamano l'uno "Neoclassicismo", l'altro "Preromanticismo".

Se il neoclassicismo è facilmente riconoscibile, circoscrivibile, e si presenta omogeneo nelle sue caratteristiche e nell'essenza che lo nutre; il preromanticismo, invece, è un fenomeno disordinato, in quanto raggruppa manifestazioni diverse, non tanto per i contenuti, quanto per il fatto che si diffonde a "macchia di leopardo" nelle diverse aree geografiche dell'Europa.

Il neoclassicismo lega infatti tutti i movimenti artistici, a lui correlati, ad un aspetto caratteristico fondamentale della civiltà illuminista; quello cioè che tende a recuperare, al di qua della storia e delle deformanti distorsioni della civiltà, l'originalità e la semplicità della natura umana. Ecco quindi il motivo per cui si guarda all'età classica come all'età in cui la storia del genere umano ha avuto inizio, ma soprattutto come il momento in cui gli uomini hanno goduto di una pienezza di vita che non avrebbero più raggiunto nelle epoche successive.

L'età classica viene così riscoperta in tutta la sua distanza storica come modello ineluttabile capace di rispondere alle esigenze del presente. Una spinta potente alla rinascita del classicismo la dette l'archeologia classica con le sue scoperte di Pompei ed Ercolano, scoperte queste che infiammarono d'amore per gli antichi sia archeologi ma anche letterati dell'epoca.

Fondatore della teoremi neoclassica fu Gioacchino Winckelman, che vede soprattutto nella statuaria greca un insuperabile modello di bellezza ed armonia.

Si ricordi, inoltre, che la scultura classica attraverso il volto di quei personaggi proponeva non solo un ideale estetico, ma anche etico; da quei volti così sereni e calmi emanava infatti un messaggio di armonia e bellezza rasserenatrice che Winckelman, nella sua utopia, voleva rifondare e ricostruire nel suo tempo storico, per proporre l'ideale di un uomo libero eroico ed austero.

Non si deve dimenticare a questo proposito che il periodo neoclassico coincide con quello napoleonico in cui si andava acquisendo sempre più i segni e i simboli dell'epoca romana.

Questo neoclassicismo, già importantissimo nel campo urativo, si impone anche nel campo letterario proponendo scelte significative sia nell'ambito tematico sia in quello stilistico.

Per quel che riguarda i temi vi sono frequentissimi richiami alla mitologia; mentre per quel che riguarda lo stile si nota una scrittura nitida ed elegante, aulica nei suoi termini e preziosa nella sua tessitura stilistica.

Ad essa attingono poi artisti ed intellettuali di vari atteggiamenti ideologici: si ha quindi l'accademico che imita pedissequamente i modelli antichi; c'è ancora l'intellettuale Giacombini che proietta in quel mondo greco-romano i suoi ideali di libertà e rivoluzione; e c'è chi, come Vittorio Alfieri, nutre quegli eroi classici della sua cupa malinconia e del suo forte sentire.

Invece l'indefinibile debolezza del termine "preromanticismo" (non si può infatti definire nulla in base a ciò che avverrà in seguito) è suffragata dal fatto che questa definizione atta a collegare insieme manifestazioni artistiche diverse tra loro è stata coniata dai critici posteriori per un loro proprio bisogno di orientamento storico e cronologico.

Ma se un comune denominatore si vuole trovare nella sensibilità preromantica, questo viene identificato nella ribellione che sente l'artista all'imposizione di regole che ne frenano la creatività. L'arte preromantica è quindi un'arte antirazionalista che sa esaltare il sentimento e i moti del cuore e che quindi predilige la categoria estetica del sublime rispetto a quella del bello, prerogativa invece del neoclassismo.

Tutta l'Europa conobbe il suo momento di sensibilità preromantica: in Inghilterra si ricordano le meditazioni notturne e cimiteriali di Young e Thomas Gray e quei famosi "Canti di Ossian" scritti da Macpherson, il quale finge di aver trovato quei canti in un antico manoscritto di un bardo scozzese che narrava delle antiche guerre scozzesi fra famiglie in un clima malinconico, tali canti saranno molto importanti anche per la letteratura italiana, per esempio per Ugo Foscolo, e saranno tradotti da Melchiorre Cesarotti; inoltre sempre in Inghilterra in quel periodo andava particolarmente di moda il romanzo gotico con il suo gusto per l'orrido.  

In Germania invece, vera culla del preromanticismo, si ricordi quel movimento scapigliato e ribelle, di quei giovani intellettuali che si rivoltarono al razionalismo rivendicando i diritti del cuore e del sentimento, movimento questo che va sotto il nome di Sturm und Drang .

Questi giovani impegnati nelle varie arti erano accomunati da un odio antifrancese e dalla speranza di un risorgimento di un'identità nazionale, o meglio di una coscienza nazionale, opponendosi così al cosmopolitismo dell'Illuminismo; con tale coscienza nazionale affermavano che l'arte non doveva essere formata da direttive astratte, ma doveva forgiarsi sul momento storico. L'artista veniva ad essere così la "longa manus" della sensibilità di tutto un popolo. In questo movimento veniva esaltata la "poesia di natura" legata cioè a quell'energia istintuale tipica dei popoli primitivi, cui si opponeva la "poesia d'arte" che doveva seguire i dettami di un esangue classicismo.

Nella stima di tali giovani risorge quindi il Medioevo sentito come un'età non ancora contaminata da civiltà e progresso.

Ricordiamo l'opera di Herder "I masmaviori", opera violenta e convulsa; ma soprattutto portatrice di questa nuova sensibilità è l'opera di Goethe "I dolori del giovani Werthe" che in quegli anni dette scandalo in quanto proponeva un modello ribelle alle convenzioni sociali.

In Francia si può citare Rousseau con la sua "Novella Eloise" e "Le confessioni" in cui l'autore propone un uomo riconsegnato alla sua individualità, libero e ribelle verso la vecchia morale della società.

In Italia, infine, non si ebbero grandi sviluppi di tali idee per il facile motivo che essa è stata da sempre terra del classicismo; pertanto si hanno solo fenomeni di importazione come i già citati "Canti di Ossian" o certe posizioni su sublime e genio di Bettinelli o il poeta vicentino Ippolito Pindemonte, che, oltre ai poemetti cimiteriali, scrive delle odi pregne di un tono crepuscolare e di intima e soffusa malinconia.

Accanto alle posizioni di Bettinelli e Cesarotti si ricordi infine l'opera di Giuseppe Barti "Discorso su Shakespeare e Volter" in cui contro l'illuminista francese prende le difese di Shakespeare e del suo genio libero e selvaggio.

Ugo Foscolo


introduzione

Scorrendo la sua vita si nota come la luce costante di Ugo Foscolo sia stato l'amore per la libertà e il rifiuto del servilismo, una libertà la sua che si potrebbe definire quasi anarchica, si infiammò infatti per gli ideali giacobini.

Tuttavia i suoi ardori rivoluzionari si affievoliscono con il trattato di Campoformio, il 17 ottobre 1797, la cui vergogna è scritta nell'esordio de "Le ultime lettere di Jacopo Ortis" (" . il sacrificio è consumato . ") opera questa che mescola suggestioni letterarie personali e vissuto reale anche nel nome del protagonista "Jacopo" che riecheggia la storpiatura della traduzione italiana del nome francese Jean-Jaques, e "Ortis" cognome questo di uno studente padovano morto suicida.

Importante è poi il biennio francese in cui Foscolo viene a conoscenza dell'editto di Saint Claude per cui i morti dovevano essere sepolti fuori dalle mura cittadine, Napoleone inoltre impose delle modifiche alle tombe, si ottennero così dei cimiteri di semplici croci con il nome inciso; tutto ciò dette spunto a Foscolo per la sua opera "I Sepolcri".

Se Pindemonte è contrario a questo cimitero napoleonico, Foscolo, che crede che il mondo si consumi per quella forza fisica che indebolisce le cose, pensa che ciò non danneggi i morti poiché con la morte finisce tutto; poi però si ricrede pensando a cosa può rimanere dei gesti degli uomini se vengono abbattute le loro tombe, nasce così il carmen "I Sepolcri" che si svilupperà talmente che l'urna diverrà il fulcro della storia dell'uomo, dimostrerà che tutti i popoli ne hanno avuto il culto.

Infine gli austriaci, sapendo che egli era amato molto dagli italiani, gli offrono la gestione politico culturale di Milano purché si pieghi all'Austria. Il 31 marzo del 1815 alla scala Foscolo viene avvicinato da un alto ufficiale austriaco che gli domanda quale sia la sua risposta all'Austria, ma Foscolo scrive alla madre di non volersi piegare al potere austriaco poiché sarebbe stato come rinnegare tutti quei valori con cui ella stessa l'aveva cresciuto; così quella stessa notte scelse la via dell'esilio.


Importante è notare che con Foscolo nasce il grande amore romantico.

La donna, per cui lui aveva una devozione intellettuale incredibile, diviene per lui l'incarnazione del bello ideale.

In modo particolare Foscolo esalta quindi la ura della donna, ma ancor più quella di sua madre che, nella sua vita di disordini, amori folli e di un esilio scelto volontariamente, è sempre presente ("un giovane malinconico e sventurato il quale non possiede altro che un cuore che gli fu sempre eterna causa di pianto").


Di me a me stesso

Quanto non è dolce il piangere su gli altrui mali! Eppure chi piange sui miei?

Niuno o pochissimi.

Tuttavia io non voglio esigere tanto dagli uomini. A me basta l amicizia di qualche essere sensibile.

A me basta l amore della mia tenera madre

LA POSIZIONE STORICA E LE "ILLUSIONI" DI UGO FOSCOLO


Con la sua personalità ardente ricca di contrasti, continuamente ravvivata dalla fiamma del suo forte sentire, e con la sua attività, che fonde arte e vita, Ugo Foscolo è sicuramente l'interprete più complesso e geniale di quel travagliato periodo storico che abbraccia la fine di un secolo, e allo stesso tempo di una civiltà, e la nascita di un Ottocento albeggiato dai primi sussulti romantici.

E se si guarda all'importanza e al valore della sua opera, non vi è alcun dubbio sulla sua statura europea e sulla possibilità di avvicinarlo agli spiriti grandi del secolo come Schelly, Orderlin, Goethe, Keats, Byron e Stendal.

Il fatto che Foscolo sia solidamente radicato nell'epoca in cui vive, è testimoniato dal fatto che porta nella sua arte i motivi peculiari di quel tempo:

la denuncia dell'astratto intellettualismo dei Lumi

l'esaltazione di passioni e sentimento contro la freddezza della ragione

il ripudio del cosmopolitismo e l'esaltazione della patria,nazione, come solo ambito affinché l'uomo possa essere promotore della storia e della civiltà

una forte dicotomia tra grazia e la tensione al sublime

la continuazione di quella visione materialistica meccanicistica del secolo dei Lumi

la perennità delle "illusioni" capaci di riscattare il destino umano dalla sua inevitabile mortalità e caducità.

Il momento cruciale in cui Foscolo matura le sue convinzioni politiche, e parzialmente anche i suoi ideali, è quel trattato di Campoformio con cui Napoleone tradisce Venezia per darla all'Austria. Prima, però, di affrontare storicamente questo evento e le conseguenze che ha avuto in Foscolo, cioè la stesura de "Le ultime lettere di Jacopo Ortis", c'è da considerare che nel periodo veneziano egli aveva assimilato le lezioni antidispotiche di Locke Montesquieu e soprattutto si era imbevuto dello spirito libertario e ribelle del grande Alfieri.

Era stato affascinato da Rousseau, che legge con spirito libertario e giacobino (nel passaggio aldemocrazia - Le elezioni - I gruppi parlamentari - Il governo - La Corte Costituzionale" class="text">la democrazia nel Veneto, si vede infatti Foscolo in un ruolo politico attivo: prima come socio della "Società della pubblica istruzione", un circolo patriottico dove si svolgeva un dibattito politico culturale, poi come segretario della nuova municipalità).

Nel 1802 alla cocente delusione di Campoformio si accomna quella per i comizi di Lione, in virtù dei quali nel nord d'Italia viene a costituirsi una repubblica italiana a sovranità limitata, il Regno d'Italia; Foscolo supera quest'ultima delusione con la speranza che questa nuova realtà statuaria sarebbe stata l'embrione di una nuova nazione unita e indipendente, accomnata inoltre dalla speranza di un rinnovamento dei diritti civili e di una nuova classe dirigente. La sua è comunque una posizione critica in quanto consapevole delle difficoltà che comportava il riunire, dopo secoli e secoli di frazionamento, territori prima divisi.

La delusione di Campoformio rappresenta per Jacopo - Ugo non solo un crollo degli ideali politici, ma anche un incupimento dei suoi valori ideali; è una delusione questa che va oltre la politica e che si attacca come un virus alla sua concezione esistenziale.

A Jacopo Ortis infatti la virtù appare come una copertura per una violenza insita nella storia, mentre lo stesso destino umano è qualcosa di insignificante nella trasformazione del cosmo e nell'agire cieco della natura.

La società per Ortis è una "necessaria nemica degli individui" e il mondo è "una foresta di belve". Il suicidio di Jacopo rappresenta quindi il riconoscimento del fallimento degli ideali che periscono all'impatto con la storia, cioè nell'urto tra reale e irreale, dove la realtà prende il sopravvento; il suicidio è visto quindi come un atto di rinuncia, ma anche come l'affermazione di una protesta tutta Alfieriana, che può essere considerata anche come il rovesciamento rispetto a "Il ritratto di Dorian Gray" di Oscar Wilde poiché con l'Ortis Foscolo si libera delle sue malinconie e accetta di proseguire la sua vita.

Nel romanzo "Le ultime lettere di Jacopo Ortis" egli sente, infatti, utili per sé le "illusioni"; ma dai sonetti in poi, quando cioè si apre la sua "seconda fase artistica", Foscolo risorge e si riveste di quel uomo nuovo accettando così il suo destino caduco.

La "religione delle illusioni" sale così dal piano della contingenza individuale al piano storico universale; ecco quindi come conseguenza il mito dell'eroe sventurato che quanto più su di lui si abbatterà la tempesta della vita, tanto più saprà affrontarla con animo impavido acquistando magnanimità.

C'è poi il mito dell'Ellade, il paradiso perduto, sede di vita armoniosa secondo natura; il mito della tomba che se per Ortis segna la vita spezzata, nei sonetti e nei "Sepolcri" segna una vita che continua nel cuore di chi rimane, nella civiltà e nella storia stessa dei popoli; il mito della poesia esternatrice, quindi, che riscatta l'umano agire dall'oblio eternandolo, come dice lo stesso Foscolo nei "Sepolcri" " . quando Omero scende sotto terra e cieco abbraccia le tombe degli eroi troiani per sentire i lamenti e i gemiti e così tramandare il mito di Ettore, bello di fama e di sventura, la libertà, l'amor di patria, la giustizia, la bellezza rasserenatrice che vince di mille secoli il silenzio . ".

Aggiungendo poi il mito dell'esilio si ottiene un quadro completo di quali siano per Foscolo queste "illusioni" che egli sente come ricompensa agli oltraggi della storia.


Ma che differenza intercorre sul tema delle "illusioni" tra

Foscolo e Leopardi?

Questi due grandi personaggi muovono il loro pensiero da una stessa matrice materialistica e vedono il cosmo, e il destino umano, in un inarrestabile moto di riproduzione governati da quella legge della materia che fa nascere e trasforma le cose, che fa invecchiare e morire, e per cui, alla fine della vita, tutto rifiorisce nella purezza dell'essere, tutto si disperde in un cosmico reflusso in attesa di altre vite e mondi.

L'uomo quindi rappresenta quello che Leopardi chiama "menomissima parte dell'universo" del quale la natura non si accorge, una natura questa intesa come "madre di parto ed in voler matrigna".

Se quindi è uguale la base di partenza, diverso è il loro pensiero e il loro cammino; non bisogna infatti dimenticare che essi ebbero caratteri, periodi storici ed inclinazioni diversi, perciò anche gli esiti furono diversi.

Se Leopardi nella "Ginestra" dimostra che l'uomo per conferire onore e dignità alla propria vita deve spogliarsi del tutto delle vane illusioni per accettare la filosofia dolorosa, ma vera, che mostra le cose nella loro nudità, e se sempre il Recanate invita tutti gli uomini a confederarsi per affrontare il comune nemico, cioè la natura; per Foscolo il discorso è diverso proprio per il tema delle "illusioni", poiché è in virtù di esse che l'uomo, incarnandole nella storia e promovendo leggi ed istituzioni, promulga sé stesso oltre anche il limite impostogli dalla vita.

Se la ragione, che per Foscolo è un dono funesto della natura, le riconosce vane, essa allora è concepita come un maleficio, poiché rivela l'animo vero, ma parimenti le esalta come uniche virtù che consentono di affermare che non si morirà del tutto.

Se quindi per l'Ortis le "illusioni" sono inattuabili nella storia, e il suicidio è visto come un atto di rinuncia, essendo queste ritagliate sul destino individuale del personaggio; dai sonetti in poi, come nei "Sepolcri" e ne "Le Grazie", Foscolo darà un respiro universale a queste "illusioni" intese come miti, ossia quei valori propri non di un individuo o di un popolo, ma universalmente validi per tutti, ponendoli così come parte integrante della conoscenza intellettiva dell'umanità.

Il fatto che i critici idealisti definiscano questo pensiero come "religione delle illusioni", evidenziando così la sacralità delle stesse intese più come sacramenti che come valori, le pone come le sole capaci di dare eroismo all'uomo, e così pure a Foscolo che solo così accetta la sconfitta politica e storica proiettando nel lontano la resurrezione di queste "illusioni".

Vergini belle! A voi chieggio

l'armoniosa melodia pittrice

della vostra beltà

(dal poemetto "Le Grazie", Ugo Foscolo)

le due "illusioni" più alte sono per Foscolo il sepolcro e la poesia.

La prima intesa come vita che continua nella tradizione di un popolo in quanto "sol chi non lascia eredità d'affetti, poca gioia dell'urna".

La seconda invece considera la poesia come più eterna delle stesse tombe, destinate a finire, poiché questa garantirà quel canto eternatore atto a celebrare i valori più alti della vita "finché il sole splenderà sulle sciagure umane"; infatti, afferma lo stesso Foscolo, le tombe dei troiani sono destinate a sire con il tempo, mentre il canto di Omero rimarrà per sempre.

In questa prospettiva il poeta assume il ruolo di un sacerdote investito di una missione civile e storica per cui salverà dall'oblio i valori più alti e importanti dell'uomo grazie a quell'armonia che vince di mille secoli il silenzio.








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