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Pearl Harbor

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LE CAUSE

Nella primavera del 1940 i giapponesi erano di fronte ad un bivio politico-strategico. Francia e Paesi Bassi, due delle tre potenze coloniali europee che sbarravano la via al "nuovo ordine asiatico", erano state annientate da Hitler. La terza, la Gran Bretagna era sull'orlo del collasso. Si aprivano per Tokyo le porte di Malesia, Birmania, Indocina e Indonesia. Un bottino enorme che avrebbe consentito al Giappone di sottrarsi al ricatto degli Stati Uniti, principali fornitori di materie prime. Dal 1935, i rapporti con gli USA si erano, infatti, progressivamente deteriorati con pesanti ripercussioni dell'economia nipponica e nel 1939, Washington aveva denunciato il trattato commerciale del 1911 provocando un primo blocco di materie prime. Nell'estate del 1940 i nipponici proposero a olandesi, francesi e inglesi una serie di concordati. Ma Gran Bretagna e Paesi Bassi rifiutarono le proposte giapponesi mentre la Francia concesse alcune basi in Indocina. Poco, troppo poco per il Giappone. Si riaprirono perciò i negoziati con gli USA. Intanto, lontano dalle stanze della politica, l'ammiraglio Yamamoto iniziava a studiare un piano segretissimo. Il 28 maggio 1941 la situazione bruscamente si aggravò. Washington aveva ulteriormente inaspritole misure restrittive. Un mese dopo vennero bloccate le esportazioni di petrolio USA verso il Giappone e gli olandesi rifiutarono di aumentare le forniture di greggio. Il 26 luglio Roosvelt congelò i fondi giapponesi cui seguì l'embargo totale. Lo stesso giorno i britannici ruppero le relazioni diplomatiche e gli olandesi aderirono al blocco. Le conseguenze furono decisive: Tokyo annullò i preparativi per una guerra contro l'Urss e decise di concentrare tutti gli sforzi verso sud, mentre la decisione di attaccare gli USA rimaneva condizionata dalle trattative in corso. In quei mesi Yamamoto aveva sviluppato un piano audace quanto temerario: colpire la flotta americana a Pearl Harbor prima che potesse interferire nella conquista dell'Asia per poi aprire, da posizioni di forza, negoziati con gli USA. Dopo molte indecisioni il 3 novembre il piano venne approvato, ma intanto Tokyo fece due proposte di accordo, subito rifiutate. Il 29 novembre i nipponici decisero l'entrata in guerra per il 7 dicembre. Il giorno 1 dicembre giunse alla flotta dell'ammiraglio Nagumo, ormai in navigazione verso le Hawaii, il segnale "scalare il monte Niitaka". Il dado era tratto.



Il 7 dicembre 1941, alle ore 21, sei portaerei nipponiche con una forza aerea disponibile di 392 apparecchi, due corazzate, due incrociatori pesanti, un incrociatore leggero, 16 cacciatorpediniere, e ventisette sommergibili di cui cinque tascabili fendevano le onde del Pacifico facendo rotta verso Pearl Harbor. Un'insenatura dell'oceano pacifico situata nella parte meridionale dell'isola di Oahu, nelle Hawaii, 10 km circa ad est della città di Honolulu; dove si trova una delle più importanti basi navali militari degli Stati Uniti. L'obiettivo della flotta imperiale era proprio questa base. Su questo giorno, definito da Roosvelt "the day of infamy" molti interrogativi rimangono ancora aperti. Ecco una ricostruzione ora per ora degli avvenimenti nella quale cercare delle risposte.

Il sei dicembre 1941, alle ore 21, nell'oceano pacifico 500 miglia (circa 800 Km) a nord delle isole Hawaii, lontano da ogni rotta commerciale decine di navi fendono le onde. È la flotta imperiale giapponese. A bordo non una luce, non un grido, solo il cupo brontolio dei motori. Al centro della formazione naviga a mezza forza la nave ammiraglia, la portaerei Akagi, seguita dalla gemella Kaga, dalla Hiryu e dalla Soyu; leggermente più distanti si distinguono le sagome della Shokaku e della Zuikaku, gli ultimi gioielli della marina da guerra nipponica. Su tutte le unità, gli equigi attendono in silenzio l'annunciato discorso del comandante in capo, l'ammiraglio Chuiki Nagumo, uno dei migliori marinai dell'impero. Qualche secondo ancora e dagli altoparlanti esce una voce secca, metallica. È Nagumo. Poche parole, quelle che servono, quelle che tutti attendevano. "In nome di sua maestà l'imperatore vi comunico che siamo in guerra contro gli Stati Uniti. Il nostro obiettivo è la distruzione della flotta del Pacifico ormeggiata nel porto di Pearl Harbor". La risposta degli uomini è immediata: un solo, altissimo grido che rimbomba tra le torrette, i ponti di volo, gli hangar, le sale macchine, "Tenno Banzai!", lunga vita all'imperatore Mentre la formazione accosta verso sud-est per raggiungere la posizione prescelta, sull'albero dell'Akagi viene issata la storica bandiera di guerra che garrì trentasei anni prima a Tshushima sulla nave dell'ammiraglio Heihachiro Togo, il distruttore della flotta zarista. La guerra contro i diavoli bianchi è ricominciata.

Il 7 dicembre 1941, alle ore 5, nelle acque di Pearl Harbor, il dragamine statunitense Condor in normale missione di dragaggio segnala al cacciatorpediniere Ward in pattugliamento notturno di avere avvistato un periscopio. È uno dei sottomarini tascabili giapponesi che tentano di forzare la rada approfittando della mancata chiusura dello sbarramento del porto rimasto incredibilmente aperto dopo il passaggio alle 4,58 di due unità. Il Ward inizia subito la caccia ma nessuno si ricorda di dare l'allarme alla stazione di controllo del porto. Dopo quasi due ore di inutili ricerche, il periscopio viene avvistato da un idrovolante che segnala la posizione con bombe fumogene. Il caccia lancia cariche da profondità colpendo il sommergibile che emerge e viene finito a cannonate. Sono le 6,45. L'ammiraglio Husband Kimel, comandante della base di Pearl Harbor viene informato alle 7,12 che il primo atto di guerra si è da poco consumato. Il tutto a poche miglia dal suo ufficio.

Alle ore 6,15 lo stesso giorno 275 miglia (circa 440 Km) a Nord di Pearl Harbor, dalle portaerei decolla la prima ondata. Si levano 49 bombardieri armati di una bomba da 800 chili, capace di perforare la più robusta corazzata, altri 40 muniti di siluro e 51 bombardieri in picchiata con bombe di 250 chili. Come scorta 43 caccia Zero. Una forza micidiale e modernissima nelle mani di piloti giovanissimi con il capo cinto dall'hacimaki, la candida fascia simbolo del sacrificio per l'imperatore. Come gli antichi samurai del Giappone medioevale. Nagumo ha dato l'ordine d'attacco al comandante Mitsuo Fuchida, uno degli assi dell'aeronautica giapponese, malvolentieri. L'ultimo messaggio speditogli nella notte dall'agente segreto Takeo Yoshikawa, che da mesi sorveglia dal suo ufficio consolare la Pacific Fleet a Pearl Harbor, non faceva menzione delle portaerei statunitensi Lexington ed Enterprise. "Dove sono?", si chiede Nagumo temendo una trappola. Ma ormai gli avvenimenti hanno preso il sopravvento. Tornare indietro non si può. Fuchida s'invola. L'attacco è cominciato. A qualche centinaia di miglia di distanza la Lexintong e l'Enterprise si preparano a ormeggiare nelle rade delle isole Wake e Midway.

Alle ore 7,50 a Fuchida, che guida il bombardiere di testa, appare finalmente la base americana. Le acque della rada scintillano sotto i primi raggi del sole. Attraverso il binocolo il comandante conta sette grandi unità da guerra ormeggiate in coppia lungo il lato orientale dell'isola Ford. Sono le corazzate West Virginia, Arizona, Nevada, Oklahoma, California, Maryland e Tennessee. In bacino di carenaggio la Pennsylvania, l'ammiraglia della Pacific Fleet. Niente portaerei. Da terra nessuna reazione, la sorpresa è riuscita alla perfezione. Emozionato Fuchida lancia nel cielo un bengala azzurro. L'ordine di attacco. Come in una normale esercitazione gli stormi si dividono: i bombardieri in picchiata si separano per attaccare i campi d'aviazione, i bombardieri si dispongono sulla rotta di avvicinamento intanto che gli aerosiluranti iniziano la loro lunga picchiata verso le corazzate. I giapponesi non sanno che mezz'ora prima il radar americano della stazione di Opana aveva avvistato l'intera formazione. Nessun allarme era scattato. Al centro operativo di Fort Shafter erano convinti che si trattasse di una squadriglia di "fortezze volanti" in arrivo dal continente.

Alle 7,53 a bordo della portaerei Akagi, il marconista consegna un foglietto all'ammiraglio Nagumo. C'è una sola parola ripetuta tre volte "Tora, Tora, Tora (Tigre, Tigre, Tigre)". È il segnale convenuto con Fuchida in caso di conferma di sorpresa del nemico. Nagumo finalmente sorride.



Alle 7,58 nella base di Pearl Harbor gli uomini del turno di guardia sulle unità alla fonda si apprestano all'alzabandiera. Sulla Nevada è già schierata la banda per l'esecuzione dell'inno nazionale. Improvvisamente un sibilo lacerante rompe il silenzio: sono gli aerosiluranti nipponici che si tuffano a bassa quota per sganciare i siluri. Atterriti, i marinai delle corazzate vedono le sottili scie bianche dei siluri dirigersi verso i grandi scafi indifesi. Nello stesso momento una tempesta di fuoco inghiotte centinaia di aerei americani schierati ala contro ala sui vari campi, come per una parata. Ma non è finita: dopo le esplosioni segue il crepitio delle mitragliatrici degli Zero che spazzano ogni difesa a terra. Per gli americani è l'inferno ma sulla Nevada i ventitré uomini della banda hanno suonato l'inno statunitense sino all'ultima nota.


Alle ore 8,10 sempre nella base di Pearl Harbor, i piloti giapponesi, con incredibile freddezza, scelgono con precisione i loro bersagli. Una bomba perfora i 13 centimetri della corazza della Tennessee ed esplode al suo interno; un altro ordigno, dopo avere attraversato i ponti, esplode nei depositi di prua dell'Arizona che salta in aria. La West Virginia, la Nevada, l'Oklahoma e la California sono squarciate dai siluri. Ovunque, fiamme, fumo, morti. Ma, ciò nonostante, qualcuno reagisce: a bordo e a terra le squadre di soccorso cercano disperatamente di controllare gli incendi mentre si accende il fuoco della contraerea. Purtroppo mancano a portata di mano le munizioni. Intanto la seconda ondata dell'assalto giapponese è in volo da più di un'ora.

Alle ore 8,25 ancora nella base di Pearl Harbor mentre la prima ondata nipponica si ritira, l'ammiraglio Kimmel e il generale Walter Short comandante delle forze di terra, ricevono i primi rapporti. Il quadro è disastroso: l'ottanta per cento degli aerei è stato distrutto al suolo, la West Virginia in preda alle fiamme stà affondando. La Arizona è affondata trascinando con sé oltre mille uomini. La Oklahoma è capovolta; la Tennessee sta bruciando e la California, nonostante gli sforzi dell'equigio, sta colando a picco. A poca distanza dall'attracco delle navi da battaglia, Kimmel scorge la chiglia rovesciata della vecchia corazzata Utah accanto al modernissimo incrociatore Raleigh ridotto a un relitto. Lungo un'altra banchina l'incrociatore Helena continua a bruciare. Solo la Nevada è miracolosamente riuscita a salvarsi e sta manovrando verso l'ingresso della rada. In quel mentre arriva al comandante l'eco dei cannone. È il cacciatorpediniere Monaghan che sta dando la caccia a un sommergibile tascabile nemico che ha appena lanciato, mancandola, un siluro contro la nave appoggio Curtiss. In pochi minuti tutto è finito. Il sommergibile è affondato. Sul Monaghan qualcuno festeggia, ma è una gioia amara e di breve durata. All'orizzonte si staglia nitida la linea d'attacco della nuova ondata giapponese.


Alle ore 8,55 alla base di Pearl Harbor il comandante Shigekazu Shimazaki responsabile del secondo assalto non crede ai suoi occhi, la Pacific Fleet è praticamente annientata. A lui l'onore del colpo di grazia. Al suo ordine 54 bombardieri, 81 bombardieri in picchiata e 36 caccia scendono come falchi da preda sulle rovine di Pearl Harbor, sugli aeroporti, su ciò che resta della flotta americana. Cadono le bombe sui bacini di carenaggio, danneggiando la Pennsylvania e distruggendo tre cacciatorpediniere, scivolano i siluri contro la Nevada che per salvarsi è costretta a incagliarsi, le caserme e gli aeroporti vengono mitragliati ancora una volta. Nessuno però dei piloti giapponesi si accorge che i grandi depositi di carburante e le infrastrutture dell'arsenale sono ancora intatti. E indifesi. Pochi minuti prima delle dieci Shimazaki dà l'ordine di rientrare. La battaglia è così giunta al termine.

Alle 8,57 (ora di Pearl Harbor) a Washington, nell'ufficio del segretario di stato, Kichisaburo Nomura, ambasciatore nipponico negli Stati Uniti, è nervoso. Terribilmente nervoso. A causa di un banale problema tecnico (il personale non è riuscito a dattilografare in tempo il messaggio da Tokyo) ha ritardato di un'ora e mezzo l'incontro con il segretario di stato Hull. Nomura è totalmente all'oscuro di ciò che sta avvenendo nel cielo delle Hawaii ma appena al cospetto di Hull capisce subito che qualcosa è già successo. L'americano guarda distrattamente la nota che Nomura gli ha consegnato pochi istanti prima. Sono quattordici paragrafi con cui si annuncia una guerra già in atto da più di un'ora. A Pearl Harbor. Controllandosi a fatica, Hull urla: "Non avrei mai immaginato che un qualsiasi governo al mondo potesse abbassarsi a tal punto". Poi alterato, indica all'ambasciatore la porta. Nasce così il mito rooseveltiano del "giorno dell'infamia". Eppure, Hull e il suo presidente conoscevano esattamente il contenuto del documento già alle 21,30 del 6 dicembre. I decifratori americani lo avevano, infatti, intercettato e decifrato da tempo comunicandone il contenuto a Roosevelt, che ha commentato semplicemente "È la guerra". Ma dalla Casa Bianca non è giunto alcun allarme alla flotta del Pacifico. Eppure sarebbe bastata una semplice telefonata per trasformare l'attacco in una catastrofe per i giapponesi.

Alle 10,30 a bordo della portaerei Akagi la prima ondata è rientrata e la seconda ha terminato l'incursione. Sui ponti l'entusiasmo è alle stelle. Con l'irrisoria perdita di soli 9 caccia, 15 bombardieri in picchiata e 15 aerosiluranti sui 354 aerei impiegati, la marina giapponese è riuscita a mettere fuori combattimento l'intera forza da battaglia americana. Ma nel quadro ufficiali non si festeggia: Minoru Genda, l'ideatore principale del piano, Fuchida e gli altri comandanti cercano di convincere Nagumo ad ordinare un terzo attacco. Volano parole forti, al limite dell'insubordinazione. Per Fuchida non c'è tempo da perdere: bisogna distruggere completamente Pearl Harbor, costringendo i resti della Pacific Fleet a ritirarsi nei porti della California. Il vecchio ammiraglio ascolta in silenzio le ragioni dei suoi sottoposti, i giovani lupi che bramano il combattimento, lo scontro. Nagumo li capisce, li ammira, ma la fortuna non si può sfidare un'altra volta. E poi, dove sono le portaerei USA? Alle 10,40 la riunione è terminata, l'assalto è da considerarsi concluso. Poco prima di mezzogiorno le prore si volgono a nord-ovest, mettendosi in rotta verso il Giappone. In quel momento l'Enterprise entra nella rada di Pearl Harbor in fiamme. La guerra del Pacifico è iniziata.


I DUBBI TERRIBILI

Gli americani potevano evitare la guerra del Pacifico?

Si, Tokyo cercò di trovare sino all'ultimo una soluzione politica. L'imperatore in persona si dichiarò, il 5 settembre 1941, contro la guerra e ancora il 20 novembre il governo nipponico offrì una proposta d'accordo.

Il disastro di Pearl Harbor era prevedibile?

Si, i servizi segreti sapevano che i nipponici si preparavano alla guerra: dal 24 novembre tutte le basi eccetto Pearl Harbor erano state allertate. Inoltre Roosevelt conosceva in anticipo anche il documento nipponico del 7 dicembre e ne previde le conseguenze ma non avvertì le Hawaii.

Per i giapponesi Pearl Harbor fu una vera vittoria?

Come commentò Yamamoto, l'assenza delle portaerei e la mancata distruzione dei depositi e dei cantieri vanificava gran parte della missione. E ancora, le corazzate affondate erano antiquate e inadatte ai nuovi compiti. Il loro sacrificio servì solo a motivare gli americani per una guerra contro il Sol Levante.


































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