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LA PROSPETTIVA - STORIA DELLA PROSPETTIVA, IL SENSO DELLA PROFONDITA', I PRECURSORI DELLA PROSPETTIVA

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LA PROSPETTIVA



INTRODUZIONE
Il vocabolo si riferisce generalmente alla rappresentazione di paesaggi, ma può indicare, più in particolare, una composizione pittorica in cui appaiono fughe prospettiche e inganni ottico-illusionistici, le une e gli altri ottenuti con la presenza di finte architetture, effetti di ombre e di colore. Scopo della prospettiva in pittura è dare tridimensionalità a un'opera, rendendola più vicina alla realtà. Una definizione più precisa sarebbe la speculazione teorica che ha per oggetto la rappresentazione su di una superficie piana della tridimensionalità dello spazio e dei corpi che in esso si trovano, nonché delle rispettive proporzioni e posizioni.



  • STORIA DELLA PROSPETTIVA



Nelle culture preistoriche e pregreche manca del tutto una concezione prospettica, che si afferma solo nel mondo greco.

Lo studio degli effetti e della tecnica prospettica venne intrapreso dai Greci prima in modo empirico (e ne sono prova gli scorci sempre più sapienti rilevabili nella produzione vascolare dal V sec. a.C. in avanti), poi con maggiore consapevolezza e con un preciso richiamo a regole geometriche (come fece Democrito, che giunse probabilmente a definire un metodo molto simile alla proiezione centrale). Tali risultati furono applicati sia nella pittura di cavalletto (ove si distinse, secondo la tradizione, Apollodoro di Atene detto lo Schiagrafo) sia nella grande decorazione (riecheggiata nel mosaico di Alessandro alla battaglia di Isso di Pompei, ora al Museo archeologico nazionale di Napoli) e nella scenografia teatrale. Perduti gli originali, si può trovare un riflesso delle ricerche greche nella decorazione parietale romana del primo e secondo stile, a Pompei (villa dei Misteri), a Boscoreale, a Roma (stanza delle Maschere). Più tardi, la tendenza all'illusionismo divenne in Roma prevalente, e si fece sempre più ricorso a metodi più empirici e approssimativi, anche se di effetto; con l'affermarsi del terzo e quarto stile inizia il processo di abbandono della tecnica prospettica propriamente detta, che sarà riscoperta nel Quattrocento fiorentino. In epoca tardoantica ha luogo, per il doppio impulso del misticismo cristiano e della condanna neoplatonica dell'illusionismo, l'abbandono della rappresentazione di uno spazio prospettico; nonostante significative eccezioni, come i mosaici della Rotonda di San Giorgio a Salonicco, rivelatori della persistenza, anche in epoca tarda, di una rigorosa scienza prospettica, si adotta in arte urativa il metodo della 'dissociazione prospettica', per cui ogni oggetto può essere visto prospetticamente in una sua casella spaziale, ma manca del tutto un criterio unificatore. Questa tendenza si accentua con l'affermarsi dell'arte bizantina, costruita con una mentalità trascendente e aspaziale: gli oggetti sono rappresentati ortogonalmente, o in prospettiva inversa (in cui le direttrici in profondità divergono verso il fondo) o in prospettiva cavaliera (in cui gli oggetti vengono visti dall'alto, con un forte appiattimento della profondità); paesaggi e architetture sono raramente rappresentati, e quando sono presenti, come nei mosaici siciliani del XII sec., hanno una funzione ritmica piuttosto che spaziale. La situazione cambia, nel mondo occidentale, verso la fine del XIII sec., in corrispondenza con il rinnovarsi di un interesse per la corporeità degli oggetti, come in Cimabue e Pietro Cavallini, ponendo le premesse per il primo tentativo di rivalutazione della prospettiva, che ha luogo con Giotto. Negli affreschi di Giotto ad Assisi, e ancor più chiaramente nella cappella degli Scrovegni a Padova e nella cappella dei Bardi a Firenze, è evidente lo sforzo di dare una plausibilità spaziale alla rappresentazione pittorica, giovandosi forse anche di esempi classici: tuttavia, si tratta di un tentativo empirico, che dà buoni risultati nei particolari (fastigi dei templi, scorci, e soprattutto le due finte nicchie della cappella degli Scrovegni) ma non basta a definire un'unità spaziale: come in talune opere romane tarde, Giotto giunge a una prospettiva 'a spina di pesce', in cui diversi punti di fuga sono allineati lungo un asse orizzontale.

La definitiva riscoperta della prospettiva centrale ha luogo a Firenze all'inizio del Quattrocento, soprattutto a opera del Brunelleschi, autore di due tavolette dimostrative (rappresentanti il Battistero di Firenze e Palazzo Vecchio), costruite secondo precise regole geometriche, e tenendo conto del punto di fuga e del punto di distanza. Mancando però notizie precise sugli esperimenti brunelleschiani (su cui riferisce il Manetti), la prima trattazione sistematica della materia a noi nota è quella dell'Alberti, che nel suo trattato Della pittura (1436) dà le regole della 'costruzione legittima' (cioè della proiezione centrale con punto di distanza). In ogni caso, la prospettiva era già allora ben nota agli artisti fiorentini, da Donatello (base del San Giorgio, 1416) a Masaccio (Trinità in Santa Maria Novella, 1428 circa), a Paolo Uccello, le cui ricerche peraltro si indirizzarono in un senso più astrattamente scientifico, non senza ritorni alla 'perspectiva naturalis' medievale (Storie di Noè nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella). Il motivo della fortuna della concezione prospettica in ambiente fiorentino va ricercato nel fatto che essa consentiva una riproduzione del reale nello stesso tempo aderente alla visione diretta e regolarizzata in uno schema geometrico, e soddisfaceva quindi le esigenze razionalistiche dell'ambiente: ciò è evidente soprattutto in Piero della Francesca, autore anche di un trattato, De prospectiva pingendi (1480), che è lo specchio più fedele della mentalità del tempo su questo argomento. Molto differente è invece l'uso della prospettiva che si deve al Mantegna, che abbassando notevolmente, nella cappella Ovetari a Padova, il punto di fuga fino a porlo all'altezza del visitatore reale, pone le basi per un uso non razionalistico ma dichiaratamente illusionistico della prospettiva, quale sarà realizzato dallo stesso Mantegna nella Camera degli Sposi a Mantova (1472-l474). Nel Cinquecento, gli studi prospettici prendono una direzione abbastanza diversa. Da un lato un pittore- scienziato, Leonardo, giunge dopo approfonditi studi di ottica a chiarire il carattere convenzionale della prospettiva quattrocentesca, e ne crea una variante prospettiva area che tenga conto dell'atmosfera come mezzo attraverso il quale avviene la visione; dall'altro un matematico, il francese Jean Pélerin, approfondisce l'aspetto geometrico della costruzione legittima. Come risultato, la pittura manieristica si volge a considerare la prospettiva come un semplice mezzo di rappresentazione, senza più attribuirle un significato conoscitivo: e si hanno così i primi tentativi di prospettiva di pure architetture (sala delle Colonne alla Farnesina, a Roma, del Peruzzi) o di sfondamento illusionistico delle pareti (cupola del duomo di Parma, del Correggio). In questo modo si perfezionano le tecniche che sfoceranno, allo scadere del secolo, nell'opera dei quadraturisti.

Dal Seicento in poi si verifica una netta scissione tra la ricerca scientifica sulla prospettiva (fondamentali gli studi di G. Desargues) e la sua applicazione in arte urativa, in cui le ure (spesso acrobaticamente librate nello spazio) sono costruite secondo le regole tradizionali. Ciò che cambia è invece l'uso della prospettiva, che diviene un mezzo ausiliare tra i più spettacolari per la grande decorazione, a partire dalla decorazione carraccesca di palazzo Farnese: gran parte dell'effetto fantasiosamente scenografico della decorazione barocca (e vanno ricordate le opere di G. Lanfranco, di Pietro da Cortona, del Gaulli, detto il Baciccia, e soprattutto di padre Andrea Pozzo) va attribuita al sapiente uso dell'inquadratura prospettica, sovente affidata a tecnici specializzati. Inoltre, e contrariamente a quanto accade nel Rinascimento (in cui l'abside di San Satiro a Milano, del Bramante, e la sistemazione del Campidoglio a Roma, di Michelangelo, costituiscono delle eccezioni, sia pur significative), le regole prospettiche vengono utilizzate anche nella sistemazione architettonica, sia per effetti particolari (galleria di palazzo Spada, del Borromini) sia per complesse soluzioni urbanistiche (piazza San Pietro, del Bernini). Queste tendenze si accentuano nel corso del Settecento, sia nella decorazione pittorica (affreschi del Tiepolo e, in altro senso, vedute del Canaletto, costruite con l'ausilio della camera oscura) sia nella scenografia (Bibbiena) e nel campo urbanistico (specie in Francia e Germania).

In epoca moderna, alla prospettiva vengono attribuiti compiti puramente rappresentativi, anche per uso tecnico, mentre, con l'affermarsi dell'impressionismo e la dissoluzione della concezione riproduttiva dell'arte, non vi è che qualche sporadico tentativo (Crocifissione, di Dalí) di trarne effetti particolari o specificamente espressivi.


IL SENSO DELLA PROFONDITA'


Come già detto per la cultura rinascimentale molto importante fu lo studio della prospettiva.

Essa si basa su un particolare effetto visivo: l'occhio umano percepisce gli oggetti entro un immaginario cono, con il vertice posto nell'occhio stesso, sicché gli oggetti vicini appaiono molto più grandi, a parità di grandezza reale, di quelli lontani. Inoltre se osserviamo, posti di fronte,  due linee parallele esse sembrano convergere in un punto, o fuoco, posto su una linea immaginaria, detta linea di orizzonte; infine se vi sono delle linee ortogonali rispetto alle prime, noi avremo l'impressione che esse diventino sempre più piccole e più ravvicinate: sono i gradienti di tessitura.

Si osservi tutto ciò in questa Annunciazione (del Maestro dell'Annunciazione Gardner) del XV secolo: la Madonna e l'angelo appaiono molto più grandi degli archi e del portale in fondo; le linee bianche viste frontalmente e i muri ad esse paralleli tendono a convergere in un punto; la decorazione del pavimento fatta di moduli quadrati chiari con altri quadrati inscritti all'interno diviene via via più fitta.

Bisogna poi determinare il punto di vista dell'osservatore: quanto all'altezza, esso può prevedere una visione frontale, se la linea di orizzonte è posta più o meno nell'asse mediano dell'opera; dall'alto verso il basso, se tale linea è posta molto in alto rispetto alla base dell'opera; dal basso verso l'alto, infine, se se la linea d'orizzonte è vicina o addirittura al di sotto della base dell'opera.

Inoltre la visione può essere centrale se il fuoco è più o meno al centro della linea d'orizzonte, altrimenti sarà accidentale o angolare.

Un altro modo di comunicare il senso della profondità fu teorizzato infine da Leonardo da Vinci: la prospettiva aerea. Consiste nel rappresentare gli oggetti lontani con contorni meno nitidi, più sfumati, come velati dall'aria e dall'umidità che essa contiene. Un Esempio di questo modo di procedere si può riscontrare nella Vergine delle rocce. Val la pena di ricordare che l'uso della tecnica ad olio (in questo caso su tavola) consentiva di stendere sottilissime velature di colore, che si prestavano benissimo alle esigenze della prospettiva aerea. L'opposizione tra luci ed ombre serve a dare l'impressione che le ure rappresentate abbiano un volume; ciò viene realizzato attraverso la tecnica del chiaroscuro: si mescola il colore-base della ura con le tinte più chiare e con quelle più scure, in modo da dare la sensazione di una luce che colpisce la ura rappresentata. Bisogna poi distinguere tra le ombre proprie della ura e quelle portate, cioè proiettate su altre ure o sui piani circostanti: le seconde servono a suggerire la distanza tra le diverse ure, lo spazio che le circonda. Del resto la contrapposizione tra luce ed ombra ha anche valore simbolico, spesso richiamando l'opposizione tra bene e male: basti pensare all'inizio del Vangelo di S. Giovanni , ma l'elenco dei testi, letterari e non, che utilizzano questa contrapposizione è inesauribile.

Ovviamente in opere che non aspirano a una rappresentazione naturalistica, come nell'arte bizantina medievale, non troveremo un uso di questa risorsa espressiva e le ure ci appariranno piatte, bidimensionali, nelle opere del Rinascimento italiano, invece, si fa largo uso di queste tecniche. Leonardo da Vinci, poi, farà largo uso della tecnica dello sfumato, con cui si evitano i contrasti troppo marcati tra luce ed ombra, sostituiti da passaggi molto graduali che addolciscono, offuscandoli, i tratti somatici.


I PRECURSORI DELLA PROSPETTIVA


Filippo Brunelleschi (Firenze 1377-l446)


lio di Brunellesco Lippi, notaio, si fece notare in occasione del concorso del 1402 per la seconda porta del battistero di San Giovanni a Firenze, nel quale fu giudicato ex aequo con Lorenzo Ghiberti. La sua fama di scultore è poi affidata al Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella e, molto più tardi, ai quattro Evangelisti negli occhi angolari della cappella dei Pazzi, la cui modellatura e spazi interni sono strettamente subordinati alle leggi architettoniche della costruzione. I tre lustri successivi al concorso del 1402 furono dal Brunelleschi spesi in viaggi e ricerche tecniche a Roma: rilievi di monumenti e soprattutto di ossature e tecniche murarie, ricerche di strumenti atti a realizzarle, ritrovamenti meccanici, studio di leggi di geometria e di statica. Giunse così a scoprire e realizzare tecnicamente quelle leggi della prospettiva architettonica e dei rapporti spaziali che fecero di lui l'indiscusso maestro di un nuovo linguaggio architettonico di risonanza mondiale. La sua architettura è classica, ma di una nuova classicità. Per comprenderla, a dispetto di una tradizione secolare che risale al Manetti e alla quale consentì anche il Vasari, va detto che il Brunelleschi non fu mai un riesumatore di edifici e di modelli antichi, un trasformatore in forme moderne di terme e templi romani, e che non molto si curò degli ordini e dei loro rapporti antichi, moduli e numeri (e per certo di poco fu debitore a Vitruvio). Le sue creazioni hanno ben pochi rapporti con i monumenti di Roma, per quanto concerne ordini e ornamenti; risentono invece dell'architettura romana nei giunti, nelle articolazioni, nei rapporti di pieno e di vuoto. I suoi monumenti non furono creati per lo Stato, come quelli romani, ma per l'uomo; la sua architettura non fu un puro ritrovato di stile, ma nacque dalla visione nuova del tempo e dello spazio.

Il prospetto dell'ospedale degli Innocenti a Firenze (il progetto è del 1419), col portico dalle singole campate a perfetti cubi spaziali (altezza delle colonne, profondità del vano, corda dell'arco sono uguali) e la parete tesa come un drappo bianco, è la prima soluzione moderna di rapporti prospettici tra lo spazio di una piazza e il volume di un edificio. Seguì probabilmente il progetto della chiesa di San Lorenzo (1419), che si può pensare come lo sviluppo simmetrico del portico degli Innocenti, con la luminosissima navata centrale che funge da spazio esterno alle navate laterali in penombra e in prospettiva rispetto all'asse centrale della chiesa. Più complesso di San Lorenzo è Santo Spirito (modello ligneo del 1430), la cui struttura, per la maggiore plasticità delle nicchie e il dinamismo delle colonne, raggiunge una straordinaria potenza architettonica. In ambedue questi edifici, alle chiese della fede, quali si erano avute con l'arte romanica e l'arte gotica, si sostituiva così il tempio, creato per la contemplazione razionale e per la comprensione intellettuale di Dio. Tale innovazione si realizzò in forma anche più perfetta nelle due costruzioni portate completamente a termine: la sacrestia vecchia di San Lorenzo (1420 e segg.) e la cappella dei Pazzi (1429-l443, salvo la facciata che è del 1462). Ma il capolavoro del Brunelleschi è la cupola di Santa Maria del Fiore, miracolo di tecnica e creazione di genio. Progettata fra il 1417 e il 1420, alla morte del Brunelleschi (1446) era quasi ultimata. La doppia cupola, concepita a creste e vele (a tutto sesto nel 1418, ma eseguita a sesto acuto dal 1420 al 1432), riesce a unificare all'interno i volumi costruttivi della cattedrale e a raccordarli allo spazio esterno, e a porsi essa stessa non come oggetto, ma come creazione dello spazio. Contemporaneamente alla costruzione della cupola la prodigiosa attività dell'architetto fu occupata dal completamento del palazzo di Parte Guelfa, dal palazzo Pitti, dal tempio degli Angeli, da progetti di forti (Castelliera, Rendina, Staggia) e bastioni (Pisa).

Il Brunelleschi morì "di febbre", probabilmente polmonite, nella casa dove era nato, all'ombra della sua cupola, il 5 aprile 1446. Venne sepolto, unico laico, nella cattedrale di Firenze. Una tomba, che la lapide sovrastante e le indicazioni contenute nelle Vite del Vasari fanno ritenere quella del massimo architetto fiorentino del Rinascimento, è stata ritrovata il 3 luglio 1972 nel duomo di Firenze. La scoperta è avvenuta durante i lavori di scavo effettuati nella navata destra per riportare alla luce i resti dell'antica chiesa di Santa Reparata.

Quale segno della fama goduta dal Brunelleschi già ai suoi giorni valga il fatto che, mentre il Manetti nella biografia che ne scrisse si sforzò di elevarlo alla dignità di personaggio storico, i suoi princìpi vennero assunti a fondamento delle teorie sull'arte da Leon Battista Alberti.


Leon Battista Alberti (Genova 1404 - Roma 1472)


Di nobile famiglia fiorentina, esiliata a Genova, studiò a Padova e poi a Bologna, dove conseguì la laurea in diritto canonico; passò parte della sua vita a Roma, membro della cancelleria pontificia. Sua prima opera è la commedia Philodoxeos, fatta credere per molti anni opera di un antico commediografo latino, Lepido. In seguito compose altri scritti in latino (Intercenali e in volgare finché, tra il 1437 e il 1441, si dedicò interamente alla sua più grande opera: il dialogo Della famiglia in cui espose le sue teorie sull'educazione dei li, sul matrimonio e su quanto può costituire la felicità morale e materiale dell'uomo: questioni che più tardi trattò ancora nella Iciarchia

Fin dal suo primo ritorno a Firenze, dopo la revoca del bando contro la sua famiglia (1428), l'Alberti si era entusiasmato davanti alle opere del Brunelleschi, di Masaccio, di Donatello, da lui glorificati nel proemio del trattato Della pittura (dedicato al Brunelleschi nel 1436). Dal 1431 al 1434 studiò e misurò a Roma gli antichi monumenti, ma alla attività architettonica giunse solo dopo i quarant'anni.

Ottimo disegnatore e prospettico lo dicono i contemporanei e coloro che poterono vedere i suoi disegni oggi totalmente perduti. Sua prima opera certa è, in Roma, Santo Stefano Rotondo: demolendo le pareti già in rovina della chiesa, restaurando il colonnato interno e murando l'intercolumnio del secondo colonnato, l'Alberti chiuse l'edificio in una nuova consonanza di spazi. Dopo questo restauro creativo, iniziò nel 1450 il rivestimento della gotica chiesa di San Francesco a Rimini, il Tempio Malatestiano. Ma i precisi progetti di trasformazione dell'interno (già manomesso nel 1447 da Matteo de' Pasti e Agostino di Duccio), cioè la volta a botte in legname, il nuovo transetto e coro, la cupola semisferica, non ebbero mai principio di esecuzione. Solo il celebre esterno fu realizzato, non monumento classico redivivo, ma monumento nuovo, omaggio dell'Umanesimo all'arte romana. Seguono le opere fiorentine: il progetto per palazzo Rucellai, dalla facciata elegantemente scandita dall'intelaiatura lineare delle cornici e delle lesene, il prospetto di Santa Maria Novella, la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio (1467), capolavoro di proporzionati rapporti, e la tribuna dell'Annunziata (disegnata nel 1470). Per i Gonzaga l'Alberti progettò e iniziò tra il 1459 e il 1460 la chiesa di San Sebastiano a Mantova. La facciata subì modifiche e menomazioni che ne rendono ardua, nell'originalissimo impianto, l'analisi. Chiaro, invece, l'interno, il primo a croce greca dell'Umanesimo, che nella sua essenziale stereometria resistette all'ingiuria dei secoli: al centro della croce, la cupola semisferica e il cubo di 15 m di lato creano uno spazio nitidamente definito e insieme grandiosamente sonoro, perfettamente intonato, pur nella sua solennità, alla misura umana. Nella chiesa di Sant'Andrea, pure a Mantova, ideata nel 1470, l'Alberti, accettando apparentemente la forma basilicale latina, coi suoi progressivi piani prospettici, riuscì a trasformarla in assoluta unità plastica col contrapporre e legare in giochi alterni, sotto la volta maestosa e unificante, le masse chiuse delle cappelle minori e i vani sonori delle cappelle maggiori.

Oltre al trattato Della pittura, teoria della nuova arte fiorentina, nel quale la pittura è intesa come veduta prospettica della natura, l'Alberti lasciò i trattati De statua e De re aedificatoria, finito quest'ultimo nel 1450 e già in circolazione nel 1452. In un latino di aulica limpidità, fondendo la cultura classica coi concetti e intendimenti moderni, l'Alberti distingue disegno pittorico e architettonico, disegno di pianta e di alzato, postula l'unità di spazio interno ed esterno di un edificio, giunge al processo trasurativo della creazione per passare, con anticipi avveniristici, ai problemi che legano città e suburbio, centro e camna.



Masaccio (Firenze, 1401 - Roma 1428)


Scarse sono le notizie sul grande pittore, tecipe, con l'architetto Brunelleschi e con lo scultore Donatello, nella Firenze del terzo decennio del XV sec., di quella rivoluzione artistica cui fu più tardi dato il nome di Rinascita. Nacque il 21 dicembre 1401, giorno della festività di san Tommaso da cui gli deriva il nome di battesimo, a Castel San Giovanni in Altura (od. San Giovanni Valdarno) dal notaio Giovanni di Mone Casai e da monna Jacopa di Martinozzo, secondo quanto il fratello minore Giovanni raccontò nel 1472 ad Antonio Manetti. Nel 1406 morì il padre e nacque il fratello Giovanni, poi pure pittore e soprannominato lo Scheggia. Poco più tardi la madre si rimaritò con un vecchio speziale, vedovo e padre di due lie. Nel 1417, anno della morte del patrigno, Masaccio probabilmente si trasferì a Firenze; nel gennaio del 1422 si iscrisse all'Arte dei medici e speziali come "Masus S. Johannis Simonis pictor populi Sancti Nicholai de Florentia"; nel 1424 risultava iscritto alla comnia di san Luca e abitante nella parrocchia di San Michele Visdomini. Il 19 febbraio 1426 ricevette dal notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto la commissione di una grande pala d'altare da destinarsi alla cappella, in costruzione, del committente della chiesa del Carmine di Pisa. È questa l'unica opera di cui siano documentate paternità e cronologia. Non sicuro è l'anno della morte: nel novembre del 1429 sul catasto di Firenze il nome di Masaccio risulta cancellato con la giustificazione "dicesi è morto a Roma"; si reputa che in quella città egli fosse stato chiamato dall'amico Masolino nel 1428 e che dopo pochi mesi fosse già morto, improvvisamente, sì da far nascere il sospetto, infondato, di avvelenamento. Del tutto taciuta da fonti contemporanee è la formazione di Masaccio, problema tra i più discussi dalla critica modema. Masaccio già da subito ebbe un orientamento verso i maggiori d'età Brunelleschi e Donatello, oltre che sul recupero della lezione dell'ultimo Giotto. Secondo un'ipotesi il primo dipinto di Masaccio dovrebbe essere il polittico con la Madonna col Bambino in trono tra due angeli nel pannello centrale, i Santi Bartolomeo e Biagio nel laterale di sinistra, i Santi Giovenale e Antonio Abate in quello di destra, nella chiesa di San Giovenale a Cascia presso Reggello (Firenze), il quale, esposto nella Mostra di arte sacra antica a Firenze nel 1961, fu quell'anno stesso pubblicato con l'ascrizione a Masaccio. La tavola centrale reca la data 23 aprile 1422, e (particolare interessante perché, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, è il primo caso nella pittura europea) non in lettere gotiche, ma in "lettere antiche" o capitali umanistiche dedotte dai vecchi codici. Sarebbe questa una testimonianza del rapporto precoce di Masaccio con la cultura più avanzata di Firenze, mentre la rigorosa intelaiatura prospettica, specialmente della parte centrale, e il preciso naturalismo (il Bambino era stato pensato nudo, e soltanto in extremis fu coperto di un velo) rimanderebbero rispettivamente a Brunelleschi e a Donatello. L'attribuzione di quest'opera a Masaccio è stata quasi unanimemente accolta; le poche, e talvolta parziali, opposizioni si basano sui caratteri neotrecenteschi della concezione generale e di gran parte dell'esecuzione, rifiutando di giustificarli come propri di un artista esordiente, poiché negli altri primi dipinti Masaccio non fa alcuna concessione alla tradizione locale. Subito dopo l'aprile 1422, data della consacrazione della chiesa (ma secondo altri verso il 1424- 1425), Masaccio verosimilmente dipinse l'affresco con la Sagra nel chiostro del Carmine di Firenze, oggi perduto, ma noto attraverso copie e descrizioni cinquecentesche, soprattutto di quella del Vasari da cui risalta con grande chiarezza come Masaccio avesse improntato la scena a esatta rappresentazione di un fatto storico contemporaneo, e cioè con istanze nettamente umanistiche, e a una precisa ricerca prospettica, interpretata come principio per costruire e ordinare razionalmente la realtà. Masaccio, insomma, avrebbe impostato quest'opera già con tutti i propri problemi i quali valsero nella contemporanea Firenze come rottura con gli indirizzi attuali, e nel contempo sollecitazione a una nuova visione dell'uomo, esaltato nella sua dimensione storica e dominatore della realtà, indagata e proposta nella sua sostanza razionale. Questi temi furono da Masaccio svolti e approfonditi nelle opere immediatamente seguenti, strettamente legate a Masolino: la Madonna col Bambino e Sant'Anna, dipinta per la chiesa di Sant'Ambrogio a Firenze e ora agli Uffizi, e gli affreschi celeberrimi della cappella Brancacci nella chiesa del Carmine, pure a Firenze. La pala degli Uffizi (comunemente detta Sant'Anna Metterza, e cioè "messa terza" dopo Maria e Gesù) fu attribuita dal Vasari a Masaccio e ritenuta prova del suo discepolato presso Masolino per l'indubbio influsso dell'arte di questo. Ma recentemente vi è stato riconosciuto di Masaccio soltanto il monumentale, plastico gruppo della Madonna col Bambino e l'angelo reggicortina di destra (da alcuni critici, però non persuasivamente, anche la Sant'Anna e la testa scorciata dell'angelo al culmine) e restituite le parti restanti a Masolino il quale, peraltro, avrebbe subito, e non esercitato, l'ascendente della forte e già ben costituita personalità del giovane collaboratore. Una netta distinzione s'avverte infatti tra le immagini delicate e gentili di Masolino, esili presenze cromaticamente squisite, e il denso risalto chiaroscurale, la coscienza morale, la fierezza popolana dei personaggi di Masaccio, che scartano qualsiasi ricerca di bellezza fisica. Probabilmente, subito dopo, Masaccio dipinse nella cappella Brancacci, ancora accanto a Masolino che con ogni verosimiglianza diede inizio all'affrescatura alla fine del 1424 o al principio del 1425, il Battesimo dei neofiti e aggiunse al centro della scena di Masolino con il Risanamento dello storpio e la resurrezione di Tabita le case popolane del fondo e due vicoli prospettici, dando così non solo unità ai due episodi in primo piano, ma inserendo anche, in prosecuzione con le idee espresse nella Sagra, nel tono aneddotico dei due miracoli di Pietro, l'accento rude e veritiero di uno squarcio urbano della Firenze contemporanea. Secondo un'ipotesi recente ma non concordemente accolta dalla critica, nel 1425 Masaccio si sarebbe recato con Masolino a Roma; insieme i due pittori avrebbero iniziato gli affreschi nella chiesa di San Clemente e il trittico a doppia faccia per Santa Maria Maggiore, commemorativo della fondazione della chiesa stessa. L'opera risulta già smembrata nel XVII sec. e dispersa poi in varie gallerie. Il pannello di sinistra della parte anteriore coi Santi Girolamo e Giovanni Battista (Londra, National Gallery) è, quasi unanimemente, ritenuto di Masaccio, mentre discussa è la cronologia, che alcuni vorrebbero anticipare al 1423, altri spostare al più tardo e documentato viaggio romano. Partito nel settembre 1425 Masolino per l'Ungheria al seguito di Pippo Spano, Masaccio tornò a Firenze e vi riprese l'affrescatura della cappella Brancacci dipingendo, nell'ordine, il Tributo della moneta, la Cacciata dei progenitori, San Pietro che distribuisce ai poveri i beni della comunità; il San Pietro che risana gli infermi con la sua ombra, i tre episodi della Storia di Teofilo nel registro inferiore (dopo una cinquantina d'anni completata da Filippino Lippi), intervallandola nel corso del 1426 per attendere anche al polittico per la chiesa del Carmine di Pisa. Di questa mirabile opera, smembrata alla fine del XVIsec. e dispersa in varie collezioni pubbliche e private, sono noti soltanto undici elementi: la parte centrale con la Madonna col Bambino in trono e quattro angeli (Londra, National Gallery), il soprastante Crocifisso tra Maria e San Giovanni Evangelista e con la Maddalena (Napoli, Gallerie di Capodimonte), San Paolo (Pisa, Museo nazionale) e Sant'Andrea (Vienna, Raccolta Lanckoronski) del registro superiore, e (tutti negli Staatliche Museen di Berlino) quattro piccoli Santi (Agostino, Girolamo, due Carmelitani) probabilmente facenti parte dei pilastri; i Martiri di san Pietro e di san Giovanni Battista, l'Adorazione dei Magi, San Giuliano che uccide i genitori e san Nicola che dota tre fanciulle povere (la cui autografia è discussa, sicché si è pensato ad Andrea di Giusto oppure allo Scheggia) costituenti la predella. La ricostruzione ideale del polittico è possibile grazie alla precisa descrizione dell'opera fatta dal Vasari nella seconda edizione delle Vite: recentemente, e con buone ragioni, si è proposto che il registro inferiore di esso fosse non, come si riteneva, distinto in tre parti, ma, con idea assai nuova, a campo unico, comprendendo, oltre la superstite Madonna col Bambino in trono, anche i Santi Pietro e Giovanni Battista a sinistra e, a destra, i Santi Giuliano e Nicolò (ssi). Un confronto con l'analoga Madonna col Bambino nella Sant'Anna Metterza fa risaltare l'approfondimento della costruzione spaziale espressa dalla stringata coordinazione prospettica specialmente nel trono e nei liuti degli angeli, la saldezza plastica dei volumi che si ritrova nella drammatica Crocifissione: qui il Cristo col torace gonfio e la testa infossata tra le spalle, oltre a costituire una di quelle diversioni dall'iconografia tradizionale sovente reperibili nelle opere di Masaccio, conferma l'attenzione verso la realtà dell'uomo, fisica e psicologica: Masaccio riduce anche il Cristo a una dimensione umana, sottraendolo dalla dimensione metafisica del suo pur ideale maestro Giotto. Gli affreschi della cappella Brancacci al Carmine (che un completo restauro ha restituito nel 1990 al primitivo splendore) sono il testo fondamentale della pittura rinascimentale, subito riconosciuti nel loro altissimo, esemplare valore dai più sensibili pittori suoi coetanei o persino più anziani quali l'Angelico, Filippo Lippi, Paolo Uccello, e quindi da Andrea del Castagno, Domenico Veneziano e Piero della Francesca, e ancora più tardi da Leonardo, Michelangelo e Raffaello, sino al suo più importante e tuttora valido biografo, il Vasari. Il Tributo è l'opera chiave e generalmente la più ammirata: in un paesaggio scabro ove i tronchi degli alberi hanno il valore di commisurare la profondità dello spazio, di proporsi, nella loro nudità, quali essenziali volumi, di opporsi ai vaghi scenari fioriti del gotico internazionale e di precisare una dimensione temporale reale, gli apostoli si dispongono intorno al Cristo (la testa si reputa per ragioni stilistiche dipinta da Masolino), anch'essi creando rigorosi rapporti di spazio. Nei successivi riquadri Masaccio approfondì particolarmente l'intelaiatura prospettica con un rigore più razionale, che trova nella Trinità affrescata in Santa Maria Novella a Firenze, verosimilmente poco prima della sua partenza per Roma, l'espressione più alta, soprattutto per il vano della cappella, risolto con un'architettura classica arieggiante quella dell'amico Brunelleschi, che assai probabilmente vi collaborò, sia per la stessa invenzione architettonica, sia per l'audace inscenatura prospettica. La prospettiva illusionistica è applicata anche nel sottostante affresco della mensa, recentemente ritrovato, che inquadra un sarcofago sul quale giace uno scheletro. Se si accetta la precedenza cronologica del pannello londinese del trittico della Neve, è difficile accertare l'attività di Masaccio a Roma, alla quale alcuni critici riferiscono la sinopia della Crocifissione in San Clemente. Valido tuttora, nella sua brevità lapidaria, è il commento fatto dal Brunelleschi alla notizia della morte del giovane amico: "Noi habbiamo fatto una gran perdita".


Donatello (Firenze 1386-l466)


lio di un cardatore di lana, ricevette la prima educazione artistica nella cerchia delle botteghe fiorentine, lavorando come semplice garzone. Il suo nome è menzionato per la prima volta nel 1403, tra quelli degli aiuti del Ghiberti, intenti a rinettare i rilievi della seconda porta del battistero fiorentino; ma già prima del 1408 svolgeva attività indipendente e riceveva commissioni dall'Opera del duomo. Nel 1409 compì, probabilmente in comnia del Brunelleschi, un primo viaggio a Roma, durante il quale poté avere una più diretta esperienza dell'arte classica, appassionandosi particolarmente al violento naturalismo e all'intensità espressiva della statuaria romana. Le prime opere, eseguite tra il 1408 e il 1411 - David marmoreo (Firenze, Museo del Bargello) e San Giovanni Evangelista(Firenze, Museo dell'Opera del duomo) per Santa Maria del Fiore e il San Marco per Orsammichele - mostrano come il giovane scultore, pur movendo da soluzioni linearistiche di gusto ancor gotico, visibili soprattutto nei panneggi, tendesse già a togliere alla linea ogni carattere ornamentale, servendosene per ordinare il gioco delle masse e creare una nuova concitazione chiaroscurale. Negli anni seguenti, prima ancora di collaborare con Brunelleschi e con Nanni di Banco all'esecuzione del modello della cupola di Santa Maria del Fiore (1419), Donatello diede con il San Giorgio per Orsammichele (1416; Firenze, Museo del Bargello) una prima soluzione a quel problema del rapporto tra forma e spazio, inteso come "reciproca integrazione", che era al centro anche delle meditazioni dell'architetto. La ura del santo, di cui il Vasari per primo mise in luce la "vivacità fieramente terribile" e il "maraviglioso gesto di muoversi dentro a quel sasso", occupa saldamente uno spazio a essa commisurato, determinandolo quasi, mediante il movimento a spirale suggerito dalla disposizione delle gambe e dello scudo, divergenti dall'assetto frontale e dalla lieve torsione del busto. La scena del Combattimento con il drago che orna il basamento, con il convergere verso il fondo delle rocce e degli archi, segna l'inizio di un altro dei motivi fondamentali dell'arte di Donatello: l'interpretazione pittorico-prospettica del rilievo, diversamente ripreso e sviluppato circa dieci anni dopo nel rilievo bronzeo per il fonte battesimale di Siena, rafurante il Convito di Erode(1423-l427), e nell'Assunzione della Vergine scolpita per la tomba del cardinal Brancacci in Sant'Angelo a Nilo, a Napoli (1427). Mentre nella formella senese, infatti, lo spazio, chiaramente scandito in profondità dalle architetture, permette di individuare tre successivi momenti dell'azione, nell'Assunzione di Napoli le ure in primo piano, a tenuissimo rilievo e colte da un punto di vista ribassato, si immergono nell'indefinita spazialità del fondo intensamente luminoso. Nel campo della statuaria, le quattro ure di Profeti scolpite per il campanile del duomo di Firenze tra il 1418 e il 1435 mostrano un progressivo approfondimento delle ricerche di "naturalità espressiva" fino alle maschere tragicamente intense e agli esasperati, tormentosi avvolgimenti di panneggio di Geremia e Abacuc.

Dal 1425 al 1432 circa Donatello tenne bottega con Michelozzo; nel 1430 fu, sempre con Michelozzo e assieme a Brunelleschi e Ghiberti, ingegnere militare dell'esercito di Firenze all'assedio di Lucca; alla fine dello stesso anno si trasferì a Roma, ove è documentato in una lettera di Poggio Bracciolini (30 settembre) e ove scolpì il tabernacolo del

Sacramento (sacrestia dei Beneficiati in San Pietro) e la lastra tombale di Giovanni Crivelli in Santa Maria in Aracoeli. Negli anni immediatamente successivi al ritorno in Toscana dell'artista (1433), furono eseguiti il pulpito esterno del duomo di Prato (1434- 1438), la cantoria del duomo di Firenze (1433-l438; Museo dell'Opera), il David bronzeo del Bargello e l'Annunciazione Cavalcanti (1436-l440; Santa Croce), tutte opere nelle quali è particolarmente evidente un nuovo valore dato alla luce come elemento caratterizzante o unificante della composizione. Nella cantoriala danza frenetica dei putti si snoda, non arrestata dall'intelaiatura architettonica, tra il fondo a mosaico e le colonnine in primo piano, che con la loro luminosità intensificano l'impressione di violenta animazione, di gioiosa e quasi orgiastica vitalità. Nel David la luce scivola senza arresti sulle levigate superfici del corpo, accentuando l'effetto di continuità dei piani e mettendo in risalto la modellazione raffinatamente naturalistica delle membra. Fra il 1434 e il 1442 Donatello si occupò anche della decorazione della Sacrestia Vecchia di San Lorenzo, compiuta dal Brunelleschi nel 1428, eseguendo otto medaglioni in stucco policromato (quattro con Storie di san Giovanni Evangelista nelle vele della cupola e quattro con gli Evangelisti nei lunettoni alla sommità delle pareti), due rilievi centinati con coppie di santi (San Lorenzo e santo Stefano, i santi Cosma e Damiano) e i battenti bronzei delle porte dei due ingressi ai lati dell'altare, divisi ciascuno in cinque riquadri contenenti coppie di santi e di martiri. L'accentuata interpretazione pittorica del rilievo, appiattito e vivacissimo, si accomna all'effetto di slancio verso l'alto provocato dal convergere dei punti di fuga di tre dei quattro rilievi con Storie di san Giovanni. La decorazione incontrò la disapprovazione del Brunelleschi e fu sfavorevolmente accolta in tutto l'ambiente artistico fiorentino. Tale incomprensione poté forse essere una delle ragioni, insieme con l'intenzione di assicurarsi l'ordinazione del monumento al Gattamelata, che spinsero lo scultore a lasciare la città natale e a trasferire la propria bottega a Padova, ove già nel gennaio 1443 lavorava al Crocifisso bronzeo per l'altar maggiore della basilica di Sant'Antonio. Il ritmo spezzato delle linee e dei piani, i drammatici contrasti luministici del Crocifisso ritornano nelle statue e nei rilievi per l'altare del Santo (1446-l450), grandioso complesso architettonico e scultoreo smembrato nel 1581 e arbitrariamente ricostituito nelle forme attuali alla fine del secolo scorso. Nei rilievi bronzei con i Miracoli di sant'Antonio, entro uno spazio scenograficamente dilatato, la continua vibrazione luminosa intensifica l'agitazione della folla di personaggi, conferendo alla narrazione un tono altamente concitato. Nel monumento equestre al Gattamelata (1447-l453) il saldo equilibrio dei volumi, accolto da modelli classici, dà grandiosa solennità all'immagine, senza attenuarne l'impeto eroico. Al suo ritorno in Toscana, dopo il decennio trascorso a Padova, Donatello trovò l'ambiente artistico profondamente mutato e allo stile morbido e levigato, alla delicata ricerca di grazia degli scultori della nuova generazione egli contrappose i ritmi dissonanti del gruppo di Giuditta e Oloferne, l'aspra e tormentosa macerazione della forma del San Giovanni bronzeo del duomo di Siena e della Maddalena lignea del battistero fiorentino, l'estrema dissoluzione delle immagini nella luce dei rilievi eseguiti per i pulpiti di San Lorenzo, commissionati da Cosimo de' Medici nel 1460 e terminati dagli allievi.


Piero della Francesca


Dopo un primo apprendistato nella città natale, si recò a Firenze, dove la sua attività a fianco di Domenico Veneziano, in Sant'Egidio, è documentata solo nel 1539, ma dove probabilmente risiedeva già da qualche anno, come lascia supporre la conoscenza approfondita della tradizione artistica fiorentina, e soprattutto della scienza prospettica, manifesta fin dalle prime opere. In particolare il giovane pittore dovette sentirsi attratto dalla lucida impostazione spaziale, dalla rigorosa e pacata struttura compositiva, dal colore luminosissimo dei dipinti dell'Angelico, tramite importantissimo presso i più giovani artisti delle idee del Brunelleschi e di Masaccio, e fu sicuramente in contatto con l'Alberti che gli comunicò la fede incrollabile nel valore delle leggi prospettiche e proporzionali, che proprio in quegli anni venivano teorizzate dall'architetto nel suo trattato Della pittura.

Dalle parti più antiche del polittico della Misericordia (Borgo San Sepolcro, Pinacoteca comunale), di intonazione vigorosamente masaccesca, al Battesimo di Cristo (Londra, National Gallery), ricco di misteriose consonanze tra le rustiche ure e il paese vasto e luminoso, alla fissità araldica e cerimoniale dell'affresco rafurante San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta(1451; Rimini, Tempio Malatestiano), sembra che il maestro vada gradualmente sviluppando motivi della tradizione fiorentina, puntando con sempre maggior sicurezza sull'intuizione che nella natura esiste un intimo legame armonico delle forme tra di loro e con lo spazio e che tale legame va manifestato, nel microcosmo pittorico, in una rappresentazione che trovi la sua legge assoluta nella certezza razionale del numero, e, più ancora, della "divina" proporzione, basata su di un infallibile tessuto di rapporti geometrici, quantitativi, ma tuttavia celati, dissimulati, continuamente trasurati nell'infinita ricchezza e variazione dei toni di luce e del colore. Ma la piena maturità dell'artista si rivela nel ciclo di affreschi rafuranti la Leggenda della Croce nella chiesa di San Francesco ad Arezzo iniziati verso il 1452 e terminati probabilmente solo otto anni più tardi. L'ingenua e fiorita leggenda del Sacro legno diviene per mano di Piero della Francesca un racconto spettacolare che non scende tuttavia mai a mera cronaca profana, anzi diviene in ogni episodio, dalla Morte di Adamo, all'Incontro di Salomone con la regina di Saba, dal Sogno di Costantino all'Annunciazione, dalla Battaglia di Costantino e Massenzio a quella di Eraclio e Cosroe, epica contemplazione di una storia ancora da farsi e insieme già fissata fin dall'inizio dei tempi. Di Masaccio l'artista seppe cogliere come nessun altro la capacità di nobilitare gli aspetti più semplici e quotidiani del reale, nella grandiosità delle forme e nella gravità naturale dei gesti, che divengono espressione di somma e consapevole dignità morale, ma ne rifiutò invece il tono di concentrata drammaticità: non eventi, non azioni rafura Piero, ma piuttosto una contemplazione di eventi, una rituale ripetizione di azioni e gesti che si svolge secondo un cerimoniale immutabile. Di qui il tono sacrale della rappresentazione, anche nelle scene di battaglia: una sacralità che investe anche la natura, lo spazio stesso entro il quale stanno i personaggi né dominati né dominatori, ma in sereno, proporzionale accordo perché ricreati secondo le medesime leggi razionali di misura e di semplificazione volumetrica che governano tutti gli aspetti della realtà. Il medesimo tono sacrale ritorna nella Flagellazione di Cristo (Urbino, Galleria nazionale) e nella Resurrezione della Pinacoteca di Borgo San Sepolcro, nella quale la natura sembra ridestarsi alla sua primigenia perfezione insieme con il Cristo trionfante.

Dal 1470 al 1480 si intensificarono i rapporti del pittore con la corte urbinate dei Montefeltro, che diveniva proprio in quegli anni centro dell'arte intellettuale del Rinascimento. Ma mentre si approfondiscono gli interessi teoretici dell'artista, che sfoceranno nella stesura dei trattati De prospectiva pingendi e Libellus de quinque corporibus regularibus, intesi a dimostrare la possibilità di rendere ogni aspetto della realtà visibile secondo un rigoroso ordine matematico che diviene rivelazione della suprema armonia del creato, sembrano accentuarsi anche i suoi interessi per taluni aspetti stilistici e tecnici della pittura fiamminga e soprattutto per particolari effetti di luce. E la luce si impone come elemento unificante della visione nel dittico di Urbino (Firenze, Uffizi) con gli araldici ritratti dei duchi Federico da Montefeltro e Battista Sforza, e i loro "trionfi", nella Madonna di Senigallia (Urbino, Galleria nazionale), fino alle opere estreme, come la Natività (Londra, National Gallery) e la pala dei Montefeltro (Milano, Brera, restaurata negli anni Ottanta), nelle quali la calibratissima e razionale struttura monumentale coincide con l'espressione, mediante la luce, di un universo entro il quale le forme, uomini e cose, depurate da ogni determinazione plastica si rivelano nella loro essenzialità in uno spazio perfetto, dove ogni mutamento appare inconcepibile.


















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