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Scultura Arcaica



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Scultura Arcaica


Ssi tutti i monumenti di una pittura che gli antichi scrittori celebravano come eccelsa, la scultura rimane la somma testimonianza della uratività ellenica. E anche questa conosciamo soltanto da pochi originali, per lo più mutili e privi dell'antica policromia, e dalle numerose copie eseguite per i committenti romani, dopo la conquista.

Né l'eredità minoico-micenea né i rapporti, pur certi, con la statuaria egizia bastano a spiegare la fioritura quasi improvvisa della grande statuaria arcaica nell'area dorica (Peloponneso), ionica (Egeo, Asia Minore) e attica. Gli stessi greci spiegavano con la leggenda - la fuga del mitico DEDALO da Creta e il suo arrivo nell'Attica - il nascere di una scultura, le cui immagini non erano soltanto idoli o materializzazioni del divino in oggetti vagamente antropomorfi, ma rappresentazioni del divino in immagini che avevano l'apparenza della vita e del movimento. Corrisponde infatti al passaggio dal circolo chiuso della reggia micenea all'aperta socialità delle poleis il trapasso del sentimento del sacro dall'oggetto direttamente investito del potere divino all'intuizione del divino attraverso la rappresentazione delle forme naturali idealizzate. Poiché la ura umana è pensata essere la più eletta delle forme naturali e la più prossima alla perfezione ideale, essa è anche quella che compendia nell'armonia delle proprie forme l'infinita armonia del cosmo: perciò, più che una ripetizione della morfologia del corpo umano, la statua è l'espressione in ura umana della natura come un tutto e cioè, ancora, dello spazio. Lo conferma il procedimento tecnico generalmente seguito: lo scultore lavorava con scalpelli a punta, riducendo via via il blocco di marmo tutt'intorno alla ura ideale di cui andava ricercando i limiti e i contorni, quasi disegnandola nella materia. Procedendo dall'esterno, insomma, lo scultore non cercava tanto la superficie solida del corpo quanto il suo limite imponderabile con la luce e lo spazio: un limite, appunto, che definisse insieme lo spazio infinito e la forma umana in cui quasi simbolicamente si identificava. Può sorprendere che una materia tanto raffinata e preziosa fosse poi ricoperta di colore: ma una forma che si dia come universale, o come fenomeno assoluto che compendi in sé tutto il mondo dei fenomeni, non può prescindere dal colore e nella scultura, come nell'architettura, il colore sottrae la luce-forma alla variabilità o mutabilità della luce naturale.



La Hera di Samo, uno dei più antichi esemplari della grande statuaria greca, dimostra come questo processo tecnico non fosse un processo di traduzione in pietra di un'immagine concepita dalla mente, ma un processo stilistico, di determinazione o individuazione dell'immagine. Come nel tempio, forma ideale dello spazio, si passa dalla forma curva delle colonne, su cui la luce si gradua in infiniti passaggi, alla volumetria dell'insieme, che offre alla luce i suoi piani squadrati, così qui si passa dallo stelo cilindrico delle gambe avvolte nella veste pieghettata (chitoàne) al busto squadrato, idealmente chiuso in quattro piani ortogonali (frontale, tergale, laterali). Lo scultore non si è fermato a questa schematica identità di modulo geometrico tra la forma ideale dello spazio geometrico e quella della ura umana; ma non ha cercato, al di là di quel limite, di individuare e descrivere i particolari delle membra. Ha invece cercato di definire come la sostanza viva dello spazio, la luce, penetrasse in quella struttura geometrica fino a identificarsi con la materia del marmo. Ha solcato il lungo fusto cilindrico della veste con tante pieghe sottili, tutte uguali come le scanalature di una colonna, in modo da costringere la luce a non trascorrere, ma ad indugiare sulla superficie incurvata; e, in alto, ha dato al ritmo più largo delle pieghe del manto (himåation) un andamento sinuoso per suggerire le curve del braccio e del busto al di là di quei piani ideali. La Hera di Samo è opera ionica, e tipicamente ionico è questo intrecciarsi di un'attenta sensibilità alle variazioni e vibrazioni luminose, alla rigorosa geometria dei grandi volumi. Nel giovane nudo (kouros) di Milo, il passaggio da una squadratura ideale, che taglia la forma per piani frontali, ad una forma tornita e quasi cilindrica, che filtra e guida la luce entro la plastica del corpo, è anche più evidente: come se la ura umana, data come forma perfetta, non potesse che risultare dalla combinazione e dalla sintesi dei due tipi fondamentali delle forme geometriche, quelle a facce piane (cubo, parallelepipedo, piramide) e quelle a superfici curve (sfera, cilindro, cono). Ma tra queste forme, appunto, intese come forme archetipe di tutta la realtà, è l'infinita varietà, la molteplicità illimitata degli eventi della vita: in scultura, tutte le possibili qualità e quantità della luce. Nella scultura ionica molti e diversi sono i modi di qualificare plasticamente una superficie fissando il modo della sua reazione alla luce: le piegoline del chitone o i più radi solchi sinuosi dello himation della Hera, le treccioline dei capelli e il modellato disteso, offerto al trascorrere della luce, del kouros di Milo; la criniera cesellata, che forma un alone di luce intorno alla testa del leone di Mileto. Le stesse stilizzazioni (come le pieghe geometrizzate delle vesti, le chiome trattate come rigide treccioline accostate, con ondulazioni ritmiche, ripetute e uniformi) non sono che altrettanti modi di trattenere e impegnare, in frequenze più fitte o più rade, la luce sulla materia. La struttura e perfino lo schema d'immagine sono identici nelle statue di Kleobis e Biton (c. 610), scolpite da POLYMEDES, della corrente dorica. Se, riprendendo il paragone con l'architettura, il kouros di Milo è come un tempio in cui il fusto snello e affusolato della colonna domina con il suo slancio elastico tutto l'insieme, il kouros di Polymedes è come un tempio in cui il valore dominante sia quello dello squadrato volume dell'insieme e le colonne non siano che elementi di sostegno nel sistema volumetrico. Lo squadro della testa e del busto include nella propria architettura le curvature del torso, delle gambe, delle braccia; i passaggi chiaroscurali sono netti e concisi; le minime indicazioni anatomiche si riducono a pochi tratti graffiti per non turbare la compatta unità del volume. Analogamente, il leone di Corfù, paragonato a quello di Mileto, è una massa in tensione, rafforzata da vuoti profondi, senza mediazioni o trapassi tra i pieni, luminosi, ed i vuoti carichi d'ombra.

Appartiene alla terza corrente, attica, il kouros del capo Sunio, del principio del VI secolo; e potrebbe, a prima vista, parere il risultato di una somma delle due correnti, dorica e ionica. V'è invece un fatto nuovo: la ura umana non è più pensata come la risultante armonica di due forme geometriche archetipe (piane e curve), ma come un terzo tipo di forma, autonoma, capace di sprigionare da sé una forza di moto, di prendere possesso dello spazio. In altri termini, se all'idea del puro essere-nello-spazio succede quella dell'esercitare una forza nello spazio, è necessario mettere in evidenza le sorgenti di questa forza, la struttura dinamica del corpo, i muscoli. Non si tratta, tuttavia, di una ricerca naturalistica ma, ancora, strutturale: ossa, muscoli, tendini sono considerati solo come linee o correnti di forza che, dall'interno, determinano le espansioni e le contrazioni, le sporgenze e le depressioni della massa.



Del kouros di Tenea (560 circa), chi l'analizzasse in rapporto alla conoscenza dell'anatomia umana direbbe che rivela una nozione ancora sommaria ma in qualche parte già avanzata della muscolatura. Invece il movimento della ura dipende molto più da un leggero spostamento dell'asse di simmetria che da un gioco di muscoli; le ginocchia sono i giunti di un congegno di forze; i muscoli dei polpacci, gli inguinali, i pettorali, sono altrettante spinte dall'interno che determinano sporgenze dove la luce batte più forte e vuoti dove l'ombra s'addensa più fonda. Si veda, per esempio, come la larga superficie del petto campeggi nella luce perché i fianchi, contratti, formano con le braccia leggermente flesse due profonde cavità d'ombra; e come i capelli, formando una massa compatta, spingano in avanti, quasi anticipando il movimento del corpo, il profilo acuto e proteso del volto. Il senso 'eroico' di questa ura di giovane atleta non è espresso da un gesto corrispondente a un'azione precisa; ma da una forma che diventa forza e che si traduce nell'espressione di un sicuro e sereno dominio della ura umana sullo spazio naturale.

Nella kore di ANTENORE (530 circa) non v'è neppure anatomia, ma soltanto drappeggio. Come in tutto il gruppo delle korai dell'Acropoli di Atene, un sottile luminismo di origine ionica increspa tutte le superfici, variamente incanalando la luce nei rivoli fitti delle pieghe irraggiate in direzioni diverse, nei festoni dei lembi ricadenti dei pepli, nelle fini treccioline ondulate. Il moto o, piuttosto, la vita della ura è dunque interamente ottenuto con diverse qualificazioni delle superfici per una varia modulazione della luce, con il diverso orientamento e andamento dei risalti luminosi e dei solchi d'ombra, con il loro ritmo ora ascendente ora discendente. La ura, insomma, è uno schermo su cui si intensificano, animandosi, gli elementi che compongono lo spazio naturale: e proprio da ciò dipende il predominio della ura, il maggior prestigio o il maggior valore di bellezza che la ura scolpita, la statua, assume nei confronti di tutte le possibili sembianze naturali.

Questa concezione della centralità della ura umana rispetto allo spazio di natura corrisponde del resto all'evolvere della credenza religiosa, del mito. Indubbiamente la gravità dorica, con il taglio severo delle masse e la forza contenuta delle sue forme conserva ancora il senso d'oppressione della mitologia ctonia, ch'è appunto la mitologia delle preponderanti, invincibili forze cosmiche: come si vede nel frontone di Corfù, con la mostruosa urazione della Gorgone tra le belve, o nelle mètope di Selinunte e di Pesto, o nelle ure frontonali di Eracle e Tifone ad Atene; mentre, nella corrente attica, il rapporto s'inverte e la ura umana, dandosi come suprema forma della natura e quindi come rappresentazione di sé e dello spazio, si pone veramente come pitagorica 'misura di tutte le cose'.

Nella stele del guerriero Aristion, firmata da ARISTOCLE (530 circa), l'esiguo spessore del rilievo contiene, anzi dilata il volume. Il vuoto è dato, nel fondo, come un piano liscio, in un'uniforme diffusione della luce. Mancando una profondità reale, la plasticità della ura è affidata all'andamento dei contorni, alla linea. Al livello più profondo, il braccio che regge la lancia è soltanto profilato sul fondo; i contorni tendono alla retta; l'asta rettilinea solca appena il fondo, divergendo leggermente dalle rette del bordo. Il torace, col suo volume espanso, è disegnato da una curva più accentuata, più marcata ancora è la curva del muscolo del braccio affiorante al primo piano. Benché tutta compresa nell'esiguo spessore della lastra marmorea, la ura è come inscritta tra le facce di un parallelepipedo: il fondo, i lati estremamente abbreviati nell'incavo dei bordi, un piano frontale immaginario suggerito dall'appiattirsi delle pieghe della manica sul braccio turgido, muscoloso. La plastica, tuttavia, non risulta soltanto dalla varia curvatura dei contorni: quanto più marcata è la curva, tanto più profondo è il solco d'ombra che, scavandosi ai margini del volume, lo qualifica, per contrasto, come volume luminoso. La luce si condensa nei riccioli fitti dei capelli, scorre lungo il tratteggio ondulato della barba e, da questi punti di massima vibrazione, dilaga uniforme, come un velo, su tutti i piani della ura. Non occorrono effetti di scorcio o d'illusione visiva: la modulazione della luce nello spazio dà valore volumetrico anche ai minimi risalti. Le linee stesse sono filamenti luminosi o solchi d'ombra: non, dunque, una trascrizione grafica del volume, ma un fenomeno plastico e visivo di altrettanta evidenza. Non diversamente nella poesia, specialmente nella poesia greca, la parola vale contemporaneamente per il suono e per il significato, come fatto fonetico e fatto concettuale.



Che la forma plastica sia sempre concepita per uno spazio privilegiato, ideale, non naturale, è dimostrato dalla funzione che assume nell'architettura specialmente nei frontoni dei templi. La forma del tempio, come s'è veduto, risulta dall'equilibrio o dalla proporzione di verticali e orizzontali; al sommo, il frontone triangolare riassume e conclude, quasi stabilendone la media proporzionale nei suoi lati obliqui, i due grandi temi strutturali del peso (orizzontali) e del sostegno (verticali). La decorazione è formata da statue collocate nella breve cavità del frontone, tra il piano liscio del fondo e il piano ideale, d'affioramento, indicato dalle cornici sporgenti. È uno spazio ideale perché è al di sopra e al di là del pur equilibrato contrasto delle forze, oltre l'orizzonte naturale simbolicamente rappresentato dall'architrave e dal fregio. In questo spazio, che ha la dimensione dell'eterno, si compone un racconto i cui protagonisti sono statue; ed è proprio il racconto, spiega Kerényi, che forma la sostanza reale e concreta del mito. I miti che vengono urativamente raccontati al sommo del tempio, nel frontone che evoca il profilo d'un monte che potrebbe essere l'Olimpo, e che sovrasta e compone il dissidio delle forze naturali, insistono tutti sullo stesso motivo: raccontano la vittoria dei miti dell'armonia naturale ed umana sui miti terrifici delle forze naturali, il trionfo degli dèi olimpici sui giganti ed i mostri delle saghe arcaiche, la nascita di una natura ormai distinta, nella chiarezza delle sue forme, dalla turbolenta confusione del caos primigenio. Rientra in questo ciclo ideale la decorazione dei due frontoni del tempio di Aphaia ad Egina (490 circa), che rafurava le due fasi della lunga lotta dei greci contro Troia, avamposto del mondo asiatico: l'impresa leggendaria di Eracle contro Laomedonte e la guerra degli achei contro Priamo. Ritta nella parte più alta e mediana del frontone, la statua di Atena, nume tutelare della civiltà ellenica; ai due lati, in pose adatte all'inclinazione degli spioventi, ure isolate di combattenti, di feriti, di morenti. Se la composizione è condizionata dal triangolo ribassato del frontone, lo sviluppo plastico è condizionato dalla breve profondità del rincasso e dalla necessità di presentarsi frontalmente pur nella veduta dal basso. Lo scultore doveva comporre tra due piani paralleli e vicini: risolve perciò la plastica in un insieme di tracciati lineari orizzontali, verticali, obliqui, e la struttura delle singole ure in una combinazione di angoli di diversa apertura. Poiché il movimento delle ure deve contenersi in una spazialità ridotta, i gesti vengono tutti ricondotti al piano frontale o d'affioramento, dove la luce è piena e incontrastata. Per lo stesso motivo al centro, dove la luce è massima, la 'teofania' della dea è frontale e senza gesto, mentre a destra e a sinistra, col restringersi dei lati del frontone e col diminuire della luce, le ure dei combattenti in azione sono inclinate, in ginocchio, coricate, in atteggiamenti di moto o di torsione. È dunque la forma proporzionale del frontone che determina la successione delle ure e, a un livello più profondo, il pathos del racconto: esattamente come nella tragedia, dove il racconto non perde, anzi acquista vigore dal fatto che i discorsi ed i gesti sono contenuti in preordinate misure, in metri obbligati, in tempi prefissi. Proprio perché il ritmo è dato a priori e non si può uscirne (perché esso stesso è l'essenza del compiersi degli eventi nello spazio e nel tempo), bisogna che ogni gesto o ogni frase abbiano, nel contesto, un senso concluso, definitivo, irrevocabile. Senza alcuna enfasi, come ubbidendo a un ordine supremo e immutabile, i gesti di lotta, di sofferenza, d'ira impotente si scandono nel breve spazio dei frontoni: e solo la logica di una ferrea causalità collega il gesto di colui che colpisce a quello del colpito, ma con un crescendo d'intensità che culmina proprio dove lo spazio si restringe e finalmente si annulla, nelle ure coricate dei morenti. Richiamandoci ancora alla tragedia, se le statue più arcaiche, dedaliche, possono paragonarsi alla fase iniziale della tragedia, quando v'era un unico attore, i frontoni di Egina si possono paragonare alla fase successiva, in cui vi sono più personaggi, ciascuno dei quali dichiara, in discorsi conclusi, la propria situazione tragica. Solo più tardi si avrà nella tragedia, come nella scultura, il contrasto diretto, il dialogo, il concitato incrociarsi delle frasi e dei gesti.






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