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L'Italia Giolittiana

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L'Italia Giolittiana


Crisi di fine secolo - Verso la fine dell'Ottocento l'Italia vive una crisi politico-istituzionale: il regime liberale è chiamato a evolversi verso forme democratiche più avanzate, secondo modelli più vicini alle democrazie liberal-moderate occidentali che non a quelli autoritario-costituzionali degli imperi di GER e AUS.

- Caduto Crispi, Rudinì (destra conservatrice) riprende i metodi crispini (polizieschi e autoritari) in materia di ordine pubblico, sulla scorta dell'invito di Sydney Sonnino a "tornare allo Statuto", ovvero interrompere la pratica del confronto parlamentare inaugurata da Cavour e ritenere invece il governo responsabile dinanzi al solo sovrano, rafforzandone così l'autorità.

- Un improvviso aumento dei prezzi del pane provoca agitazioni e manifestazioni in tutto il Paese per sedare le quali, invece di ridurre il dazio sul grano, il governo sceglie di proclamare lo stato d'assedio. A Milano le truppe del gen. Bava Beccaris sparano sulla folla inerme, provocando oltre cento morti.



Riportato l'ordine, la destra, appoggiata dal sovrano, cerca di dare base legislativa all'azione repressiva dei poteri pubblici; ciò scatena l'opposizione della sinistra tramite la pratica dell'ostruzionismo (prolungare le discussioni parlamentari fino a paralizzare l'attività della maggioranza). Scioltasi dunque la Camera, le elezioni del 1900 vedono un rafforzamento delle opposizioni (PSI).

- Il re Umberto I viene ucciso dall'anarchico Gaetano Bresci che intende vendicare le vittime del '98 (Bava Beccaris).


La svolta liberale - Il nuovo re Vittorio Emanuele III si mostra favorevole ad assecondare l'affermazione delle forze progressiste, chiamando alla guida del governo il leader della SN liberale Zanardelli, con ministro degli Interni Giovanni Giolitti che sostiene che lo Stato liberale non deve opporsi allo sviluppo delle organizzazioni operaie né reprimere indiscriminatamente la loro attività. Coerente con tale programma, Giolitti mantiene il governo neutrale nelle vertenze sul lavoro nel settore privato (più intransigente è invece rispetto alle agitazioni che colpiscono il settore pubblico).

Da questa linea politica traggono forza le organizzazioni sindacali che si sviluppano rapidamente secondo le diverse associazioni di categoria. Nel 1901 le Leghe Rosse si uniscono nella Federazione italiana dei Lavoratori della Terra (Federterra), con oltre 200.000 iscritti e obiettivo finale la socializzazione della terra. Proliferano le associazioni sindacali, crescono gli scioperi, aumentano i salari (anche grazie alla congiuntura economica favorevole di inizio secolo).


Decollo industriale e progresso civile - Terminata la grande depressione (1873-96), l'Italia vede decollare il proprio sistema industriale, soprattutto il siderurgico (grazie al protezionismo) sostenuto dai grandi istituti bancari e dalle commesse statali (ferrovie e navi da guerra). Sviluppo del settore tessile cotoniero (meccanizzazione), chimico (gomma: Pirelli), automobilistico (FIAT di Giovanni Agnelli, 1899). Aumentano di conseguenza il reddito pro-capite e il tenore di vita: si sviluppano i servizi pubblici (gas e illuminazione pubblica, trasporti, acqua corrente) e migliorano le condizioni igieniche (con riduzione della mortalità infantile) soprattutto nelle città.

Resta alta l'emigrazione all'estero per l'eccedenza di manodopera agricola (soprattutto dal Sud verso gli Usa, a carattere permanente): 8 milioni di Italiani lasciano il Paese tra il 1900 e il 1914.

Resta però il divario tra nord e sud Italia, poiché i progressi favoriscono soprattutto il triangolo industriale Torino-Milano-Genova e le camne della Pianura Padana.

Resta aperta la questione meridionale: arretratezza agricola, analfabetismo (60% a inizio secolo contro il 15% del nord), subordinazione della borghesia agli interessi dei grandi proprietari terrieri, politica clientelare e personalistica. Unica alternativa alla disoccupazione diventa la pubblica amministrazione che comincia a "meridionalizzarsi" dopo esser stata a lungo in mano ai piemontesi.


Riforme di Giolitti Dopo le dimissioni di Zanardelli, sale al governo Giolitti (1903). Intende portare avanti l'esperimento liberal-progressista avviato dal suo predecessore, aprendo però anche ai socialisti, ma Turati rifiuta, giudicandola un'apertura prematura. L'azione riformista di Giolitti è però limitata: riforme parziali e moderate, per non turbare gli equilibri politici della maggioranza.

- Leggi speciali per il Mezzogiorno: stanziamenti statali pro sviluppo industriale e agricolo del Sud, hanno il limite di curare più i sintomi che le cause del male.

- Progetto di statalizzazione delle ferrovie (su cui era già caduta la destra nel 1876): opposizione del PSI (contrari al divieto di sciopero per i ferrovieri). Giolitti si dimette, per tornare in un momento più favorevole (strategia che contraddistingue più volte il suo governo decennale). Approvato il progetto, torna dunque al governo nel 1906.

- Crisi economica internazionale (dopo la congiuntura positiva 1896-l907), difficoltà per le banche italiane , intervento risolutore della Banca d'Italia e ripresa della crescita ma in un clima di crescenti tensioni sociali, cui si oppone la Confederazione degli Industriali (Confindustria), nata nel 1910.

- Giolitti imprime una svolta a sinistra al suo governo e sostiene il suffragio universale maschile (diritto di voto a >30 anni oppure >18 ma capaci di leggere e scrivere), mentre parallelamente appoggia la camna in Libia.


Il giolittismo - La "dittatura parlamentare" di Giolitti a inizio '900 si basa sul costante sostegno alle forze moderate (borghesia industriale e proletariato organizzato), sull'intervento statale per correggere gli squilibri sociali, il tutto in una delicata regia di controllo della maggioranza parlamentare tramite i vecchi sistemi trasformistici (inaugurati da Depretis-Minghetti nel 1882). La crisi del giolittismo si manifesta soprattutto quando appoggia la camna in Libia per accontentare i conservatori scontenti della concessione del suffragio universale.


Politica estera e nazionalismo - Dopo la sconfitta di Adua (1896) la politica estera italiana cambia, attenuando la linea filo-tedesca e migliorando i rapporti con la FR: (1898) accordi economici pongono fine alla guerra doganale del 1887; (1902) l'IT riconosce i diritti francesi sul Marocco (cfr crisi marocchine, 1905, 1911) in cambio dei diritti di priorità sulla Libia. Questo appoggio alla FR scontenta la GER. Mentre l'IT si ritiene emarginata dalla Triplice Alleanza dopo che l'AUS si annette Bosnia ed Erzegovina (1908) senza compensarla come previsto (clausola di rinnovo della Triplice del 1887).


1911-l2, Conquista della Libia - Emerge in Italia un clima di riscossa nazionale, e un movimento nazionalista - 1910, Associazione Nazionalista Italiana - che riunisce democratici, reazionari, irredentisti e colonialisti in favore della camna in Libia. Dopo la seconda crisi marocchina (1911), capendo che la FR sta per imporre il protettorato sul Marocco, l'IT decide di far valere gli accordi del 1902 e invia in Libia 35.000 uomini per fronteggiare la sovranità - poco più che nominale - del governo turco. La guerriglia condotta dalle popolazioni arabe costringe l'IT a portare a 100.000 il numero dei soldati, fino alla resa turca e alla pace del 1912 (che assicura anche il possesso di Rodi e dell'arcipelago del Dodecaneso nel Mare Egeo).

La Libia si rivela però un pessimo affare: le risorse naturali (tanto decantate dai nazionalisti alla vigilia della guerra) sono scarse (non si conosce ancora l'esistenza dei giacimenti di petrolio). Eppure c'è ampio consenso per l'impresa che riscatta la sconfitta di Adua (1896).

Per il governo Giolitti è l'inizio della crisi: aver appoggiato la camna libica per accontentare i conservatori - dopo aver concesso il suffragio universale ai progressisti - porta al rafforzamento delle ali estreme della maggioranza, mettendo in crisi gli equilibri politici giolittiani.


Riformisti e rivoluzionari - All'inizio del '900 il PSI di Turati aveva scelto la via riformista, appoggiando la politica di Giolitti. Ai riformisti si oppongono però i rivoluzionari, fermamente contrari ad alleanze con lo Stato monarchico e borghese che non esita all'uso della forza per controllare le agitazioni operaie e contadine. Nel congresso di Bologna del 1904 i rivoluzionari assumono la guida del PSI e proclamano il primo sciopero nazionale generale della storia d'Italia. Giolitti, fedele al suo programma, non intervenne militarmente, ma lascia esaurire lo sciopero (che si svolse con sporadiche manifestazioni violente). Il movimento operaio ha mostrato così la sua forza, ma è evidente la necessità di un organo sindacale capace di essere guida centrale a livello nazionale. Nel 1906 nasce così la CGL (Confederazione Generale del Lavoro), con oltre 200.000 iscritti, controllata però dai Riformisti, mentre i Rivoluzionari vengono a poco a poco emarginati. Anche tra i Riformisti ci sono però divisioni, fino all'espulsione dei riformisti di destra, in seguito alla quale la guida del PSI torna in mano ai Rivoluzionari, tra i quali spicca l'agitatore romagnolo Benito Mussolini (direttore dell'"Avanti!", quotidiano del partito), distintosi nelle manifestazioni contro l'intervento in Libia (accesa oratoria e appello diretto alle masse).


I democratici-cristiani - Nel 1904 il nuovo pontefice, Pio X, scioglie l'Opera dei Congressi (l'organizzazione nazionale che riuniva i cattolici sotto Leone XIII), temendo che passasse sotto il controllo del Movimento Democratico Cristiano (fondato dal sacerdote Romolo Murri, tendenze progressiste). Questo non impedisce lo sviluppo del movimento sindacale cattolico (le leghe bianche contano oltre 100.000 iscritti nel 1910). In Sicilia il movimento contadino cattolico si sviluppa con Don Luigi Sturzo.  In questo quadro, Giolitti, pur ispirandosi alla rigida separazione tra Stato e Chiesa ("due rette parallele destinate a non incontrarsi mai"), cerca l'appoggio della linea clerico-moderata (sostenuta dal papa e dai conservatori).


1913 - Patto Gentiloni (dal nome del presidente dell'Unione elettorale cattolica): accordo segreto per cui i cattolici appoggiano i candidati liberali che si impegnano, una volta eletti, a sostenere le organizzazioni sindacali cattoliche e la tutela dell'insegnamento privato, opponendosi al divorzio. Oltre 200 sono i deputati eletti con tale patto che mostra la forza dei cattolici ma anche la debolezza di Giolitti, incapace di governare autonomamente una maggioranza sempre liberale ma assai più eterogenea dell'inizio del suo decennale governo.


1914 - Giolitti si dimette e indica al re come suo successore Antonio Calandra, esponente della destra liberale, sperando di tornare al governo in un momento più favorevole, come già altre volte accaduto. Questa volta però il clima è mutato. Le agitazioni della cosiddetta settimana rossa (giugno 1914) incoraggiate dai socialisti rivoluzionari - guidati da Mussolini con carattere apertamente rivoluzionario alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale - si esauriscono in breve ma incoraggiano quelle tendenze conservatrici  che rendono ormai chiara la fine del giolittismo, sistema di governo capace di favorire la democratizzazione della società e lo sviluppo economico del Paese ma ormai inadeguato a fronteggiare le tensioni sociali sprigionate dalla nascente società di massa.


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