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La politica europea e le unificazioni italiana e tedesca. Il secondo impero in Francia - L'Italia dopo la rivoluzione del 1848, Vittorio Emanuele II,

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La politica europea e le unificazioni italiana e tedesca.

Il secondo impero in Francia.


Sostenuto dai moderati terrorizzati dalla rivoluzione, dai clericali, dal popolo dei medi proprietari e della piccola borghesia, Luigi Napoleone vinse con facilità le elezioni presidenziali del dicembre 1848 ottenendo cinque milioni e mezzo di voti. Il blocco politico-sociale che in precedenza aveva sostenuto la monarchia orleanista - la Chiesa, la grande finanza, i proprietari terrieri, con tutti i settori popolari che queste forze erano in grado di influenzare controllare - si verniciava ora di populismo e di nazionalismo bonapartista e si preparava a riprendere il potere. Parte della classe operaia sconfitta finì per votare a favore di Bonaparte, che proclamava di voler 'estinguere il pauperismo'.



Luigi Napoleone, come aveva fatto 30 anni prima Luigi XVIII, lasciò che il parlamento, a grande maggioranza monarchica, varasse misure restrittive della libertà - tra cui una revisione della legge elettorale che tendeva a escludere dal voto gli operai - con una conseguente perdita di peso politico da parte dei ceti popolari. Pur intervenendo duramente per ripristinare l'ordine e rassicurare i conservatori, egli si atteggiò però a difensore della sovranità popolare, del suffragio universale e degli interessi della nazione contro la politica corrotta; inoltre seppe conquistare l'opinione pubblica clericale con la spedizione che schiacciò la Repubblica romana e restituì lo stato pontificio a Pio IX. Egli ottenne così il doppio risultato di indebolire le istituzioni e le garanzie di libertà, pur assumendosi il ruolo di loro difensore. Mentre provocava e sfruttava a proprio vantaggio il conflitto con il parlamento, Luigi Napoleone collocò uomini a lui fidati nei posti chiave dell'amministrazione statale e dell'esercito. Tutto era ormai pronto per realizzare il colpo di Stato.

Il 2 dicembre 1851, nel quarantaseiesimo anniversario della battaglia di Austerlitz, il parlamento venne occupato dai soldati e l'assemblea sciolta. Luigi Napoleone proclamò subito il ritorno al suffragio universale maschile e per ratificare la presa del potere indisse nel gennaio 1852 un plebiscito (per ratificare la nuova Costituzione che prevedeva una presidenza decennale e l'istituzione del Senato accanto ad un Corpo legislativo) che stravinse, con sette milioni e mezzo di sì contro appena seicentomila no. Un tale sostegno popolare gli permise di liquidare facilmente l'opposizione, di fare arrestare centomila persone e di mettere un terzo dei dipartimenti in stato d'assedio. L'anno seguente, dopo deliberazione del Senato, un altro plebiscito, (dicembre 1852) ratificava la restaurazione dell'Impero e il nuovo sovrano assumeva il titolo di Napoleone III (Napoleone II sarebbe stato il lio del primo imperatore, il cosiddetto re di Roma, morto nel luglio 1832 a 23 anni di età).

Il Secondo impero durò un ventennio e fu un periodo molto negativo dal punto di vista delle libertà, caratterizzato dalla manipolazione delle elezioni, dal silenzio imposto agli oppositori e agli intellettuali, dalle limitazioni alla stampa, da una chiusura bigotta e conservatrice verso la cultura. D'altra parte, proprio in questi anni, la Francia fu al centro di un'importante crescita economica che portò alla costituzione di una moderna struttura industriale, sviluppata grazie alla protezione dello Stato (anche attraverso un vasto programma di lavori pubblici: ferrovie, strade, canali, porti) e alla repressione esercitata nei confronti del movimento operaio (giornata lavorativa di dodici ore e divieto di associazione e sciopero).

Fu anche avviata una politica di espansione in senso imperialista, non sempre fortunata e riuscita, che riportò comunque la Francia ad assumere un ruolo di primissimo piano tra le altre potenze europee.

L'Italia dopo la rivoluzione del 1848.

Con il fallimento generale dei moti europei del 1848 venne meno anche il progetto politico di unificazione a cui aspiravano i patrioti italiani moderati e anche democratici. La Prima guerra d'indipendenza era stata infatti persa perché gli Stati italiani, che avevano dato un appoggio svogliato all'esercito sabaudo, non erano riusciti a collegare i propri sforzi in vista di un programma di unità nazionale. Anche Pio IX, nel timore di aprire una frattura con gran parte dell'Europa cattolica, aveva preferito conservare il piccolo Stato pontificio, rimanendo il garante di tutti i paesi cattolici, piuttosto che porsi alla guida dei moderati italiani. La scelta del Papa ebbe anche l'effetto di scoraggiare l'adesione dell'opinione pubblica cattolica alle iniziative politiche dei liberali e dei democratici e pose fine al progetto di transizione graduale verso una federazione di Stati italiani.

Nel 1849 era stata poi la volta dei democratici: la "guerra di popolo" di stampo mazziniano, combattuta ai margini della Prima guerra d'indipendenza, si era tradotta nel risultato politico delle tre repubbliche democratiche di Roma, Firenze e Venezia, ma alla fine era uscita sconfitta dalla repressione congiunta di Francia e Austria. Isolati  e minoritari, anche i democratici non sembravano capaci di mettersi alla testa di un movimento vittorioso di riscossa nazionale. Erano inoltre divisi: accanto ai mazziniani, che volevano una repubblica unitaria, vi erano i federalisti, come l'intellettuale milanese Carlo Cattaneo e quei repubblicani che, per realismo politico, erano disposti ad allearsi con casa Savoia, sottomettendosi temporaneamente a un regime monarchico.

A Torino, nell'agosto del 1857, al fine di creare una struttura di coordinamento dei democratici disposti a lottare sotto la guida della monarchia sabauda, venne fondata la Società nazionale italiana: tra i membri, oltre a Giuseppe Garibaldi, che aveva combattuto per difendere Roma, e Giuseppe La Farina, che aveva guidato il governo provvisorio palermitano, vi era anche il mazziniano Daniele Manin, eroe della resistenza veneziana.

Torino era ormai la capitale di quello che già si cominciava a chiamare il "Risorgimento" italiano. Il Regno di Sardegna, infatti, era l'unico stato della Penisola a essersi impegnato militarmente e il solo ad aver mantenuto, malgrado la sconfitta, le libertà costituzionali, garantite da un testo ufficiale, lo Statuto albertino. Una politica moderata di riscossa nazionale non poteva dunque prescindere dalla direzione politica e militare della monarchia sabauda, e anche una guerra di popolo, in linea di principio contraria al compromesso con le politiche statali, doveva invece, date le circostanze, venire a patti con l'esercito piemontese.

Il governo sardo divenne quindi un punto di riferimento essenziale del processo di unificazione. Nel garantire una sufficiente libertà di stampa e nel considerare il contributo di tutti coloro che erano disposti ad accettare, almeno temporaneamente, la monarchia, la classe dirigente piemontese svolse un ruolo essenziale di collante fra le diverse componenti politiche del Paese, che ebbero così modo di confrontarsi e di unificarsi in vista di un concreto e superiore "interesse nazionale".

Dal punto di vista economico i diversi Stati che componevano l'Italia rimanevano diversi. Anzi, proprio in questo periodo, finì per aumentare lo squilibrio tra una ristretta area del Nord, il Piemonte e la Lombardia, che a partire dagli anni Quaranta era stata coinvolta nello sviluppo economico europeo, e il Centro-sud, ancora profondamente arretrato. Mentre nel Nord-ovest si scavavano canali, si costruivano strade e ferrovie, si sviluppava la produzione dei vini e delle sete, si ammodernavano le tecniche e le strutture produttive, il Meridione permaneva ancorato a un'economia agricola tradizionale dominata dal grande latifondo, una struttura produttiva che discendeva dal modello del vecchio feudo medievale.

Anche l'Italia centrale, dominata da un'economia agricola, era assai lontana da ogni possibile sviluppo industriale. Qui però non era il latifondo a dominare, ma un'altra vecchia forma di sfruttamento della terra, la mezzadria: uno spezzettamento della grande proprietà in tante aziende familiari che rimanevano estranee all'introduzione di rapporti di lavoro moderni, di tipo capitalista.

Nel suo complesso la società italiana, con l'eccezione dell'agricoltura nella pianura padana e di piccoli nuclei di sviluppo industriale, tutti concentrati nel Nord-ovest, appariva quindi assai arretrata e frammentata in ambiti regionali ristretti, con élite colte di alto livello, immerse però in un mare di arretratezza. L'analfabetismo si attestava, nell'insieme del territorio, su valori vicini all'ottanta per cento e in alcune zone del Sud raggiungeva quasi il cento per cento. D'altra parte, la lingua nazionale aveva una diffusione limitata quasi solo alle classi dirigenti urbane: piccole isole circondate da una cultura essenzialmente dialettofona e orale.

Il processo di unificazione nazionale non derivava pertanto da esigenze economiche e sociali diffusamente percepite, ma era sostenuto dalla passione politica che coinvolgeva le élite, gli intellettuali e i ceti urbani desiderosi di riscatto nazionale.

Vittorio Emanuele II, Cavour e la guerra di Crimea.

Vittorio Emanuele II (1849-l878), subentrato al padre Carlo Alberto di Savoia dopo la sconfitta di Novara del 1849, si trovò a gestire una situazione assai complessa: l'esercito era stato sconfitto nella Prima guerra d'indipendenza, il parlamento rifiutava la pace e lo Statuto, in vigore da appena un anno, non costituiva ancora un saldo punto di riferimento istituzionale. A differenza degli altri sovrani italiani, che avevano restaurato l'assolutismo, Vittorio Emanuele sciolse la Camera, ma mantenne in vigore la carta costituzionale. Egli indisse inoltre nuove elezioni, dalle quali riuscì a ottenere una maggioranza disposta ad accettare la pace con l'Austria.

Il primo governo del nuovo regime fu diretto da Massimo d'Azeglio (1798-l866) a cui va il merito di avere introdotto il principio della laicità dello Stato, cui diedero un decisivo contributo le leggi Siccardi (dal nome del loro estensore) del 1850. Con esse furono decretate l'abolizione di una serie di privilegi del foro ecclesiastico e la facoltà dello Stato di acquistare beni appartenenti alla Chiesa.

Il secondo governo fu presieduto da colui che era destinato a guidare per dieci anni la politica piemontese e che va considerato come il principale artefice politico dell'unità d'Italia: Camillo Benso conte di Cavour (1810-l861). Aristocratico, ex ufficiale dell'esercito e proprietario terriero, Cavour aveva una quarantina d'anni, dieci più del re, quando assunse la direzione del governo nel 1852. Eletto deputato fin dal 1848 era noto per la sua competenza in campo agronomico ed economico e per le sue idee liberali, che aveva espresso in un periodico da lui diretto, "Il Risorgimento".

Rappresentante naturale della destra moderata, che accoglieva l'aristocrazia e i rappresentanti del conservatorismo cattolico, Cavour non giudicava favorevolmente una contrapposizione frontale fra destra e sinistra, alla francese. Ispirandosi al modello inglese, egli puntò invece alla costruzione di un centrismo parlamentare in grado di attrarre sia gli aristocratici liberali sia i rappresentanti della borghesia moderata, il cosiddetto "centro-sinistro", che aveva in Urbano Rattazzi, un avvocato di Alessandria, il suo leader.

Con questa politica, detta del "connubio", Cavour riuscì a costruirsi una solida maggioranza parlamentare in grado di sostenere la sua abile politica diplomatica e il progetto di unificazione del paese. Egli avviò anche quella tradizione centrista che divenne poi tipica dell'Italia unita, fondata sull'emarginazione delle ali estreme, la destra clerico-assolutista e la sinistra democratico-repubblicana, e sulla soluzione dei problemi politici attraverso l'esercizio continuo della tattica parlamentare.

Cavour doveva quindi convincere i francesi o gli inglesi, o entrambi, ad appoggiare le ambizioni del Regno di Sardegna di allargarsi fino al mare Adriatico, strappando il Lombardo-Veneto all'Austria.

L'occasione per Cavour giunse con lo scoppio della guerra di Crimea: il conflitto, rompendo la pace quarantennale inaugurata dal Congresso di Vienna, diede inizio a una serie di guerre che dilaniarono l'Europa per una ventina d'anni, modificandone profondamente la geografia politica. Ciò avvenne proprio nel periodo in cui l'economia capitalista, frutto della prima rivoluzione industriale, raggiungeva il suo massimo sviluppo.

La guerra scoppiò a seguito dell'ennesimo tentativo di spartizione dell'impero turco-ottomano da parte della Russia. Da un paio di secoli i russi miravano alla supremazia nell'area dei Balcani e, attraverso il controllo degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, puntavano all'accesso al Mediterraneo. Queste ambizioni avevano tradizionalmente beneficiato della sostanziale neutralità inglese e francese.

Contro l'islam i russi si erano assunti in ruolo di campioni della cristianità ortodossa e gli austriaci di quella cattolica. Lo stesso quadro si era presentato trent'anni prima, in occasione della lotta per l'indipendenza greca, che l'Impero ottomano era stato costretto a riconoscere dopo l'intervento militare di Francia, Gran Bretagna e Russia.

Alla fine del 1853 lo zar Nicola I ritenne giunto il momento di dare una spallata definitiva al vecchio colosso mediterraneo. Orchestrò dunque una crisi diplomatica intorno alla protezione dei luoghi santi per i cristiani, ma questa volta incontrò una vigorosa opposizione da parte della Francia e, in misura minore, della gran Bretagna che, di fronte alla minaccia di vedere interrotti i proficui scambi commerciali con il Mediterraneo e l'Oriente, decisero di entrare in guerra contro la Russia. Sostenendo che la Turchia era stata ingiustamente aggredita dai russi, le truppe anglo-francesi sbarcarono in Crimea e strinsero d'assedio la fortezza russa di Sebastopoli. Dopo quasi un anno ne ottennero la resa e il nuovo zar Alessandro II, appena salito al trono dopo la morte del padre, avviò le trattative di pace.

Spinto da Vittorio Emanuele II, Cavour sostenne la necessità di entrare in guerra a fianco delle potenze occidentali in aiuto alla Turchia e questo nonostante sia l'opinione pubblica sia la Camera fossero contrarie a un'impresa nella quale l'interesse nazionale non sembrava affatto coinvolto. Ma Cavour seppe capire l'importanza di essere presente al tavolo dei Paesi vittoriosi che avrebbero disegnato il futuro assetto continentale. Nel gennaio del 1855 venne formalizzata la alleanza con Francia e Gran Bretagna e il Piemonte inviò in Crimea un contingente di diciottomila soldati.

Al Congresso di pace di Parigi, apertosi nel febbraio dell'anno successivo, Cavour riuscì in effetti ad attirare l'attenzione delle grandi potenze sulla questione italiana. La situazione di malgoverno e l'ottusa repressione politica in cui versavano lo Stato pontificio e ancor più il Regno delle Due Sicilie erano del resto ben note. A Parigi, Cavour sottolineò anche il rischio che tale degradato quadro politico potesse fomentare in Italia nuovi tentativi rivoluzionari repubblicani, e suggerì la Francia e Gran Bretagna la necessità di appoggiare l'iniziativa piemontese, l'unica capace di assicurare la formazione di un contesto istituzionale affidabile.

Cavour ottenne da parte francese una considerazione particolare. La Francia importava uve e sete dalla Pianura padana e vi esportava i sui prodotti industriali; inoltre con l'Italia settentrionale condivideva un rapporto secolare di contrapposizione all'Austria. A partire da questo momento iniziò a profilarsi la possibilità di un intervento francese a fianco del Piemonte per la liberazione dell'Italia settentrionale dall'Austria.

La Seconda guerra d'indipendenza, Garibaldi e i Mille.

Le elezioni del novembre 1857 portarono a un rafforzamento della destra e a una crisi della maggioranza centrista di Cavour. Egli, però, pur cedendo in parte alle richieste dei conservatori, proseguì nella sua politica di equilibrio, legandosi sempre più strettamente alla protezione dell'imperatore francese. Ma l'evento che contribuì a saldare i rapporti fra Stato sabaudo e Francia fu l'attentato compiuto contro Napoleone III il 14 gennaio 1858 da un agente mazziniano, Felice Orsini. Il gesto di Orsini (che provocò la morte di otto persone ma non quella dell'imperatore) evidenziò il potenziale di destabilizzazione insito nella situazione italiana, nonché le sue possibili ripercussioni in Francia, e convinse Napoleone della necessità di un intervento in Italia per ridefinire l'assetto politico della penisola ed evitare il sorgere di nuovi fermenti rivoluzionari.

Nell'estate del 1858 Cavour si incontrò segretamente con l'imperatore nella stazione termale francese di Plombières e insieme delinearono il futuro assetto dell'Italia: il Piemonte avrebbe fatto in modo di provocare la Austria e di farsi dichiarare guerra, il che avrebbe permesso alla Francia di intervenire a fianco del piccolo Stato aggredito. L'Austria, sconfitta, avrebbe dovuto cedere il Lombardo-Veneto al Regno di Sardegna, che si sarebbe così allargato fino all'Adriatico. La Francia avrebbe ottenuto Nizza e la Savoia mentre gli Stati dell'Italia centrale sarebbero stati unificati e affidati a un principe francese. Il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto ai Borbone; era infine prevista una riduzione territoriale dello Stato pontificio, ma al Papa sarebbe stata offerta, in compenso, la presidenza di una futura confederazione degli Stati italiani.

L'obiettivo non era dunque l'unità d'Italia, alla quale Cavour peraltro ancora non credeva, ma una semplificazione della carta politica della Penisola in cui alla odiata presenza austriaca, nemica di ogni libertà, si sostituiva la benevola preponderanza francese.

Inizialmente le cose andarono secondo copione e l'Austria cadde nella trappola tesa a Plombières: ritenendo improbabile un impegno francese a sostegno del Piemonte, gli austriaci, in seguito a ostentati movimenti delle truppe piemontesi, dichiararono guerra nell'aprile del 1859. I francesi a questo punto intervennero: i due eserciti alleati batterono gli austriaci prima a Magenta e poi a Solferino, presso Mantova, alla fine di giugno, mentre le truppe piemontesi da sole riportarono un'importante vittoria nella vicina San Martino. L'entusiasmo dei patrioti italiani per l'evolversi della situazione nel Nord Italia, portò in Toscana e in Romagna allo scoppio di insurrezioni a favore dell'annessione al Regno di Sardegna.

Il pericolo di una nuova rivoluzione in senso repubblicano e democratico indusse però Napoleone III a interrompere le ostilità. Lo schema deciso a Plombières rischiava infatti di essere vanificato con gravi rischi per lo Stato pontificio di cui l'imperatore francese si era dichiarato garante, anche per riare i clericali francesi che lo avevano sostenuto nell'ascesa al potere. Trattò dunque con gli austriaci l'armistizio di Villafranca (luglio 1859) che pose fine alla breve guerra. Solo la Lombardia passava al Piemonte, mentre la Francia rinunciava momentaneamente alla Savoia e a Nizza. Per Cavour era un mezzo fallimento; da parte di Napoleone III, un mezzo tradimento.

Ma ormai in Italia il terreno per l'unificazione era pronto e la scintilla scoccata a Solferino non poteva più essere spenta: fra la fine del 1859 e l'inizio del 1860, l'Emilia, la Romagna e la Toscana cacciarono i governanti e si diedero delle istituzioni politiche transitorie, finalizzate a preparare l'annessione al Regno di Sardegna. A Palermo covava nuovamente la rivoluzione, sostenuta, come nel 1848, dalle bande armate contadine.

A Cavour va il merito indiscutibile di aver saputo gestire al meglio una situazione certamente non facile: ottenne l'appoggio inglese e trattò con Napoleone III il riconoscimento dell'annessione al Piemonte dell'Italia centrale, convalidata da plebisciti, in cambio del passaggio di Nizza e della Savoia alla Francia, anch'esso ratificato da plebisciti. L'11 e il 12 marzo 1860 la Toscana, l'Emilia, la Romagna e i ducati minori espressero a larghissima maggioranza la volontà di entrare a far parte del Regno di Sardegna.

Il crescente consenso che giungeva da tutte le aree del Paese per una unificazione sotto la guida del regno dei Savoia e le richieste che venivano dai gruppi mazziniani attivi nell'Italia meridionale convinsero Giuseppe Garibaldi che era possibile tentare una spedizione rivoluzionarie in Sicilia.

Cavour, quindi, pur non appoggiando apertamente l'impresa, lasciò che Garibaldi organizzasse la spedizione in Sicilia sulla base di un ragionamento tanto cinico quanto politicamente efficace: se la spedizione garibaldina e la rivoluzione contro i Borboni fossero fallite, cosa del resto tutt'altro che improbabile, Cavour si sarebbe dichiarato estraneo alla faccenda; se, al contrario, i due eventi fossero stati coronato da successo, il governo piemontese si sarebbe atteggiato a protettore della libertà siciliana.

Nato nel 1807 a Nizza da una famiglia di capitani di marina mercantile, Garibaldi era entrato ancora adolescente nella Giovine Italia e aveva partecipato alla cospirazione mazziniana del 1834 in Piemonte. Condannato a morte, era fuggito in Sudamerica, dove aveva partecipato alle lotte di liberazione contro gli snoli. Rientrato in Italia nel 1848 alla testa di una formazione di volontari italiani suoi comni in America Latina, si era battuto a fianco dell'esercito sabaudo e in difesa della Repubblica romana contro i francesi. Dopo la sconfitta aveva ripreso la via dell'esilio, contestando ormai apertamente l'intransigenza di Mazzini.   

Dopo aver aderito nel 1857 alla Società nazionale, che accettava di venire a patti con la monarchia pur di realizzare l'unità d'Italia, partecipò, alla guida dei suoi volontari, i Cacciatori delle Alpi, alla Seconda guerra d'indipendenza, riportando notevoli successi. Profondamente amareggiato dall'esito della guerra contro gli austriaci e offeso dall'occupazione francese della sua Nizza, meditò addirittura di ritirarsi dalla battaglia politica e militare, ma la notizia dell'insurrezione palermitana del 3-4 aprile 1860 lo trascinò di nuovo nella lotta.

Nonostante la cautela di Vittorio Emanuele, Garibaldi organizzò in gran fretta la spedizione e riuscì ad armare due navi. Imbarcatosi con un migliaio di volontari a Quarto, presso Genova, il 5 maggio 1860, sbarco qualche giorno dopo a Marsala, all'estremità occidentale della Sicilia. Dopo aver sconfitto in un primo scontro un contingente borbonico a Calatafimi (15 maggio), assunse la dittatura dell'isola in nome di Vittorio Emanuele e, facendo appello all'insurrezione contadina, puntò su Palermo, dove entrò vittorioso meno di un mese dopo il suo sbarco a Marsala.

Il primo grosso problema che si pose fu quello della gestione dei contadini siciliani in rivolta, che in Garibaldi vedevano sì il liberatore dall'oppressione borbonica, ma anche l'occasione per ribellarsi al secolare sfruttamento economico e sociale. Mentre essi aspiravano soprattutto al possesso della terra, i garibaldini miravano alla costituzione dell'unità del Paese. L'episodio più noto del dramma in cui si trovarono garibaldini e contadini è quello di Bronte, una cittadina alle pendici dell'Etna, nella quale i contadini, che chiedevano la distribuzione delle terre demaniali, massacrarono alcuni esponenti delle vecchie élite locali. Garibaldi, che non intendeva permettere che la sua rivoluzione si confondesse con la rivolta agraria, mandò a Bronte un reparto comandato dal generale Nino Bixio che eseguì numerose sommarie condanne a morte. L'ordine tornava in Sicilia, ma si apriva un solco, destinato a produrre gravi conseguenze, tra il nuovo Stato unitario e i contadini poveri del Meridione, a cui l'unità d'Italia non avrebbe portato alcun beneficio.

Garibaldi sbarcò in Calabria il 20 agosto ed entrò a Napoli all'inizio di settembre, mentre l'ultimo re Borbone, Francesco II (succeduto al padre Ferdinando l'anno precedente), si ritirava nella fortezza di Gaeta. Alla testa di un esercito volontario ormai cresciuto, Garibaldi sconfisse definitivamente le truppe borboniche sul Volturno (1-2 ottobre).





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