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La seconda guerra mondiale

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La seconda guerra mondiale


L'8 maggio 1945, si concludeva sul suolo europeo la seconda guerra mondiale. La fine di quel terribile flagello, mentre ravvivava nei cuori l'attesa del ritorno dei prigionieri, dei deportati e dei rifugiati, vi suscitava il desiderio di costruire un'Europa migliore. Il Continente poteva ricominciare a sperare in un futuro di pace e di democrazia.

A mezzo secolo di distanza, i singoli, le famiglie, i popoli custodiscono ancora il ricordo di quei sei terribili anni: memorie di paure, di violenze, di penuria estrema, di morte; esperienze drammatiche di separazioni dolorose, vissute nella privazione di ogni sicurezza e libertà; traumi incancellabili dovuti a stermini senza fine.

Col trascorrere del tempo si comprende meglio il senso

Non fu facile allora comprendere appieno le dimensioni molteplici e tragiche del conflitto. Ma, col passare degli anni, è andata crescendo la consapevolezza dell'incidenza che quell'evento ha avuto sul secolo XX e sull'avvenire del mondo. La seconda guerra mondiale non è stata soltanto un episodio storico di primo piano; essa ha segnato una svolta per l'umanità contemporanea. Col trascorrere del tempo, i ricordi non devono impallidire; devono piuttosto farsi lezione severa per la nostra e per le future generazioni.



Che cosa quella guerra abbia significato per l'Europa e per il mondo lo si è compreso in questi cinque decenni grazie all'acquisizione di nuovi dati che hanno consentito una migliore conoscenza delle sofferenze da essa causate. La tragica esperienza compiuta tra il 1939 ed il 1945 rappresenta oggi come un punto di riferimento necessario per chi vuole riflettere sul presente e sul futuro dell'umanità.

Nel 1989, in occasione del cinquantesimo anniversario dell'inizio della guerra, scrivevo: «Cinquant'anni dopo, abbiamo il dovere di ricordarci davanti a Dio di quei fatti drammatici, per onorare i morti e per compiangere tutti quelli che questo dilagare di crudeltà ha ferito nel cuore e nel corpo, completamente perdonando le offese» [Messaggio nel 50 anniversario dell'inizio del secondo conflitto mondiale (27 agosto 1989), 2: AAS 82 (1990), 51].

Occorre mantenere viva la memoria di quanto è accaduto: è un nostro preciso dovere. Sei anni orsono, in coincidenza con l'anniversario ora ricordato, nell'Est europeo si andavano delineando inediti scenari sociali e politici con la rapida caduta dei regimi comunisti. Era un rivolgimento sociale profondo che consentiva di eliminare alcune tragiche conseguenze della guerra mondiale, la cui fine non aveva di fatto significato per molte Nazioni europee l'inizio del pieno godimento della pace e della democrazia, come sarebbe stato logico attendersi il 9 maggio 1945. Alcuni popoli infatti avevano perso il potere di disporre di se stessi, ed erano stati chiusi nei confini soffocanti di un impero, mentre si cercava di distruggere, oltre che le tradizioni religiose, la loro memoria storica e la secolare radice della loro cultura. E' quanto ho voluto sottolineare nella Lettera enciclica Centesimus annus [cfr. N. 18: AAS 83 (1991), 815]. Per tali popoli, in un certo senso, solo nel 1989 la seconda guerra mondiale ha avuto fine.

Una guerra dalle incredibili proporzioni distruttive

Le conseguenze della seconda guerra mondiale per la vita delle nazioni e dei continenti sono state immani. I cimiteri militari accomunano nel ricordo cristiani e credenti di altre religioni, militari e civili d'Europa e di altre regioni del mondo. Anche soldati di paesi non europei vennero infatti a combattere sul suolo del vecchio continente: molti caddero sul campo, per altri l'8 maggio segnò la fine di un incubo spaventoso.

Decine di milioni furono gli uomini e le donne uccisi; non si contano i feriti e i dispersi. Masse enormi di famiglie si sono viste costrette ad abbandonare terre a cui erano legate da secolare attaccamento; ambienti umani e monumenti carichi di storia sono stati devastati, città e paesi sconvolti e ridotti in macerie. Mai le popolazioni civili, in particolare donne e bambini, hanno ato in un conflitto un prezzo così alto di morti.

La mobilitazione dell'odio

Ancor più grave è stato il diffondersi della «cultura della guerra» con il suo triste seguito di morte, di odio e di violenza. «La seconda guerra mondiale, - scrivevo all'episcopato polacco nel 1989 - ha reso tutti consapevoli della dimensione, fino allora sconosciuta, a cui può giungere il disprezzo dell'uomo e la violazione dei suoi diritti. Essa ha compiuto una mobilitazione inaudita dell'odio, che ha calpestato l'uomo e tutto ciò che è umano nel nome di un'ideologia imperialistica» [Lettera ai Vescovi della Polonia nel 50 anniversario dell'inizio del secondo conflitto mondiale (26 agosto 1989), 3: AAS 82 (1990), 46].

Mai sufficientemente si ribadirà che la seconda guerra mondiale ha dolorosamente trasformato la vita di tanti uomini e di tanti popoli. Si è giunti a costruire infernali campi di sterminio dove hanno trovato la morte, in condizioni drammatiche, milioni di Ebrei, centinaia di migliaia di zingari e di altri esseri umani, colpevoli solo di appartenere a popoli diversi.

Auschwitz: monumento alle conseguenze del totalitarismo

Auschwitz, accanto a tanti altri lager, resta il simbolo drammaticamente eloquente delle conseguenze del totalitarismo. Il pellegrinaggio a quei luoghi con la memoria e con il cuore, in questo cinquantesimo anniversario, è doveroso. «Mi inginocchio - dissi nel 1979 durante la S. Messa celebrata a Brzezinka, poco lontano da Auschwitz - su questo Golgota del mondo contemporaneo» [Omelia al campo di concentramento di Brzezinka (7 giugno 1979), 2: Insegnamenti II (1979), 1484]. Come allora, rinnovo idealmente il mio pellegrinaggio a quei campi di sterminio. Sosto anzitutto «davanti alla lapide con l'iscrizione in lingua ebraica», per ricordare il popolo «i cui li e lie erano destinati allo sterminio totale» e per ribadire che «non è lecito a nessuno passare oltre con indifferenza» [Ibid.]. Come allora, mi soffermo davanti alla lapide in lingua russa, dopo i cambiamenti avvenuti nell'ex Unione Sovietica, e ricordo «la parte avuta da questo Paese nell'ultima terribile guerra per la libertà dei popoli» [Ibid. l.c., 1485]. Mi soffermo poi davanti alla lapide in lingua polacca e ripenso al sacrificio di tanta parte della nazione, che segna «un doloroso conto sulla coscienza dell'umanità». Come dissi nel 1979, ripeto quest'oggi: «Ho scelto tre lapidi. Bisognerebbe fermarsi davanti ad ognuna di quelle esistenti» [Ibid.]. Sì, in questo cinquantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, avverto l'intimo bisogno di sostare presso tutte le lapidi, anche quelle che ricordano il sacrificio di vittime meno note o addirittura dimenticate.

Da tale meditazione sgorgano interrogativi che l'umanità non può non porsi. Perché si giunse ad un simile grado di annientamento dell'uomo e dei popoli? Perché, finita la guerra, non si sono tratte dalla sua amara lezione le dovute conseguenze per l'insieme del continente Europeo?

Il mondo, e in particolare l'Europa, s'avviarono verso quell'immane catastrofe perché avevano perso l'energia morale necessaria per contrastare quanto li spingeva nel vortice della guerra. In effetti il totalitarismo distrugge le libertà fondamentali dell'uomo e ne conculca i diritti. Manipolando l'opinione pubblica con il martellamento incessante della proanda, spinge facilmente a cedere al richiamo della violenza e delle armi e finisce per demolire il senso di responsabilità dell'essere umano.

Allora, purtroppo, non ci si rese conto che quando s'arriva a calpestare la libertà, si pongono le premesse d'un pericoloso slittamento nella violenza e nell'odio, forieri della «cultura della guerra». Proprio questo si verificò: non fu difficile ai capi indurre le masse alla scelta fatale, mediante l'affermazione del mito dell'uomo superiore, l'applicazione di politiche razziste o antisemite, il disprezzo della vita di quanti erano considerati inutili perché malati o asociali, la persecuzione religiosa o la discriminazione politica, il soffocamento progressivo di ogni libertà attraverso il controllo poliziesco e il condizionamento psicologico derivante dall'uso unilaterale dei mezzi di comunicazione. Proprio a tali trame si riferiva il Papa Pio XI di v.m. quando, nella Lettera enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937, parlava di «tetri disegni» che apparivano all'orizzonte [N. 11: AAS 29 (1937), 186].

Non si edifica una società umana sulla violenza

La seconda guerra mondiale è stata il frutto diretto di questo processo degenerativo: ma se ne sono tratte le dovute conseguenze nei decenni successivi? Purtroppo la fine della guerra non ha portato alla ssa delle politiche e delle ideologie che l'avevano generata o favorita. Sotto altra veste, sono continuati i regimi totalitari e si sono anzi estesi, soprattutto nell'Est europeo. Dopo quell'8 maggio, sul suolo del Continente e altrove sono rimasti aperti non pochi campi di concentramento, mentre tante persone hanno continuato ad essere imprigionate in spregio di ogni elementare diritto umano. Non si è capito che non si edifica una società degna della persona sulla sua distruzione, sulla repressione e sulla discriminazione. Questa lezione della seconda guerra mondiale non è stata ancora recepita pienamente e dappertutto. Eppure essa resta e deve restare come monito per il prossimo millennio.

In particolare, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, il culto della nazione, spinto sino a diventare quasi una nuova idolatria, provocò in quei sei terribili anni un'immane catastrofe. Pio XI, fin dal dicembre 1930, così ammoniva: «Più difficile, per non dire impossibile, che duri la pace fra i popoli e fra gli Stati, se in luogo del vero e genuino amor patrio regni ed imperversi un egoistico e duro nazionalismo, che è dire odio e invidia in luogo del mutuo desiderio di bene, diffidenza e sospetto in luogo di fraterna fiducia, concorrenza e lotta in luogo di concorde cooperazione, ambizione di egemonia, di predominio in luogo del rispetto e della tutela di tutti i diritti, siano pur quelli dei deboli e dei piccoli» [Discorso alla Curia romana (24 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 535-536].

Non è un caso se alcuni illuminati statisti dell'Europa occidentale vollero, partendo proprio dalla meditazione sui disastri causati dal secondo conflitto mondiale, creare un vincolo comunitario tra i loro Paesi. Quel patto si è sviluppato nei decenni successivi, concretizzando la volontà delle nazioni entrate a farne parte di non essere più sole di fronte al proprio destino. Essi avevano capito che, oltre a quello dei singoli popoli, esiste un bene comune dell'umanità, violentemente calpestato dalla guerra. Tale riflessione sulla drammatica esperienza li indusse a ritenere che gli interessi di una nazione non potevano essere convenientemente perseguiti se non nel contesto della solidale interdipendenza con gli altri popoli.

La Chiesa ascolta il grido delle vittime

Molteplici sono le voci che si levano nel cinquantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, cercando di superare le divisioni tra vincitori e vinti. Vengono commemorati il coraggio e il sacrificio di milioni di uomini e di donne. Per parte sua, la Chiesa si pone in ascolto soprattutto del grido di tutte le vittime. E' un grido che aiuta a comprendere meglio lo scandalo di quel conflitto durato sei anni. E' un grido che invita a riflettere su ciò che esso ha comportato per l'umanità intera. E' un grido che costituisce una denuncia delle ideologie che portarono all'immane catastrofe. Di fronte ad ogni guerra siamo tutti chiamati a meditare sulle nostre responsabilità, chiedendo perdono e perdonando. Si resta amaramente colpiti, in quanto cristiani, nel considerare che «le mostruosità di quella guerra si manifestarono in un continente, che si vantava di una particolare fioritura di cultura e di civiltà; nel continente rimasto più a lungo nel raggio del Vangelo e della Chiesa» [Giovanni Paolo II, Lettera ai Vescovi della Polonia nel 50 anniversario dell'inizio del secondo conflitto mondiale (26 agosto 1989), 3: AAS 82 (1990), 46]. Per questo i cristiani d'Europa devono chiedere perdono, pur riconoscendo che diverse furono le responsabilità nella costruzione della macchina bellica.

La guerra è incapace di dare la giustizia

Le divisioni causate dalla seconda guerra mondiale ci richiamano al fatto che la forza al servizio della «volontà di potenza» è uno strumento inadeguato per costruire la vera giustizia. Essa anzi avvia un processo nefasto dalle conseguenze imprevedibili per uomini, donne, popoli che rischiano di smarrirvi ogni dignità insieme con i loro beni e la loro stessa vita. Risuona ancora forte l'ammonimento che il Papa Pio XII di v.m. elevò nell'agosto 1939, proprio alla vigilia di quel tragico conflitto, nell'estremo tentativo di scongiurare il ricorso alle armi: «Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare» [Radiomessaggio «Un'ora grave» (24 agosto 1939): AAS 31 (1939), 334]. Pio XII ricalcava in ciò le orme di Papa Benedetto XV il quale, dopo avere esperito tutte le vie per scongiurare il primo conflitto mondiale, non esitava a bollarlo, con l'appellativo di «inutile strage» [Esortazione ai Capi delle Nazioni in guerra (1 agosto 1917): AAS 9 (1917), 420]. Io stesso non mi sono allontanato da quella linea quando, il 20 gennaio 1991, di fronte alla guerra del Golfo, ebbi a dire: «La tragica realtà di questi giorni rende ancor più evidente che, con le armi, non si risolvono i problemi, ma si creano nuove e maggiori tensioni tra i popoli» [Appello dopo la preghiera dell'Angelus: Insegnamenti XIV, 1 (1991), 156]. E', questa, una constatazione che lo scorrere degli anni arricchisce di sempre nuove conferme, benché in alcune regioni d'Europa e in altre parti del mondo continuino ad accendersi dolorosi focolai di guerra. Papa Giovanni XXIII, nella Lettera enciclica Pacem in terris, collocava tra i segni dei tempi la diffusione della persuasione che «le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi, ma invece attraverso il negoziato» [N. 3: AAS 55 (1963), 291]. Nonostante gli umani insuccessi, non mancano eventi, anche recenti, atti a dimostrare che il negoziato onesto, paziente e rispettoso dei diritti e delle aspirazioni delle parti può aprire la via ad una risoluzione pacifica delle situazioni più complesse. In questo spirito dirigo il mio vivo riconoscimento e sostegno a tutti i moderni costruttori di pace.

Ciò faccio, spinto in particolare dall'incancellabile ricordo delle esplosioni atomiche, che colpirono prima Hiroshima e poi Nagasaki nell'agosto 1945. Esse testimoniano in misura sconvolgente l'orrore e la sofferenza prodotti dalla guerra: il bilancio definitivo di quella tragedia - come ebbi a ricordare nel corso della mia visita ad Hiroshima - non è stato ancora interamente steso né è stato ancora calcolato il suo costo umano complessivo, soprattutto considerando ciò che la guerra nucleare ha arrecato e potrebbe ancora arrecare alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti e alla nostra civiltà. «Ricordare il passato è impegnarsi per il futuro. Ricordare Hiroshima è aborrire la guerra nucleare. Ricordare Hiroshima è impegnarsi per la pace.

Ricordare ciò che la gente di questa città ha sofferto è rinnovare la nostra fede nell'uomo, nella sua capacità di fare ciò che è buono, nella sua libertà di scegliere ciò che è giusto nella sua determinazione di tradurre un disastro in un nuovo inizio» [Giovanni Paolo II, Discorso al «Peace Memorial Park», Hiroshima (25 febbraio 1981), 4: AAS 73 (1981), 417].

A cinquant'anni da quel tragico conflitto, conclusosi qualche mese dopo anche nel Pacifico con le drammatiche vicende di Hiroshima e Nagasaki e a seguito della resa del Giappone, esso appare con sempre maggiore chiarezza come «un suicidio dell'umanità» [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 18: AAS 83 (1991), 816]. Esso, infatti, a ben vedere, è una sconfitta per i vinti come per i vincitori.

La macchina proandistica

Un'ulteriore riflessione s'impone: durante la seconda guerra mondiale, oltre che alle armi convenzionali e a quelle chimiche, biologiche e nucleari, s'è fatto ampiamente ricorso ad un altro micidiale strumento bellico: la proanda. Prima di colpire l'avversario con i mezzi della distruzione fisica, si è cercato di annientarlo moralmente con la denigrazione, le false accuse, l'orientamento dell'opinione pubblica verso la più irrazionale intolleranza, mediante ogni forma di indottrinamento, specialmente nei confronti dei giovani. E' tipico infatti di ogni regime totalitario armare una colossale macchina proandistica al fine di giustificare i propri misfatti ed incitare alla intolleranza ideologica e alla violenza razzistica contro quanti non meritano - si dice - di essere considerati parte integrante della comunità. Quanto è lontano tutto ciò dall'autentica cultura della pace! Questa suppone il riconoscimento del legame intrinseco che esiste tra la verità e la carità. La cultura della pace si costruisce respingendo sul nascere ogni forma di razzismo e di intolleranza, non cedendo in alcun modo alla proanda razziale, controllando gli appetiti economici e politici, rigettando con decisione la violenza ed ogni tipo di sfruttamento.

I perversi meccanismi proandistici non si limitano a contraffare i dati della realtà, ma inquinano anche l'informazione circa le responsabilità, rendendo assai difficile il giudizio morale e politico. La guerra origina una proanda che non lascia spazio al pluralismo delle interpretazioni, all'analisi critica delle cause, alla ricerca delle vere responsabilità. E' quanto emerge dall'esame dei dati disponibili circa il periodo 1939-45, come pure dalla documentazione relativa ad altre guerre scoppiate negli anni successivi: in ogni società, la guerra impone un uso totalitario dei mezzi d'informazione e di proanda, che non educa al rispetto dell'altro e al dialogo, ma piuttosto incita al sospetto ed alla rappresaglia.

La guerra non è ssa

Con il 1945, le guerre non sono purtroppo finite. Violenza, terrorismo ed attacchi armati hanno continuato a funestare questi ultimi decenni.

Si è assistito alla cosiddetta «guerra fredda», che ha visto contrapporsi minacciosamente due blocchi in equilibrio tra loro grazie ad una costante corsa agli armamenti. Ed anche quando è venuta meno questa bipolare contrapposizione, non sono finiti gli scontri bellici.

Troppi conflitti in diverse parti del mondo sono ancora oggi aperti. L'opinione pubblica, colpita dalle orrende immagini che entrano ogni giorno nelle case attraverso la televisione, reagisce emotivamente, ma finisce troppo presto con l'abituarsi e quasi con l'accettare l'ineluttabilità degli eventi. Questo, oltre che ingiusto, è oltremodo pericoloso. Non si deve dimenticare quanto è successo nel passato e quanto anche oggi succede. Sono drammi che toccano innumerevoli vittime innocenti, le cui grida di terrore e di sofferenza chiamano in causa le coscienze di tutti gli onesti: non si può e non si deve cedere alla logica delle armi!

La Santa Sede, anche attraverso la firma dei principali Trattati e Convenzioni internazionali, ha voluto richiamare, e continua a farlo instancabilmente, la Comunità delle Nazioni all'urgenza di rafforzare le norme circa la non-proliferazione delle armi nucleari e l'eliminazione delle armi chimiche e biologiche, come pure di quelle particolarmente traumatiche e con effetti indiscriminati. Parimenti la Santa Sede ha recentemente invitato l'opinione pubblica a prendere più viva coscienza del perdurante fenomeno del commercio delle armi, fenomeno grave circa il quale è necessaria ed urgente una seria riflessione etica [cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Documento Il Commercio internazionale delle armi (1 maggio 1994), Città del Vaticano 1994]. Occorre pure ricordare che non solo la militarizzazione degli Stati, ma anche il facile accesso alle armi da parte dei privati, favorendo il diffondersi della delinquenza organizzata e del terrorismo, costituisce una imprevedibile e costante minaccia per la pace.

Una scuola per tutti i credenti

Mai più la guerra! Sì alla pace! Questi erano i sentimenti comunemente manifestati all'indomani di quello storico 8 maggio 1945. I sei terribili anni del conflitto sono stati per tutti un'occasione di maturazione alla scuola del dolore: anche i cristiani hanno avuto modo di riavvicinarsi tra di loro e di interrogarsi sulle responsabilità delle loro divisioni. Essi hanno inoltre riscoperto la solidarietà di un destino che li accomuna tra loro e con tutti gli uomini, di qualsiasi nazione essi siano. In tal modo, l'evento che ha segnato il massimo della lacerazione e della divisione tra i popoli e le persone si è rivelato per i cristiani un'occasione provvidenziale per prendere coscienza di una comunione profonda nella sofferenza e nella testimonianza. Sotto la croce di Cristo, membri di tutte le Chiese e Comunità cristiane hanno saputo resistere fino al sacrificio supremo. Molti di essi hanno sfidato esemplarmente, con le armi pacifiche della testimonianza sofferta e dell'amore, i torturatori e gli oppressori. Insieme ad altri, credenti e non credenti, uomini e donne di ogni razza, religione e nazione, hanno lanciato ben alto, al di sopra della marea montante della violenza, un messaggio di fratellanza e di perdono.

In questo anniversario, come non fare memoria di tali cristiani che, rendendo testimonianza contro il male, hanno pregato per gli oppressori e si sono curvati a curare le piaghe di tutti? Nella condivisione della passione, essi hanno avuto modo di riconoscersi fratelli e sorelle, sperimentando tutta l'illogicità delle loro divisioni. La sofferenza condivisa li ha portati a sentire maggiormente il peso delle divisioni tuttora esistenti tra i seguaci di Cristo e delle conseguenze negative da esse derivanti per la costruzione dell'identità spirituale, culturale e politica del continente europeo. La loro esperienza è per noi un monito: su questa linea occorre proseguire, pregando e lavorando con intensa fiducia e generosità, nella prospettiva dell'ormai prossimo Grande Giubileo del 2000. Verso quella meta siano incamminati con un pellegrinaggio di penitenza e riconciliazione [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 50: AAS 87 (1995), 36], nella speranza di poter realizzare finalmente la piena comunione tra tutti i credenti in Cristo, con sicuro vantaggio per la causa della pace.

L'onda di dolore, che con la guerra si è riversata sulla terra, ha spinto i credenti di tutte le religioni a mettere le loro risorse spirituali al servizio della pace. Ogni religione, sia pure con percorsi storici diversi, ha vissuto tale singolare esperienza in questi 5 decenni. Il mondo è testimone che, dopo l'immane tragedia della guerra, è nato qualcosa di nuovo nella coscienza dei credenti delle varie Confessioni religiose: essi si sentono più responsabili della pace tra gli uomini e hanno cominciato a collaborare tra di loro. La «Giornata mondiale di preghiera per la pace» ad Assisi, il 27 ottobre 1986, ha pubblicamente consacrato questo atteggiamento maturato nella sofferenza. Assisi ha rivelato «il legame intrinseco che unisce un autentico atteggiamento religioso e il grande bene della pace» [Giovanni Paolo II, Discorso in occasione della solenne preghiera inter-religiosa mondiale per la pace, 6: AAS 79 (1987), 868]. Nelle successive «Giornate di preghiera per la pace nei Balcani» (ad Assisi il 9-l0 Gennaio 1993 e nella Basilica di San Pietro il 23 gennaio del 1994) si è sottolineato specialmente il contributo specifico richiesto ai credenti per la promozione della pace mediante le armi della preghiera e della penitenza.

Il mondo, che si avvia alla fine del secondo Millennio, attende dai credenti un'azione più incisiva in favore della pace. Ai rappresentanti delle Chiese cristiane e delle grandi religioni, riuniti a Varsavia nel 1989 per il cinquantesimo anniversario dell'inizio del conflitto, dicevo: «Dal cuore delle nostre diverse tradizioni religiose scaturisce la testimonianza della partecipazione compassionevole ai dolori dell'uomo, del rispetto per la sacralità della vita. E' questa una grande energia spirituale che rende fiduciosi per il futuro dell'umanità» [Messaggio televisivo ai partecipanti all'incontro internazionale di preghiera per la pace in occasione del 50 anniversario dell'inizio del II conflitto mondiale (1 settembre 1989); Insegnamenti XII, 2 (1989), 421]. Le tristi vicende del secondo conflitto mondiale, a cinquant'anni di distanza, ci rendono maggiormente consapevoli dell'esigenza di liberare, con rinnovata forza ed impegno, queste energie spirituali.

E' doveroso, a questo proposito, ricordare che proprio dalla terribile esperienza della guerra è nata l'Organizzazione delle Nazioni Unite, considerata dal Papa Giovanni XXIII di v.m. uno dei segni dei nostri tempi per la «volontà di mantenere e consolidare la pace tra i popoli» [Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), IV: AAS 55 (1963), 295]. Dal crudele disprezzo per la dignità e per i diritti delle persone è nata inoltre la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Il cinquantesimo anniversario delle Nazioni Unite, che si celebra quest'anno, dovrà essere l'occasione per rafforzare l'impegno della comunità internazionale a servizio della pace. A tal fine, occorrerà assicurare all'Organizzazione delle Nazioni Unite gli strumenti di cui essa ha bisogno per perseguire efficacemente la sua missione.

C'è chi ancora prepara la guerra

Si tengono in questi giorni celebrazioni e manifestazioni in molte parti d'Europa alle quali prendono parte Autorità civili e Responsabili di ogni Comunità e Paese. Unendomi al ricordo del sacrificio di tante vittime della guerra, vorrei invitare tutti gli uomini di buona volontà a riflettere seriamente sulla necessaria coerenza che deve esservi tra la memoria del terribile conflitto mondiale e gli orientamenti della politica nazionale ed internazionale. In particolare, occorrerà disporre di efficaci strumenti di controllo del mercato internazionale delle armi ed insieme prevedere strutture adeguate di intervento in caso di crisi, per indurre tutte le parti a preferire la trattativa allo scontro violento. Non è forse vero che, mentre celebriamo la riconquista della pace, c'è purtroppo chi ancora prepara la guerra sia mediante la promozione di una cultura di odio che mediante la diffusione di sofisticate armi belliche? Non è forse vero che in Europa restano aperti dolorosi conflitti che attendono da anni pacifiche soluzioni? Questo 8 maggio 1995 non è purtroppo un giorno di pace per alcune regioni dell'Europa! Penso in particolare, alle martoriate terre dei Balcani e del Caucaso, dove ancora rumoreggiano le armi ed altro sangue umano continua ad essere versato.

A vent'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, nel 1965, Paolo VI, parlando all'ONU, si chiedeva: «Arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa che finora ha intessuto tanta parte della sua storia?» [Discorso all'Assemblea generale delle Nazioni Unite (4 ottobre 1965), 5: AAS 57 (1965), 882]. E' una domanda che ancora attende una risposta. Ravvivi in tutti la memoria della seconda guerra mondiale il proposito di operare - ciascuno secondo le proprie possibilità - a servizio di una decisa politica di pace in Europa e nel mondo intero.

Un significato speciale per i giovani

Il pensiero va ai giovani, che non hanno sperimentato personalmente gli orrori di quella guerra. Ad essi dico: cari giovani, ho grande fiducia nella vostra capacità di essere autentici interpreti del Vangelo. Sentitevi personalmente impegnati al servizio della vita e della pace. Le vittime, i combattenti ed i martiri del secondo conflitto mondiale erano in gran parte giovani come voi. Per questo chiedo a voi, giovani del 2000, di vigilare attentamente di fronte all'insorgere della cultura dell'odio e della morte. Respingete le ideologie ottuse e violente; respingete ogni forma di nazionalismo esasperato e di intolleranza; è per queste vie che si introduce insensibilmente la tentazione della violenza e della guerra.

A voi è affidata la missione di aprire nuove vie di fratellanza tra i popoli, per costruire un'unica famiglia umana, approfondendo la «legge della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro» [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 76: L'Osservatore Romano 31 marzo 1995, p. 10]. Lo richiede la legge morale iscritta dal Creatore nell'intimo di ogni persona, legge da Lui ribadita nella Rivelazione dell'Antico Testamento e portata infine a perfezione da Gesù nel Vangelo: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18; Mc 12,31); «Come Io vi ho amato così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). E' possibile realizzare la civiltà dell'amore e della verità solo se l'apertura all'accoglienza dell'altro si estende ai rapporti tra i popoli, fra le nazioni e le culture. Risuoni nella coscienza di tutti questo invito: Ama gli altri popoli come il tuo!

La via del futuro dell'umanità passa per l'unità; e l'unità autentica - questo è l'annuncio evangelico - passa per Gesù Cristo, nostra riconciliazione e nostra pace (cfr. Ef 2,14-l8).

Il bisogno di un cuore nuovo

«Ricordati di tutto il cammino che il Signore Dio tuo ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che neppure i tuoi padri avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,2-3).

Non siamo ancora entrati nella «terra promessa» della pace. La memoria del doloroso cammino della guerra e di quello non facile del secondo dopoguerra ce lo richiama costantemente. Questo cammino, nei tempi bui della guerra, nei momenti difficili del dopoguerra, nei nostri incerti e problematici giorni, ha spesso rivelato che nel cuore degli uomini, ed anche dei credenti, è forte la tentazione dell'odio, del disprezzo dell'altro, della prevaricazione. In questo stesso cammino, però, non è mancato l'aiuto del Signore, che ha fatto germinare sentimenti di amore, di comprensione e di pace, insieme col sincero desiderio di riconciliazione e di unità. Come credenti, siamo consapevoli che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Sappiamo pure che la pace si radica nei cuori di quanti si aprono a Dio. Ricordarsi della seconda guerra mondiale e del cammino percorso nei decenni successivi non può non evocare nei cristiani l'esigenza di un cuore nuovo, capace di rispettare l'uomo e di promuoverne l'autentica dignità.

Questa è la base della vera speranza per la pace del mondo: «Un sole - ha profetato Zaccaria - sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79). In questo tempo pasquale, che celebra la vittoria di Cristo sul peccato, elemento disgregatore e apportatore di lutti e squilibri, ritorna sulle nostre labbra l'invocazione con cui si chiude l'Enciclica Pacem in terris del mio venerato Predecessore Giovanni XXIII: «Illumini il Signore i responsabili dei popoli, affinché accanto alle sollecitudini per il giusto benessere dei cittadini, garantiscano e difendano il gran dono della pace; accenda le volontà di tutti a superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri, a perdonare coloro che hanno recato ingiurie; in virtù della Sua azione, si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace».



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